Amnesia immunitaria: il morbillo colpisce due volte

Il Morbillo è una malattia infettiva molto contagiosa, causata da un virus del genere Morbillivirus, appartenente alla famiglia dei Paramixovidae.

Virus del Morbillo al miscroscopio elettronico

Interessa solitamente l’età pediatrica, ma diversi sono i casi di adulti affetti. Si presenta tipicamente con un’eruzione cutanea (esantema) accompagnata da febbre e sintomi simil-influenzali con tosse, raffreddore e febbre.

Nei soggetti più fortunati, una volta contratto, il morbillo garantisce un’immunizzazione teoricamente definitiva. Questo vuol dire che la malattia non si ripresenterà più durante il corso della vita e si risolve, inoltre, senza lasciare esiti.

Alcuni però, tendono a sviluppare delle complicanze che, nella peggiore delle ipotesi, possono essere anche mortali. Tra queste ricordiamo quelle secondarie a superinfezioni batteriche: otite media, laringite, polmoniti ed encefaliti, queste ultime tra le più pericolose.

Nel 2017, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato 110000 decessi causati dal morbillo; un dato in forte discesa rispetto a quelli del decennio precedente, ma pur sempre un numero troppo elevato se consideriamo che esiste un vaccino preventivo, in Italia in vigore dal 1977. Questo ha fatto sì che il morbillo ottenesse il primato di principale causa di morte prevenibile mediante vaccinazione.

Il rischio di complicanze è uno dei motivi principali per il quale la stessa OMS (in particolare l’OMS sezione Europa) ha sempre promosso campagne vaccinali e piani per debellare questa malattia, soprattutto in seguito alle endemie degli ultimi anni.

Ma quali sono questi rischi e come ci si incorre?

La risposta definitiva arriva con un recente studio pubblicato sulla rivista Science.

Molte delle morti attribuibili al virus del morbillo sono causate da infezioni secondarie perché il virus infetta e danneggia funzionalmente le cellule immunitarie, che di conseguenza perdono le loro capacità difensive.

Il metodo di analisi utilizzato si basa su un prelievo di sangue che viene ad essere studiato da uno strumento: il VirScan. Questo rileva gli anticorpi (speciali proteine che riconoscono uno specifico bersaglio) antivirali e antibatterici nel sangue, nati dall’incontro con i rispettivi patogeni e nei confronti dei quali ci si è immunizzati, fornendo un’istantanea generale del sistema immunitario.

Grazie a questa tecnologia, Mina e colleghi hanno analizzato in modo completo l’insieme di anticorpi nei bambini prima e dopo l’infezione naturale con il virus del morbillo, nonché nei bambini prima e dopo la vaccinazione sempre per lo stesso virus. I risultati sono stati più che chiari: l’infezione da morbillo può ridurre notevolmente la memoria immunitaria precedentemente acquisita, potenzialmente lasciando le persone a rischio di infezione da altri agenti patogeni. Nel dettaglio il virus elimina dall’11% al 73% dei diversi anticorpi che proteggono dai ceppi virali e batterici a cui una persona era precedentemente immune.

Questi effetti avversi sul sistema immunitario non sono stati osservati, invece, nei bambini vaccinati fornendo così un’ulteriore prova dell’utilità di vaccinarsi.

La scoperta che il morbillo esaurisce il pool di anticorpi dei soggetti affetti, cancellando parzialmente la memoria immunitaria nei confronti dei patogeni precedentemente incontrati, supporta l’ipotesi dell’amnesia immunitaria.

( A ) Epitopi totali riconosciuti al tempo 1, a sinistra e al tempo 2, a destra, per coorte. Per il confronto tra coorti, i valori sono standardizzati su tutti i campioni per coorte a una media di 0 e una deviazione standard di 1. Ogni linea grigia indica un campione accoppiato da un individuo e le linee di connessione nere indicano il cambiamento medio da zero. I grafici a scatola indicano l’intervallo interquartile e la mediana. Gli asterischi indicano i valori P del test t accoppiati . ( B ) Piegare il cambiamento della diversità totale di anticorpi (cioè il numero di colpi totali di epitopi) al tempo 2 rispetto al tempo 1. Ogni punto rappresenta un campione accoppiato da un individuo. I grafici a scatola indicano l’intervallo interquartile e la mediana. Gli asterischi indicano differenze significative rispetto al controllo A (Cntl A), in base a quello dello studentet testare i valori P. ( C ) Numero di colpi di epitopo di morbillo per campione al tempo 1 e tempo 2. Le linee sottili indicano campioni accoppiati. Le linee nere indicano le medie di coorte. ( D ) Come in (A), ma per i singoli virus. Valori P corretti da Bonferroni in (da A a D): * P <0,05, ** P <0,001, *** P <0,001, **** P <0,0001. ( E) Heatmap che indica la variazione del numero totale di colpi di epitopi per specie tra il tempo 1 e il tempo 2. Ogni colonna rappresenta un singolo campione accoppiato e ogni riga un patogeno. Le coorti sono indicate dalle barre piene in alto e in basso e sono nello stesso ordine (da sinistra a destra) di (A). I globuli gialli indicano che l’agente patogeno non è stato analizzato in questi campioni. Ab, anticorpo.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che coloro i quali sopravvivono al morbillo, riguadagnano gradualmente la loro precedente immunità, ma solo quando vengono nuovamente esposti ai microrganismi specifici con i quali si erano già infettati, o quando vengono nuovamente vaccinati. Poiché però, questo processo può richiedere mesi o anni, i soggetti restano vulnerabili, per un lasso di tempo più o meno lungo, alle corrispettive infezioni. Per ovviare a questo problema, i medici potrebbero prendere in considerazione un rafforzamento dell’immunità con una serie di vaccini di richiamo di tutti i precedenti già eseguiti, ma cancellati dal virus del morbillo.

Beh, in realtà per ovviare davvero al problema sarebbe meglio non crearlo del tutto, ricorrendo ai presidi di prevenzione (i vaccini) che anni di studi e di ricerche hanno conquistato e regalato al mondo intero.

