La morte dell’afroamericano Tyre Nichols, colpevoli 5 agenti di polizia

Il ventinovenne Tyre Nichols è l’ennesimo membro della comunità afroamericana a pagare con la propria vita gli effetti di una sconcertante cultura di disumanizzazione delle persone di colore che continua ad imperversare tra le forze dell’ordine in negli Stati Uniti. Dopo le innumerevoli battaglie civili sostenute, e a quasi 3 anni dall’omicidio di George Floyd, si apre così un nuovo capitolo nel dibattito su polizia e razzismo.
La triste novità è data dal fatto che il giovane padre afroamericano è stato picchiato a morte da una pattuglia composta da cinque agenti di polizia tutti di colore, accusati di omicidio di secondo grado dopo che la città ha rilasciato i filmati incriminanti del tragico episodio.

I membri della famiglia e diversi attivisti hanno tenuto una manifestazione per Tyre Nichols la scorsa settimana al National Civil Rights Museum di Memphis. Fonte: Nytimes.com

I video brutali dei 5 agenti

Tyre Nichols era stato fermato dai poliziotti per un controllo serale dopo avere commesso una violazione del codice stradale, morendo tre giorni dopo in ospedale, a causa degli “abusi fisici” che il capo della polizia di Memphis – una donna afroamericana – ha definito “atroci, sconsiderati e disumani”.

In effetti venerdì scorso, la città di Memphis ha pubblicato un video che mostra gli agenti prendere a pugni, calci e usare un manganello per picchiare il signor Nichols mentre questi li implora di fermarsi. Quasi un’ora di filmato che, compilato dalla polizia e dalle telecamere di strada, mostra parte di un ingorgo stradale, Nichols che fugge, l’inseguimento e infine gli agenti che lo picchiano. La polizia di Memphis ha detto in una sua dichiarazione iniziale che c’è stato uno “scontro” quando gli agenti di polizia hanno fermato l’auto in fuga di Nichols, e “un altro scontro” successivamente, quando lo hanno arrestato. Scontri che, secondo i risultati preliminari (rilasciati dagli avvocati della famiglia di Nichols) di un’autopsia indipendente, hanno provocato alla vittima “un’emorragia estesa causata da un duro pestaggio”.

Fonte: Gazzetta del Sud

L’assalto da parte di afroamericani – e non di agenti bianchi – contro un membro della loro stessa comunità è la “prova che questa violenza è qualcosa di più profondo e difficile da estirpare nella cultura della polizia”, hanno commentato i pastori di diverse chiese evangeliche afroamericane. E non può esistere alcun tipo di parentela immaginaria che possa restituire una benché minima umanità a dei carnefici addestrati a vedere le vite dei neri come completamente prive di valore.

Anche il presidente degli Stati Uniti Biden si è detto “indignato e profondamente addolorato nel vedere l’orribile video del pestaggio” e ha invitato il Congresso a votare la legge George Floyd sulla responsabilità delle forze di polizia, bloccata da mesi dai senatori repubblicani.

Il George Floyd Justice in Policing Act

La legge di riforma della polizia americana, ancora in esame al Congresso, prende il nome da George Floyd, l’uomo afroamericano ucciso da un agente di polizia il 25 maggio 2020. Questa legge cambierebbe in modo significativo l’attuale modello di polizia statunitense e si aprirebbe maggiormente verso le comunità etniche e il riconoscimento dei diritti civili: un progetto articolato di misure che si propone di contrastare quello che lo stesso presidente Biden ha condannato come “razzismo sistemico”, difficile da sradicare nella società americana, dove ancora prevalgono logiche di esclusione nei confronti delle comunità afroamericane, asiatiche, ispaniche e indo americane.

La seguente riforma è accompagnata da dibattiti di lunga data che coinvolgono profili di diritto penale e sociologia della sicurezza, per lo più incentrati sulla modifica della dottrina dell’immunità qualificata. Le norme sono quindi destinate a disciplinare specifiche rilevazioni sugli standard operativi dei controlli di polizia e a prevedere attività di inchiesta sistematiche condotte dai Prosecutor e dalla Divisione per i diritti civili del Dipartimento di Giustizia. Sono state inoltre predisposte linee guida sulle attività formative con meccanismi di consultazione con i rappresentanti dei movimenti dei diritti civili molto attivi e presenti nella società americana.

