Quali verità scientifiche si celano dietro fiamme infernali, pietre mobili e mari luccicanti?

La terra è la nostra casa da 200.000 anni, eppure questo grande corpo rotante riesce ancora ad apparire nuovo e ignoto ai suoi piccoli abitanti. Visitandolo si scoprono luoghi che non sembrano reali e che fanno rinascere quell’istinto primordiale alla conoscenza, il desiderio di essere ancora una volta curiosi. Di seguito mostriamo una raccolta di tre luoghi dove si realizzano fenomeni per lungo tempo considerati inspiegabili per rivelare le ragioni celate dietro strani accadimenti.

La porta dell’inferno

“Porta dell’Inferno” o “Cancello degli Inferi”, Turkmenistan

Questo è il nome con cui è stato ribattezzato un cratere largo circa 70 metri e profondo, in alcuni punti, anche 50. Si è formato non lontano dal villaggio di Derweze (nel deserto del Karakum, in Turkmenistan), a 260 chilometri dalla capitale Ashgabat.

Nella nota area desertica è possibile vedere un enorme cratere infuocato che emana un bagliore visibile, di notte, a chilometri di distanza, anche a occhio nudo. Nelle ore diurne, invece, avvicinandosi si nota una voragine interamente occupata da fiamme che bruciano arida terra.

È curioso che questo fenomeno si verifichi senza interruzione da circa 45 anni. Nasce da ciò la leggenda della “Porta dell’inferno”, che affascina ancora oggi, attirando ogni anno decine di migliaia di turisti.

Il fenomeno fa la sua comparsa nel 1971, quando i sovietici impiantano in quella zona una piattaforma di perforazione con lo scopo di trovare il petrolio. Poco dopo l’inizio dei lavori, le trivelle raggiungono, però, una sacca di gas naturale presente non troppo in profondità. Ciò porta al cedimento del terreno formato da roccia e sabbia. Il buco creatosi trascina con sé tutte le attrezzature senza causare, però, vittime. Per evitare che ne facciano i gas sprigionati dal sottosuolo si decide di incendiarlo, pensando che la fiamme esauriscano la riserva naturale in un tempo relativamente breve.

In realtà, ciò fino ad adesso non si è realizzato e il fuoco continua a propagarsi alimentato dal gas fuoriuscente. Questo incidente ci ha regalato un panorama suggestivo, anche se visitarlo si rivela arduo. L’intenso calore che emana il cratere, infatti, permette di avvicinarsi solo per pochi minuti finché la temperatura diventa realmente insopportabile.

Le pietre camminano?

Pietre mobili della Valle della Morte, California

Lo strano fenomeno dei massi mobili si verifica ormai da tempo nella Racetrack Playa, un lago asciutto della Valle della Morte, in California. Si tratta di un’area lunga 4,5 chilometri e occupata da qualche centinaio di rocce di dimensioni variabili. Alcune sono, infatti, piccole come palle da baseball, altre arrivano a pesare più di 300 chili. Anche le scie lasciate dai massi sono molto diverse: alcune molto corte, altre lunghissime, altre ancora a zig zag.

I geologi da decenni tentano di comprendere le cause di tale fenomeno. Solo da un paio di anni si è riusciti a darne una spiegazione. Un gruppo di scienziati ha, infatti, filmato la corsa di alcuni massi. A spingerli sarebbero i sottili strati di ghiaccio che si formano quando il letto del lago si riempie di acqua piovana. Accade non di rado, infatti, che le temperature notturne in questa zona scendano sotto lo zero, e che l’acqua raccolta nel lago ghiacci.
Per capire meglio le dinamiche del fenomeno, nel 2011 un gruppo di geologi guidati da Richard Norris della Scripps Institution of Oceanography equipaggia quindici massi con unità GPS attivate dal movimento, monitorandoli costantemente.