Morire nel 2019 per le complicanze del morbillo, malattia che non dovrebbe più nemmeno esistere, è impensabile.

Vaccinarsi non è mai stato così importante.

 

                                                                                         Claudia Di Mento

Mito o realtà: quant’è vera la regola dei 5 secondi?

A tutti voi sarà capitato, almeno una volta, di vedere cadere giù dalle vostre mani qualche prelibatezza che stavate gustando con tanto amore, peggio ancora se era l’ultimo pezzo di una torta o l’ultimo biscotto presente in casa. Ed ecco che una domanda comincia a risuonare in testa: “Che faccio lo raccolgo e lo mangio o lo butto?”. Se per alcuni il dubbio è praticamente amletico, altri si fiondano alla velocità di Usain Bolt e lo mangiano soddisfatti. È proprio questo il principio su cui si basa la famosissima Regola dei 5 secondi: se questo lasso di tempo non è passato, il cibo non è stato contaminato e non si corre alcun rischio. Ma questo è proprio vero o è solo un modo per sentirsi autorizzati a fare qualcosa di non propriamente sano e sicuro, riuscendo così a dormire tranquilli la notte?

Se da una parte c’è chi sostiene che raccogliere il cibo da terra possa far aumentare le difese immunitarie o addirittura “arricchire di gusto il pasto”, altri trovano questa pratica disgustosa ed addirittura pericolosa.

Ma cosa ne pensa la Scienza?

Diversi sono gli studi e le teorie che si sono avvicendate sulla questione, ma la ricerca più dettagliata a tal proposito è stata quella condotta da Robyn C. Miranda e Donald W. Schaffner e pubblicata sulla rivista Applied and Environmental Microbiology (American Society for Microbiology).

Questa spiega come, seppur sia vero che tempi più lunghi comportano un maggior rischio di trasferimento batterico dalle superfici ai cibi stessi, altri fattori, inclusa la natura del cibo e della superficie, siano di uguale o maggiore importanza e meritino di essere attenzionati.

La Natura del cibo

Gli alimenti scelti sono stati: anguria, pane bianco, burro spalmato sul pane e caramelle gommose. Tutti e quattro caratterizzati dalle stesse dimensioni, in modo d’avere la stessa superficie di contatto con il pavimento.

Il cibo con la più alta velocità di trasferimento è stata l’anguria, indipendentemente dal tempo di contatto, il che potrebbe essere giustificato dal fatto che, appena tagliata, essa si presenta molto umida. L‘umidità facilita il trasferimento, non importa se la superficie di contatto sia asciutta o bagnata. Inoltre l’anguria può anche presentare una superficie più piatta e uniforme a livello microscopico rispetto al pane o alle caramelle gommose, facilitando la colonizzazione.

La natura della superficie

Le superfici analizzate erano invece: acciaio inossidabile, piastrelle smaltate in ceramica, legno laminato di acero e tappeti/moquette.

Sorprendentemente, secondo lo studio, i pavimenti in moquette trasmettono meno batteri rispetto ai pavimenti in piastrelle e acciaio inossidabile e questo sembrerebbe essere motivato dall’attaccamento o dall’infiltrazione batterica profonda delle fibre assorbenti della moquette stessa, che “intrappolerebbero” i batteri. Al contrario, il tasso di trasferimento batterico era maggiore per le piastrelle, per l’acciaio inossidabile e per le superfici in legno.

Anche la pressione, non inclusa nelle variabili citate nelle studio, sembrerebbe portare un maggiore trasferimento quando applicata con una forza pari o superiore ai 20 g/20 cm^2.

Nonostante nessuno sia mai morto per avere seguito questa regola, nelle condizioni igieniche peggiori, diventa reale la possibilità di contaminarsi con ceppi di Escherichia Coli e Salmonella, che sono spesso causa di enteriti di varia entità e sintomatologia.

Ceppo di E. Coli
Ceppo di Salmonella

Lo studio sembra dunque confermare la validità della Regola dei 5 secondi nella misura in cui il tempo è una variabile importante, ma risulta comunque una pratica limitata non considerando le altre condizioni. Si rimanda piuttosto al buon costume dei consumatori per la valutazione del rapporto rischio-beneficio.

È un cibo che vale davvero la pena di recuperare e mangiare? È caduto in una zona con un’alta probabilità di contaminazione che non viene pulita troppo spesso? Ma soprattutto, è davvero così lontano il supermercato per comprare un nuovo pacco di biscotti, evitando così qualsiasi pericolo?

 

Claudia Di Mento

Insonnia e depressione: la doppia faccia della tecnologia

Che la nostra quotidianità sia ormai pervasa da strumenti elettronici è un dato di fatto.
Negli ultimi anni la digitalizzazione è entrata nelle case di tutti i cittadini, volenti o nolenti, con effetti a volte non sempre benefici.
Siamo connessi, giorno e notte con gli occhi incollati a degli schermi luminosi, incuranti o inconsapevoli del danno che questo spasmodico uso della tecnologia può causare alla nostra salute.
Secondo vari studi svolti dalla National Sleep Foundation, la maggior parte degli americani fa largo uso di dispositivi elettronici prima di andare a dormire, in alcuni casi, paradossalmente, per conciliare il sonno.
Questo, a lungo andare, mina gli equilibri del ritmo sonno-veglia sia a livello fisiologico che psicologico.

 Uno sguardo alla fisiologia

Secondo gli studi, la luce blu artificiale (a bassa lunghezza d’onda) emessa dagli apparecchi, inibisce il rilascio della melatonina, l’ormone fondamentale per la regolazione dell’orologio biologico dell’individuo e senza la quale è inficiata la qualità del sonno.
Inoltre osservare uno schermo instaura un meccanismo di allerta e ritarda l’insorgenza del sonno REM, questo a lungo termine comporta un accumulo di stanchezza cronica che si riflette sulle capacità relazionali.
È chiaro che non tutti siano influenzati in egual misura, ma che ci siano molte variabili in gioco, come i livelli di stress individuali e la predisposizione del soggetto a entrare in stati ansiosi che incidono sul sonno.