Sciolta l’unità speciale

I cinque agenti accusati facevano tutti parte dell’unità specializzata “Scorpion“, che il dipartimento di polizia di Memphis ha dichiarato di aver sciolto sabato, in seguito alle continue sollecitazioni della famiglia di Nichols e degli attivisti cittadini.

I cinque agenti coinvolti nel pestaggio. Fonte: Nytimes,com

L’unità, il cui nome intero è “Operazione sui crimini di strada per ripristinare la pace nei nostri quartieri”, era stata creata poco più di un anno fa per contrastare un’ondata di violenza in città (il tasso di omicidi era in aumento), ed era già molto disprezzata tra le comunità marginalizzate di Memphis anche prima della morte di Nichols.

In una dichiarazione di sabato il dipartimento di polizia ha detto: “mentre le azioni atroci di pochi gettano una nuvola di disonore sull’unità, è imperativo che noi, il dipartimento di polizia di Memphis, adottiamo misure proattive nel processo di guarigione per tutte le persone colpite”.

Diffondere video non basta

Quello che è successo a Nichols viene in questi giorni mostrato al mondo intero in un video destinato ad alimentare il dibattito sulla brutalità della polizia, scatenando polemiche e indignazione sull’ennesimo episodio di furia insensata. Ci si chiede se è davvero questo il modo di porre fine alla violenza razziale, attribuendo un ulteriore fardello di prove video alla comunità discriminata, condannata a subire l’umiliazione di vedere i propri momenti di morte trasmessi ad una società che, talmente abituata a vedere immagini violente, gli è quasi del tutto indifferente.

Dal 1980 ad oggi sono oltre 17.000 le morti causate “accidentalmente” dalla polizia: tra i numeri figurerà adesso anche quella di Tyre Nichols, il cui nome si affianca pure nelle pagine di storia della città di Memphis a quello di Larry Payne, un sedicenne ucciso per aver partecipato ad uno sciopero nel marzo del 1968, e di Martin Luther King, il più visibile leader del movimento per i diritti degli afroamericani e assassinato da un colpo di fucile di un criminale il 4 aprile dello stesso anno.

Perché riportare il semplice fatto di questi incidenti continua a non essere sufficiente per porre fine alle violenze? Perché tutti gli anni trascorsi a guardare tali filmati si sono dimostrati insufficienti a spingere i legislatori verso un’azione reale? È evidente che sono necessari cambiamenti nelle politiche e nelle procedure delle forze dell’ordine in modo che nessun altro debba sperimentare ciò che sta attraversando la famiglia di Nichols oggi.

Gaia Cautela

Proteste, repressioni e morti in Colombia: ecco cosa sta succedendo

È una babele in questi giorni la Colombia: le proteste contro il governo del presidente Ivan Dunque continuano ad imperversare in moltissime città, soprattutto a Cali e Bogotà.

Una marcia organizzata dagli studenti universitari a Bogotà, in Colombia, il 3 maggio 2021 – Fonte: www.ilpost.it

Il casus belli e l’inizio della mobilitazione popolare 

Il casus belli è la riforma fiscale presentata il 5 aprile dal governo Dunque. Il disegno di legge, che aveva come obiettivo quello di raccogliere ulteriori 23 miliardi di pesos colombiani e che è stata presentata come necessaria per poter rispondere ai debiti internazionali e alle conseguenze economiche della pandemia, prevedeva la riscossione dell’IVA, che è del 19%, sulle aliquote dei servizi pubblici di energia, idriche e di fognatura, gas domestico e prodotti alimentari considerati prioritari e le accise sul carburante. La riforma tributaria prevedeva inoltre di diminuire significativamente la soglia di no tax area, includendo quindi nella tassazione fasce di popolazione ai limiti della soglia di povertà. Tale riforma avrebbe dunque provocato un aumento generalizzato del prezzo di tutti i prodotti e i beni di consumi e penalizzato i cittadini di reddito medio e basso.

La mobilitazione popolare si è accesa il 28 aprile per iniziativa del sindacato principale del Paese, Centrale unica dei lavoratori, che ha indetto uno sciopero generale. Ad aderire sono stati i sindacati minori, studenti, operai e comuni cittadini. Secondo la Central Unitaria de Trabajadores, nel solo 28 aprile, sono scesi in piazza oltre 5 milioni di persone in oltre 600 municipi. Nelle città più grandi, alle proteste pacifiche si sono affiancati saccheggi e incendi di autobus e stazioni di polizia.

