Due gocce d’acqua

«Violet!» chiamò qualcuno alle sue spalle. Ma Violet non si voltò.

Non perché non avesse sentito o fosse maleducata. Violet aveva semplicemente dimenticato il suo nome.

Lo aveva perso da qualche parte, forse in mezzo alle decine di formule che aveva dovuto imparare per affrontare il suo esame di chimica.

Le suonava lontanamente familiare, però, come l’eco di una voce portata dal vento.

«Violet!» udì di nuovo, e si strinse fra le braccia, vagamente a disagio. Sbirciò appena indietro, disinvolta e fu costretta a piantare fermamente i piedi per terra.

Due grandi iridi castane la fissavano dall’altro lato della strada, cupe e brillanti al contempo. Sembravano il cielo in una giornata di marzo: sereno e annuvolato l’attimo dopo.

Rappresentavano perfettamente l’animo della loro padrona.

«Addie» mormorò allora, in risposta, e quella le sorrise.

Violet e Addie erano state migliori amiche per anni. Erano cresciute insieme, a pochi metri di distanza, e avevano frequentato la stessa classe in tutte le scuole fino alle superiori.

Era stato naturale, per loro, legare. Avevano poco in comune, ma lì dove Addie mancava, Violet compensava. E così viceversa.

Quando i genitori di Violet litigavano, poi, era sempre Addie a risollevarle il morale. E quando Addie si rifiutava di uscire dalla sua stanza, era Violet a tirarla giù dal letto.

Non avevano bisogno di condividere le loro passioni. Ad entrambe bastava esserci l’una per l’altra.

Crescendo, i loro amici avevano iniziato a scorgere in loro una certa somiglianza: “Due gocce d’acqua” le definivano. Violet stentava a crederci ogni volta.

D’altronde, lei e l’amica non avevano un solo capello che fosse uguale a quelli dell’altra. Neanche facendo un grande sforzo d’immaginazione. Per cui, quell’osservazione rimaneva per lei una mera battuta, che la ragazza accettava a cuor leggero. Niente di offensivo o, tantomeno, qualcosa di cui preoccuparsi.

Violet non si allarmava, né si poneva domande quando, per i corridoi, uno sconosciuto la fermava per chiederle gli appunti di una lezione a cui non era nemmeno mai stata. Eppure, episodi di quel genere accadevano in continuazione: a scuola così come nel quartiere in cui vivevano e, talvolta, anche sui mezzi.

«Addie!» si sentiva urlare dietro, e Violet, puntualmente, girava sui tacchi e mostrava bene il viso.

Sentiva ripetere così spesso quel nome che, quando usavano il suo, non prestava più attenzione. Quante sberle aveva ricevuto da sua madre, proprio per quel motivo!

Fu solo guardando le trecce dell’amica, in un afoso pomeriggio di agosto, che Violet finalmente comprese quel che gli altri intendevano dire.

In effetti, quell’acconciatura differiva dalla sua solamente per il colore dei capelli. Addie, inoltre, aveva bucato le orecchie e indossava pesanti boccoli d’oro, pressappoco uguali ai suoi.

A ben guardare, anche il suo abbigliamento le pareva fin troppo simile al proprio: stessi pantaloncini sfrangiati, stesso top di uno sgargiante rosso e stesse Converse ai piedi, con la suola decorata da scarabocchi in pennarello.

Addie, notò qualche tempo dopo, non beveva più caffè e, al bar, ordinava sempre una Cola. Proprio come faceva lei. E, quando nervosa, si tormentava il lobo. Come faceva lei.

Come lei, si era unita al giornalino scolastico. Come lei, aveva preso a correre tutte le mattine e cominciato a suonare la chitarra. Come lei, rideva rumorosamente e starnutiva silenziosamente. Come lei, scappava quando le si avvicinava un cane.

Come lei. Come lei. Come lei.

Violet credette di impazzire.