Nel dicembre 2013, mentre la Playa è coperta da circa 7 centimetri d’acqua, con lo strato superficiale ghiacciato, succede qualcosa. In una giornata soleggiata, infatti, il ghiaccio inizia a creparsi, producendo rumori simili a quello di vetro che si rompe. Poco dopo, le rocce iniziano a muoversi. I grandi pannelli fluttuanti di ghiaccio, trascinati dal vento, scivolano su acqua e fango rimasti. Le rocce, a contatto con la terra, graffiano il suolo lasciando dietro di sé le famose scie.

Tramite i successivi studi si è compreso che, affinché le rocce si muovano, occorre che si verifichino alcune circostanze. La Playa deve, ad esempio, essere ricoperta da uno strato d’acqua piovana (o di neve sciolta) abbastanza alto da ghiacciare d’inverno, ma non tanto da coprire le rocce. Il ghiaccio deve avere uno spessore di 3-6 millimetri, in modo che possa rompersi facilmente, ma sia abbastanza spesso da spingere le rocce.

La spiaggia stellata

Bioluminescenza, Maldive

Le Maldive rappresentano una delle mete estive più ambite. Stupiscono le spiagge bianche e l’acqua limpida, ma, in realtà, vi è un fenomeno meno noto che qui si manifesta. A Vaadhoo, un’isola che fa parte dell’Atollo Raa, infatti, è possibile vedere il mare brillare nella notte. Delle luci colorano l’acqua di un blu accesso, come se il cielo vi si specchiasse illuminandosi. Camminando tra le onde, poi, si potranno scorgere alle spalle le proprie impronte, anch’esse dotate di quell’azzurro luccichio.

A causare questo stupefacente fenomeno sono alcuni organismi dotati di bioluminescenza. Nell’atollo di Huvadhu, infatti, il fitoplancton (un insieme di microrganismi) è dotato di una particolare luminescenza azzurra.

La fonte di energia che permette di assumere tale aspetto è data dalle radiazioni solari. La luce azzurra, invece, viene prodotta da una proteina chiamata “luciferase”.

Il fenomeno è, in realtà, causato da un meccanismo di difesa che questi organismi mettono in atto per proteggersi dai predatori.

La bioluminescenza non è, però, una caratteristica unica delle Maldive. In vari tratti dell’oceano Atlantico equatoriale e nella acque tropicali sono stati, infatti, segnalati fenomeni di questo tipo, anche in mare aperto.

In Giappone, ad esempio, esiste la Baia Toyama, dove a rendere luminescenti le acque sono dei calamari. Nel Mediterraneo è più raro assistere alla bioluminescenza. nonostante ciò anche qui esistono organismi in grado di brillare al buio.

Esemplare di calamaro lucciola, baia di Toyama (Giappone)

La fosforescenza marina è molto più diffusa di quanto si pensi. I punti luminosi si possono presentare in diversi colori: bianchi, blu, azzurri, persino verdi. Più raramente può accadere che assumano sfumature di giallo e rosso. A scatenare la reazione luminosa sono sempre dei processi chimico-fisici di organismi che vivono nelle acque marine.

Questi esseri risentono, però, molto dell’inquinamento. Ne è esempio la scomparsa, a Porto Rico, della “Baia bioluminescente”. Nel 2014, infatti, la spiaggia si è spenta. Probabilmente la causa è da ricercarsi in un cambiamento dell’ecosistema.

Riflessioni finali

La scienza, che vive tentando di spiegare la natura, trova su questo piccolo pianeta sempre nuovi misteri da svelare. In questa continua scoperta, nel gioco con il creato possiamo ritrovare il piacere di vivere. Possiamo rimanere sconvolti dalla potenza di questo cumulo di rocce che si manifesta nel fuoco e allo stesso tempo sfoggia nell’acqua una delicata bellezza.

Fonti

Alessia Sturniolo

Cervello che batte come il cuore? Facciamo chiarezza

Vi sarà probabilmente capitato, seguendo gli aggiornamenti online delle pagine di un noto quotidiano generalista, di imbattervi nel titolo di una breve news scientifica: “La scoperta dello Stevens Institute: il cervello batte come il cuore. Ripreso per la prima volta.”