La violenza delle forze di sicurezza e la marcia indietro del presidente Dunque

Il presidente, allarmatosi, l’ 1 maggio ha annunciato in tv l’intervento dell’esercito. Il governo di Dunque, che avrebbe dovuto rappresentare un’inversione di rotta rispetto alle destre che negli ultimi decenni avevano governato il paese, si è posto dunque in continuità con l’atteggiamento repressivo e autoritario dell’ex presidente Uribe che, non a caso, su Twitter ha esortato la polizia e l’esercito ad usare le armi.

Le esortazioni sono state accolte dalle forze di sicurezza che hanno reagito con disumana violenza: i tanti video che circolano sul web mostrano la polizia e l’esercito che sparano e colpiscono con gli scudi i manifestanti, speronano la folla con le motociclette. A lasciare senza parole è il video girato a Ibagué che mostra una donna che, subito dopo aver scoperto che il figlio di 19 anni è stato ucciso dagli agenti, grida: “Uccidete anche me, hanno ucciso anche me. Era il mio unico figlio!”.

L’ufficio del Difensore civico ha segnalato che almeno 20 persone sono state uccise e più di 800 sono rimaste ferite. L’ONG Temblores ha registrato oltre 30 vittime e, nei primi 5 giorni di protesta, fino a 940 casi di violenza da parte della polizia, 672 arresti arbitrati, 92 casi di violenza fisica o tortura e 4 vittime di violenza sessuale. Almeno 90 le persone scomparse nelle mobilitazioni dei giorni scorsi di cui solo due sono state rintracciate.

La decisione del governo di militarizzare la repressione è stata condannata dall’Onu, Human Rights watch, Amnesty International e dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA).

Dopo 4 giorni di proteste e cruenti scontri il presidente ha ceduto e il 2 maggio ha annunciato il ritiro del progetto di riforma. Il giorno dopo il ministro delle finanze, Alberto Carasquilla, ha presentato le sue dimissioni.

Perché la protesta non si è ancora arrestata?

Questo non è bastato a placare il malcontento. La tensione è ancora tangibile. Ci sono altre motivazioni per protestare.

Prima tra tutte la situazione economica. Già nel 2019 la disuguaglianza economica era stata il bersaglio di proteste e rivolte che avevano portato ad alcune misure previdenziali, ma la pandemia ha fatto precipitare la situazione. Il lockdown, in Colombia, è stato uno dei più lunghi al mondo e ha causato la chiusura di oltre 500 mila attività. Si stima che nell’ultimo anno 2,8 milioni di persone siano sprofondate in condizione di povertà estrema.

Causa di malcontento è anche la repressione delle forze di sicurezza. Ad essere contestato è, in particolare, il ruolo dell’ESMAD, l’Escuadrón Móvil Antidisturbios (il reparto antisommosse) di cui i manifestanti chiedono lo scioglimento. Già a settembre vi erano state delle proteste contro la crudeltà delle forze dell’ordine, dopo la diffusione di un filmato che mostrava l’aggressione all’avvocato Javier Ordóñez, fermato per aver violato il distanziamento sociale e morto qualche ora più tardi. Nelle sommosse si invoca la fine di queste violenze e la punizione dei responsabili, garanzie costituzionali per la mobilitazione e la protesta, un governo meno autoritario, libertà e garanzie democratiche. A queste rivendicazioni si aggiunge anche quella di una vaccinazione di massa, visti i ritardi e le denunce di frodi e favoritismi su chi e quando riceve il vaccino.

A provocare dissenso è anche la riforma del sistema sanitario che si sta discutendo in Parlamento e che aumenterebbe le privatizzazioni e, secondo il personale ospedaliero, peggiorerebbe le condizioni di lavoro negli ospedali colombiani, già messi in difficoltà dalla pandemia. Infatti, la Colombia sta affrontando la terza ondata, le terapie intensive di quasi tutto il paese sono al collasso e si stimano quasi tre milioni di contagiati e oltre 72mila morti a causa del Covid.

Vista la gravissima situazione pandemica, la decisione dei cittadini di occupare strade e piazze per protestare appare come un atto di sfida alla morte. Ma basta guardare le foto dello slogan che ha fatto il giro del mondo e che recita “Ci stanno uccidendo” per comprendere che il governo uccide più ferocemente del virus e che, dunque, sfidare la morte è l’azione necessaria per lottare contro la stessa.

Lo slogan che ha fatto il giro del mondo “Nos estan matando” – Fonte: www.dinamopress.com

Chiara Vita