Le nuove generazioni

Purtroppo, a pagare il prezzo del progresso sono i più giovani, per i quali a volte lo smartphone o il computer è l’unico mezzo per sfuggire a una realtà ogni giorno più dura.
Cresciuti in quest’epoca di incertezze e basse aspettative per il futuro, è quasi naturale siano più suscettibili di altri a sviluppare patologie psichiatriche.
Dietro il frenetico gesto di aggiornare la pagina home di un social network o di controllare i messaggi, si nasconde un disagio ben più profondo. Il telefono diventa un ancora di salvezza e lo schermo un faro per illuminare l’oscurità di una stanza troppo stretta.
Come accennato, alcuni tentano di addormentarsi con la compagnia magari di un video o un film, ignari che quella luce sia il peggior nemico del loro riposo.

Dati preoccupanti

Le indagini effettuate dipingono un quadro tutt’altro che roseo: sottrarre il cellulare a un soggetto, può causare degli episodi di astinenza, anche molto gravi.
Sudorazioni, vertigini, stato d’ansia crescente e spesso aggressività, sono tutti sintomi che nell’immaginario comune vengono associati all’uso di sostanze stupefacenti e che possono essere ritrovati in queste situazioni.
Sembra proprio che l’eccessivo utilizzo della tecnologia possa essere classificato come un tipo di dipendenza vera e propria.
Tuttavia, è probabile che i dispositivi elettronici siano semplicemente un fattore scatenante per una condizione preesistente nell’individuo e non la vera e propria causa del disturbo.

I rimedi

Come è facile immaginare, smettere di utilizzare il telefono da due ore a trenta minuti prima di andare a dormire migliora considerevolmente la qualità del sonno.
Svolgere attività che non prevedano la presenza di luce artificiale, come leggere un libro per esempio, consentono al soggetto di addormentarsi più facilmente.
Purtroppo molti pensano di riuscire a “disintossicarsi” da questa droga informatica, tuttavia sarebbe più opportuno ricercare un aiuto professionale per il proprio disturbo, nonostante oggi ci sia ancora molta ignoranza riguardo quella che è una vera e propria malattia.

Maria Elisa Nasso

Trasformare il sangue di gruppo A in sangue di gruppo 0 (donatore universale): la soluzione sta nel nostro intestino

Da gruppo A a gruppo 0, il donatore universale, grazie ad enzimi estratti da batteri contenuti nel nostro intestino. Lo studio è stato recentemente pubblicato su Nature Microbiology, importante rivista scientifica, da un gruppo dell’Università della Columbia Britannica, di Vancouver, Canada. Il nuovo sistema potrebbe potenzialmente rappresentare una svolta riguardo alla carenza di sangue di donatori universali, specie nelle situazioni di emergenza. Ma andiamo con ordine.

La trasfusione di sangue diventa un impiego pratico e diffuso dopo l’identificazione del sistema dei gruppi sanguigni AB0 da parte di Landsteiner. Precedentemente le scarse conoscenze non permettevano di definire in anticipo la compatibilità tra due soggetti da trasfondere, rendendola una pratica estremamente pericolosa. La scoperta, valsa il premio Nobel nel 1930, permise di trattare con maggior successo condizioni che prevedevano una perdita significativa di sangue, per esempio dopo eventi traumatici o in ambito ostetrico o chirurgico. Successivamente vennero scoperti altri sistemi sulla superficie dei globuli rossi, tra cui, da parte dello stesso Landsteiner, il fattore Rh, molto importante in ambito ostetrico e nelle trasfusioni.

Il meccanismo prevede che, mischiando il sangue di due soggetti incompatibili, si verifichi una reazione che determina la distruzione dei globuli rossi donati con la liberazione del loro contenuto in circolo. Gli attori principali di questo fenomeno sono gli anticorpi del ricevente. Si tratta di proteine che sono capaci di legare dei “marcatori”, definiti antigeni, sulla superficie dei globuli rossi del donatore. Questi antigeni altro non sono se non le molecole che costituiscono il sistema AB0 e, in minor misura, gli altri sistemi.Sistema AB0 ed emolisi, fonte: Pinterest

Un soggetto di gruppo A presenterà anticorpi anti-B, un soggetto di gruppo B anticorpi anti-A, un soggetto di gruppo AB non presenterà anticorpi (ricevente universale) e un soggetto di gruppo 0 presenterà anticorpi anti-A e anti-B. In quest’ultimo caso si parla di donatore universale perché i suoi globuli rossi non sono marcati né dall’antigene A né dall’antigene B (per cui non possono essere attaccati dagli anticorpi del ricevente). La concentrazione di anticorpi presenti non è comunque sufficiente per determinare effetti importanti nel ricevente.

Ciò significa che il sangue con globuli rossi di gruppo 0, caratteristica di circa il 40% della popolazione in Italia, è estremamente prezioso. Esso può essere somministrato in (quasi) ogni situazione d’emergenza e rappresenta un’importante risorsa per i centri trasfusionali in Italia e nel mondo.

Da ciò l’importanza di produrre globuli rossi universali a partire da globuli rossi d’altro tipo. Negli ultimi 20 anni i tentativi sono stati molteplici, con discreti risultati sperimentali. Il problema fin’ora è stato riprodurre i metodi in larga scala a causa delle elevate concentrazioni di enzimi richieste o per la scarsa efficienza del processo.

Ora però i ricercatori della UBC hanno sviluppato un sistema che pare dare dei buoni risultati. A partire infatti da batteri che albergano all’interno del nostro intestino, hanno isolato degli enzimi capaci di modificare la porzione terminale dell’antigene A convertendolo con ottima efficienza nell’antigene 0 (detto, più precisamente, antigene H).

Più nello specifico la porzione degli antigeni del sistema AB0 capace di legare l’anticorpo (e determinare gli effetti post-trasfusionali) è una catena costituita da alcuni zuccheri. La differenza tra il gruppo 0 e il gruppo A sta in una molecola di N-acetilgalattosammina, uno zucchero per l’appunto, legato in posizione terminale. Attraverso gli enzimi isolati dal gruppo di ricerca è stato possibile deacetilare la molecola con la formazione di galattosammina e infine rimuovere il residuo con la conversione dei globuli rossi.