Quando Addie era diventata il suo riflesso? Era sempre stato così?

Rise al solo pensiero e si diede della paranoica. In fondo, era di Addie che si stava parlando: era normale, dopo aver trascorso così tanto tempo in simbiosi, che avessero sviluppato le stesse abitudini. No?

Nessuno, poi, pareva starne facendo un grande dramma. Violet, quindi, ingoiò il rospo e continuò di buon grado sulla sua strada.

«Addie!» chiamava sempre qualcuno alle sue spalle. E Violet si voltava.

«Addie!» facevano, e lei rivolgeva loro l’accenno di un sorriso.

«Addie!» sussurravano, strillavano, borbottavano. Violet non mancava mai di rispondere.

Una notte, un pensiero sovrastò gli altri.

«Sarò io a somigliarle?» si chiese. Mai aveva dubitato della cosa.

Nessuna replica le sovvenne dal silenzio, così la ragazza si convinse che fosse vero. Non poteva essere altrimenti: quand’era stata l’ultima volta che la Violet reale – ve ne era mai stata una? – era stata interpellata?

Seppur una parte di sé, a metà fra la gola e lo stomaco, le urlasse di rinsavire, Violet accettò comunque, inerte, di veder tutto il suo mondo ridotto ad una copia.

«Due gocce d’acqua?» rise amaramente. «Non sono altro che una pallida imitazione.»

«È passata un’eternità dall’ultima volta che ci siamo viste.»

Immobile proprio di fronte a lei, avvolta in un pesante giaccone, Addie le sembrò un miraggio.

Aveva tagliato i capelli, si accorse, e le arrivavano al mento, taglienti. Indossava anche gli occhiali, un’elegante montatura metallica che spinse sul ponte del naso, con la punta del mignolo.

Distratta, Violet passò le dita fra le ciocche morbide che le sfioravano la mandibola e, subito dopo, strinse l’asticella delle sue lenti, raddrizzandole. Contrasse la fronte, turbata, e, con ancora i polpastrelli attorno alla fredda stanghetta di acciaio, annuì appena.

«Saranno almeno due anni» concordò.

Due anni in cui Violet era stata lontana da casa e dalla città in cui era cresciuta. Due anni in cui era scomparsa dalla circolazione, mortalmente terrorizzata dalla piega che la sua vita – e la sua mente – stava prendendo.

«Ho saputo che hai trovato lavoro.» Addie dondolò sui talloni e, nel movimento, il manico della borsa che teneva in spalla le scivolò lungo il braccio.

Violet si sporse ad afferrarlo d’istinto.

«Grazie» civettò l’altra, sistemandosi. «Speravo di incontrarti, sai? Anche io pensavo di fare domanda-»

Violet smise di ascoltare.

Penzolante dall’impugnatura, un portachiavi a forma di rana ricambiava il suo sguardo con un solo occhietto nero.

«Quello…» la interruppe allora, indicando il peluche. «È Greeny

Lo aveva vinto in una macchina a gettoni, quando, per il suo decimo compleanno, aveva deciso di festeggiare al luna park. Aveva speso una quantità imbarazzante di spiccioli per riuscire a prenderlo.

Da quel momento, lo aveva sempre portato con sé, legato alle chiavi di casa. O, almeno, era stato così fino a quando, durante il suo trasloco, esattamente due anni prima, non aveva finito per perderlo.

Addie tacque. Spostò il peso da una gamba all’altra, con un’espressione spaesata in viso, e suonò vaga quando «Greeny?» domandò, rigirandoselo fra le dita.

Poi, si illuminò. «Oh. Ora capisco perché mi sembrasse familiare.»

Doveva pensare di esser stata convincente.

Violet rimase di marmo. Non ricambiò la sua ilarità neanche per un secondo. Era come se tutto attorno a lei fosse stato messo in pausa. E, a ben pensarci, era proprio così.

