La Casa dei Prosciutti

La notte era gelida e tranquilla, come tutte le notti d’inverno della Val Bodenco. Spighe di grano fluttuavano al vento, rami di pino scrosciavano lenti, fari e lampioni illuminavano i campi e in lontananza un borbottio si approssimava a rompere il silenzio. Le auto sfrecciavano sulla statale, schegge di luce apparivano e sparivano in un istante, poi il buio inghiottiva di nuovo rapido case, siepi e campagne. Il borbottio incombeva ormai su Verrosio, diecimila anime stagliate sulle rive del fiume Multro, attraversando il centro da un capo all’altro, fino a stazionare in cima ad un grande spiazzo nei pressi di una lussuosa villa con un grande cartellone che recitava “La Casa dei Prosciutti”

Qui una luce rossa intermittente iniziò a roteare e il borbottio che s’era fatto boato iniziò ad essere incessante. Un rumore metallico dilaniò la notte e una palla di fuoco si levò al cielo, richiudendosi in una nuvola di polvere grigiastra. Sotto questa non era rimasto altro che un monolite d’acciaio accartocciato tra i carboni ardenti dell’erba bruciacchiata. A quel punto la quiete era tornata su Verrosio. Ma non sarebbe durata a lungo, non sarebbe sopravvissuta all’alba, quando i primi raggi di sole avrebbero mostrato l’entità della devastazione notturna.

Carlo Motta per campare scriveva romanzi, e nel tempo libero si dilettava ad assicurare criminali alla giustizia. Quella mattina era ancora nel letto di casa sua e si era svegliato scarico, privo d’immaginazione e di voglia di vivere. La chiamata del procuratore Angelo Pastore, suo vecchio amico nonché accanito lettore delle sue opere, giunse come una benedizione ad evitargli l’ennesima giornata di autocommiserazione e cibo spazzatura.

Parcheggiò la sua Smart Fortwo bianca nei pressi della sontuosa villa “Casa dei Prosciutti” della famiglia Ferrucci, giungendo sul luogo dell’incidente a piedi dopo aver evitato come la peste ogni possibile contatto con forze dell’ordine e curiosi. Non che fosse una rinomata celebrità, ma il rischio che qualcuno avesse letto le sue opere e riuscisse a identificarlo, c’era. E lui voleva scongiurarlo in ogni modo.

L’elicottero su cui viaggiavano Emilio Ferrucci e il suo pilota era disteso su uno spiazzo erboso, terra e cenere ricoprivano tutto per metri e metri, mentre le lamiere del veicolo si erano conficcate nel terreno rendendo complicate le manovre di recupero dei corpi.

«Questi ricchi hanno ben poco rispetto per la propria vita» disse Motta osservando la scena con le mani in tasca «Perché mai tornare a casa in elicottero? Non sanno che sono delle dannate macchine infernali? Ah, quanti danni che fa l’hybris»

«Alla buon’ora» lo rimbrottò il procuratore Pastore allargando le braccia spazientito.

«Questo sarebbe?» domandò un carabiniere che stava parlottando con Pastore.

«Un ficcanaso» rispose Motta dando una pacca sulla spalla al milite prima di inoltrarsi verso il luogo dell’incidente.

«E’ un mio amico scrittore. Nel tempo libero ci aiuta con le indagini» si giustificò Pastore.

«E’ un do ut des» esclamò Motta mentre il carabiniere e Pastore lo seguivano. «Io do una mano al procuratore e lui in cambio mi fornisce materiale per le mie storie».

«Sta scherzando ovviamente» disse il procuratore sorridendo nervosamente.

«Oh, giusto Angelo, devo ripetere la storiella che faccio tutto questo per dovere civico».

«Siete sicuro che possa esserci utile?» domandò scettico il carabiniere al procuratore mentre i tre si incamminavano nella sterpaglia.

«Avete la mia parola».

Giunti sul luogo dell’incidente Motta si mise le mani ai fianchi, guardò verso la casa dei Ferrucci, poi verso la carcassa dell’elicottero e ancora una volta verso la casa

«Scommetto che il morto è uno dei Ferrucci»

«Acuto osservatore» disse sarcastico il comandante dei carabinieri

«Perché, è così ovvio?» chiese Motta irritato

«Siamo nella loro proprietà»

«Se per questo tutta Verrosio è una loro proprietà. No, dico che il morto è un Ferrucci perché tutto il paese è venuto qui a curiosare»

«Si» confermò già esausto il carabiniere «La vittima è Emilio Ferrucci, il proprietario della famosa azienda “La Casa dei Prosciutti”»

«E il pilota?»

«Come scusi?»

«Il pilota dell’elicottero. È sopravvissuto?»

«No ovviamente. È morto nello schianto»

«Allora ci sono due vittime»

«Certo ma…»

«Certo ma il povero disgraziato non conta. Intendevate questo?» lo incalzò Motta a muso duro

«Fa sul serio?» chiese il carabiniere guardando prima Motta e poi Pastore

«Sto scherzando» esclamò lo scrittore esplodendo in una fragorosa risata «Volevo solo fare un po’ di demagogia spicciola»

«Ah ecco» rispose sollevato il comandante sistemandosi il colletto della divisa

«L’altro dov’è?»

«L’altro?»