Il processo ha funzionato sia in una soluzione sperimentale sia all’interno di sangue intero. Sono stati infatti convertiti globuli rossi di gruppo A di 26 diversi donatori ed ha avuto successo anche la conversione di un’unità di sangue intera in modo completo. Gli enzimi sono poi stati rimossi dalla semplice centrifugazione a cui si sottopongono i globuli rossi durante la loro lavorazione.

Le concentrazioni di enzimi richieste non sono alte come nei lavori precedenti quindi il processo potrebbe essere potenzialmente eseguito in larga scala senza problemi di costi. Resta tuttavia da capire se i globuli rossi convertiti non possano comunque presentare un potenziale antigenico se somministrati a dei pazienti, a causa della formazione di nuove varianti antigeniche o per la modifica di altre proteine di superficie. Si tratta quindi di un’ipotesi attualmente lontana da un’applicazione pratica nella realtà clinica. Rimane comunque una prospettiva promettente.

Annualmente, infatti, in Italia si registrano gravi carenze di sangue durante i periodi estivi. La scorsa estate si è verificato un difetto di oltre 900 sacche, in alcune regioni della penisola, che hanno determinato grossi disagi per i soggetti periodicamente trasfusi e per chi doveva subire interventi chirurgici programmati e d’emergenza. In occasione della giornata mondiale del donatore di sangue, tenutasi il 14 Giugno, sono state diffuse le statistiche trasfusionali relative alla nostra penisola. Durante il 2018 sono state trasfuse più di 3 milioni di sacche di sangue. In media si parla di una donazione di sangue ogni 10 secondi che consente di trasfondere circa di 1.745 pazienti al giorno.
Antonino Micari

Pareidolia: ecco perché vediamo volti ed oggetti nelle nuvole

Vi sarà già capitato che, osservando il cielo, vi siate imbattuti in figure che vi ricordano oggetti, animali o addirittura dei volti. Questo fenomeno prende il nome di pareidolia (dal greco para, “vicino”, ed èidōlon, “immagine”), ovvero la tendenza ad interpretare uno stimolo vago come qualcosa di già noto a chi osserva.

Gli esempi sono molteplici: dai volti su formazioni rocciose a messaggi estrapolati da brani musicali ascoltati lentamente o al contrario (pareidolia acustica), fino a figure rilevate da immagini della superficie della Luna o di Marte:

Qualsiasi coppia di oggetti può potenzialmente assumere una disposizione tale da “ingannare” il nostro cervello, risultandoci a prima vista parte di un volto o un’immagine alternativa più familiare. Uno studio del 2009, infatti, utilizzando una metodica chiamata magnetoencefalografia, che permette di quantificare l’attività cerebrale mediante la misurazione dei campi magnetici, conferma come il cervello risulti effettivamente “ingannato”. Mostrando a un gruppo di soggetti delle immagini vagamente simili a delle facce reali, si è notata l’attivazione delle stesse aree cerebrali deputate al riconoscimento dei volti (e probabilmente anche di altri oggetti), a livello del lobo temporale, nell’area fusiforme facciale.

Questa tipologia di immagini “ambigue” ma dotate di un significato sembrerebbero lasciare una traccia duratura nel nostro cervello. Come dimostrato in uno studio pubblicato nel 2013, in seguito a ripetuti stimoli, il cervello interpreterebbe le immagini dandogli un significato e le archivierebbe mostrando quindi una forma di apprendimento, similmente a quanto avviene per immagini reali.

Il fenomeno sembrerebbe quindi fondamentale nell’apprendimento del significato di specifiche immagini, così da rendere possibile ad alcune persone di essere più veloci e abili di altre in specifici compiti. Basti pensare che i giocatori di scacchi professionisti attivano l’area in questione per riconoscere alcune situazioni di gioco ed essere più rapidi nell’elaborare una strategia; analogamente anche i radiologi esperti, al contrario degli studenti, nell’analizzare le immagini fanno uso delle potenzialità di questa regione del cervello.

Tutto ciò avrebbe anche un collegamento con una patologia del neurosviluppo, ovvero l’autismo. Infatti, nei soggetti affetti da questa condizione, è stata rilevata un’attivazione più debole dell’area in maniera proporzionale alla gravità della malattia stessa. Inoltre un danno a quest’area comporta l’assoluta incapacità nel riconoscere i volti. Questa condizione è chiamata prosopagnosia.

Anche se, durante la colazione, vedere che il caffè sorride ci possa sembrare una cosa divertente, è interessante pensare come dietro a questo fenomeno siano coinvolti dei meccanismi che stanno alla base delle nostre capacità di apprendimento e di relazione. La tendenza di vedere volti e in generale di dare un significato alle immagini, nasce dalla necessità di analizzare lo spazio intorno a noi e di identificare rapidamente la presenza di altri soggetti, di animali o di oggetti potenzialmente utili.

La pareidolia è quindi la dimostrazione pratica delle capacità di elaborazione e schematizzazione del nostro cervello che, seppur con finalità diverse, ci offre tutte le sue potenzialità sia in una situazione di pericolo sia nel caso in cui stessimo giocando una partita a scacchi, o anche quando osserviamo il cielo.

Antonino Micari

La plastica: una tecnologia straordinaria di una specie animale scellerata

La parola “plastica” deriva dal greco e sta a significare «l’arte che riguarda il modellare» oppure le sostanze che sono facilmente malleabili.

Ci sono molte sostanze plastiche presenti in natura ad esempio la creta, l’argilla, la cera, lo stucco ecc. Tuttavia oggi si identifica con “plastica” tutti quei polimeri a grande peso molecolare sintetizzati dall’uomo che hanno la proprietà di essere facilmente lavorati e di assumere e mantenere una forma.

Con plastica non si identifica uno specifico composto chimico, ma un’insieme assai vasto ed eterogeneo di polimeri.

Ad esempio:

  • il PET
A “piccolo ingrandimento” la struttura del monomero che si ripete per formare il singolo polimero. Più polimeri costituiranno il materiale plastico in questione.

