Estate e Covid-19: il caldo rallenterà la pandemia?

Gli studiosi si sono posti un importante quesito riguardante il Covid 19, cioè se l’estate, per via delle alte temperature, possa essere utile nel contenere e rallentare la pandemia.

Non esiste ancora una risposta chiara, ma un’analisi del “Massachusetts Institute of Technology” suggerisce che la trasmissione del SARS-CoV-2 possa ridursi in modo non indifferente nei Paesi con il clima più mite.

Amante del freddo?

Gli studi del MIT hanno evidenziato che in un periodo compreso tra il 22 gennaio 2020 e il 21 marzo 2020 il 90% dei contagi di COVID-19 sarebbe avvenuto in un range specifico di temperatura compreso tra i 3 e i 17 °C, e a un livello di umidità assoluta tra i 4 e i 9 g/m³.

Il numero di casi dei positivi erano inferiori tra 0° e 30° latitudine Nord rispetto al numero dei casi registrati tra 30° e 50° latitudine Nord.

Si possono elencare varie ipotesi per spiegare questo minor numero di casi registrati nei paesi più caldi, alcune esulano dal semplice aspetto climatico come ad esempio il minor numero di tamponi eseguiti per valutare l’aumento del 2019-nCoV. Difatti il numero dei tamponi effettuati nei paesi tropicali con un’elevata densità demografica (India, Brasile, Indonesia etc.) sono stati molto bassi ed è presumibile che la differenza di casi tra i paesi del Nord e quelli del Sud possa essere proprio legato a questo.

Un’altra potrebbe riguardare il notevole sviluppo di infrastrutture sanitarie e validi protocolli di quarantena successivi all’epidemia SARS del 2003 a Hong Kong, Singapore e Taiwan e questo può aver contribuito a contenere l’aumento del virus in questi paesi.

Altre ipotesi però sostengono che il basso numero di casi fino ad ora registrati nei paesi ad alta densità popolare tra 0°N e 30°N (con una popolazione totale di circa 3 miliardi di persone) possa essere realmente causato da fattori naturali e che la trasmissione virale sia quindi più bassa ad alte umidità e alte temperature; difatti la maggior parte dei paesi tra 0°N e 30°N hanno climi temperati e umidi.

Uno studio pubblicato da un team guidato da ricercatori dell’Università di Beihang in Cina, ha evidenziato che le alte temperature ed elevata umidità riducevano la trasmissione del COVID-19 entrambe con un livello di significatività statistica dell’1%. Questa scoperta va di pari passo con l’evidenza che le alte temperature e l’alta umidità riducano la trasmissione dell’influenza, e ciò può essere spiegato con due possibili motivi:

  1. Il virus dell’influenza è più stabile alle basse temperature, e le droplets, come contenitori del virus, rimangono infettive più a lungo nell’aria secca.
  2. Il clima freddo e secco può anche indebolire le proprie difese immunitarie e rendere le persone più suscettibili al virus.

Queste osservazioni possono anche essere applicate alla trasmissione del COVID-19 e sono anche avvalorate dal fatto che l’alta temperatura e umidità hanno ridotto anche la diffusione della SARS.

Previsioni matematiche

Nello stesso studio, secondo il modello osservato in Cina, i ricercatori hanno creato due cartine che mostrano la diffusione del virus nel mondo a marzo e la previsione (su stima solo matematica) di come sarebbe a luglio se considerassimo che il virus seguisse la variabile clima nel modo ipotizzato.

Cautele su più fronti

Nessuno di questi articoli ha ricevuto una revisione scientifica cosiddetta “da pari” e le correlazioni tra diffusione e condizioni climatiche potrebbero essere dovute a variabili di altro tipo: ad esempio le risposte dei governi, le linee di contagio, la mancanza di test da sottoporre alla popolazione.

In un recente post, Marc Lipsitch, direttore del Center for Communicable Disease Dynamics presso la Harvard School of Public Health, ha fatto eco a questa analisi: «Anche se possiamo aspettarci modesti ribassi nella contagiosità di SARS-CoV-2 in condizioni climatiche più calde e umide, non è ragionevole aspettarsi che questi ribassi da soli rallentino la trasmissione abbastanza da creare l’abbassamento della curva». Anche gli scienziati inoltre sottolineano che tra l’11 e il 19 marzo si è osservato un aumento del numero di casi in regioni con temperatura> 18 ° C di almeno 10mila persone.

