Perché Blade Runner 2049 diventerà un cult?

Blade Runner, diretto da Ridley Scott (Alien, Legend, Il gladiatore, Sopravvissuto – The Martian) uscito nelle sale nel lontano 1982, è l’esempio di come, a volte, una visione artistica non viene compresa dalla maggioranza inizialmente.

Quando si tratta di un’idea rivoluzionaria accade che nella cultura popolare una forte influenza la stravolge e ne decostruisce i dogmi imposti – in questo caso quelli appartenenti al settore cinematografico –  ed essi vengono riscritti e rivisti dall’ideologia dell’opera cult stessa.

Nel 2017 uscì il sequel canonico, Blade Runner 2049, diretto dal regista Denis Villeneuve (La donna che canta, Enemy, Arrival).

In questo caso la critica specializzata e quella pubblica si divise in pareri contrastanti, ma noi si siamo sicuri che ben presto anche questo gioiellino riuscirà presto a mettere d’accordo tutti sul suo inestimabile valore cinematografico e vi spiegheremo perché.

Vi racconteremo di un mondo immerso nel retrowave, fatto di luci fluorescenti, macchine volanti e un oscuro cielo che non smette di piovere!

Le macchine possono pensare

“Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo consiste essere uno schiavo” – Roy Betty

Fin dalla prima sequenza della pellicola, Blade Runner regala al suo pubblico una delle scenografie più d’avanguardia del suo tempo: gli effetti speciali e varie altre tecniche vengono adoperate per immedesimare lo spettatore in un mondo nuovo.

Certo, stiamo parlando di un mondo distopico dove i replicanti (androidi dalle fattezze identiche a quelle di un essere umano) sono relegati al ruolo di servitore. Qui vediamo i replicanti mostrarsi più uniti e umani degli esseri umani stessi, che piuttosto mostrano freddezza e distacco pur di portare a compimento i loro scopi.

L’idea di dare a questi replicanti una grande intelligenza ha costretto i creatori a dare loro una morte fissata a 4 anni dalla loro attivazione. Questo per impedire loro di acquisire la capacità provare emozioni e ribellarsi. L’incipit del film si concentra proprio su questo: un gruppo di 6 replicanti riesce a fuggire dai pianeti colonizzati dall’uomo, le colonie extramondo, e riesce a raggiungere la città di Los Angeles alla ricerca di una soluzione per evitare di morire precocemente. La task force instituita dalla polizia, denominata unità Blade Runner, richiama dalla pensione l’ex poliziotto Rick Deckard (Harrison Ford) per ritirare (ovvero uccidere) i suddetti replicanti ribelli.

Prys (sotto) e Roy Batty in una scena del film Blade Runner. Distribuzione: Warner Bros. Fonte: Warner Bros.

Perché Blade Runner è un cult

La narrazione si sviluppa in un’epoca assai lontana dall’anno di proiezione, oltre 40 anni dalla prima proiezione. Ci viene presentato un futuro del tutto opprimente: le strade strette affollate dai mercatini, la polizia che grazie ai loro spinner (automobili volanti) possono osservare a cielo aperto ogni movimento, i cartelloni pubblicitari che permeano ogni angolo della città.

L’ambiente cittadino è cupo e costantemente piovoso, questo perché il futuro che profetizzava era caratterizzato da un inquinamento atmosferico molto elevato, tanto da riempire i cieli di fumi e nubi.

Ripescando sempre la prima scena, ci viene riportato un occhio sul quale viene riflessa la città con tutte le sue splendide luci a neon colorate, ma immersa tra lo smog e le fiamme delle industrie. Ovviamente in una ambientazione del genere gli animali non sono sopravvissuti e la maggior parte delle creature esistenti sono artificiali. Ecco perché l’umanità ha deciso di spostarsi e andare a vivere nelle colonie extramondo. Privilegio, però, che non possono permettersi tutti: solo chi non presenta malattie e chi dispone di una salute perfetta può permettersi di partire (vedasi il personaggio di J. F. Sebastian, interpretato da un magistrale William Sanderson).

Frame del film Blade Runner. Distribuzione: Warner Bros. Fonte: Warner Bros.