 

Il PET a grande ingrandimento.

 

  • Il PS, o polistirene, o polistirolo

 

 

 

 

 

 

Da dove derivano le plastiche? 

Le plastiche si ottengono a partire o da polimeri naturali, come la cellulosa o la caseina, o da idrocarburi leggeri, quali il petrolio e il metano. Quest’ultime si chiamano “plastiche sintetiche”, la cui produzione rappresentò una rivoluzione nella storia di questi composti.

Lavorazione. 

Al calore le plastiche hanno un diverso comportamento. Alcune di esse si induriscono e prendono una forma pressoché irreversibile e sono dette termoindurenti o resine.

Altre invece sono termoplastiche poiché sottoposte ad alte temperature si comportano al contrario, perdono la loro forma per riprenderla una volta raffredate.

Su queste due particolari proprietà si basano i loro processi di lavorazione.

Per avere una panoramica molto generica ma sintetica della loro lavorazione vi consiglio la visione di questo simpatico video. Una lavorazione di un’efficacia disarmante, che abbatte i costi e i tempi di produzione.

 

 

Com’è nata la plastica? 

La prima plastica viene sintetizzata nel 1861 e viene chiamata Xylonite, utilizzata per scatole e manici, ma avrà poco successo.

Dobbiamo aspettare ancora 10 anni per assistere al primo vero e grande successo della plastica: viene inventata la celluloide, finalizzata a sostituire il costoso avorio che serviva per fabbricare le palle del biliardo.

 

 

La celluloide successivamente viene anche utilizzata per la produzione di rullini fotografici (per chi se li ricorda ancora) e pellicole per i film.

Tuttavia era molto infiammabile e non erano rari gli incendi nelle sale cinematografiche, come viene raccontato anche nel film di Giuseppe Tornatore “Nuovo Cinema Paradiso”.

Infatti successivamente, intorno al 1940, la celluloide venne sostituita con plastiche sintetiche (l’acetato di cellulosa e, in seguito, il poliestere) più sicure e meno infiammabili.

Oggi con la celluloide si producono le palline da ping pong e poco più.

 

Prime plastiche sintetiche. 

Nel 1910 venne inventata la Bakelite: prima plastica termoindurente. Ancora oggi usata per i manici delle PENTOLE.

Nel 1926 il PVC le cui applicazioni più rilevanti sono la produzione di tubi per edilizia (per esempio grondaie e tubi per acqua potabile), cavi elettrici, profili per finestra, pavimenti vinilici, pellicola rigida e plastificata per imballi e cartotecnica, e i famosi dischi in vinile.

Nel 1928 nasce il polimetilmetacrilato (PMMA). Tra gli esempi delle sue applicazioni si annoverano i fanali posteriori delle automobili, le barriere di protezione negli stadi e le grandi finestre degli acquari; ma uno dei maggiori mercati è il settore bagno dove viene impiegato per la realizzazione di vasche da bagno e piatti doccia.

Nel 1935 in America nasce il nylon, la fibra sintetica usata per i tessuti e nella pesca sportiva.

Nel 1953 in Inghilterra si inventa il polietilene, con la quale viene fabbricata la pellicola per alimenti.

Nel 1954 l’italiano Giulio Natta inventa il polipropilene isolattico, per confezionare prodotti alimentari

La plastica oggi. 

La plastica rappresenta una delle innovazioni tecnologiche più importanti della storia dell’umanità.

Ha rivoluzionato quasi tutti i settori commerciali: dal trasporto al confezionamento di prodotti alimentari, dall’automobilismo all’areonautica.

Viene utilizzata per la produzione di oggetti di design, computer, smartphone e abbigliamento.

La sua espansione sembra non arrestarsi. Tuttavia qual è veramente il problema che sta dietro a questi composti?

Il problema non risiede nella plastica in sé, ma nel come l’uomo sia stato poco lungimirante nell’utilizzarla senza limiti e misure.

Abbiamo fatto due semplici errori che messi assieme hanno portato ai disastri ecologici a cui stiamo assistendo in questi anni: la realizzazione di un materiale pressoché indistruttibile agli agenti fisici, chimici e biologici dell’ambiente e come secondo errore l’uso di questo materiale come “uso e getta”.

 

 

E’ stata proprio la nascita della plastica a dar vita a questa nuova tipologia di prodotti.

I nostri nonni si sarebbero sognati di utilizzare piatti, bottiglie e posate usa e getta, poiché questi avevano un costo ed era molto meglio lavarli e riusarli per tutta la vita.

Adesso l’abitudine dell’usa e getta ha notevolmente aumentato il volume di rifiuti che ogni giorno produciamo. Basti pensare che già un caffè al bar da “portare via” è un mucchietto di rifiuti che 50 anni fa non sarebbe mai esistito.

 

 

Da un lato c’è l’ingegno dell’uomo che riesce a creare una tecnologia straordinaria che concorre alla realizzazione del nostro benessere, dall’altra la sua scelleratezza e poca lungimiranza nel riflettere su quali possibili conseguenze ha quell’uso spropositato di tale tecnologia.

 

 

 

 

Ricordiamoci che la plastica è nata per sostituire l’avorio delle palle da biliardo. Oserei dire che è nata come prodotto ecologico al fine di abbattere i costi di produzione e risparmiare le vite degli elefanti.

Successivamente ha sostituito, però, non necessariamente altri prodotti. La notizia che più di tutte mi ha sconvolto è l’esistenza di un isola tra la California e le isole Hawaii grande 3 volte la Francia con 80.000 tonnellate di rifiuti che galleggiano sul letto dell’oceano.

Questi sono i rifiuti che galleggiano, possiamo solo immaginare cosa c’è sotto.

 

Cosa possiamo fare? 

Ridurre l’uso di prodotti usa e getta. Promuovere una raccolta differenziata. Riutilizzare le plastiche che compriamo, con un pò di ingegno si possono usare per farci qualsiasi cosa così da risparmiare.

Andare a fare una bella passeggiata a Torre Faro con una busta per la raccolta di rifiuti, non immaginerete nemmeno quanta plastica c’è in quelle spiagge. Questo quello che possiamo fare noi.