Non vi sono quindi chiare evidenze scientifiche, ma si tratta di ipotesi basate su diverse osservazioni. In ogni caso per l’emisfero settentrionale la strada da percorrere non cambia: isolamento e distanziamento sociale più la chiusura quasi totale, misure che sembrano funzionare al di là delle bizze del tempo. Peraltro non potremmo – noi in Italia – permetterci di non agire per aspettare l’estate. La buona notizia è che se il clima contasse, anche la natura sarà a nostro favore nei prossimi mesi.

Carlo Reina

Bibliografia

https://arxiv.org/ftp/arxiv/papers/2003/2003.05003.pdf

https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3556998

 

Covid-19: cosa accade nelle terapie intensive

In questi giorni di quarantena che sembrano interminabili, scanditi da bollettini della protezione civile e dai telegiornali, si sono diffuse molte immagini provenienti dai reparti in cui si trovano i pazienti affetti da SARS-CoV-2.
I soggetti più gravi, che non riescono a ventilare autonomamente, vengono trasferiti in dei settori speciali chiamati terapie intensive.
Ma cosa sono questi reparti?
Come si evince dal nome si tratta luoghi in cui vengono ricoverati coloro che necessitano di attenzioni e cure speciali come per esempio il supporto delle funzioni vitali.


Di cosa dispone un reparto di terapia intensiva?

Solitamente ogni posto letto è dotato di un ventilatore meccanico autonomo, un defibrillatore, un impianto di aspirazione e un infusore, tutto il necessario per far fronte a qualsiasi emergenza.
Si è parlato tanto ultimamente della mancanza di spazio in questi reparti e la ragione sta proprio nella complessità delle apparecchiature richieste e nella difficoltà nel reperirle in tempi brevi.
Le terapie intensive italiane, infatti, non erano state progettate per sostenere un’epidemia di così vasta portata.

Vite sospese

Molti si chiedono come sia la permanenza in ospedale per i pazienti che hanno contratto il nuovo coronavirus. Molti sono intubati e sedati e dalle foto che ogni tanto trapelano, condivise sui social, spesso li si vede riversi a pancia in giù.
Questa posizione apparentemente innaturale ha generato delle domande nella popolazione del web e anche, a volte, paura per qualcosa che non capita di vedere spesso.
Ma perché i pazienti vengono pronati?

La pronazione

C’è un motivo per cui la pronazione è preferita rispetto alla supinazione nel trattamento dei pazienti con insufficienza respiratoria.
Uno studio del 1976 ha dimostrato un miglioramento nella ventilazione nei pazienti che vengono pronati, con un incremento della sopravvivenza del 10-17%.
La ragione del miglioramento è da ricercarsi nel reclutamento di aree polmonari prima non ventilate o dallo spostamento della perfusione dalle aree non ventilare a quelle ventilate.
Adesso, sorge spontanea un’altra domanda: perché il nuovo coronavirus ha costretto al ricovero di così tante persone in terapia intensiva?

La polmonite interstiziale

Il Covid-19 è un virus dalle manifestazioni multiformi: la presentazione clinica può variare da asintomatica a un lieve raffreddore fino a una polmonite interstiziale con grave insufficienza respiratoria. È proprio quest’ultima la ragione della pericolosità del patogeno, unita alla sua elevata contagiosità.
La gravità del quadro clinico nei pazienti appare subito evidente se si dà uno sguardo agli esami radiologici: 

  • nelle prime fasi si evidenziano delle opacità dette “a vetro smerigliato”, bilaterali, per aumento dello spessore del tessuto polmonare, e un ispessimento dei setti alveolari.
  • successivamente, queste opacità si estendono a tutto il polmone, arrivando nel tempo a consolidarsi grazie all’azione del virus stesso.

Questa situazione può prendere due strade, quella della risoluzione e quindi della guarigione o, purtroppo, quella della Sindrome da Distress Respiratorio Acuto.

Altre indagini strumentali

Molto utile si sta rivelando la TC del torace, considerata l’esame di scelta per lo studio del Covid-19, soprattutto nelle fasi iniziali, che mostrano sempre quelle aree di consolidamento e opacità disposte prevalentemente nei lobi inferiori e posteriori.
Tuttavia, questi sono reperti aspecifici, ritrovabili in altri quadri patologici.

