Vaccini e trasmissibilità dell’infezione: cosa ci dicono i numeri?

Fin dai primi giorni della somministrazione del vaccino ad oggi una domanda aleggia tra la popolazione: sarà in grado di combattere la trasmissione del virusCiò che preme alla gente comune è sicuramente quello di tornare alla normalità, ma ciò non è possibile senza una riduzione dei contagi.
I detrattori interpretano l’incertezza della comunità scientifica come l’inconfutabile prova della poca efficacia del vaccino, ma le cose non stanno proprio così. Continua a leggere “Vaccini e trasmissibilità dell’infezione: cosa ci dicono i numeri?”

COVID e adolescenti: la pandemia oltre il virus

L’Italia non è un Paese per giovani, e la pandemia in corso ne da ulteriore conferma.
Scarsa considerazione è stata data a chi rappresenta il futuro, generando una pandemia silenziosa tra i giovanissimi. Affrontiamo insieme la questione! Continua a leggere “COVID e adolescenti: la pandemia oltre il virus”

Varianti del nuovo coronavirus: quanto dobbiamo preoccuparci?

  1. Le varianti
    1. La variante inglese
    2. La variante brasiliana
    3. La variante sudafricana
  2. Perché è importante tenerle sotto controllo?
  3. E i vaccini?
  4. Quanto dobbiamo preoccuparci?

I virus mutano.
Questa è una realtà con cui la comunità scientifica è stata costretta a confrontarsi sin dagli albori della loro scoperta.
Ma mai come adesso quelle piccole variazioni nella sequenza genetica fanno tremare le ginocchia.
Quando il vaccino è stato annunciato, il mondo è entrato in una nuova fase, fatta di speranze e desiderio di scrollarsi di dosso questa interminabile pandemia.
L’ombra delle varianti di SARS-CoV-2 però si è presto abbattuta sulle campagne vaccinali, smorzando l’allegria generale e seminando incertezza.
Molti si sono chiesti, a giusta ragione: quanto dobbiamo preoccuparci?

Le varianti

Ad oggi le varianti saltate agli onori della cronaca sono tre. Cercheremo di riassumerne brevemente le caratteristiche:

  • La variante inglese, B.1.1.7, con un numero inusuale di mutazioni, in particolare nel dominio che lega il recettore (RBD) della proteina spike in posizione 501.
    Si diffonde molto più velocemente delle altre, ma non c’è alcuna evidenza (supportata da uno studio) della sua maggior letalità. Questa variante è stata scoperta a settembre 2020 ed ha già infettato un cospicuo numero di individui.
  • La variante brasiliana chiamata P.1, scoperta in due viaggiatori all’aeroporto di Haneda in Giappone. Ha un set di mutazioni che potrebbero inficiare il suo riconoscimento da parte degli anticorpi.
  • La variante sudafricana chiamata B 1.351, scoperta intorno a ottobre, ha alcune mutazioni in comune con quella inglese pur essendo insorta indipendentemente.

Queste varianti di coronavirus si diffondono molto più velocemente rispetto alle altre e si teme possano provocare una impennata dei casi, così come successo in Gran Bretagna nelle prime settimane di gennaio.
Ripetiamo, non è tuttavia chiaro se queste varianti siano correlate a una maggiore mortalità o morbilità.

Perché è importante tenerle sotto controllo?

Le conseguenze dell’insorgenza di nuove varianti sono ben intuibili, prima tra tutte una maggior rapidità di penetrazione all’interno della popolazione generale.
Maggior penetranza significa nuovi casi e più si allarga il bacino di pazienti, più probabilità ci sono che aumenti la pressione sugli ospedali.
Un’altra, giusta, preoccupazione degli scienziati è che il virus mutato riesca ad evadere la risposta anticorpale dell’organismo, montata in seguito al vaccino o ad una precedente infezione.
La prudenza non è mai troppa, vista la natura a volte aggressiva della malattia.

E i vaccini?

Chiaramente non ci sono ancora trial clinici che possano verificare l’efficacia al 100% degli attuali vaccini sulle nuove varianti.
Le case farmaceutiche stanno cercando di capire se queste mutazioni, a volte minime, a volte più corpose, come nel caso della variante inglese, possano inficiare l’immunizzazione di massa.
Moderna in particolare è fiduciosa sull’efficacia del proprio vaccino sia nei confronti di B.1.1.7 che di B 1.351, mentre Pfizer ha per ora rilasciato dati solo riguardo B.1.1.7.

Quanto dobbiamo preoccuparci?