Il mondo?

Una soluzione all’inquinamento da plastica può venire dall’incremento della loro biodegradabilità; con l’aggiunta di sostanze sensibili alle radiazioni ultraviolette in modo tale da accelerare la degradabilità delle plastiche a opera della luce solare; oppure dalla biogenetica, la quale punta sulla selezione di batteri in grado di degradare i polimeri sintetici.

 

Francesco Calò 

Il nuoto è davvero lo sport perfetto? Alcuni miti da sfatare

Il nuoto rappresenta uno degli sport più accessibili, praticato da persone di tutte le età, per i più svariati motivi. Da un punto di vista medico viene spesso consigliato come sport per risolvere o supportare molte condizioni: dal mal di schiena alla riabilitazione osteomuscolare, dal sovrappeso al controllo dello stress. Tutto ciò in virtù del fatto che è considerato un’attività a basso impatto sulle articolazioni; capace di allenare integralmente il corpo, coinvolgendo tutti i gruppi muscolari ed essendo un ottimo metodo per bruciare grassi e controllare il peso corporeo.

Tuttavia spesso non si ottengono i benefici sperati e, talvolta, il nuoto può risultare nocivo specie in determinate condizioni. Andiamo a sfatare o comunque a valutare meglio qualche mito legato alla pratica di questo sport.

• Il nuoto come “soluzione” al mal di schiena e ai problemi articolari.
Un’attività come il nuoto che non risente, in linea di massima, degli effetti della forza di gravità sembra perfetta per garantire uno sgravio del carico sulla colonna vertebrale, che a prima vista potrebbe apparire terapeutico.

Al contrario, sembrerebbe essere meglio sottoporre la colonna vertebrale alla gravità durante l’attività sportiva per migliorare la densità ossea. A conferma di ciò un recente studio afferma che anche la composizione del disco intervertebrale, implicato nelle ernie della colonna vertebrale, migliora con sport “gravitari” come la corsa. Inoltre uno studio mostra come non vi sia differenza nella prevalenza del mal di schiena tra chi pratica nuoto o sport di diverso tipo.

L’Isico (istituto scientifico italiano sulla colonna vertebrale) ha, tra l’altro, messo recentemente in evidenza che, al contrario di come viene spesso erroneamente suggerito, il nuoto non migliora la scoliosi bensì l’aggrava. In un campione di un centinaio di atleti agonisti praticanti lo sport si è notata un’accentuazione della cifosi toracica e delle asimmetrie del tronco.

Da considerare infine, specie per chi segue sessioni più intense di allenamento, che, per esempio, la gambata a delfino esercita un importante stress sulle strutture lombosacrali e può determinare l’insorgenza di patologie come ernie e spondilolisi (frattura posteriore della vertebra, a livello dell’istmo). La bracciata può provocare un danno cronico al cingolo scapolare che risulta essere a tutti gli effetti il “tallone d’Achille” dei nuotatori. La gambata a rana determina uno sforzo dei muscoli del bacino e degli adduttori degli arti inferiori. Inoltre eseguire la nuotata in maniera scorretta o sbilanciata potrebbe determinare degli squilibri tra le due metà del corpo.

Nonostante ciò il nuoto rappresenta un’ottima strategia per gestire il mal di schiena in tutti quei soggetti che, a causa di problemi agli altri inferiori o di gravi compromissioni della colonna vertebrale, difficilmente potrebbero praticare altri sport. Spetta al medico o al fisioterapista individuare la miglior soluzione sulla base delle proprie condizioni personali.

• Il nuoto come sport per aumentare la massa muscolare.
Seppur il nuoto agisca su molteplici gruppi muscolari, essere immersi in acqua non rappresenta la miglior condizione per favorire la crescita del muscolo. Le resistenze imposte dall’acqua non sono particolarmente alte, specie se si possiede una buona tecnica. Inoltre i muscoli più impiegati sono generalmente quelli del tronco e degli arti superiori, infatti le gambe presentano un ruolo meno importante e garantiscono più la stabilizzazione che la propulsione.

Man mano che si allungano le distanze le gambe diventano sempre meno utilizzate, così come nel complesso l’attività richiede meno forza e una minor massa. Infatti il fisico del nuotatore è definito (per una riduzione della massa grassa) ma non ipertrofico, specie in considerazione del fatto che un’eccesso di massa magra peggiora il galleggiamento.

L’uso di strumenti che aumentano le resistenze come carichi e palette può essere funzionale in alcuni periodi del programma di allenamento, ma se utilizzati troppo spesso potrebbero determinare un peggioramento della nuotata e uno stress articolare importante, soprattutto alle spalle e ai tendini dei muscoli che agiscono sull’arto superiore.

• Il nuoto come sport per dimagrire.
Il Centro per la prevenzione e controllo delle malattie suggerisce un’attività aerobica settimanale di 150 minuti al fine di controllare il peso corporeo.

Per aerobica si intende un’attività moderata che consente a quantità sufficienti di ossigeno di raggiungere i gruppi muscolari e permettere l’ossidazione dei grassi e il consumo completo degli zuccheri. Si tratta del metabolismo predominante negli atleti di medie e lunghe distanze e che meglio da la possibilità di perdere peso. Al contrario, il metabolismo degli sprinter è principalmente anaerobico, determinando una maggior produzione di acido lattico a partire dagli zuccheri e uno scarso consumo di lipidi.

Con l’obiettivo di dimagrire, quindi, l’impegno potrebbe tradursi in cinque corsette settimanali da mezz’ora, così come in tre nuotate da cinquanta minuti.

Mentre correre a basso ritmo per trenta minuti non rappresenta generalmente un grosso problema, l’utente medio che si approccia con meno esperienza o con meno allenamento a una pratica sicuramente meno naturale come il nuoto, difficilmente riesce a raggiungere cinquanta minuti complessivi di attività aerobica in una seduta di allenamento.