L’ecografia invece, è strettamente riservata all’utilizzo da parte dei medici che lavorano in terapia intensiva perché prevede un contatto molto stretto tra operatore e paziente, oltre a richiedere una certa esperienza.

Si può prevedere l’andamento della malattia?

Purtroppo ad oggi, pur con le conoscenze che abbiamo acquisito in tempi da record, non è possibile sapere se un paziente andrà incontro a insufficienza respiratoria o meno.
L’unico parametro affidabile sembra essere la storia clinica pregressa della persona e le sue eventuali patologie, ma ogni giorno la ricerca fa un piccolo passo verso la risoluzione di questo enigma che è il SARS-CoV-2.
Si spera quindi che presto le terapie intensive diventino un luogo di speranza e di vita e non di morte.

 

 

Maria Elisa Nasso

Possibile vaccino contro il nuovo coronavirus?

Negli ultimi giorni l’infezione da coronavirus ha scatenato il panico nel nostro Paese: da un lato l’aumento dei contagi, dall’altro il diffondersi sui social di informazioni fuorvianti o del tutto fasulle, che mettono in ombra addirittura i canali ufficiali.
Arriva però una buona notizia, riportata inizialmente dal Wall Street Journal, riguardante il possibile inizio di un trial clinico in America per un vaccino, con un gruppo di volontari sani.

Il vaccino


La sintesi era iniziata lo scorso 7 febbraio e adesso alcune fiale di questo siero, denominato mRNA-1273, sono state inviate dalla società biotecnologica Moderna all’Istituto Nazionale delle Allergie e Malattie Infettive di Bethesda.
L’idea, secondo quanto comunicato stanotte dalla società stessa, è di far partire lo studio entro fine aprile, per verificare la risposta dei soggetti e l’eventuale immunizzazione nei confronti di Covid-19.

Per sintetizzare il vaccino, gli scienziati hanno utilizzato gli RNA messaggeri, molecole che trasferiscono informazioni genetiche all’interno delle cellule.
In particolare mRNA-1273 codifica per una forma stabilizzata di prefusione della proteina Spike del coronavirus.  
Questo siero dovrebbe simulare un’infezione naturale, stimolando una risposta più potente da parte dell’organismo e la produzione degli anticorpi.
Inoltre, rispetto ai vaccini tradizionali, quelli che utilizzano gli mRNA sono più rapidi nella loro azione e meno costosi da produrre, caratteristica fondamentale visti i tempi ristretti della ricerca.

Cosa accadrà?


Secondo Juan Andres, direttore delle operazioni tecniche e del controllo qualità presso Moderna, l’azienda “ha fatto uno sforzo immane, da record, per sintetizzare il vaccino” .
Dal sequenziamento del genoma virale sono infatti trascorsi circa 42 giorni e se il trial andasse a buon fine, sarebbe un traguardo incredibile.
I risultati, tuttavia, si avranno tra agosto e luglio, e in caso di riuscita ci vorranno mesi prima che il vaccino possa essere prodotto in massa.


Nei giorni scorsi, altre nazioni si sono prodigate nella ricerca di un modo per contrastare il Covid-19.
La
Cina ha dichiarato di aver iniziato a testare un vaccino sugli animali, mentre l’Australia ha terminato la fase di sperimentazione in laboratorio e sta per procedere nella stessa direzione.
In attesa di altre notizie dal mondo, ricordiamo ai nostri lettori di attenersi alle direttive del ministero e alle fonti di informazione ufficiali, senza cedere alle facili lusinghe della paura.

 

 

Maria Elisa Nasso

Chi dorme non piglia pesci, ma voti più alti

Quante volte, prima di un esame o di un’interrogazione, siete costretti a rinunciare a ore preziose di sonno per studiare? Le maratone notturne o la sveglia all’alba spesso si rendono necessarie per portare a termine il programma di studio, ma possono rivelarsi una pericolosa arma a doppio taglio.

Dormire migliora il rendimento scolastico

Il rendimento non dipende soltanto dalle ore di studio passate sui libri; molti altri fattori, individuali e ambientali, possono contribuire in maniera variabile. Tra i vari fattori, molti studi concordano sull’importanza centrale del sonno ai fini di un miglior profitto universitario e scolastico.