Immaginò di uscire dal suo corpo e di osservare la scena da fuori, e quel che vide la fece rabbrividire.

Parevano due gocce d’acqua. Anche dopo tutto quel tempo.

Valeria Vella

Specchi di vita

Cammino spesso e cammino a lungo
Non per diletto ma per bisogno.
Percorro strade in asfalto e sterrate
Che d’auto e persone son disseminate.

Mi sfiora i capelli la brezza del mare
Guardare le onde fa dimenticare
Pensieri e problemi che fanno tremare
Rendendo la vita un’impresa infernale.

In questa natura che è stata sporcata
Vilmente aggredita e oramai deturpata
Che ancora rimane selvaggia e beata
Un luogo in cui regna magia sconfinata.

Sfrecciano rapide le auto nel vento
Ma c’è un istante in cui si ferma il tempo
Come una foto scattata per sbaglio
Scruto le facce di chi passa a fianco.

In quegli sguardi ci son mille storie
Provo a carpirle studiando le pose
Di chi è alla guida e di chi è passeggero
Voci ovattate e uno sguardo sincero.

Morde in quegli attimi la solitudine
Pochi secondi e mi viene da piangere
Quando rifletto su quello che sono
Un bel dipinto in un museo vuoto.

Giuseppe Libro Muscarà

Venerdì

È volgare il modo in cui elemosino attenzioni
ed è volgare come mi guardi
Le tue pupille dilatate
Spero di scorgerle di sbieco mentre parlo con altri
Che mi osservino in modo inconfutabile

Cosa desidero io da una fermata del bus
Mentre il vento si cosparge sulla mia epidermide
in spilli anestetizzanti
Desidero addii che promettono di tornare sulle loro decisioni

È volgare la tua gentilezza
La tua naturale bontà
La tua risata composta
I tuoi centellinati squilibri

È volgare volerle possedere
Corromperle
Perché non sono che cenere
Che fa cenere

Chiara Tringali 

Alberi in fiore

Il soffio del vento,
i teneri raggi di sole
che s’infiltrano nel cielo.
Nel cuore del verde prato,
bagnato dalla rugiada,
si trova un piccola foresta.
A un tratto una tempesta
si scatena nel silenzio.
Rami spezzati
da un albero in fiore.
Il fiore della vita,
di un futuro da costruire,
di un’anima rubata.
Agisce nell’ombra
quella spietata tempesta
che ruba i rami
da quei bellissimi
alberi in fiore.

 

Alda Sgroi

La Casa dei Prosciutti

La notte era gelida e tranquilla, come tutte le notti d’inverno della Val Bodenco. Spighe di grano fluttuavano al vento, rami di pino scrosciavano lenti, fari e lampioni illuminavano i campi e in lontananza un borbottio si approssimava a rompere il silenzio. Le auto sfrecciavano sulla statale, schegge di luce apparivano e sparivano in un istante, poi il buio inghiottiva di nuovo rapido case, siepi e campagne. Il borbottio incombeva ormai su Verrosio, diecimila anime stagliate sulle rive del fiume Multro, attraversando il centro da un capo all’altro, fino a stazionare in cima ad un grande spiazzo nei pressi di una lussuosa villa con un grande cartellone che recitava “La Casa dei Prosciutti”

Qui una luce rossa intermittente iniziò a roteare e il borbottio che s’era fatto boato iniziò ad essere incessante. Un rumore metallico dilaniò la notte e una palla di fuoco si levò al cielo, richiudendosi in una nuvola di polvere grigiastra. Sotto questa non era rimasto altro che un monolite d’acciaio accartocciato tra i carboni ardenti dell’erba bruciacchiata. A quel punto la quiete era tornata su Verrosio. Ma non sarebbe durata a lungo, non sarebbe sopravvissuta all’alba, quando i primi raggi di sole avrebbero mostrato l’entità della devastazione notturna.