Secondo alcuni studi il metabolismo del nuotatore risulta essere prevalentemente anaerobico per distanze inferiori ai 200 metri. Per avere un vero impegno aerobico, che sfrutta anche le riserve di grassi, sarebbe necessario nuotare, a basso ritmo, distanze superiori ai 400 metri. Un’attività di questo tipo richiede una buona base tecnica e un allenamento non comune a tutti gli utenti.

Infine, d’altro canto, abbassando eccessivamente il ritmo, si rischia di finire per galleggiare passivamente con una velocità di avanzamento molto lenta, percorrendo nel complesso distanze molto brevi con una bassa spesa energetica.

Comunque, in generale, il raggiungimento del proprio obiettivo di allenamento è fortemente influenzato dalla tecnica di nuotata. Essa risulta essere fondamentale per aumentare le distanze percorse; permette di migliorare i tempi ed evita inutili sovraccarichi o squilibri muscolari. Chi si avvicina da poco allo sport deve considerare la possibilità di ricevere delle istruzioni per affinare il gesto atletico che, se migliorato, può ridurre enormemente la fatica garantendo migliori risultati in tempi più brevi.

Antonino Micari

Addio Lorenzo, morto il giovane medico affetto da linfoma che aveva raccolto i fondi per fare l’immunoterapia negli Stati Uniti

La speranza è l’ultima a morire e questo ragazzo, in tal senso, rappresenta un gran esempio.

Lorenzo Farinelli era un giovane medico di Ancona, che a poco più di 30 anni ha dovuto fare i conti con una diagnosi: linfoma diffuso a grandi cellule di tipo B. Lo scorso 1 Febbraio ci ha raccontato brevemente la sua storia in un video registrato dopo “tanta chemioterapia, radioterapia, e immunoterapia“, le quali si sono rivelate inutili per un tumore che si è mostrato resistente. Il suo appello è stato condiviso da associazioni, sportivi e politici di tutti i colori. Nonostante avesse “cominciato a perdere l’autonomia, l’uso delle gambe parzialmente, la capacità di andare in bagno da solo” il messaggio appariva ben chiaro: “Non è finita finché non è finita“. Lorenzo ha continuato a sperare e lottare fino alla fine, tanto da chiedere, attraverso il video, un supporto economico per viaggiare negli Stati Uniti ed accedere ad una terapia chiamata CAR (Chimeric Antigen Receptor) T Cell Therapy.

La metodica, che rientra nell’immunoterapia cellulare, è stata approvata nel 2017 negli Stati Uniti per il trattamento di tumori resistenti come quello di Lorenzo, e rappresenta, al momento, l’ultima speranza per tutte le persone nella sua condizione. Si sfruttano delle cellule citotossiche (linfociti T) del sistema immunitario del paziente stesso, le quali vengono estratte, modificate e reimmesse nel paziente. Queste cellule sono capaci attraverso un recettore “chimerico” di riconoscere dei segnali sulla superficie delle cellule tumorali e ucciderle selettivamente. Gli studi hanno mostrato, per la condizione di Lorenzo, una sopravvivenza a 5 anni del 60% dei pazienti sottoposti al trattamento, che altrimenti avrebbero avuto una prognosi molto sfavorevole. Si tratta comunque di una possibilità, molto costosa, ristretta a pazienti che non hanno beneficiato delle terapie classiche che al momento risulta approvata solo per due tipi di tumori. Dallo scorso anno esiste la possibilità teorica di somministrare la terapia anche in Europa nonostante la situazione sia burocraticamente nebulosa e i costi, particolarmente alti, a carico dei pazienti; ma questi sono comunque solo i primi passi.

Tuttavia dopo essere tornato a casa dall’ospedale in previsione della partenza, mentre erano in preparazione tutti i documenti per volare negli Stati Uniti, Lorenzo è morto l’11 Febbraio a causa di alcune complicanze legate alla sua condizione.

Nella lotta contro il tempo, questa volta, ha vinto il tempo. Piange la famiglia, piange Ancona, piange chiunque fosse a sostegno della causa, anche solo moralmente.

Come dichiarato nella pagina raccolta fondi, i soldi donati verranno devoluti in beneficenza per promuovere la ricerca o per supportare cause parallele a quella di Lorenzo. Perché, comunque, non si deve mai smettere di lottare e di sperare.

Ciao Lorenzo.

Antonino Micari

A 17 anni apre una scuola dove insegna la robotica e il coding con giochi e attività di gruppo

Ha 17 anni, viene da Alessandria, non si è ancora diplomata ma ha già superato i test di ammissione alla facoltà di ingegneria informatica al Politecnico di Milano, e ha fondato una scuola di robotica.
Questa è la storia di Valeria Cagnina, una liceale che scopre la sua irrefrenabile passione per la robotica all’età di 11 anni.

Tutto ha inizio quando i suoi genitori la portano, per la prima volta, al CoderDojo di Milano, si tratta di club gratuiti il cui obiettivo è l’insegnamento della programmazione informatica ai più piccoli, sparsi in modo indipendente in tutto il mondo, offrono insegnamenti senza scopo di lucro, a bambini e ragazzi dai 4 ai 17 anni. In quell’occasione, Valeria rimane colpita in particolar modo da una pianta elettronica in grado di interagire con il mondo circostante. ” Mi si è aperto un mondo” spiega Valeria, ” Lì ho capito che mi piaceva molto di più la parte hardware di quella software”. Grazie a quel primo contatto con il mondo della robotica, Valeria decide di costruirsi da sola un robot, seguendo dei tutorial, in inglese, su youtube e utilizzando Arduino, ovvero una scheda composta da una parte hardware, con sensori e motori, e una parte software con dei codici. Da lì, capisce che quello che per lei era piuttosto semplice, come programmare, non lo era affatto per gli adulti. Così non ha esitato, anche grazie al sostegno dei suoi genitori, ad intraprendere quella che presto si sarebbe rivelata essere la sua strada.
Questa piccola impresa la porta, all’età di 13 anni, alla nomina di Digital Champion più giovane d’Europa per il comune di Alessandria, dove lei abita. I Digital Champion sono ambasciatori digitali, ogni Stato europeo ne ha uno e serve a rendere i propri cittadini più digitali, fornendo anche supporto all’amministrazione pubblica nei campi del digitale. Il digital Champion italiano è Riccardo Luna, il quale le ha attribuito la nomina, con l’intento di moltiplicare queste figure in Italia, fino a raggiungere il numero di uno per ogni comune.