Quanto contribuisce il sonno?

Uno studio del 2015 ha provato a quantificare l’incidenza del sonno nei risultati universitari di circa 600 studenti di economia, seguendone il rendimento per un semestre. Ogni studente ha compilato un questionario che fornisce un punteggio utile a caratterizzare la qualità del sonno (PSQI, Pittsburgh Sleep Quality Index). Esso si ricava da molteplici fattori che dipendono dalla durata e dalla qualità del riposo e dallo stato fisico durante il giorno. Più alto è il punteggio ottenuto, peggiore è la qualità del sonno. Lo studio riporta come ad un aumento del punteggio si associ un peggioramento dei voti universitari di circa il 5%.

Non è importante solo quanto si dorme

Dormire bene non significa dormire solo un numero sufficiente di ore. Una pubblicazione su un’importante rivista evidenzia come la regolarità delle ore di sonno sia importante almeno quanto la durata. A parità di ore di sonno, soggetti che dormono mantenendo gli stessi orari e associando il ritmo sonno-veglia all’alternanza luce-buio, hanno un rendimento migliore rispetto a coloro che dormono in maniera irregolare.

Cosa accade alla nostra memoria durante il sonno

La memoria e il sonno sono due capitoli delle neuroscienze molto complessi e ancora non compresi fino in fondo.

La memoria, dal punto di vista informativo, può essere divisa in dichiarativa e procedurale. La prima consiste nella capacità di ricordare e riproporre verbalmente concetti precedentemente memorizzati; in ambito scolastico viene quindi principalmente utilizzata questo tipo di memoria.

Processazione della memoria durante il sonno
Fonte – Sculpting memory during sleep: concurrent consolidation and forgetting

Durante lo studio le informazioni vengono codificate in stimoli elettrici, raggiungono il nostro cervello e sono inizialmente immagazzinate in una piccola regione che prende il nome di ippocampo. L’ippocampo non rappresenta il sito finale di archiviazione dei ricordi, che dovranno essere ulteriormente consolidati a livello della corteccia cerebrale. Il sonno sembrerebbe avere un ruolo centrale nel “dialogo” tra ippocampo e corteccia che starebbe alla base di questo processo.

Durante il sonno sembrerebbero verificarsi delle riattivazioni ripetute dei circuiti cerebrali formati durante l’apprendimento di nuove informazioni che ne determinerebbero l’archiviazione a livello della corteccia. Questo processo sembra contribuire al potenziamento della memoria dichiarativa.

Il riposo notturno pare stare alla base anche dell’omeostasi della memoria: durante il sonno si osserva infatti uno “sfoltimento” delle connessioni nervose. In particolare sembrerebbe verificarsi una riduzione delle connessioni deboli che lascerebbe spazio all’immagazzinamento di nuove informazioni al risveglio e, allo stesso tempo, al consolidamento dei ricordi importanti. Il principio ricorda molto la potatura di un albero, con l’obiettivo di eliminare le parti più deboli e lasciare spazio allo sviluppo dei rami più forti.

Dormi bene e rendi meglio

Nonostante i ritmi didattici possano essere frenetici e il tempo sembri sempre non bastare, sono numerose le ragioni per cui si debba preferire una sana dormita ad una maratona notturna. Allo stesso tempo, dormire un po’ di più al mattino potrà garantirvi una maggior lucidità e quindi dei migliori risultati.

Adesso che siete a conoscenza dei benefici del sonno mettete da parte i sensi di colpa e concedetevi qualche ora in più di sano riposo.

Antonino Micari

Modafinil, la smart drug degli studenti universitari

Chi non ha mai desiderato di non sentire la fatica?
Rimanere sveglio e concentrato sui libri è il sogno segreto di ogni studente, soprattutto in questo mondo frenetico che richiede standard di qualità sempre più alti.
Tutti in corso, tutti con la media del trenta, senza tener conto delle difficoltà che i ragazzi incontrano nella vita di tutti i giorni.
Senza tener conto dei loro sentimenti.
I nostri giovani sono stressati, alla disperata ricerca di quella voglia di studiare, di quella scintilla che però sembra non arrivare mai.
E se esistesse un farmaco capace di aumentare le capacità cognitive?