Tendere l’orecchio alle notizie che arrivano dalla comunità internazionale non è mai sbagliato, ma farsi prendere dal panico è controproducente.
Come già affermato, le mutazioni attuali del SARS-CoV-2 sono troppo esigue per mettere davvero a repentaglio la funzionalità di questi nuovi vaccini.
Nel caso peggiore, avendo già alle spalle un anno di studi e conoscendo l’intera sequenza genetica sia del ceppo originario che delle varianti, non dovrebbe essere un problema sintetizzare, se necessario, dei nuovi vaccini.
Tutto questo avviene già per il virus dell’influenza stagionale, che ogni anno protegge contro i ceppi più frequenti e virulenti, sempre diversi tra loro.
Importante sarà certamente la ripresa, il prima possibile, della campagna di vaccinazione di massa, una volta risolti i problemi con le case farmaceutiche, ma lasciamo questa discussione ad altre sedi.

 

Maria Elisa Nasso

Reazioni avverse al vaccino per il covid, qual è la verità?

Che dall’inizio del 2020 ci sia stata una vera e propria corsa alla scoperta del vaccino per il SARS-cov-2, è sotto gli occhi di tutti.
Fin dai primi mesi dell’epidemia, la nostra rubrica si è occupata di informare i lettori sugli sviluppi relativi alla ricerca.
Ci sembra giusto, a ridosso dell’imminente arrivo delle dosi anche negli ambulatori italiani, fare chiarezza nel mare di informazioni fuorvianti che, purtroppo, a volte arrivano anche da persone “di scienza”. 

Partiamo dal principio: com’è composto il materiale genetico del SARS-cov-2?

Il nuovo coronavirus è un beta-coronavirus. Una volta infettata la cellula ospite, la utilizza per sintetizzare le proprie proteine.
Le proteine, a loro volta, replicano il genoma virale, in questo caso l’RNA a singolo filamento, e si assemblano in nuove particelle di virus. Praticamente il virus sfrutta la cellula ospite come una catena di montaggio per creare nuove copie di se stesso.
Nonostante ci siano ancora molti sostenitori di questa teoria, SARS-cov-2 non si integra nel genoma cellulare e non lo modifica, poiché non possiede una proteina fondamentale chiamata trascrittasi inversa.
La trascrittasi inversa trasforma l’RNA in DNA, ma è propria soltanto di alcuni retrovirus e batteri, che nulla hanno a che vedere con il nuovo coronavirus.
Questa proteina inoltre, è assente anche nelle cellule umane.

Quanti vaccini ci sono e come sono stati realizzati 

Al momento sono tre i vaccini candidati a condurre l’occidente fuori da questo periodo buio: quello della Pfizer, quello della Moderna e quello della Astrazeneca.
Tutti quanti hanno raggiunto la fase tre della sperimentazione (su un bacino di almeno 40000 volontari a testa) e sono dunque pronti, dopo le dovute autorizzazioni, ad essere immessi sul mercato. I vaccini Pfizer e Moderna utilizzano la tecnica ad mRNA, mentre Astrazeneca è il classico vaccino a vettore, ma l’antigene comune a tutti è sempre la proteina Spike del SARS-CoV-2.
Sui primi due sono nate molte perplessità, alcune fondate, altre assolutamente fuori da qualunque logica. Cercheremo quindi di spiegare in parole semplici come funzionano.

Cos’è la tecnologia a RNA messaggero?

L’mRNA contiene le istruzioni per la sintesi di nuove proteine.
Di solito trasporta le informazioni genetiche del DNA fino al citoplasma, dove queste sono usate per assemblare le proteine.
Un processo fondamentale, a cui l’organismo è abituato.
Una volta somministrato il vaccino, le cellule ricevono l’mRNA incapsulato in particelle lipidiche e questo viene utilizzato per replicare la suddetta proteina Spike.
Da sola essa è innocua, poiché manca tutto il resto del virus, ma è abbastanza per stimolare la risposta del sistema immunitario.
Successivamente, quando il soggetto incontrerà il SARS-cov-2, avrà già gli anticorpi per combatterlo prima che causi la malattia.
Questo processo di realizzazione è più veloce, più semplice e meno costoso di quello tradizionale, e potrà aprire la strada all’utilizzo degli mRNA anche nella cura di altre malattie.

Reazioni avverse ai vaccini: attenzione agli allarmismi

Tra i tanti dubbi che la pandemia ci ha lasciato, una cosa è certa: ha inasprito ancora di più le divergenze e i dissapori all’interno della comunità scientifica.
Alcuni hanno visto la malattia da coronavirus come un modo per guadagnare popolarità attraverso dichiarazioni discutibili.
Come sempre, invitiamo i nostri lettori a fare dei controlli incrociati sulle notizie, anche se sembrano arrivare da fonti illustri.
Ogni farmaco, ogni sostanza che viene somministrata non è esente da rischi, ma bisogna saper discernere tra ciò che è verosimile e ciò che non lo è.

