Fabrizio De Andrè, Messina e un pirata di 500 anni fa…

Andate sul lungomare della passeggiata di Messina e lì, su quei gradini che formano un piccolo anfiteatro abitato spesso da gatti randagi, prendete il vostro cellulare e, se potete, indossate le cuffie; cercate sulla piattaforma YouTube la canzone di Fabrizio De AndréSinàn Capudàn Pascià ed anche se, probabilmente, non capirete molto delle parole sussurrate da “Faber” in dialetto genovese, andate oltre il testo.
Che cosa c’entra questa canzone ligure con Messina ed, in particolare, con la sua passeggiata a mare? Apparentemente nulla, se non fosse che già nel titolo del brano Fabrizio De André ha lasciato una traccia riconducibile alla città dello Stretto: “Sinàn Capudàn Pascià”; una ricerca di queste tre parole, infatti, riporterebbe al nome di Scipione Cigala, nato a Messina da una famiglia di marinai genovesi rapiti dai pirati pirati ottomani nel XVI secolo.
Durante il secolo 1500, infatti, il porto di Messina non si trovava nella posizione odierna, ma le navi salpavano proprio dal litorale dell’attuale passeggiata, come ricorda un’epigrafe posta vicino il piccolo anfiteatro scalinato del lungomare e riecheggiante la memoria della Battaglia di Lepanto, scontro per cui proprio da quel litorale salparono le navi cristiane dirette in Turchia.
La passeggiata, allora, è uno dei luoghi che il giovane Scipione dovette conoscere, poiché molo mercantile di una Messina ricca di colonie catalane, genovesi e pisane, tutte attive nel commercio marittimo in città.

Ma per immaginarsi le vicende della canzone, avendo a portata di mano la versione tradotta in italiano del testo di De André, occorrerebbe prendere l’automobile o un autobus e fermarsi a Ganzirri, altro luogo legato tanto al mare quanto ai pirati “saraceni”. Nel momento in cui non aveste dimestichezza con i vicoli della frazione, chiedete agli abitanti del posto della “Torre Saracena” e, questi, vi indicheranno la strada che vi porterà ad una torre medievale posta nel bel mezzo delle case basse in riva al mare. La storia, anche in questo caso, potrà dirvi perché quella torre fu ribattezzata dal gergo locale “Saracena”, ma lasceremo che sia la canzone di De André a darvi un indizio. Posti davanti al mare che affaccia sulla costa calabrese da Ganzirri, ascoltate le prime battute della canzone che qui, per semplificare le cose, traduco direttamente in italiano: “Teste fasciate nella galea e sciabole si giocano la luna”: eccola la memoria della “Torre Saracena” di Ganzirri, la vedetta anticorsara che funzionò sino all’epoca napoleonica per salvaguardare un forte che esisteva sulle pendici dei colli di Faro Superiore. Accanto a quella torre potrete immaginare, nel vedere il via vai del traffico marittimo odierno, la galea di pirati ottomani che, assediata l’imbarcazione dei Cigala, rapì Scipione che da quei legni dice cantando: “Al posto degli anni che erano diciannove, si presero le gambe e le mie braccia, da allora la canzone è diventata il tamburo e il lavoro cambiò in fatica dura”. E mentre il padre riuscì a pagare ai pirati il prezzo del proprio riscatto, Scipione rimase ostaggio ottomano e De André, nell’arte poetica che lo inserisce di diritto tra i grandi della letteratura contemporanea, dà voce al marinaio messinese, ridotto schiavo dai saraceni che gli intimano: “Voga! Devi vogare prigioniero e spingi, spingi il remo sino al piede! Voga! Devi vogare “turtaiéu” (letteralmente “mangione”) e spingi, spingi il remo sino al cuore!”.
Da schiavo a soldato tra le file dei “giannizzeri” (corpo militare ottomano formato da slavi musulmani, slavi cristiani rapiti dai pirati e cristiani convertiti), sino al ruolo di “Capudàn Pascià”, carica simile a quella di grande ammiraglio dell’esercito del sultano. Ribattezzato in arabo “Sinàn“, Scipione arrivò a rivestire la carica di Vizir, una figura dai poteri subordinati solo alle competenze del sultano.
E digli a chi mi chiama rinnegato, che tutte le ricchezze all’argento e all’oro Sinàn ha concesso di luccicare al sole, bestemmiando Maometto al posto del Signore“. Da Ganzirri o dalla passeggiata a mare, a seconda della volontà dell’immaginazione, si potrà vedere Scipione Cigala ritornare a Messina secondo una leggenda popolare che vuole il Capudàn Pascià rientrante in città per salutare la madre morente. La corona di Aragona, sovrana in Sicilia, per mantenere fede al titolo di “re cattolici”, si oppose all’ingresso di un “moro” a Messina, veto che Scipione fece pagare agli spagnoli con l’assedio della costa reggina. Celebri di questo momento storico sono il fallito assedio di Reggio da parte degli ottomani e le scorribande di Gallico. Di fronte a questo atteggiamento, leggenda vuole che gli Aragona concessero a Scipione l’ultimo saluto alla madre e la costa reggina non fu più saccheggiata.
“E’ questa la mia storia e te la voglio raccontare un pò prima che la vecchiaia mi pesti nel mortaio; è questa la memoria, la memoria del Cigala, ma nei libri di storia Sinàn Capudàn Pascià“.
Il legame che unisce Fabrizio De André a Ganzirri, alla passeggiata a mare e a Scipione Cigala finisce qui, ma per ricordare il messinese che si fece grande tra le file ottomane, bisognerebbe concludere l’itinerario ad Istanbul, presso il quartiere Galata, laddove esiste la residenza lussuosa di Sinàn Capudàn Pascià. Un paio di secoli dopo, in quello stesso quartiere, nel 1905, degli studenti del ginnasio Galatasaray di Instanbul fondarono l’omonimo club di calcio che oggi è una grande polisportiva di caratura europea, ma questa è un’altra storia.