Il Modafinil

Modafinil è il nome di un farmaco promotore della veglia, utilizzato nel trattamento di sonnolenza diurna e narcolessia.
Aumenta lo stato di veglia, le prestazioni lavorative e la creatività, in modo simile alla caffeina, ma con un meccanismo diverso.
Tuttavia il Modafinil non può compensare la perdita di sonno e i suoi effetti debilitanti sul fisico.
Nei soggetti con sclerosi multipla può anche agire sul tono dell’umore, migliorandolo.
A seconda della dose può durare in media dalle 4 alle 8 ore.
Uno studio del 2015 dimostrava che tale farmaco migliora l’apprendimento nelle attività complesse senza troppi effetti collaterali.
Aumenta inoltre la plasticità del pensiero e la capacità del soggetto di associare concetti diversi.

E rispetto ad altri farmaci?

Sembra che il Modafinil presenti un profilo di sicurezza più alto rispetto ad altre molecole, come l’Adderall.
Quest’ultimo è utilizzato nel trattamento dell’ADHD e secondo i dati raccolti non solo è meno efficace, ma dà anche molti più effetti indesiderati oltre al rischio di assuefazione.
Anche rispetto ad altri componenti della stessa famiglia, come l’Adrafinil, il più “vecchio” tra questi, il Modafinil ha delle prestazioni migliori.

Consigli sull’assunzione

Essendo un neurostimolante, il farmaco può dare tolleranza, cioè una riduzione dell’efficacia in seguito ad assunzione giornaliera.
Si raccomanda quindi di assumerlo non più di tre volte a settimana e di non superare i 200 mg, per evitare ripercussioni sulla salute. Meglio non fare la fine di Icaro!
Bisogna tenere a mente che si parla comunque di farmaci che agiscono sul sistema nervoso, il cui delicato equilibrio deve essere rispettato.

È possibile acquistarlo?

In Italia è necessaria la ricetta per poter acquistare il Modafinil.
La maggior parte di coloro che ne fanno uso, però, lo acquista online da aziende europee, aggirando di fatto questa legge.
Ci sono anche dei composti alternativi, legali nel nostro paese, con azione simile ma meno efficaci (Fladrafinil e Adrafinil) che possono essere delle valide alternative.
In ogni caso, l’utilizzo del Modafinil si sta espandendo sempre di più sia tra gli studenti che tra i lavoratori e questo trend continuerà verosimilmente ad aumentare.
Si spera dunque che con il crescere dei numeri non ci siano casi di effetti avversi negli anni a venire.

                 Maria Elisa Nasso

Coronavirus cinese: vera epidemia o allarmismo?

Nonostante le speranze e i desideri espressi allo scattare del nuovo anno poche settimane fa, sembra che il 2020 non sia iniziato col verso giusto. Giungono infatti allarmanti notizie dalla Cina sulla diffusione di un nuovo virus che minaccia di provocare un’altra epidemia di polmonite. Al momento non sono noti dati certi riguardanti le vittime della malattia, né si sa quanti siano stati contagiati.

Il virus è simile a quello della SARS (sindrome respiratoria acuta grave), una forma atipica di polmonite apparsa per la prima volta nel novembre 2002 nella provincia del Guangdong in Cina. La malattia, identificata per la prima volta dal medico italiano Carlo Urbani, era risultata mortale in circa il 15% dei casi.

Il timore dei governi è che, con i flussi migratori ed i quotidiani scambi di merci tra Paesi, la malattia possa propagarsi molto velocemente, arrivando ad avere un impatto su scala globale.
Sono stati segnalati anche alcuni casi oltreoceano, di persone provenienti dalla Cina che hanno manifestato segni di febbre e compromissione respiratoria.
È infatti di poche ore fa la notizia di una cantante italiana, rientrata da un viaggio in oriente, ricoverata per sospetto contagio da parte del virus incriminato.
Ma di cosa si tratta esattamente?

I coronavirus

Questo nuovo virus, per adesso è stato intitolato “2019‐nCoV”, appartiene alla famiglia dei coronavirus, virus costituiti da RNA, così chiamati per la loro forma a corona.
I coronavirus si attaccano alla membrana cellulare delle cellule bersaglio grazie a delle proteine di ancoraggio e rilasciano al loro interno l’RNA virale che intacca i ribosomi, organelli cellulari importanti per la sintesi proteica.
Il virus si replica e forma i virioni che sono poi rilasciati per esocitosi, andando a infettare altre cellule.
Dal punto di vista clinico, se alcune volte la sintomatologia di un soggetto infetto può essere indistinguibile da un semplice raffreddore, sembra che questa famiglia sia anche responsabile di circa il 20% delle polmoniti virali.