Carlo Motta per campare scriveva romanzi, e nel tempo libero si dilettava ad assicurare criminali alla giustizia. Quella mattina era ancora nel letto di casa sua e si era svegliato scarico, privo d’immaginazione e di voglia di vivere. La chiamata del procuratore Angelo Pastore, suo vecchio amico nonché accanito lettore delle sue opere, giunse come una benedizione ad evitargli l’ennesima giornata di autocommiserazione e cibo spazzatura.

Parcheggiò la sua Smart Fortwo bianca nei pressi della sontuosa villa “Casa dei Prosciutti” della famiglia Ferrucci, giungendo sul luogo dell’incidente a piedi dopo aver evitato come la peste ogni possibile contatto con forze dell’ordine e curiosi. Non che fosse una rinomata celebrità, ma il rischio che qualcuno avesse letto le sue opere e riuscisse a identificarlo, c’era. E lui voleva scongiurarlo in ogni modo.

L’elicottero su cui viaggiavano Emilio Ferrucci e il suo pilota era disteso su uno spiazzo erboso, terra e cenere ricoprivano tutto per metri e metri, mentre le lamiere del veicolo si erano conficcate nel terreno rendendo complicate le manovre di recupero dei corpi.

«Questi ricchi hanno ben poco rispetto per la propria vita» disse Motta osservando la scena con le mani in tasca «Perché mai tornare a casa in elicottero? Non sanno che sono delle dannate macchine infernali? Ah, quanti danni che fa l’hybris»

«Alla buon’ora» lo rimbrottò il procuratore Pastore allargando le braccia spazientito.

«Questo sarebbe?» domandò un carabiniere che stava parlottando con Pastore.

«Un ficcanaso» rispose Motta dando una pacca sulla spalla al milite prima di inoltrarsi verso il luogo dell’incidente.

«E’ un mio amico scrittore. Nel tempo libero ci aiuta con le indagini» si giustificò Pastore.

«E’ un do ut des» esclamò Motta mentre il carabiniere e Pastore lo seguivano. «Io do una mano al procuratore e lui in cambio mi fornisce materiale per le mie storie».

«Sta scherzando ovviamente» disse il procuratore sorridendo nervosamente.

«Oh, giusto Angelo, devo ripetere la storiella che faccio tutto questo per dovere civico».

«Siete sicuro che possa esserci utile?» domandò scettico il carabiniere al procuratore mentre i tre si incamminavano nella sterpaglia.

«Avete la mia parola».

Giunti sul luogo dell’incidente Motta si mise le mani ai fianchi, guardò verso la casa dei Ferrucci, poi verso la carcassa dell’elicottero e ancora una volta verso la casa

«Scommetto che il morto è uno dei Ferrucci»

«Acuto osservatore» disse sarcastico il comandante dei carabinieri

«Perché, è così ovvio?» chiese Motta irritato

«Siamo nella loro proprietà»

«Se per questo tutta Verrosio è una loro proprietà. No, dico che il morto è un Ferrucci perché tutto il paese è venuto qui a curiosare»

«Si» confermò già esausto il carabiniere «La vittima è Emilio Ferrucci, il proprietario della famosa azienda “La Casa dei Prosciutti”»

«E il pilota?»

«Come scusi?»

«Il pilota dell’elicottero. È sopravvissuto?»

«No ovviamente. È morto nello schianto»

«Allora ci sono due vittime»

«Certo ma…»

«Certo ma il povero disgraziato non conta. Intendevate questo?» lo incalzò Motta a muso duro

«Fa sul serio?» chiese il carabiniere guardando prima Motta e poi Pastore

«Sto scherzando» esclamò lo scrittore esplodendo in una fragorosa risata «Volevo solo fare un po’ di demagogia spicciola»

«Ah ecco» rispose sollevato il comandante sistemandosi il colletto della divisa

«L’altro dov’è?»

«L’altro?»