«Non sono i due fratelli a gestire l’azienda Ferrucci? Emilio e Romano»

«Romano Ferrucci è morto l’anno scorso» rivelò il carabiniere

«Ah, molto bene» esclamò sorpreso Motta portandosi le mani alla bocca con fare pensieroso «Andiamo»

«Andare? Dove? Non ci dice nulla sulla scena?» domandò allarmato il comandante

«Un elicottero è esploso in volo»

«In volo?»

«In volo» confermò Motta indicando la sterpaglia

«Aspetti, non è esploso dopo essere precipitato?»

«Oh, nient’affatto, basta guardare i resti dell’elica»

«E dove sono?» chiese il procuratore Pastore guardandosi intorno

«Non ci sono, per l’appunto» rilevò Motta «Se il velivolo si fosse schiantato l’elica sarebbe ancora qui intorno o addirittura ancora attaccata alla carcassa. Invece non c’è. L’elicottero è esploso in fase d’atterraggio, ma prima di toccare terra. E nella deflagrazione i detriti si sono sparpagliati in queste campagne»

«Allora non è un incidente. È un omicidio» esclamò sgomento il comandante dei carabinieri

«O un attentato» ipotizzò Pastore

«Un attentato? Oh no, no no, lo escludo» ribatté Motta

«Perché? I Ferrucci sono ricchi, potenti e molto odiati dopo quella storia della contaminazione degli affettati»

«La ritorsione del familiare di una vittima della contaminazione?» domandò il carabiniere

«Una vendetta»

«E perché non piazzarla all’ingresso della casa?» domandò Motta volgendo lo sguardo verso la sfarzosa villa dei Ferrucci «Perché ucciderne uno solo, quando il nostro terrorista avrebbe potuto ucciderli tutti? E come avrebbe piazzato la bomba sull’elicottero?»

«Magari si è infiltrato nella casa. Forse lavora lì dentro. Un cameriere, un autista, forse un conoscente del pilota»

«La domanda resta» si impuntò Motta con Pastore «Perché ucciderne uno solo quando poteva eliminarli tutti?»

«Era il capo dell’azienda, era un simbolo. Uccidere lui significa uccidere i Ferrucci»

«Ma ai tempi della contaminazione non era lui il capo, bensì il padre, Giovanni Ferrucci»

«Che è morto da anni» ricordò il comandante dei carabinieri

«E quindi di che razza di vendetta stiamo parlando? No, il nostro assassino non voleva uccidere un Ferrucci a caso o tutti Ferrucci, ma questo Ferrucci in particolare»

«Se non è la vendetta, allora il movente può essere passionale» disse Pastore

«Ma non diciamo sciocchezze!» esclamò Motta voltandosi di nuovo verso la scena dell’esplosione «Tuo marito o il tuo amante ti lascia e tu lo fai saltare in aria con dell’esplosivo? Un omicidio passionale richiede…passione! Insomma contatto fisico, se non addirittura visivo. Questo è un omicidio a distanza, compiuto con premeditazione, quindi a sangue freddo, e io conosco un solo movente più forte ma più razionale del sesso…»

«Il denaro» esclamò Pastore

«Esatto. Chi eredita tutta la baracca ora che Emilio è passato a miglior vita?»

«Sarebbe toccato al fratello minore, Romano»

«Che però è morto» disse il carabiniere

«E com’è morto?» domandò Motta

«Durante un lancio col paracadute, che però non si è aperto»

«Ma che famiglia sfortunata. Ancora una morte violenta, ancora un incidente…anzi, ancora un omicidio che si può camuffare da incidente»

«Allora anche Romano è stato ucciso?» chiese Pastore

«Probabile. Aveva figli?»

«Nessuno. C’era solo Lorenzo, ma è morto di overdose anni fa» li informò il carabiniere

«Quindi senza Emilio, Romano e Lorenzo, la società adesso appartiene alla vedova di Romano Ferrucci, cioè Amalia»

«Aveva il movente, aveva i mezzi e conosceva gli spostamenti sia del marito che di Emilio» affermò convinto il procuratore Pastore «Andiamo a prenderla»

Ritrovarono la signora Amalia seduta comodamente nella poltrona di casa sua, a disquisire in tono amabile con alcune giornaliste. Quando i carabinieri che scortavano Pastore e Motta le cinsero i polsi con le manette il suo volto divenne una maschera di cera, i suoi occhi si spensero mentre passavano in rassegna gli uomini che la stavano privando della libertà, ma nemmeno per un secondo ella perse la sua arrogante grandeur aristocratica. Entrò nella macchina della polizia come Maria Antonietta lo fece nella carrozza che l’avrebbe condotta sulla ghigliottina.

Non smise mai di proclamarsi innocente, e giurò che l’avrebbe ripetuto al processo. Un processo a cui però non arrivò mai. Si uccise mesi dopo tagliandosi i polsi con un cucchiaio di plastica accuratamente affilato. Quando Pastore chiamò Motta per informarlo della tragedia, questi era a casa sua, a scrivere la bozza di un giallo basato sulla vicenda di Emilio Ferrucci e della moglie intitolato “La Casa dei Prosciutti”.

«Povera donna» disse freddamente al telefono Motta a Pastore.

«Forse era davvero innocente».

«Forse. Ma tu ne sei certo, e hai i sensi di colpa».

«A differenza tua, ho una coscienza».

«Sei crudele».