Francesco Tamburello

Storia di un carrierista messinese tra le fila islamiche, dalla penna di De André alle coste reggine: Scipione Cicala

scipionecicala"È questa la mia storia e te la voglio raccontare, poco prima che la vecchiaia mi pesti nel mortaio e questa è la memoria, la memoria di Cicala ma sui libri di storia Sinán Capudán Pasciá" – Fece cantare così la voce di Scipione Cicala la chitarra poetica di Fabrizio De Andrè, in un dialetto genovese dall'eco marino come il suono di un gabbiano, propriamente adatto al racconto di una storia talattica e piratesca che nasce non in Liguria ma a Messina.

Permane la memoria di Sinàn sia ad Istanbul, in cui si trova la sua residenza nel quartiere Galata, sia nella tradizione popolare reggina, le cui filastrocche senza tempo, ricordano in litanie quel pirata Ottomano che saccheggiava soventemente le coste da Gallico a Reggio negli anni del 1594 – 1595.

Alla vista di quelle "teste fasciate sulla galea" – per citare ancora la canzone di De André –  i calabresi dello Stretto gridavano: "Arrivaru li turchi, a la marina 'ccu Scipioni Cicala e novanta galeri! Na matina di maggiu, Cirò vozzi coraggiu, mentre poi a settembri, toccò a Riggiu. Genti fujiti! Jiti a la muntagna, accussì di li turchi nessuno vi pigghia!".

Scipione Cicala nacque a Messina nel 1552 da una nobile famiglia di visconti e mercanti genovesi al servizio dei Doria ed affaristi nella città peloritana. Come buona parte dei commercianti che solcavano il mare a quel tempo, anche i Cicala, non disdegnarono, di tanto in tanto, le proficue rendite che l'attività del mercenariato garantiva e fu proprio tra le acque del Mediterraneo che il Visconte Cicala e il giovane Scipione furono intercettati, nel 1560, da una flotta Ottomana che lì rese in schiavitù. Dei due, deportati prima a Tripoli e dopo ad Istanbul, soltanto il padre riuscì a riscattare la propria libertà, potendo tornare a Messina dove morì nel 1564; il giovane Scipione, invece, dovette scegliere tra la morte e la conversione all'Islam, con la prospettiva di una carriera tra le fila dei "Giannizzeri", giovani soldati di fede cristiana tratti prigionieri in razzie e guerre, solitamente di origine Slava o Armena, convertiti all'Islam e resi eunuchi, facenti parte della fanteria a guardia personale del sultano Turco.

Inizia da qui la scalata carrierista di Scipione, ribattezzato Cığalazade Yusuf Sinan Paşa , il quale dovette la sua fortuna alle simpatie dei sultani Solimano il Magnifico e Selim II, riuscendo a divenire, sotto Mehmed III, generale delle flotte Ottomane, appunto "Kapudàn Pascià" nel 1591. Sposata una pronipote di Solimano, il suo prestigio crebbe notevolmente e la sua fama di condottiero fu ribadita grazie alla brillante vittoria ottenuta contro i Persiani nella spedizione Ungherese del 1596, ottenendo il titolo di Vizìr, grado politico quasi pari a quello del Sultano.

Tornò immediatamente a Messina, dove volle rivedere la madre Turco – Montenegrina, ma non accontentato dal Viceré di Sicilia, prese d'assedio le coste di Cirò Marina, Soverato e Reggio, devastando la città dello Stretto calabrese e lasciando impotente la flotta Doria intervenuta troppo tardi in soccorso dell'Impero.

Era nei piani di Cicala, del resto, la conquista della Calabria e, come ben furono ricostruite le vicende storiche da un articolo de La Gazzetta Del Sud dell'undici ottobre 2012, tale intento fu auspicato e suggerito, senza poi tradursi in esiti positivi, anche dal filosofo Tommaso Campanella, con il quale il Cicala mantenne una corrispondenza. Nei primi anni del 1600, Scipione Cicala continuò le sue incursioni nel Mediterraneo, specialmente nelle coste balcaniche e, sempre opposto ai Persiani, perì nel 1605 a Dyarbekir. Nulla ricorda a Messina questa controversa figura di un concittadino che il destino ha strappato alla Sicilia, la cui storia arricchisce, senza dubbio, il ricco patrimonio tradizionale che la città può annoverare nel proprio rapporto con i pirati musulmani. 

Francesco Tamburello