«Non sono i due fratelli a gestire l’azienda Ferrucci? Emilio e Romano»

«Romano Ferrucci è morto l’anno scorso» rivelò il carabiniere

«Ah, molto bene» esclamò sorpreso Motta portandosi le mani alla bocca con fare pensieroso «Andiamo»

«Andare? Dove? Non ci dice nulla sulla scena?» domandò allarmato il comandante

«Un elicottero è esploso in volo»

«In volo?»

«In volo» confermò Motta indicando la sterpaglia

«Aspetti, non è esploso dopo essere precipitato?»

«Oh, nient’affatto, basta guardare i resti dell’elica»

«E dove sono?» chiese il procuratore Pastore guardandosi intorno

«Non ci sono, per l’appunto» rilevò Motta «Se il velivolo si fosse schiantato l’elica sarebbe ancora qui intorno o addirittura ancora attaccata alla carcassa. Invece non c’è. L’elicottero è esploso in fase d’atterraggio, ma prima di toccare terra. E nella deflagrazione i detriti si sono sparpagliati in queste campagne»

«Allora non è un incidente. È un omicidio» esclamò sgomento il comandante dei carabinieri

«O un attentato» ipotizzò Pastore

«Un attentato? Oh no, no no, lo escludo» ribatté Motta

«Perché? I Ferrucci sono ricchi, potenti e molto odiati dopo quella storia della contaminazione degli affettati»

«La ritorsione del familiare di una vittima della contaminazione?» domandò il carabiniere

«Una vendetta»

«E perché non piazzarla all’ingresso della casa?» domandò Motta volgendo lo sguardo verso la sfarzosa villa dei Ferrucci «Perché ucciderne uno solo, quando il nostro terrorista avrebbe potuto ucciderli tutti? E come avrebbe piazzato la bomba sull’elicottero?»

«Magari si è infiltrato nella casa. Forse lavora lì dentro. Un cameriere, un autista, forse un conoscente del pilota»

«La domanda resta» si impuntò Motta con Pastore «Perché ucciderne uno solo quando poteva eliminarli tutti?»

«Era il capo dell’azienda, era un simbolo. Uccidere lui significa uccidere i Ferrucci»

«Ma ai tempi della contaminazione non era lui il capo, bensì il padre, Giovanni Ferrucci»

«Che è morto da anni» ricordò il comandante dei carabinieri

«E quindi di che razza di vendetta stiamo parlando? No, il nostro assassino non voleva uccidere un Ferrucci a caso o tutti Ferrucci, ma questo Ferrucci in particolare»

«Se non è la vendetta, allora il movente può essere passionale» disse Pastore

«Ma non diciamo sciocchezze!» esclamò Motta voltandosi di nuovo verso la scena dell’esplosione «Tuo marito o il tuo amante ti lascia e tu lo fai saltare in aria con dell’esplosivo? Un omicidio passionale richiede…passione! Insomma contatto fisico, se non addirittura visivo. Questo è un omicidio a distanza, compiuto con premeditazione, quindi a sangue freddo, e io conosco un solo movente più forte ma più razionale del sesso…»

«Il denaro» esclamò Pastore

«Esatto. Chi eredita tutta la baracca ora che Emilio è passato a miglior vita?»

«Sarebbe toccato al fratello minore, Romano»

«Che però è morto» disse il carabiniere

«E com’è morto?» domandò Motta

«Durante un lancio col paracadute, che però non si è aperto»

«Ma che famiglia sfortunata. Ancora una morte violenta, ancora un incidente…anzi, ancora un omicidio che si può camuffare da incidente»

«Allora anche Romano è stato ucciso?» chiese Pastore

«Probabile. Aveva figli?»