«Per te questo è solo un gioco. Queste storie ti forniscono quei brividi che la tua creatività non riesce più a trasmetterti» disse furioso Pastore.

«Stai dicendo che sono uno scrittore fallito?»

«Sto dicendo che sei uno stronzo! Una donna è morta, Carlo, morta! E a te sembra non importare nulla…»

«Non me ne importa nulla perché non era una brava donna» si giustificò Carlo

«Come fai a dirlo?!»

«Una donna che aiuta il marito a fingere la propria morte, affinché questi elimini il fratello maggiore senza destar sospetti, non è poi una gran perdita per la società, ne converrai»

«Aspetta, cosa?»

«Sono abbastanza sicuro che Romano Ferrucci abbia ingannato anche lei, dopotutto»

«Romano Ferrucci? È Romano Ferrucci l’assassino di Emilio? Ma non era morto?»

«Chissà chi è morto davvero in quell’incidente col paracadute. Chissà se qualcuno è morto davvero quel giorno. L’unica testimone era Amalia. Ed ora anche lei è morta»

«Quindi Romano si mette d’accordo con la moglie, finge la sua morte e poi pianifica quella del fratello maggiore…» disse Pastore unendo i pezzi

«…la moglie eredita tutto e poi raggiunge il marito, con l’eredità dei Ferrucci, nel suo buon ritiro in chissà quale sfavillante isola caraibica» proseguì Motta «O almeno questo è il piano che Romano espone alla moglie per farle accettare il carcere. Lei era consapevole di finire tra i sospettati e di farsi pure qualche mese di galera, ma era certa che Romano sarebbe intervenuto per tirarla fuori. Una volta realizzato di essere stata ingannata, si è tolta la vita. Amava davvero Romano, a tal punto da diventarne complice. E non si è ammazzata per la reclusione, ma per aver compreso che il marito non l’aveva mai amata, che era stata solo una pedina nelle sue mani mentre lei gli era davvero devota»

«Una teoria affascinante, te lo concedo» rispose Pastore «Ma come la dimostriamo?»

«Dimostrare una teoria? Mio buon amico, questa è solo la trama del mio prossimo libro “La Casa dei Prosciutti”! Io non devo dimostrare niente, devo solo creare e scrivere. Ah già, e vendere. Dimostrare teorie è il tuo mestiere, non il mio. Io ti ho solo aiutato in cambio di una buona storia, come faccio sempre»

«E come trasformo la tua “buona storia” in un caso giudiziario? Come faccio ad incastrare Romano Ferrucci?»

«E dove sarebbe il divertimento se facessi io tutto il lavoro? Buona fortuna procuratore, sono certo che prenderai il tuo assassino. E chiamami se hai bisogno ancora di me. Sono sempre lieto di ascoltare una buona storia. Alla prossima!»

 

Giuseppe Libro Muscarà

Eugenio Vitarelli

Biografia

Eugenio Vitarelli è uno scrittore nato a Messina nel 1927, fa la sua prima comparsa nel mondo letterario con un romanzo d’esordio, Placida, uscito nel 1983 con una prefazione firmata dal più grande scrittore e drammaturgo siciliano, conosciuto in Italia e nel resto di Europa: Leonardo Sciascia.

Non abbiamo molte notizie sulla vita dello scrittore messinese, ma sicuramente oggi è considerato uno tra gli scrittori “irregolari” da riscoprire.

L’emblematico Vitarelli si discosta dall’appartenere ad un canone o ad una scuola letteraria di denominazione, al punto da non essere ricordato dal mondo editoriale né le sue opere attenzionate dalla critica letteraria.

Sembrerebbe doloroso, eppure, quest’emblematica esistenza che oscillava tra la letteratura e l’indifferenza, si allinea alla persona di Eugenio Vitarelli, un uomo dedito al lavoro – fu anche dirigente d’azienda-  che scappava dalla frenesia della vita, trovando rifugio in quel mare che lo consigliava.  Se pur poco conosciuto nel mondo editoriale, Eugenio Vitarelli scrive tante opere oggi da riscoprire, di cui sta curando la ripubblicazione la casa editrice messinese Mesogea.

 

Le opere letterarie

Eugenio Vitarelli è uno scrittore che riprende fedelmente l’impostazione romanzesca da Hemingway, la scelta di attenzionare una classe sociale da Vittorini e le tematiche dell’assurdo da Camus.

Tra le opere letterarie firmate Eugenio Vitarelli e ripubblicate dalla casa editrice Mesogea, ricordiamo Acqualadrone del 1988 vincitrice del premio Chiavari, un romanzo a metà tra la realtà e il mito che narra del piccolo borgo di Acqualadrone a Messina dapprima abitato dai pescatori e successivamente affollato da turisti in cui tuttavia alcune cose non cambiano mai come la saggezza dei vecchi pescatori e il mare sbrilluccicante ricco di miraggi e miti; Sirene del 1990 e ultima e postuma, Il segno della violenza del 1999.

Tutte le storie del messinese Vitarelli denunciano la dura realtà del tempo, regalando una speranza ai lettori.

 

E. Vitarelli - Placida Fonte: IBS.it
E. Vitarelli – Placida
Fonte: IBS.it

Placida

Ci piace ricordarlo con il suo romanzo di esordio, citato nell’incipit di questo articolo, Placida, edito da Mondadori in un cofanetto assieme ad altre due opere: Acqualadrone e Sirene e riscoperto dalla casa editrice Mesogea.