Infertilità femminile

Ad oggi non esiste alcuna evidenza di una correlazione tra l’infertilità femminile e il vaccino per il SARS-cov-2 . L’idea si era diffusa a partire da un articolo, oggi disponibile solo in archivio, che ipotizzava la presenza di analogie tra la proteina Spike (usata come antigene nei tre vaccini) e la sincitina umana.
La sincitina è una proteina implicata nello sviluppo della placenta.
La preoccupazione era che ci potesse essere una risposta anomala del sistema immunitario contro di essa, scatenata dal vaccino.
Il punto, però, è che queste proteine non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra a livello biochimico.
Inoltre, se ci fosse un vero legame tra infertilità e cross reazione di Spike e
sincitina, questo dovrebbe avvenire anche con la malattia da coronavirus, ma così non è.

Risposta immunitaria eccessiva e modificazioni genetiche

Una reazione da amplificazione della risposta immunitaria era già stata ipotizzata, vista la natura stessa della patologia da coronavirus. I test clinici però non hanno mostrato questo effetto.
Sempre lo stesso articolo parlava di una sostanza presente nel vaccino, il polietilen-glicole, capace di scatenare una reazione autoimmune.
Il Peg, però, è presente in moltissimi farmaci e vaccini clinicamente approvati e, in egual modo a ogni sostanza esistente, può provocare reazioni allergiche in soggetti predisposti.
Se ci fossero reazioni allergiche frequenti a questo componente, sarebbero venute alla luce molto prima del suo utilizzo nel vaccino del SARS-cov-2. 

Tiriamo le somme

Perché alcune persone subiscono degli effetti collaterali?
Alcuni, come la febbre, sono dovuti alla stimolazione del sistema immunitario.
Per quanto riguarda quelli più gravi, possono essere causati da variazioni genetiche, o da una particolare predisposizione dell’individuo.
Altri ancora hanno un meccanismo non ben chiarito.
Sappiamo anche di non poter prevedere la presenza di effetti a lungo termine, ma questo è un rischio intrinseco a ogni vaccino, a ogni farmaco, se vogliamo.

Ci sentiamo però di dire, per rassicurare i lettori, che le segnalazioni di reazioni gravi durante i trial clinici sono state ben poche.
Inoltre, queste reazioni avvengono solitamente in tempi molto brevi a partire dalla somministrazione.
Sembra dunque improbabile che si verifichino problematiche future correlate al vaccino.
Non vi è alcuna volontà delle case farmaceutiche a mettere in commercio un prodotto nocivo, che potrebbe scatenare su scala mondiale una enorme richiesta di risarcimenti.
In ultimo, dalla scoperta dei vaccini in poi, la medicina ha compiuto dei balzi in avanti inimmaginabili in termini di sicurezza ed efficacia.
Ribadiamo, come sempre, l’invito ad informarsi solo da fonti attendibili e a mantener salda, o recuperare, la fiducia nella scienza.

Maria Elisa Nasso

Endometriosi: nuove speranze dal mondo della ricerca

L’endometriosi è una patologia insidiosa, a eziopatogenesi non ben definita, e spesso sottodiagnosticata.
Ne soffrono in Italia almeno tre milioni di donne, alcune delle quali con una sintomatologia così grave da essere invalidante.
Tuttavia la maggioranza della popolazione è all’oscuro della sua esistenza.

Ma di cosa si tratta esattamente?

La malattia

L’endometriosi è la presenza anomala (o detta in gergo medico ectopia) di tessuto endometriale in altre sedi che non siano l’utero.
Gli organi più colpiti sono: ovaie, tube, peritoneo, vagina, intestino.

Come nell’endometrio normale, anche in quello ectopico avvengono delle modifiche causate dagli ormoni durante il ciclo mestruale, con sanguinamenti e fenomeni di irritazione e cicatrizzazione.
Questo causa dolore pelvico, spesso durante i rapporti sessuali, rigonfiamento addominale, infertilità, astenia, nonché un grave distress psicologico.
Il distress è dovuto anche a uno stigma che ancora permane nei confronti delle pazienti, ritenute da alcuni medici esagerate nel riportare il dolore, e al ritardo nella diagnosi e nella somministrazione delle cure.

Prospettive di trattamento

Solitamente il dolore cronico da endometriosi viene trattato con farmaci anti-infiammatori (preferibilmente FANS) al bisogno, o si intraprende una terapia ormonale sostitutiva.
Quest’ultima sembra avere un beneficio sia in termini di diminuzione del dolore che di aumento della fertilità nelle donne che ricercano una gravidanza.

Si può ricorrere, nei casi più gravi e refrattari, alla terapia medica e al trattamento chirurgico con rimozione delle lesioni qualora esse vengano individuate.
In situazioni estreme, anche la menopausa chirurgica può essere un’alternativa per attenuare i sintomi, nonostante non sia quasi mai presa in considerazione nelle donne fertili, anche su richiesta della paziente stessa.