Dov’è iniziato tutto

Secondo le fonti ufficiali, il contagio sarebbe iniziato a Wuhan, capoluogo della provincia dello Hubei, popolosa città della Cina centrale, in un mercato ittico.
Come spesso accade, all’interno di questi centri di commercio vengono venduti anche animali vivi o selvaggina abbattuta, non sottoposta a controlli sanitari. Il rischio in questi casi è che gli animali siano portatori asintomatici di patogeni che una volta a contatto con l’uomo possono infettarlo.
Similmente alla SARS isolata nello Zibetto, anche questo coronavirus riconosce come iniziale serbatoio un ospite animale:
i pipistrelli ed i serpenti, come dimostrato da uno studio di ricercatori cinesi appena pubblicato.

Il salto di specie

Una volta penetrato il corpo umano, il virus ha subito un’ulteriore mutazione, diventando qualcosa di completamente nuovo. È stato infatti visto che il virus ha acquisito la capacità di trasmettersi da uomo a uomo, un problema non da poco, considerando l’alta densità demografica della Cina.
Non c’è da stupirsi infatti che l’epicentro del contagio sia stato isolato dal resto del Paese (e del mondo) e che la sua popolazione sia stata messa in quarantena.

Precauzioni e rischi

La natura sconosciuta di questo virus, la sua rapidità di diffusione e la pericolosità per la salute hanno fatto presto a scatenare il panico tra la popolazione mondiale, a causa del rimbalzare delle notizie sui social. Come accennato, il Governo cinese ha attuato delle misure imponenti per evitare che l’infezione si allarghi a macchia d’olio, arrivando a chiudere centri culturali e monumenti storici. Nonostante le voci di un fantomatico vaccino, gli esperti smentiscono un suo sviluppo in tempo utile e guardano al futuro con prudenza.

Il timore più grande è dovuto alla mancata condivisione di informazioni da parte della Cina circa l’effettiva gravità della situazione, visti i precedenti con la gestione della SARS.
Al momento non sembra esserci alcun allarme pandemia, nonostante continuino ad arrivare segnalazioni di nuovi casi.
Se dovesse presentarsi il problema, tuttavia, i nostri medici si dicono pronti ad affrontarlo con tutte le armi a loro disposizione.

                                                                                                      Maria Elisa Nasso

Può un uomo credere di essere morto?

“Dottore, dottore, sono morto!”. Potrebbe essere la scena di un film, invece è davvero possibile che un medico senta una tale frase pronunciata da un paziente. Si tratta della Sindrome di Cotard, conosciuta anche con il nome di “sindrome dell’uomo morto”.

La sindrome di Cotard è un raro disturbo caratterizzato dalla presenza del cosiddetto “delirio di negazione”.
Il soggetto affetto non percepisce più alcun tipo di stimolo emozionale e la sua coscienza spiega questo fenomeno convincendosi di non essere più in vita o di aver perso tutti gli organi interni preposti a tale scopo.

Si evidenziò per la prima volta il 28 giugno 1880, quando Jules Cotard presenta, alla Société Médico-Psychologique, una comunicazione che lo renderà celebre dal titolo “Du délire hypocondriaque dans une forme grave de mélancolie anxieuse” dove riporta il caso di una donna di 43 anni che sostiene di non avere cervello, nervi, torace, stomaco e intestino; tutto quello che le era rimasto erano la pelle e le ossa.

La malattia era iniziata due anni e mezzo prima quando la signora aveva manifestato una grande spossatezza e ansia affermando di sentirsi come un’anima persa. Riteneva, a causa dello stato del suo corpo, di non doversi nutrire, di non potere più morire di morte naturale pensando che l’unico mezzo per porre fine ai suoi giorni fosse quello di essere bruciata viva.