Romanzo di formazione, Placida, è un racconto che sa di attualità, ambientato nel 1943 a Messina:  ci troviamo in piena guerra, protagonista è Simone un ragazzo  messinese di appena 17 anni, sfollato assieme ai suoi genitori che da Messina si trasferisce a Spadafora.

Quotidianamente Simone è costretto a percorre una strada di campagna che porta al villaggio e lungo il cammino s’imbatte in diversi oggetti di guerra, tra cui aerei distrutti e tanti corpi putrefatti.

Simone è costantemente costretto a vedere con i suoi occhi immagini che appesantiscono il suo cuore, tuttavia scopre una nuova fonte a cui attingere che lo porta ad amare la vita nonostante sia attorniato da morte: Simone scopre l’amore.

Il giovanissimo messinese si innamora, infatti, della figlia di una contadina, Placida, che ha perso prematuramente il marito in guerra.

Sicuramente il romanzo è stato scritto con l’obiettivo di accendere nei lettori un lume di speranza, di quella che, nonostante le circostanze dolorose e gravose, ti sostengono e ti salvano, per farti riscoprire e apprezzare la gioia della vita!

Elena Zappia

 

Fonti:

http://www.lescalinatedellarte.com/it/?q=node/1054

https://www.amazon.it/Acqualadrone-Eugenio-Vitarelli/dp/2867442389/ref=sr_1_6?qid=1678987688&refinements=p_27%3AEugenio+Vitarelli&s=books&sr=1-6

https://www.mutualpass.it/post/1096/1/placida-eugenio-vitarelli

 

Miguel Cervantes: una memoria dimenticata

Fra le tante personalità che ormai sono cadute nell’oblio della memoria cittadina, troviamo quella di Miguel de Cervantes Saavedra.

Uno degli scrittori più importanti del panorama europeo e mondiale di tutti i tempi, autore del Don Chisciotte della Mancia, nato nel periodo messinese dello scrittore spagnolo.

Pillole di vita

Cervantes nasce ad Alcalá de Henares nel 1547, una cittadina vicino Madrid da una famiglia di modesta estrazione sociale. A causa della precaria condizione economica è costretto a spostarsi continuamente. Nel 1570 fugge in Italia per evitare la condanna del taglio della mano, pena computata per aver ferito un certo Antonio de Segura.

Dalla Spagna al soggiorno messinese

Arrivato in Italia, s’impiega come cortigiano alla corte del Ducato di Atri, degli Acquaviva, in Abruzzo. Nello stesso anno, si arruola nella compagnia guidata da Diego de Urbina,  capitano del reggimento di fanteria di Miguel de Moncada, che allora serviva sotto Marc’Antonio Colonna: al figlio di quest’ultimo, Ascanio (divenuto poi cardinale), dedicherà La Galatea.

Nel 1571, è testimone dell’ingresso a Messina di Don Giovanni d’Austria, luogo dove si stavano concentrando le forze navali della Lega Santa per la spedizione contro la flotta turca.  Imbarcato come soldato sulla galea Marquesa, parteciperà alla famosissima Battaglia di Lepanto, dove rimane gravemente ferito, perdendo l’uso della mano sinistra.  Fatto ritorno dalla vittoriosa battaglia, viene ricoverato per sei mesi all’Ospedale Civico di Messina. Lo stesso appellativo Saavedra, che scalzo il suo cognome materno, deriva infatti dalla parola araba shaibedraa, che nello spagnolo dell’epoca significava gergalmente “monco”.

 

Ritratto di Miguel Cervantes. Fonte: libriantichionline

Dall’odissea di Cervantes al ritorno in patria

Nel 1575 parte da Napoli verso la Spagna ma, la nave su cui viaggiava la galea Sol, viene assalita dai pirati. Egli verrà  tenuto in stato di cattività per cinque lunghi anni fino al pagamento del riscatto ad opera delle missioni dei trinitari.  Negli anni di prigionia stringe amicizia con il poeta siciliano Antonio Veneziano, a cui dedicherà un’epistola reinserita nella commedia El trato de Argel.

L’ammirazione da parte di Cervantes per Veneziano, si può dedurre dalla novella El amante liberal, che narra di un prigioniero siciliano che magnificava la bellezza della sua donna con versi sublimi, chiaro riferimento alla Celia di Veneziano. Finalmente liberato con l’aiuto delle famiglia, ritorna in Spagna, vivendo un periodo di umiliazioni e ristrettezze economiche. Dal 1587, si occupa delle provvigioni dell’Armada invencible e poi come percettore d’imposte. La requisizione di un carico di cereali e di beni della curia andalusa, gli valgono ben due scomuniche quell’anno.

Ultimi anni

Nel giro di cinque anni viene arrestato due volte, la prima nel 1597 per bancarotta fraudolenta e la seconda per illeciti amministrativi. Negli anni immediatamente successivi va a Valladolid insieme alle due sorelle e alla figlia Isabella, nata da una relazione con una certa Anna de Rojas. Nel 1605 subisce una nuova vertenza giudiziaria poiché, nelle vicinanze di casa sua, viene ritrovato il cadavere del cavaliere Gaspar de Ezpeleta, facendo cadere i sospetti sullo scrittore. Indagato e subito prosciolto, passa il resto della sua vita nell’amarezza del dubbio che il delitto, possa essere riconducibile alla moralità dei suoi famigliari.