Lo scarno commento, accompagnato al video diffuso dai ricercatori dello stesso Stevens Institute of Technology del New Jersey, potrebbe farci pensare che sia la prima volta che si viene a scoprire questa interessante caratteristica del cervello. Ma è davvero così?

Facciamo un po’ di chiarezza: che il cervello abbia una sua pulsazione, in sincronia col battito cardiaco, non è affatto una novità, anzi, tutt’altro.

Quando il cuore contraendosi manda il sangue in circolo, la pressione esercitata sul sangue si trasmette attraverso le pareti elastiche delle grandi arterie a tutto il sistema vascolare. Questo fenomeno, detto “onda sfigmica”, è quello grazie al quale il vostro medico curante, poggiandovi semplicemente le dita sul polso o sul collo, riesce appunto a “prendervi il polso” valutando approssimativamente la frequenza cardiaca. Lo stesso termine, polso, viene dal latino “pulsus”, cioè pulsazione.

I vasi del cervello non fanno eccezione a questa regola: anche essi trasmettono l’onda sfigmica che  arriva loro dal cuore e che si va a manifestare come un leggerissimo spostamento ritmico che si trasmette a tutto l’encefalo attraverso il liquido che scorre nelle meningi. Il nostro cervello, però, è racchiuso in una scatola dura e inestensibile formata dalle ossa del cranio: per questo in alcune regioni dell’encefalo, come il tronco encefalico, più libero di muoversi e su cui si appoggia una arteria di grosso calibro (l’arteria basilare), il movimento si apprezza di più, mentre in altre meno; se qualcuno di voi ha mai visto il video di un intervento con craniotomia (si trovano anche su YouTube) potrà facilmente notare come, una volta rimosso l’ostacolo delle ossa craniche, la pulsazione della superficie della corteccia cerebrale sia apprezzabile a occhio nudo.

Questo fenomeno è da tempo noto anche a chi si occupa di neuroimaging; mentre le acquisizioni strutturali (per intenderci, la MRI classica che si usa nella diagnostica clinica)  non sono in grado di percepirlo, questo movimento influenza molto alcune acquisizioni particolari che si usano a scopo di ricerca, per fare MRI funzionale o anche trattigrafia; si vengono così a generare degli artefatti che potrebbero distorcere i risultati (specialmente quando si studiano quelle regioni in cui il movimento é più evidente) e che vanno quindi rimossi o minimizzati con dei complessi escamotage tecnici. Uno di questi è il cardiac gating, ossia l’acquisizione dei parametri cardiaci in contemporanea a quella della risonanza, che rende più facile l’eliminazione di questi difetti di acquisizione.

Dove sta dunque la novità nella scoperta dello Stevens Institute?

Nel fatto che, come abbiamo detto prima, la MRI convenzionale non è in grado di rilevare questi movimenti, e che per la prima volta è stato messo a punto un metodo di acquisizione strutturale che consente di “riprendere” questi movimenti e visualizzarli, o addirittura amplificarli per renderli più visibili anche nelle regioni in cui si notano di meno. Questo risultato tecnico, tutt’altro che scontanto, verosimilmente potrebbe nei prossimi anni rendere la vita più facile ai ricercatori che devono avere a che fare con la rimozione degli artefatti legati alla pulsazione, favorendo la messa a punto di metodi più sofisticati ed efficaci. Ma c’è di più: potrebbe anche aiutare i clinici nella diagnosi precoce di alcune patologie cerebrali o vascolari che alterano la pulsazione cerebrale; per questo, gli autori del lavoro hanno messo alla prova il loro metodo anche su un paziente con la sindrome di Arnold-Chiari tipo 1, mettendo in evidenza sostanziali differenze nella trasmissione della pulsazione che potrebbero, se confermate su più pazienti, aiutare la diagnosi.

Insomma una scoperta interessante che meriterebbe però qualche approfondimento in più per essere resa comprensibile al pubblico, piuttosto che essere, come spesso succede, trasformata in un fuorviante titolone da breaking news; ma questo, purtroppo, è un altro paio di maniche…

 

Gianpaolo Basile