Novità dal mondo della ricerca

Un recente studio, pubblicato sulla rivista scientifica Cell Reports, apre a nuovi orizzonti sul fronte della terapia per l’endometriosi, in particolare per la variante causata da una mutazione del gene ARID1A, caratterizzata da una elevata gravità e da un impatto molto negativo sulla fertilità. Come ribadito, le cause dell’endometriosi sono avvolte da mistero e la scoperta del ruolo di questo gene è stato un ulteriore passo avanti per la loro comprensione.

Cosa comporta la mutazione di ARID1A?

Essenzialmente, una mutazione di questo gene porta all’attivazione di alcuni enhancers, proteine che vanno a stimolare delle porzioni del genoma cellulare, che correlano con una disregolazione della normale funzione endometriale.
Questa disregolazione a sua volta può portare all’impianto in sede anomala del tessuto uterino, a causa dell’acquisizione da parte delle cellule di un fenotipo invasivo. Inoltre, è stata rilevata una associazione tra ARID1A e p300, una proteina che regola la trascrizione genica, la maturazione e la crescita cellulare.

Ipotesi terapeutica e speranze per il futuro

Appare dunque evidente come, se si trovasse un farmaco capace di agire su questi enhancers, si riuscirebbe a mitigare, se non del tutto curare, l’endometriosi ARID1A correlata.
Qui viene in aiuto la target therapy, cioè una terapia creata ad hoc per agire su un determinato bersaglio molecolare.
In questo particolare studio il target era P300, che una volta silenziato andava a bilanciare gli effetti della mutazione di ARID1A e della patologia.
Questo è solo il trampolino di lancio per ulteriori scoperte in campo farmacologico. Si auspica che le pazienti che soffrono di endometriosi possano ottenere al più presto il riconoscimento e le cure che meritano.

Maria Elisa Nasso

Covid-19: gli asintomatici non sono sani

Asintomatici sani? “Pericolosa bugia”. Esordisce così Roberto Burioni sul blog scientifico Medical Facts. Ma cosa spinge l’esperto, come molti altri del settore, a sbilanciarsi in maniera così netta su un argomento considerato dai più poco chiaro? Partendo dalla definizione, sappiamo che in medicina si considera asintomatico un paziente portatore di una malattia o di un’ infezione che non presenta sintomi solitamente associati a tali condizioni. Da qui la risposta alla prima e più comune domanda: “l’asintomatico è considerato malato”? Sì, lo è. 

Molti studi hanno già dimostrato che gli infetti asintomatici, in assenza di tosse e febbre, sono in grado di diffondere il virus. Ma c’è dell’altro su cui bisogna fare chiarezza. Dai dati più recenti emerge non solo che in questi pazienti sembri non esserci un quadro polmonare di assoluta normalità ma che, dato ancora più sorprendente, molti di essi abbiano addirittura una carica virale più alta rispetto ai sintomatici.

HRCT ed ecografia: due metodiche a confronto

HRCT

Uno tra i primi approcci per identificare una polmonite, oltre l’esame clinico, è sicuramente quello dato dalla diagnostica per immagini. Metodica più comune e sicuramente più diffusa tra le tecniche di imaging polmonare è l’ HRCT polmonare, utilizzata sfruttando l’elevato contenuto aereo del polmone normale.

Una polmonite interstiziale causa una riduzione degli scambi gassosi, portando alla riduzione del contenuto aereo e di conseguenza alla attenuazione della fisiologica radiotrasparenza polmonare. Ciò porta ad un aumento dell’opacità polmonare, motivo per cui il quadro radiologico più comunemente osservato nei pazienti Covid è quello dell’opacità a vetro smerigliato (GGO).
Il prezioso apporto dato dall’HRCT ha spianato la strada verso un singolare studio condotto dal Care Centre in Kashmire  (India) che è partito arruolando una popolazione di 137 pazienti asintomatici e sottoponendoli ad un primo esame CT, tramite il quale si poteva avere contezza del quadro polmonare dei singoli malati, quindi ad una o più CT di follow-up per monitorare l’andamento della patologia.

Immagine CT di un paziente asintomatico, la figura “a” mostra la presenza di una vistosa consolidazione nel polmone destro al momento del ricovero. La figura “b” mostra invece l’attenuazione del quadro sei giorni dopo la prima acquisizione.

Nella popolazione di 137 pazienti circa la metà aveva lesioni polmonari alla prima CT. I pazienti con lesioni sono stati ulteriormente divisi in quattro gruppi in base al quadro che mostravano nei successivi follow-up: completa risoluzione, parziale risoluzione, quadro stabile, quadro in peggioramento, che coincideva poi con lo sviluppo di sintomatologia conclamata.

Nonostante una prevalenza nel 79% dei casi di opacità a vetro smerigliato, è stato possibile osservare una discreta eterogeneità. Circa il 15% dei pazienti presentava una situazione ancora più complessa con il pattern crazy paving, caratterizzato dalla presenza di aree di GGO sovrapposte ad ispessimento liscio dell’interstizio interlobulare ed intralobulare; il 3% presentava consolidazioni irregolari; solo il 2% minime consolidazioni regolari.