Nonostante i continui stenti segue la corte di Filippo III di Spagna a Madrid, dove si dedica a un’intensa attività letteraria e alla scrittura dei suoi più grandi successi.

Miguel Cervantes muore il 22 aprile del 1616 a 68 anni e viene sepolto nel convento dei Trinitari Scalzi a Madrid. L’ubicazione della tomba di Cervantes perduta negli anni successivi, viene ritrovata nel 2015 e spostata nella chiesa di San Ildefonso.

Incisione di epoca barocca in cui si vede l’Ospedale Maggiore di Messina, opera di Andrea Calamech, attuale tribunale. Fonte: wikipedia

Cervantes, Don Chisciotte e Messina

Lo scrittore e biografo catalano Sebastià Arbò, nel suo Cervantes del 1954, attribuisce al periodo della permanenza a Messina, la nascita del capolavoro di Cervantes il  Don Chisciotte della Mancia e suggerisce l’idea che alcune scene l’autore le abbia riprese dal paesaggio dello Stretto.

Racconta egli stesso: “Per mesi Miguel de Cervantes fu confinato in un letto di ospedale a Messina, aspettando la guarigione delle ferite. […]  Desiderava ardentemente la pace della campagna siciliana per fargli dimenticare l’incubo della violenza che si celava dietro di lui. […] La sua immaginazione univa i ricordi di questi giorni felici in Sicilia con le impressioni della campagna andalusa, e da qui creava la scena del suo Don Chisciotte in cui il cavaliere, dopo aver condiviso un pasto scarso con i grezzi e primitivi caprai, parla loro dell’Età d’Oro dell’umanità.” 

Anche l’altra celebre scena di Don Chisciotte dove confonde una triste locanda con un castello incantato, profetizzando vita eterna a poveri e oppressi, sarebbe da accreditare alle fantasie messinesi di Cervantes.  La città di Messina citata nel racconto dello schiavo che, nel passaggio dello Stretto per unirsi alla flotta di Don Giovanni d’Austria, viene fatto prigioniero da Uccialì (il corsaro calabrese convertitosi all’Islam), unico comandante dello schieramento ottomano a sopravvivere allo scontro di Lepanto.

L’oblio della memoria

La storia di Miguel Cervantes e del suo soggiorno a Messina, è solo l’ennesima di tante storie cadute nell’oblio della memoria. Ben più lieta sorte è toccata al Don Giovanni d’Austria, la cui pregevole statua di Andrea Calamech domina il largo di via Lepanto.

Ci auguriamo che ben presto la memoria di personaggi illustri come Cervantes possa prendere il posto che merita nella storia culturale della città.

Gaetano Aspa

A Pasolini, il regista delle borgate

Poeta, scrittore, regista e giornalista, Pasolini è una tra le personalità più rappresentative del Novecento italiano. Proprio quest’anno si è festeggiato il centenario dalla nascita dell’autore di Ragazzi di vita che ci ha lasciato in eredità una corposa produzione, che tutt’ora continua a dividere la critica: o lo si ama o lo si odia, non ci sono vie di mezzo.

L’amore per le borgate e l’odio per la globalizzazione

Pier Paolo Pasolini è riuscito a portare la cultura nella periferia. Questa viene vista non solo in senso topografico ma come chiave d’accesso a tutto il suo percorso artistico e intellettuale.
Partito nel 1942 con la pubblicazione di Poesie a Casarsa, sua prima raccolta poetica in dialetto friulano, l’autore si avvicina poi al magmatico universo delle borgate romane che faranno da palcoscenico a gran parte delle sue pubblicazioni. Attento osservatore dei cambiamenti della società italiana porrà la sua attenzione a quelle mutazioni antropologiche con cui le stesse periferie dovranno fare i conti.

Pasolini si scaglia principalmente contro quel consumismo capitalistico che non ha fatto altro che appiattire la popolazione italiana. In numerosi articoli rimpiange con amara nostalgia la felicità che un tempo caratterizzava i ragazzi di borgata, impegnati oramai a rincorrere un “sogno frustrato” che non riusciranno mai a raggiungere, in quanto limitati dalla non privilegiata condizione economica della loro stessa classe sociale d’appartenenza.

Proprio di fronte ad una periferia ormai contaminata dalla globalizzazione, Pasolini decide di abbandonare il suo disegno dei “romanzi di borgata”, progetto inaugurato nel 1955 con la pubblicazione del suo primo romanzo: Ragazzi di vita.

L’intenzione principale dell’autore era proprio quella di farsi da portavoce della realtà delle periferie. E questo non soltanto tramite un mero lavoro di documentazione, – come lui stesso ha più volte affermato, – ma provando a farsi largo nei pensieri e nella sfera emotiva della gente di borgata. È d’altronde risaputo che lo scrittore amasse passare del tempo con loro, per ammirare da vicino quella genuinità e quell’innocenza di cui era privo il resto della società. Pasolini è sempre stato dalla parte degli ultimi, degli emarginati. Ma emarginati da chi? Da una società ormai pronta ad andare in frantumi?