Remake o sequel diretto?

Cosa c’è di meglio di un uomo che rincorre degli androidi? Un androide che rincorre altri androidi.

In questo Blade Runner 2049, il protagonista, l’agente K, è impersonato da un perfetto Ryan Gosling che grazie alla sua perfetta monoespressività (in alcuni casi è un difetto, ma non in questo caso) ci restituisce un replicante perfetto. In questa pellicola Villevenue ci presenta l’agente K che segue una routine molto rigida: vivere la maggior parte del tempo chiuso in appartamento e quando viene chiamato solo per compiere le missioni che gli vengono assegnate.

Partendo da questo, il regista vuole giocare con l’empatia del pubblico cercando di farci entrare nel volere di una macchina che sa di non poter provare emozioni, che sa di poter essere libero come potrebbero fare gli umani ma ciò non gli è possibile ottenere.

Joi: la bellezza di un amore (illuso)

L’agente K in Blade Runner 2049 trova una via di “salvezza” grazie ad una figura femminile che qui non è un replicante (come il personaggio di Rachel nel precedente film), bensì si tratta di un’ologramma, la graziosa Joi (Ana De Armas).

Ciò però che potrebbe stonare con la natura umana è il rapporto amoroso che si instaura tra K e Joi. Quest’ultima, sebbene sia mossa da una Intelligenza artificiale, prova un sentimento d’amore molto profondo per K, tale da porre dubbi su chi possa dimostrare una tale fedeltà: un prodotto commercializzato su scala globale potrebbe esprimere più amore di un essere umano?

L’agente K in auto e Joi sul riflesso del vetro. Distribuzione: Warner Bros. Produzione: Alcon Entertainment, Columbia Pictures, Bud Yorkin Productions

Chi è il protagonista?

Roy Batty ci ha insegnato che i replicanti non sono meschini o egoisti come gli esseri umani, allor più sono violenti contro i loro aggressori. Ecco perché nelle prime immagini di BR 2049 scopriamo che la Tyrell Corporation è fallita a causa delle continue rivolte dei suoi stessi replicanti. Però in questi 30 anni una nuova azienda è emersa con una nuova serie di replicanti questa volta privati delle emozioni umane.

Il regista decide quindi di giocare con le nostre emozioni nei confronti di K. Anche qui il tema dei ricordi viene ripreso e viene messo in discussione. Ci fa credere che l’eroe da empatizzare sia quello che crediamo, un replicante speciale tra gli altri, ma i ricordi della mente sono sempre assoggettati da alterazioni ed è qui che tutto viene sempre messo in discussione. K è un replicante che vorrebbe dare un senso alla sua vita, essere qualcosa di più di un “lavoro in pelle”, vorrebbe qualcosa per cui lottare, cerca un senso alla sua creazione.

Scena apocalittica tratta dal film Blade Runner 2049. Distribuzione: Warner Bros. Produzione: Alcon Entertainment, Columbia Pictures, Bud Yorkin Productions

Blade Runner 2049: un cult a parte

Sono davvero molti i concetti intrapresi in questo piccolo capolavoro di Villevenue: viene trattato l’ambientalismo, la nostalgia, l’apocalisse, le conseguenze della guerra, la deificazione e l’esistenzialismo. Tutti riguardano temi con cui ci stiamo scontrando gradualmente in questo decennio.

La cinepresa ci vuole mostra luoghi ormai perduti, la natura è sparita e non vi è alcuna traccia di verde in nessun angolo delle ambientazioni proposte. Ci propone un mondo dove ci circonderemo di tecnologia e questo cancellerà ogni tipo di colore, sarà un futuro opprimente.

Denis Villevenue vuole mostrare cosa potremmo cambiare in noi stessi per cambiare il futuro, o almeno, migliorarlo. Sappiamo che non sempre certi messaggi vengono colti nell’immediato e perciò siamo coscienti che forse quando sarà troppo tardi questi significati verranno maggiormente compresi, forse tra qualche anno o ancor peggio tra qualche decennio.