Evoluzione del quadro polmonare in paziente asintomatico di 29 anni. La figura “a” mostra la presenza di opacità a vetro smerigliato a livello subpleurico nel polmone sinistro, la figura “b” mostra la CT di follow-up rilevata solo cinque giorni dopo, nella quale è presente un evidente peggioramento del quadro con evoluzione in franco consolidamento.

Ecografia

Questo è tutto? Niente affatto! Se da un lato è vero che la CT rappresenta il gold standard nella diagnostica polmonare, informazioni preziose provengono anche da un’altra metodica di imaging, ovvero l’ecografia polmonare.
Che l’ecografia polmonare fosse un’arma vincente per il monitoraggio del paziente Covid lo si era già intuito nel lontano marzo, quando uno studio cinese aveva riscontrato la validità scientifica dell’ultrasonografia per la diagnosi e il monitoraggio del Covid-19.

Ma quali sono i motivi che spingono all’utilizzo dell’ecografia? Prima di tutto, quello di essere una metodica prontamente disponibile ed eseguibile al letto del malato o a domicilio, una metodica non invasiva, quindi un crocevia diagnostico fondamentale, tramite il quale in numerosi pazienti asintomatici non sottoposti a CT sono state evidenziate lesioni parenchimali. Ma, soprattutto, risulta essere una metodica con estrema sensibilità nell’individuazione delle lesioni polmonari. Infatti, sappiamo che il polmone sano non viene identificato ecograficamente perché l’aria contenuta ne ostacola la visione. E’ perciò necessaria una qualsivoglia affezione polmonare che modifichi il contenuto aereo per mettere in risalto eventuali alterazioni parenchimali o pleuriche.

Ecografia polmonare normale

Proprio per questa singolare caratteristica, in ambito di ecografia polmonare si parlerà di semeiotica artefattuale, che individua cioè artefatti tra cui il più comunemente visibile è quello dato dalla pleura. Quest’ultima, una volta investita dal fascio di ultrasuoni, da vita alle fisiologiche linee A, nell’imaging linee orizzontali equidistanti tra loro di ecogenicità inferiore rispetto a quella della pleura, che sono indice di un polmone normalmente aerato.

Quando il polmone comincia a perdere la sua fisiologica quantità di aria a discapito, ad esempio, di un’aumentata quantità di liquido, ciò è indice di un coinvolgimento interstiziale, che va dalla più comune polmonite virale fino ad arrivare a quella da Covid-19.
La semeiotica artefattuale comincerà così a modificarsi e inizierà ad esserci una patologica accentuazione delle linee B, ovvero linee verticali che si dipartono sempre dalla linea pleurica e riducono vistosamente l’ecogenicità del parenchima polmonare, classico indice di polmonite interstiziale in fase iniziale.

Da qui l’altissima specificità nell’individuare in fase asintomatica un paziente, ma anche altre emergenze internistiche importanti quali l’edema polmonare acuto cardiogeno fino ad arrivare al quadro di white lung (polmone bianco) tipico di una grave polmonite da Covid che evolve in ARDS.

Ecografia polmonare di un paziente Covid asintomatico. Nelle tre figure si vedono linee B che cancellano progressivamente le linee A. Un quadro del genere va costantemente monitorato in ecografia per la possibilità di evoluzione in white lung.

Appare evidente, quindi, come l’approccio di imaging tramite diverse metodiche, che hanno comunque numerosi aspetti sovrapponibili, ci permetta non solo di fare diagnosi e monitorare il paziente, ma anche di individuare lesioni nell’asintomatico impercettibili con il solo esame obiettivo, ma soprattutto insospettabili dato l’apparente stato di benessere.

Fonte: Giornale italiano di cardiologia

La carica virale non deve trarci in inganno

Recentissimo è inoltre uno studio pubblicato sulla rivista Infezione, che mette in luce il ruolo della diffusione asintomatica nella pandemia da SARS-CoV-2. Lo studio si è basato sulla raccolta di 360 campioni rinofaringei, orofaringei, rettali, urinari ed ematici prelevati da 60 pazienti, tra i quali il 25% era asintomatico, mentre il 75% presentava sintomi. I ricercatori hanno sottolineato che la carica virale dei pazienti asintomatici era più alta rispetto ai pazienti sintomatici ed è stata osservata una riduzione della stessa all’aumentare della gravità della malattia. Come se non bastasse, tutti i fattori legati ad una prognosi infausta, tra cui l’età, le opacità a vetro smerigliato e la bassa conta dei linfociti sono tutte correlate ad una bassa carica virale.