Una vita violenta e il dialetto come “arma” per la rivoluzione

L’autore trasporta questa realtà all’interno della sua produzione artistica. E Una vita violenta (1959), secondo romanzo pubblicato da Garzanti, ne è la prova. In quest’opera, l’autore ci racconta la storia di redenzione di Tommaso Puzzilli, ragazzo di borgata, in cerca di un riscatto sociale. Il protagonista del romanzo, pagherà col carcere l’aggressione ad un giovane, ma ad uscire di galera sarà un “nuovo” Tommaso. Ammalatosi di tubercolosi, sarà poi costretto ad un periodo di ricovero ma una volta ristabilitosi cercherà un lavoro e si iscriverà al PCI. Il salvataggio di una donna, durante un’inondazione, gli farà raggiungere il riscatto sociale da lui tanto agognato che pagherà col prezzo della sua stessa vita.

E se in Una vita violenta il protagonista si troverà davanti ad una morte fisica, riuscendo quantomeno a salvare la sua bontà d’animo; nella coralità di Ragazzi di vita, i protagonisti pasoliniani conosceranno sia la morte fisica che quella spirituale.

Pasolini, nel corso di tutta la sua produzione, si dimostrerà un eretico anche in campo linguistico, prediligendo il dialetto- visto come la giusta “arma” per combattere quel consumismo capitalistico – a discapito dell’italiano, “la lingua dell’italiano medio”, imposta dalla scuola e dai mass media.

“Ho voluto adoperare una tecnica diversa spinto dalla mia ossessione espressiva. Ho voluto cambiare lingua abbandonando la lingua italiana, l’italiano; una forma di protesta contro le lingue e contro la società.” Pier Paolo Pasolini

Pasolini (2014)

Giornalista: Prova nostalgia per l’epoca in cui la gente la insultava per strada?
Pasolini: Mi insultano ancora

Nel 2014 sui grandi schermi del cinema sono stati messi in scena gli ultimi momenti della vita dello scrittore scomodo. Il film è diretto dal regista statunitense Abel Ferrara e ad impersonare P.P.P. è il magnifico e talentuoso Willem Dafoe. Straordinario come in ogni sua esibizione, è riuscito ad interpretare l’autore in maniera impeccabile. 

Willem Dafoe (Pasolini) in una scena del film. Fonte: amazon.it

Tra Pasolini e Dafoe si  va a creare un dualismo tra il tragico e la verità: sullo sfondo gli ultimi mesi di vita dell’intellettuale. Durante la visione del film vedremo un uomo e le sue ultime volte: il suo ultimo romanzo mai terminato, Petrolio, e il lavoro dietro ad esso, i suoi ultimi amori, colloqui, interviste, e l’adorazione verso i “dimenticati”. Attorno al personaggio si delineano gli scandali sulla sua omosessualità, che non tenne mai nascosta. Una delle scene più forti e brutte del film è sicuramente quella in cui Pasolini e Giuseppe Pelosi (uno dei suoi amanti) si trovano nella spiaggia di Ostia. Proprio su quella sabbia si consumò un terribile delitto che ancora oggi è avvolto nel mistero e a cui il nostro presente cerca di dare una risposta.

La morte dietro il mistero

Quarantasette anni fa Pasolini fu strappato alla vita probabilmente per la sua penna controcorrente, ma la sua morte fu archiviata come un caso di omofobia. Il suo delitto ancora cerca una risposta: si pensa che dietro ci possa essere lo Stato, forse perché riteneva la sua opera troppo progressista, ma soprattutto perché Pasolini era un uomo che riusciva a vedere cosa fosse realmente la politica italiana. L’operato dello scrittore era dedicato agli ultimi: fu uno dei primi a rendere “persone vere” i calabresi, considerati dei reietti, e a descrivere la loro terra come “la regione più povera”, mai presa seriamente da coloro che stavano “ai piani alti”.

La morte di Pasolini ha dunque due verità, ma qual è quella vera? Pasolini all’età di cinquantatré anni fu assassinato tra la notte del 1 e 2 Novembre del 1975. Venne picchiato a suon di pugni e il suo corpo venne travolto dalla sua stessa auto. La salma fu ritrovata da una donna alle 06:30 di mattina. Fu riconosciuto come colpevole Pelosi, il “pischello” di diciassette anni, già noto alle autorità come ladro di auto, che confessò di essere stato invitato da Pasolini a salire sulla vettura con lui. Pelosi disse che lo scrittore lo costrinse con la forza a consumare un rapporto sessuale, ma egli non volle, e preso dalla rabbia lo uccise. Sorge però una domanda: perché salire in auto di uno sconosciuto e dirigersi  in un posto appartato?

La scrittura forte ha fatto di Pasolini “lo scrittore scomodo”, ma il suo lavoro non verrà mai dimenticato. Il suo essere diverso lo ha consacrato come uno degli intellettuali più profondi e complicati mai esistiti.

 

Alessia Orsa
Domenico Leonello

Addio a Luis Sepúlveda, lo scrittore che ci insegnò a volare

Ha perso l’ultima delle sue innumerevoli battaglie l’instancabile scrittore Luis Sepúlveda, stroncato oggi all’età di 70 anni dal Covid-19 nell’ospedale di Oviedo in cui era ricoverato ormai dal 25 febbraio.

Chi era Sepúlveda?