«Nessuno. C’era solo Lorenzo, ma è morto di overdose anni fa» li informò il carabiniere

«Quindi senza Emilio, Romano e Lorenzo, la società adesso appartiene alla vedova di Romano Ferrucci, cioè Amalia»

«Aveva il movente, aveva i mezzi e conosceva gli spostamenti sia del marito che di Emilio» affermò convinto il procuratore Pastore «Andiamo a prenderla»

Ritrovarono la signora Amalia seduta comodamente nella poltrona di casa sua, a disquisire in tono amabile con alcune giornaliste. Quando i carabinieri che scortavano Pastore e Motta le cinsero i polsi con le manette il suo volto divenne una maschera di cera, i suoi occhi si spensero mentre passavano in rassegna gli uomini che la stavano privando della libertà, ma nemmeno per un secondo ella perse la sua arrogante grandeur aristocratica. Entrò nella macchina della polizia come Maria Antonietta lo fece nella carrozza che l’avrebbe condotta sulla ghigliottina.

Non smise mai di proclamarsi innocente, e giurò che l’avrebbe ripetuto al processo. Un processo a cui però non arrivò mai. Si uccise mesi dopo tagliandosi i polsi con un cucchiaio di plastica accuratamente affilato. Quando Pastore chiamò Motta per informarlo della tragedia, questi era a casa sua, a scrivere la bozza di un giallo basato sulla vicenda di Emilio Ferrucci e della moglie intitolato “La Casa dei Prosciutti”.

«Povera donna» disse freddamente al telefono Motta a Pastore.

«Forse era davvero innocente».

«Forse. Ma tu ne sei certo, e hai i sensi di colpa».

«A differenza tua, ho una coscienza».

«Sei crudele».

«Per te questo è solo un gioco. Queste storie ti forniscono quei brividi che la tua creatività non riesce più a trasmetterti» disse furioso Pastore.

«Stai dicendo che sono uno scrittore fallito?»

«Sto dicendo che sei uno stronzo! Una donna è morta, Carlo, morta! E a te sembra non importare nulla…»

«Non me ne importa nulla perché non era una brava donna» si giustificò Carlo

«Come fai a dirlo?!»

«Una donna che aiuta il marito a fingere la propria morte, affinché questi elimini il fratello maggiore senza destar sospetti, non è poi una gran perdita per la società, ne converrai»

«Aspetta, cosa?»

«Sono abbastanza sicuro che Romano Ferrucci abbia ingannato anche lei, dopotutto»

«Romano Ferrucci? È Romano Ferrucci l’assassino di Emilio? Ma non era morto?»

«Chissà chi è morto davvero in quell’incidente col paracadute. Chissà se qualcuno è morto davvero quel giorno. L’unica testimone era Amalia. Ed ora anche lei è morta»

«Quindi Romano si mette d’accordo con la moglie, finge la sua morte e poi pianifica quella del fratello maggiore…» disse Pastore unendo i pezzi

«…la moglie eredita tutto e poi raggiunge il marito, con l’eredità dei Ferrucci, nel suo buon ritiro in chissà quale sfavillante isola caraibica» proseguì Motta «O almeno questo è il piano che Romano espone alla moglie per farle accettare il carcere. Lei era consapevole di finire tra i sospettati e di farsi pure qualche mese di galera, ma era certa che Romano sarebbe intervenuto per tirarla fuori. Una volta realizzato di essere stata ingannata, si è tolta la vita. Amava davvero Romano, a tal punto da diventarne complice. E non si è ammazzata per la reclusione, ma per aver compreso che il marito non l’aveva mai amata, che era stata solo una pedina nelle sue mani mentre lei gli era davvero devota»

«Una teoria affascinante, te lo concedo» rispose Pastore «Ma come la dimostriamo?»

«Dimostrare una teoria? Mio buon amico, questa è solo la trama del mio prossimo libro “La Casa dei Prosciutti”! Io non devo dimostrare niente, devo solo creare e scrivere. Ah già, e vendere. Dimostrare teorie è il tuo mestiere, non il mio. Io ti ho solo aiutato in cambio di una buona storia, come faccio sempre»

«E come trasformo la tua “buona storia” in un caso giudiziario? Come faccio ad incastrare Romano Ferrucci?»