In conclusione, abbiamo visto che l’imminente arrivo del vaccino non può permettere un totale abbassamento della guardia. Con molte persone che non presentano i sintomi dell’infezione, per evitare di essere infettati dal virus è fondamentale come non mai l’utilizzo dei DPI, il distanziamento, l’igiene delle mani e mantenere sempre alta l’attenzione.

                                                                                                                                                                           Saro Pistorìo

Per approfondire:

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32166346/

https://www.birpublications.org/doi/10.1259/bjro.20200033

 

Un anticorpo monoclonale per la lotta al coronavirus

Recentemente la corsa al vaccino anti-SARS-CoV2 sembra aver ricevuto un’accelerata decisiva: in studi di fase tre, i due sieri delle case farmaceutiche americane Pfizer e Moderna sono risultati efficaci in più 90% dei casi. Ma, oltre al vaccino, ci sono altre vie che ci potranno aiutare ad uscire una volta per tutte da questa pandemia globale? La risposta è sì: il 28 ottobre è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine uno studio sull’utilizzo dell’anticorpo monoclonale LY-CoV555 (sempre di una casa farmaceutica americana, Ely Lilly). Questo riuscirebbe a ridurre l’ospedalizzazione dei malati Covid dal 70 al 90%.

Sede centrale di Eli Lilly ad Indianapolis (USA)

Prima di tutto: cos’è un anticorpo monoclonale?

Gli anticorpi o immunoglobuline sono glicoproteine prodotte normalmente dei nostri linfociti B, attivati a plasmacellule, in risposta all’incontro con antigeni patogeni. Gli anticorpi monoclonali hanno lo stesso obiettivo, ma li produciamo in laboratorio attraverso metodiche di ingegneria genetica.

Si tratta di una tecnologia nuova? No, tutt’altro. Dobbiamo la loro scoperta a Georges Koheler e Cesar Milner, che nel 1984 vinsero il Nobel per la medicina. La prima tecnica utilizzata per produrli è stata quella dell’ibridoma, che sfrutta cellule di origine murina e conta una serie di passaggi:

  1. Immunizzazione del topo attraverso l’iniezione dell’antigene verso cui vogliamo produrre gli anticorpi.
  2. Prelievo delle plasmacellule murine dalla milza.
  3. Fusione di queste cellule con cellule neoplastiche in coltura: si ottiene una cellula detta ibridoma, che produce una quantità elevata del nostro anticorpo.
  4. Quindi moltiplicazione dell’ibridoma in coltura.

Oggi esistono anticorpi monoclonali totalmente umani, così da superare completamente il rischio di immunogenicità.

Tipologie di anticorpi monoclonali in base alla composizione prevalentemente murina o umana

 

Alcuni esempi

Prima di parlare dello studio che ha dimostrato l’efficacia di LY-coV555 nei pazienti affetti da Covid-19, vediamo alcuni degli anticorpi monoclonali oggi utilizzati.

  • Omalizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro le IgE, ovvero le immunoglobuline coinvolte nelle reazioni allergiche. È indicato nel trattamento dell’asma allergico grave e dell’orticaria, quando le altre terapie non si sono dimostrate valide per il controllo della malattia.
  • Trastuzumab, anch’esso un anticorpo umanizzato, è rivolto contro il dominio extracellulare del recettore HER-2, utilizzato nei carcinomi mammari che lo iper-esprimono. Il settore oncologico è probabilmente quello in cui gli anticorpi monoclonali stanno portando le migliori innovazioni.
  • Infliximab è invece un anticorpo chimerico, il suo bersaglio è il fattore di necrosi tumorale e la FDA (Food and Drug Administration) lo ha approvato per alcune malattie autoimmuni, come il morbo di Crohn, la colite ulcerosa, la spondilite anchilosante, la psoriasi e l’artrite psoriasica.

Altro esempio è il Tocilizumab: questo agisce da immunosoppressore bloccando l’azione di una delle citochine chiave della risposta infiammatoria, ovvero l’interleuchina 6 (IL-6). È il gold standard nell’artrite reumatoide e, nel mese di aprile ad inizio della pandemia, era stato utilizzato con discreti risultati anche per il trattamento di alcuni pazienti affetti da Covid-19.

Il trial sull’anticorpo monoclonale LY-CoV555

LY-CoV555 ha un meccanismo d’azione molto semplice da spiegare, si tratta di un potente anticorpo anti-spike. Lega ad alta affinità il dominio della spike di SARS-CoV-2 che gli permette di penetrare nelle nostre cellule e lo neutralizza.

https://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-8285333/Antibody-prevents-COVID-19-virus-infecting-human-cells.html

Il trial della Ely Lilly ha coinvolto 452 pazienti provenienti da 41 centri degli Stati Uniti, tutti testati positivi al nuovo coronavirus e presentanti sintomi lievi o moderati. La popolazione in studio è stata suddivisa in due bracci: uno riceveva un’infusione endovenosa di LY-CoV555, mentre l’altro un placebo. Nel primo braccio possono essere distinti anche tre sottogruppi in base alla dose di farmaco ricevuta, rispettivamente 700 mg, 2800 mg e 7000 mg.