L’anno dopo approda come relatrice al Tedx Milano Woman e qualche mese dopo diventa senior tested al Mit di Boston (Massachusetts Institute of Technology), per seguire il progetto Duckietown. “Al Mit dovevo realizzare un piccolo robot capace di muoversi in una cittadina, rendendo più semplici i tutorial per studenti universitari”, racconta. “Ma soprattutto, girando per i vari laboratori, ho scoperto che l’educazione può essere divertente, che si può imparare divertendosi e non solo stando dietro i banchi di scuola come si fa di solito in Italia”.
Grazie a questa esperienza, la Cagnina, all’età di 16 anni, apre la sua scuola con sede ad Alessandria. Inizialmente si avventura da sola, ma presto trova un socio, Francesco Baldassarre, e insieme riescono a formare una squadra di 10 selezionatissimi insegnanti. Con corsi che spaziano dalla scuola materna alle superiori, fino al team building per le aziende e ai corsi per insegnanti.

Ma questa, va da se, non è una scuola come tutte le altre, e i tradizionali metodi di insegnamento frontali sono banditi. Nella scuola non si usano ne sedie ne banchi e si cammina scalzi. I partecipanti diventano i protagonisti del processo di apprendimento, posti al centro della scena. L’innovativo sistema di apprendimento è basato su una decina di principi base, uno di questi è il learn by doing, ” ossia cerchiamo di stravolgere il metodo scolastico tradizionale, facendo imparare attraverso il gioco e il divertimento anziché con lezioni frontali nozionistiche”
La scuola non è riservata a geni dell’informatica, né della robotica, ma ha lo scopo di far avvicinare a questo mondo persone di tutte le età e con capacità molto diverse, le classi infatti sono formate per competenze acquisite e non per età.

L’insegnamento si avvale di strumenti comuni, proprio per stimolare fantasia e passione, conciliando attività hi-tech e robotiche con altre non tecnologiche, mescolando così, la parte educativa con la narrazione, il gioco e lo sport.
“Continua a stupirmi che ai bambini di 3 o 4 anni si faccia soprattutto colorare, mentre se stimolati con i giusti canali di comunicazione potrebbero già imparare persino un po’ di robotica”, spiega Cagnina, affermando che il coding invece può essere utilizzato come strumento per rendere tutte le materie più interessanti, anche perché aiuta a stimolare soft skill come la creatività. Nella scuole, dove oltre al lavoro di gruppo si impara anche il lavoro di gruppo e il cosiddetto reverse mentoring, ovvero il processo mediante il quale i giovani tipicamente con meno esperienza, ma con una forte competenza digitale, aiutano i senior, con una lunga esperienza lavorativa, a familiarizzare con la tecnologia, alla ricerca di un reciproco scambio.
La Cagnina spiega che la sua scuola e il suo rivoluzionario metodo di insegnamento non sono sempre stati accettati in modo acritico e fiducioso, in particolar modo quando si trova a dover svolgere corsi per grandi imprese ” Capita che i manager siano perplessi vedendo che una 17enne e un 25enne siano lì come insegnanti”, spiega. “Poi però , vinta la diffidenza iniziale, si mettono per terra, si tolgono le scarpe e iniziano a fare le attività”.
Inoltre Valeria spiega che il rapporto con la scuola pubblica è sicuramente quello più problematico, la quale risulta restia ad abbandonare il suo classico metodo di insegnamento, motivo per il quale ha deciso di conseguire il diploma presso una scuola privata, poiché il liceo che frequentava non aveva mai supportato le sue scelte e le aveva abbassato tutti i voti, nonostante l’eccellente rendimento, a causa delle numerose assenze che era costretta a fare per inseguire il suo sogno e le sue passioni. Ha deciso così di terminare il suo percorso privatamente e poter studiare informatica presso il Politecnico di Milano dove ha già superato i test di ingresso.
Replicare la scuola in altre realtà e città è il prossimo sogno da realizzare per la Cagnina e il suo socio Baldassarre. In un futuro un po’ più remoto, invece il sogno è quello di riuscire ad allargare il panorama d’azione, non solo all’insegnamento, ma anche alla ricerca e allo sviluppo, dedicata alla robotica.

                                                                                                         Giusi Villa

Plantix trionfa agli Innovation Awards, è l’app che può curare le piante

L’idea appartiene al team di ricercatori dell’Università della Bassa Sassonia. Plantix nasce e viene sviluppata con l’obiettivo di supportare gli agricoltori: può essere utilizzata sia dai professionisti interessati ad incrementare le loro prestazioni che dai semplici appassionati alla cura dell’orto.

L’app è dotata di una banca dati attualmente costituita da oltre 100mila foto di piante. Agli utenti di Plantix non resta che scattare e inoltrare le foto delle proprie piante. Compiuto questo passo, sarà la stessa applicazione a confrontare l’immagine appena ricevuta con quelle già acquisite e quindi a indicare i corretti accorgimenti per curare il raccolto. Tutto questo grazie agli algoritmi del machine learning che consentono al sistema di aggiornarsi in base alle informazioni che ottiene.

Simone Stray, CEO della startup proprietaria di Plantix, ha precisato come l’utilizzo dell’applicazione può salvare fino al 30% del raccolto perso in media ogni 12 mesi a causa dei batteri o dei parassiti che fanno ammalare le piante. Stray l’ha definita come una piccola enciclopedia tascabile, consultabile velocemente attraverso lo smartphone,  in grado di elargire informazioni che gli esperti o consulenti del settore fanno pagare a caro prezzo.

L’innovazione giudicata come il miglior progetto emergente del CeBIT 2017, tenutasi ad Hannover, è al momento disponibile in Germania, Austria e Scandinavia per Android (4.0 e superiori), mentre è in fase di sperimentazione in Brasile e in India.

Francesco Lazzarano