«E dove sarebbe il divertimento se facessi io tutto il lavoro? Buona fortuna procuratore, sono certo che prenderai il tuo assassino. E chiamami se hai bisogno ancora di me. Sono sempre lieto di ascoltare una buona storia. Alla prossima!»

 

Giuseppe Libro Muscarà

Tramonto

Luccica il mare
e le sue onde
cullano le barche.
Esse si fanno guidare
dal soffio di vento
che le spinge
verso mete sconfinate.
Il cielo dorato
lascia esplodere
sfumature calde
e le nuvole si avvicinano
pronte ad abbracciarlo.
Guardo davanti a me
e lascio volare via
le mie emozioni,
come fanno i gabbiani
che sferzano l’aria
con le loro ali.
Assaporo il tepore
di quel timido paesaggio,
che come un sipario
si apre davanti al sole
che diventa protagonista.
Il tramonto e la sua magia
mi portano lontano
e sfiorano la mia mente
lasciandola abbandonare
ad uno spettacolo
che il cuore può cambiare.

Alda Sgroi

Buoni propositi per una relazione conclusa

– ascoltando Your Dog –

 

Cadrò nell’universo, chiuso tra le mie braccia

 

In equilibrio su una corda tentennavo

ti ho chiesto l’armonia e l’hai pizzicata

sono caduto al buio della cassa risonante,

dall’interno ti sento solo suonare

e le tue corde sono le mie sbarre.

 

Ti parlerò in milioni di sogni

salendo scale, ma sono sempre ripetitivo,

d’altronde sono solo sette le note.

Starai sempre un gradino più alto

(era solo più comodo baciarmi).

 

Forse tutta questa musica non c’era

forse il tuo cane mi ha sempre abbaiato

forse devo solo dormire per incontrarti

se mi manchi la notte

 

Sempre più lontani in spazio e tempo

anche dei sogni resta solo un ricordo.

Solo solo sto, sempre con più persone

riscopro quelle vicine eppure

 

ho inciso nei polsi le nostre iniziali

cerco solo altre e che coincidano

 

(solo)

Ma quanto lo dico?

Senza di te?

 

Pessimi propositi

terribili, 2025

 

 

Alessio Perdichizzi

Natale Passato



Profumo di cannella,
calore che accarezza la pelle,
la tavola imbandita
ravvivata dalla famiglia unita.
Tutti la percepiscono,
quella magia di festa.
Così era la sera
di quel Natale passato,
di una bambina che ricorda
come l’atmosfera d’improvviso
quel giorno sia cambiata.
Sente qualcosa staccarsi da lei,
capisce che quel frammento
non tornerà il prossimo Natale.
Guarda verso la tavola
e si accorge che c’è un posto,
un posto che è occupato
dal ricordo di qualcuno
che ormai se n’è andato.
Osserva poi il cielo
e si accorge che una stella
cura la ferita più profonda
di quel Natale passato.

Alda Sgroi

La caduta di un angelo

Ali bianche stanche
sorvolavano la costa,
danzavano le piume
nelle pressioni
con respiri pieni d’aria azzurra e grigia.

Ali sporche spennate
coprono i raggi di luce
creano buio da contenere
in quella bella forma.

Ali dorate,
ancora più leggiadre,
voleranno più vicine al sole
più lontane ai nostri occhi.

Un angelo vestito di luce
precipitò vicino a quel cielo
schiavo di più di venti correnti,
vide il mare.

Ora si rialza con il corpo cosparso di tagli,
con le ali coperte di sabbia
(aveva visto il mare!)
sommerso dal peso dell’aria.

Un giorno riprenderà il volo
con ali raggianti
farà concorrenza al Sole.

 

Alessio Perdichizzi

 

 

*Immagine in evidenza: illustrazione di Silvia Bruno