L’outcome primario dello studio era quello di calcolare la variazione della clearance virale all’undicesimo giorno rispetto al giorno dell’infusione. Entrambi i gruppi hanno mostrato un miglioramento, con una diminuzione media di -3,81 nell’intera popolazione dal valore basale. Coloro che avevano ricevuto il farmaco hanno mostrato un maggior decremento del gruppo “placebo”. In questo il sottogruppo ottimale è risultato essere quello con il dosaggio intermedio di LY-CoV555, ovvero 2800 mg.

Quali effetti su ricovero e sintomi? E quali effetti indesiderati?

Per quanto riguarda l’ospedalizzazione, al 29esimo giorno soltanto l’1,6% dei pazienti trattati era ancora in ospedale e di questi la maggioranza aveva un’età superiore a 65 anni ed un BMI superiore a 35, considerati comunque fattori di rischio aggiuntivi. Nel gruppo placebo il tasso di ospedalizzazione alla stessa data era invece del 6,3%.

Ulteriore risultato positivo riguarda i sintomi. Questi sono stati valutati clinicamente mediante uno score: ognuno stimato da 0 (nessun sintomo) a 3 (sintomi severi). Il punteggio totale raggiungibile era di 24 ed i principali sintomi considerati erano: tosse, perdita del respiro, febbre, fatica, mal di gola, mal di testa e perdita dell’appetito. LY-CoV555, a qualsiasi dosaggio, ha dimostrato di ridurre la durata del periodo sintomatico, come evidente nel grafico seguente.

Nel trial non si sono verificati effetti avversi gravi nei pazienti del gruppo “farmaco”, mentre per quanto riguarda gli effetti avversi non considerati gravi questi si sono manifestati nel 22,3%. Il più frequente riportato era la nausea (3,9%), seguita da diarrea (3,2%) e vertigini (3,2%).

Lo studio non ha coinvolto gravi ammalati e solo uno degli arruolati, appartenete al gruppo “placebo”, è finito in terapia intensiva. Altro punto a svantaggio di questa terapia è il costo degli anticorpi monoclonali e, come detto dalla virologa Ilaria Capua in una recente intervista, “è illusorio pensare che questa cura possa arrivare a tutte le persone in pochi mesi”Nel frattempo rispettiamo le regole, utilizzando le mascherine e mantenendo il distanziamento sociale.

Antonio Mandolfo

 

 

Bibliografia

https://www.infomedics.it/servizi/biotecnologie/la-storia.html

https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2029849

http://www.informazionisuifarmaci.it/omalizumab

La Scienza di Star Trek tra Teletrasporto e Viaggio Interstellare

Le avventure di Star Trek sono davvero uno spettacolo di scienza o soltanto un mix di fantascienza senza senso? Sarà possibile arrivare a realizzare le fantastiche innovazioni che abbiamo ammirato sia nella serie originale che nei programmi successivi, o si tratta di fantasie hi-tech ideate per trascendere la realtà

In Star Trek la scienza fa spesso da fondamento alla trama: la tecnologia è essenziale per i membri dell’equipaggio della “USS Enterprise”, affinché riescano a svolgere il loro compito. “Star Trek è scritto in modo abbastanza intelligente ed è più fedele alla scienza di qualsiasi altra serie di fantascienza mai mostrata in televisione“, ha dichiarato il fisico David A. Batchelor.

Un delicato equilibrio tra l’accuratezza scientifica e il rischio di commettere imprecisioni è costante nello spettacolo, aspetto caratterizzante di tutti gli episodi. Ecco spiegate alcune delle tecnologie standard di Star Trek, più o meno in ordine crescente di “incredibilità scientifica”.

Dispositivi di occultamento (Invisibilità)

Ad oggi esistono dispositivi di occultamento rozzi, che consistono in ingombranti strati di meta-materiali i quali possono nascondere solo piccoli oggetti dalla visibilità, in una gamma limitata di colori. Nuove varietà di meta-materiali produrranno senza dubbio effetti migliori, ma allo stato attuale non sembrano in grado di fornire una completa invisibilità.

Una foto di come appaino i meta-materiali Fonte:coscienza-universale.com

Trasportatore (Teletrasporto)

Non abbiamo ancora la minima idea di come costruire un trasportatore simile a quello che osserviamo in azione durante gli episodi di Star Trek. Questo dispositivo sfrutta un raggio che viene irradiato da un punto A a un punto B, dove si ferma precisamente e ricostruisce il soggetto trasportato. Tutti gli atomi e le molecole rimaterializzati appaiono così nella posizione corretta e adesi tra loro, come se non fosse avvenuta alcuna smaterializzazione.
Ma, nel rimaterializzarsi, come mai tutto rimane integro quando una folata di vento, così come la costante forza di gravità, dovrebbero disturbare i singoli atomi? Nessuna legge fisica dà oggi un indizio su come ciò potrebbe essere anche solo pensabile. Il massimo che è stato ottenuto finora è teletrasportare un piccolo numero di atomi e fotoni, al fine di sviluppare i computer quantistici.