 

Salvatore Donato

Il Buco, la metafora dell’ingordigia e del consumismo

“La panna cotta è il messaggio”

Una delle citazioni che meglio comunicano il senso narrativo de Il Buco, uno tra gli ultimissimi contenuti originali prodotti e promossi dal colosso Netflix.

Film horror di matrice spagnola (esordio alla regia di Galder Gaztelu-Urritia) che ha stuzzicato la sensibilità anche dei meno appassionati del genere.

Questa pellicola noir, pregna di sfumature drammatiche e connotata da una forte denuncia sociale, trova tempo e spazio (con originalità) nella narrazione per parlare di cibo.

Il cibo diventa simbolo dell’opulenza e delle contraddizioni della contemporaneità, della lotta per la dignità e per la sopravvivenza.

Il Buco si dispiega nella logica di un futuro distopico, nel quale gli esseri umani vengono rinchiusi in una prigione speciale.

Strutturata come una torre altissima e costruita sotto terra, la fossa – com’è chiamata dai detenuti – accoglie un numero indefinito di prigionieri.

Fonte: Skycinema.it

Ogni piano ha una cella in cui vivono due detenuti, nella parte centrale c’è un buco all’interno del quale ogni giorno una sola volta rotea una piattaforma imbandita da delizie culinarie preparate da chef di alta cucina.
Dal primo piano della torre la piattaforma rotante, un piano alla volta, e si ferma solo 120 secondi.
La piattaforma rotante diviene espediente narrativo che svela un meccanismo semplice: i detenuti dei piani alti hanno la possibilità di sfamarsi, chi si trova ai livelli inferiori finirà invece con l’avere da mangiare solamente gli scarti.

Il nuovo film spagnolo esplica ancora di più la sua potenza emotiva in questi momenti fatti di incertezza e paura.

Il cibo viene rappresentato come dicotomia tra paradiso e inferno: una bidimensionalità che separa l’impeccabile cucina, ed i detenuti sudici che si avventano come avvoltoi sul cibo strappandolo, divorandolo con ferocia animalesca.

Fonte: Cinematography.it

Tutte le pietanze succulente sulla piattaforma corrispondono alle scelte fatte dai detenuti nel momento di compilazione del questionario sottopostogli prima di accedere alla prigione.

Questo horror, mediante la sua simbologia originale rimanda molto alla nostra collettività e alla divisione in classi sociali.

Valori fondanti quali unione, solidarietà, compassione e carità risultano sempre più arenati verso l’individualismo più sfrenato.

Ne Il Buco il binomio grottesco cibo/sopravvivenza viene estremizzato.

Fonte: Movieplayer.it

Goreng, il protagonista, è costretto a cibarsi del suo compagno di cella per sopravvivere; il cibo come metafora del “mangiare noi stessi”, dell’impoverimento dei valori della moderna società verticale.

Persino il suicidio, nello specifico di una donna morta affinché venisse compiuta la rivoluzione, si intreccia con inedita originalità al concetto di cibo come sacrificio, ribellione e condivisione di valori.

Il Buco rivela, esasperandole, le dinamiche della società neocapitalista nella quale l’equità è un’utopia che si configura nel fururo distopico in cui domina la pochezza umana. Temi centrali sono  appunto l’incoscienza umana, l’egoismo e l’indifferenza nei confronti del più debole.

Questa pellicola può essere vista con leggerezza ed al contempo riflessione, entrambe sotto la propulsione registica incalzante e ritmata.

Uno di quei film – come si suol dire – fatto con due lire ma che sprigiona tutta la sua forza nel senso metaforico del suo racconto.
Preciso e che sa esattamente come colpire lo spettatore creando degli inaspettati colpi di scena, ma anche attraverso crescendo di tensione che parte dal primo minuto e arriva ad esplodere nel finale della pellicola.

Il Buco è mosso da una  critica feroce ed esplicita agli sprechi scellerati del consumismo, protagonista assoluto del nostro quotidiano.

Un’ invettiva sulla disuguaglianza e l’egoismo umano, un ammonimento artistico travestito da thriller sci-fi del quale, probabilmente, avevamo bisogno.

Antonio Mulone