  “Vola solo chi osa farlo”

Luis Sepúlveda. Fonte: Open

Non solo grande romanziere, ma anche giornalista, sceneggiatore e regista teatrale, nonché attivista, Sepúlveda nasce ad Ovalle in Cile nel 1949 e la sua infanzia è già segnata da due grandi passioni che lo accompagneranno per il resto della vita: la letteratura e la politica. Cresce infatti col nonno e lo zio, che non solo erano anarchici ma avvicinarono anche il piccolo Luis alle opere di grandi della letteratura come Cervantes, Salgari, Conrad e Melville. Già a quindici anni lo scrittore manifesta le sue passioni: entra a far parte della Gioventù Comunista e compone poesie e racconti per il giornale scolastico.

Nonostante il grande amore per il proprio Paese manifestato anche attivamente a fianco di Salvador Allende, Sepúlveda sarà presto costretto a lasciare il Cile, in quanto dissidente politico, durante la dittatura di Pinochet.

La critica al regime era infatti un tema fondamentale dei suoi spettacoli teatrali. Ciò non gli impedirà di continuare a combattere per moltissime cause anche al di fuori dalla sua patria: basti pensare all’impegno nella rivoluzione del ‘78 in Nicaragua e ultimo – e non meno
importante – quello a bordo di una nave di Greenpeace nel corso degli anni ’80. Non a caso la causa ecologista ispirerà l’opera per cui è più caro ai suoi lettori: “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare.”

Dentro due storie dello scrittore

Diario di un killer sentimentale                                                                                                                                  

“Il volto umano non mente mai: è l’unica cartina che segna tutti i territori in cui abbiamo vissuto.”

Diario di un killer sentimentale: copertina. Fonte: kobo.com

Un volto, quello del protagonista di questo breve ma intenso romanzo di Sepúlveda, che non si svela mai fino in fondo se non in originali dialoghi a tu per tu con l’uomo dello specchio. Un volto che non si confessa nemmeno in un’opera composta appunto come un diario, un dramma schietto scandito in sette giorni, quanti sono quelli della settimana.

Sepúlveda scrive quest’opera con irriverenza e maestria, ma non lascia mai rivelare al protagonista il suo nome pur lasciandoci nel titolo un indizio: egli è un killer, uno spietato esecutore di morte, un “assassino free-lance”, assoldato all’occasione per eliminare personaggi che nemmeno conosce. Il codice di un tale professionista ha determinate regole: non lasciare mai tracce e vivere in totale solitudine.

Quale peggiore errore, allora, se non innamorarsi?
L’incontro con una “gran figa francese” e la successiva rottura daranno il via a un’escalation di crolli psicologici e fatali errori, proprio mentre il nostro protagonista deve portare a termine il suo più difficile “incarico”: uccidere un noto filantropo. E in questo gioco di dadi alla cieca, il destino tirerà il suo colpo finale. Chi è veramente l’uomo da eliminare?

Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare

“Devi volare. Quando ci riuscirai, Fortunata, ti assicuro che sarai felice,
e allora i tuoi sentimenti verso di noi e i nostri verso di te saranno più intensi e più belli,
perché sarà l’affetto tra esseri completamente diversi.”

 

Scena tratta dal film d’animazione “La gabbianella e il gatto”.                                          Fonte: gingergeneration.it

Un altro libro molto famoso del nostro scrittore racconta la storia di un gatto e una gabbianella.

Chi non ha letto il libro o visto il film?

Chi non si è emozionato quando la gabbianella ha spiccato il volo verso il cielo?

Il romanzo è stato pubblicato nel 1996 ed è ambientato ad Amburgo, città della Germania situata sulle sponde del fiume Elba. Dal libro è stato tratto appunto un film d’animazione intitolato “La gabbianella e il gatto” diretto da Enzo D’Alò. Lo stesso Luis Sepùlveda partecipò al doppiaggio, interpretando il poeta. La storia racconta di un gatto di nome Zorba che un giorno nel giardino della sua casa incontra una gabbiana di nome Kengah, sfuggita da una macchia di petrolio che aveva avvelenato il mare; ma con sé lo sfortunato volatile porta al nostro Zorba una sorpresa: un uovo pronto a schiudersi, del quale la futura mamma non potrà occuparsi e fa promettere a Zorba di prendersene cura.

“Prometti che non mangerai l’uovo» stridette aprendo gli occhi. «Prometto che non mi mangerò
l’uovo» ripetè Zorba. «Promettimi che ne avrai cura finché non sarà nato il piccolo» stridette
sollevando il capo. «Prometto che avrò cura dell’uovo finché non sarà nato il piccolo». «E prometti
che gli insegnerai a volare» stridette guardando fisso negli occhi il gatto. Allora Zorba si rese conto
che quella sfortunata gabbiana non solo delirava, ma era completamente pazza. «Prometto che gli
insegnerò a volare»”.

Zorba manterrà le promesse e chiamerà la gabbianella “Fortunata”, ma non sarà solo in questa avventura: ad accompagnarlo nell’ardua impresa ci saranno anche i suoi amici gatti. Ma Zorba – in quanto “madre adottiva”- farà di tutto per la sua gabbianella e le insegnerà a volare. Tuttavia, sarà anche Fortunata ad aiutare il nostro gatto: gli insegnerà che non esistono disuguaglianze e che tutti siamo capaci di volare se lo vogliamo.

“«Ora volerai» miagolò Zorba. «Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono»
stridette Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra- «Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo»
miagolò Zorba”

Gli insegnamenti di Sepúlveda

“Le mie storie hanno spesso la forma della favola, è un genere che mi consente di creare dei
personaggi soprattutto animali in grado di trasmettere dei valori come la giustizia, la fratellanza, la
solidarietà.” 