Propulsione a curvatura

La capacità di manipolare lo spazio è il concetto più importante della velocità di curvatura. Nell’universo di Star Trek, essa è ottenuta tramite l’uso di una trasmissione a curvatura. Questa reazione crea del plasma altamente energetico (elettro-plasma), dotato di un proprio campo magnetico e che reagisce con le bobine di curvatura dell’astronave. Le bobine di curvatura sono tipicamente racchiuse in una navicella di curvatura. Il tutto genera un “campo di curvatura” o “bolla” attorno all’Enterprise, consentendo alla nave e al suo equipaggio di rimanere al sicuro mentre lo spazio si manipola.

Questo modello di viaggio spaziale implica l’allungamento del tessuto dello spazio-tempo in un’onda che fa contrarre lo spazio davanti a un oggetto, mentre quello dietro di esso si espande. E’ un po’ come se tale oggetto tirasse la sua destinazione verso di sé, mentre spinge indietro il suo punto di partenza. L’oggetto dovrebbe quindi essere in grado di “cavalcare” questa regione di spazio piatto.

Schema propulsione a curvatura Fonte: How Staff Works

La Metrica di Alcubierre

Questo modello rientra nella “Metrica di Alcubierre”, la quale, interpretata nel contesto della Relatività Generale, prevede che una bolla di curvatura possa formarsi in una regione precedentemente piatta dello spazio-tempo e allontanarsi a delle velocità che superano quella della luce. L’interno della bolla costituisce il sistema di riferimento inerziale per qualsiasi oggetto che la abita.

Sostanzialmente la nave non si muove all’interno di questa bolla, ma viene trasportata mentre la regione stessa si muove. Gli effetti relativistici convenzionali, come la dilatazione del tempo, non si applicherebbero. Quindi, le regole dello spazio-tempo e le leggi della relatività non sarebbero violate nel senso convenzionale.

Questo metodo non si basa su un movimento più veloce della luce in senso stretto, poiché un raggio di luce all’interno di questa bolla si muoverebbe sempre più velocemente della nave. È invece “più veloce della luce” nel senso che la nave raggiunge la sua destinazione più velocemente di un raggio di luce che viaggia fuori dalla bolla di curvatura.

Metrica di Alcubierre Fonte: Çetin BAL

Ma è davvero possibile costruire un’astronave del genere?

Il fisico Miguel Alcubierre ha suggerito l’uso della cosiddetta “materia esotica“, un tipo teorico di materia con energia negativa. Se potesse essere scoperta o creata, la materia esotica potrebbe respingere lo spazio e il tempo e creare un campo gravitazionale.

Le difficoltà

Per prima cosa, non esistono metodi noti per creare una bolla di curvatura di questo tipo in una regione dello spazio che non ne contenga già una. In secondo luogo, supponendo che ci sia un modo per generare tale bolla, non esiste ancora alcun modo noto per abbandonarla una volta entratici. Di conseguenza, la “Metrica di Alcubierrerimane, almeno fino a questo momento, solo una teoria.

Nel 2012 l’Advanced Propulsion Physics Laboratory della NASA (Eagleworks) ha annunciato di aver iniziato a condurre esperimenti per capire se un “motore a curvatura” fosse effettivamente realizzabile. Durante il progetto è stato sviluppato un interferometro per rilevare le distorsioni spaziali prodotte dall’espansione e dalla contrazione dello spazio-tempo della Metrica. Nel 2013 sono stati pubblicati i risultati del loro test sul campo di curvatura, durato 19,6 secondi in condizioni di vuoto, ma tali risultati sono stati inconcludenti.

Attualmente una tecnologia del genere sembra ancora possibile e i tentativi di provare il contrario sono stati finora infruttuosi. Come possiamo però ambire a diventare una specie interstellare, quando tutte le sperimentazioni necessarie richiederebbero secoli?
Per fortuna, come la storia ci ha insegnato, ciò che è considerato impossibile cambia nel tempo.

Conclusione

Star Trek è una divertente combinazione di scienza reale e scienza immaginaria. La scienza reale rappresenta lo sforzo di omaggiare le più grandi conquiste dell’umanità, mentre la scienza immaginaria è un campo di gioco che espande e stimola la mente.
Si tratta senz’altro dell’unica serie di fantascienza realizzata con un grande rispetto per la vera scienza e per la scrittura intelligente.

 

Live long and prosper 🖖

Gabriele Galletta