Luis Sepúlveda: ritratto. Fonte: tpi.it

Considerato come un vero e proprio guerriero, Luis Sepúlveda ha dato un contributo non solo alla letteratura ma acnhe alle lotte politiche ed ambientalistiche. Con i suoi libri e il suo vissuto ci insegna che niente è perduto, che non dobbiamo mai abbassare la testa davanti a qualcuno o qualcosa, siamo noi ad avere in mano la nostra vita. Si è liberi anche con le catene addosso!

“Il vecchio che leggeva romanzi d’amore” è un altro dei libri più famosi dello scrittore ed è dedicato a Chico Mendes, un sindacalista
brasiliano vittima dei latifondisti impegnati alla deforestazione dell’Amazzonia. Il libro ci insegna che l’uomo è un essere vanitoso e che pensa solo al guadagno: non si sofferma a pensare al futuro, non si chiede che cosa stia sbagliano ma continua ad andare avanti distruggendo tutto ciò che gli viene incontro.

Ecco perché Luis Sepúlveda è considerato un guerriero!                                                         

Come Zorba, anche il nostro scrittore ci ha insegnato a volare e ci ha fatto capire che siamo noi a dover rendere migliore questo mondo. Ci ha fatto comprendere che la disuguaglianza esiste perché siamo noi a crearla.

Sepúlveda è stato sconfitto dalla pandemia: ma le sue opere ci hanno lasciato il ricordo di un uomo che ha sempre combattuto per difendere i propri ideali, senza mai arrendersi.

“La libertà è uno stato di grazia e si è liberi solo mentre si lotta per conquistarla.”

 

Alessia Orsa, Angelica Rocca

È morto Ubaldo Smeriglio, giornalista e scrittore: oggi i funerali

 

Stampalibera.it

Lo scrittore e giornalista 52enne Ubaldo Smeriglio, a seguito di una malattia che non gli ha lasciato scampo, ci ha lasciati ieri mattina a Messina.

Non solo il suo impegno come giornalista nei casi di cronaca nera e giudiziaria, ma anche dinanzi alla macchina da scrivere con i suoi romanzi che lasciavano convergere la prosa di Hemingway e di Garcia Marquez.

Un profondo senso di giustizia quello cui lo si riconosceva nella sua professione di scrittore e giornalista, prima con il settimanale l’Isola, poi per il Corriere del Mezzogiorno e infine anche per la Gazzetta del Sud.

 

Gazzettadelsud.it

“Sono figlio di un corsaro della corona e di una principessa dell’estremo oriente”, questo si legge nel suo profilo Facebook; così, lui, amava definirsi: forse per sottolineare il suo spirito ribelle e curioso, amante della vita e di ogni dettaglio che potesse scorgervi attraverso l’occhio attento della sua imperitura passione: la scrittura.

“Non forzare la realtà”, infatti, soleva ripetere.

Nell’ultima esperienza professionale con il gruppo “Caronte-Tourist”, il suo estro prolifico aveva partorito “Onde Sonore”, un itinerario artistico e musicale.

I funerali si svolgeranno oggi alle 15 nella chiesa di Santa Maria di Gesù a Provinciale.

 

Antonino Giannetto

 

“L’opera degli ulivi”: anni di piombo, lotte politiche e faide ‘ndranghetiste

L’autore Santo Gioffrè e i relatori – ©FernandoCorinto, Aula Magna “L. Campagna”, 13 marzo 2019

È stato presentato presso l’Aula Magna “L. Campagna” del Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche, il volume L’opera degli ulivi, di Santo Gioffrè, medico, appassionato di documenti antichi e del mondo ellenico, scrittore di romanzi storici. Hanno moderato l’incontro i professori: Mario Pio Calogero, Luigi Chiara e Giovanni Moschella.

Introduce il discorso Mario Pio Calogero:

“Il libro narra la tragica storia di uno studente universitario calabrese, ambientata a Messina, nel nostro Ateneo ed in un paese della Calabria, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. Un periodo caratterizzato da un forte binarismo di ideali, presente soprattutto tra i giovani: studio e impegno politico. Ideali che caratterizzano lo stesso protagonista, Enzo Capoferro. Un romanzo a forte carica ideologica, giustificatorio, se non esaltativo, in contrapposizione all’estremismo di destra, delle violenze rivoluzionarie della sinistra estrema nel ’68 universitario messinese. Il testo è una vera e propria incursione, lucida e asciutta, nei retroscena sommersi di un mondo velato della Messina degli anni di piombo. Ѐ la storia di una Calabria amara, quella ‘ndranghetista, fatta di riti, di convenzioni, di catene che legano i protagonisti ad una società fondata sul vincolo dell’onore e sul patto di sangue, segnata da un destino già scritto, a cui sembrerebbe impossibile sottrarsi. Ove nemmeno l’amore per Giulia, la sua amata, potrà salvarlo.”

In un’atmosfera intima e raccolta il pubblico è sembrato molto attento alle descrizioni illuminanti dei vari relatori.

L’autore, Santo Gioffrè, ha ringraziato i presenti, dimostrandosi soddisfatto per l’organizzazione dell’incontro ed ha fornito ulteriori dettagli della trama, anche di tipo autobiografico.

Gabriella Parasiliti Collazzo