Cotard affermò di avere descritto una nuova varietà clinica di melanconia ansiosa grave le cui caratteristiche sono costituite da:

  • melanconia ansiosa
  • idee di dannazione o possessione
  • tendenza al suicidio e alle automutilazioni
  • analgesia
  • delirio ipocondriaco di non-esistenza o di devastazione di alcuni organi o del corpo intero
  • delirio di immortalità

Al giorno d’oggi sono pochi i casi descritti.

Uno studio condotto presso l’ U.O. di Neurologia, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Pisa, espone la condizione di un paziente con sospetta sindrome di Cotard.

Riguarda un uomo, EC di 82 anni, senza alcuna storia familiare di disturbi psichiatrici che vive in famiglia. Operoso e partecipe a tutte le attività familiari, il paziente è stato profondamente colpito dalla morte di una sorella verificatasi sei mesi prima di giungere all’osservazione dei medici. Due mesi dopo l’evento luttuoso il paziente ha iniziato a riferire vaghe rachialgie.

Progressivamente l’anziano era divenuto inquieto, preoccupato per il persistere della sintomatologia dolorosa, iporessico ed insonne, aveva abbandonato l’abitudine di fare lunghe passeggiate e si era rifiutato di recarsi al supermercato per le compere quotidiane, rispondendo faticosamente e con parole imprecise alle domande dei familiari.

Un mese prima della valutazione medica, gradualmente, EC aveva manifestato deficit di attenzione, di memorizzazione e di esecuzione di calcoli aritmetici. Nel contempo l’uomo era divenuto ansioso, perplesso, come spaventato, perseverante su previsioni di morte. Successivamente aveva avvertito che il suo corpo era cambiato. Infine si era rifiutato di nutrirsi ritenendosi morto.

Il paziente fu mandato in ambulatorio per i disturbi cognitivi nel sospetto di una sindrome demenziale a decorso sub-acuto. L’anamnesi orientava verso un quadro Cotardiano nell’ambito di una depressione maggiore con manifestazioni psicotiche.

Il paziente fu quindi trattato con farmaci antidepressivi e il quadro clinico ha mostrato una progressiva risoluzione sintomatologica dalla seconda settimana di terapia fino a remissione totale con reintegrazione nel ruolo familiare e nel contesto sociale del soggetto dopo circa quaranta giorni di trattamento farmacologico.

Ma vi sono basi neurobiologiche per spiegare la sindrome di Cotard?

Per quel che riguarda l’aspetto psicologico/neuropsicologico, alcuni studi hanno evidenziato nei pazienti con sindrome di Cotard una disposizione psicologica individuale definibile come stile attribuzionale introiettivo.

Numerosi studiosi infatti analizzarono l’assessment neuropsicologico di pazienti con la sindrome di Cotard ed evidenziarono che il profilo neuropsicologico, attraverso il test di riconoscimento di facce, non mostrava deficit a carico di funzioni cognitive quali le capacità di ragionamento, la memoria visuospaziale per i luoghi, la memoria di riconoscimento verbale, ma i deficit riguardavano il riconoscimento delle facce e le stime cognitive (funzioni esecutive).   

La perdita del significato emotivo di ogni esperienza sensoriale, determinerebbe il delirio di negazione, ovvero “Io sono morto”, quale unica spiegazione per la totale mancanza di emozioni. In particolare le anomalie percettive, soprattutto per i volti, causate dal deficit neurologico di elaborazione emotiva del riconoscimento visivo interagiscono con lo stile attribuzionale interno determinando un vissuto depressivo importante che, a sua volta, è alla base del delirio di negazione.

Anche la diagnostica per immagini ha contribuito nell’approfondire le conoscenze su tale patologia, soprattutto TC e RMN, così come la medicina nucleare: in alcuni pazienti attraverso la SPECT si evidenziò una riduzione di flusso cerebrale.

Solitamente, la sindrome di Cotard viene trattata con medicinali antidepressivi e antipsicotici, associati a delle sedute di psicoterapia. In questo percorso si tende, generalmente, a coinvolgere i familiari, in quanto il paziente potrebbe non riconoscere il proprio stato in piena autonomia.

Nonostante la sindrome di Cotard non sia riportata nel DSM (Manuale Diagnostico e Statistico delle malattie mentali), e nonostante sia associata ad altre patologie neuropsichiatriche, verosimilmente rappresenta una sindrome ben definita e ciò dovrebbe stimolare i ricercatori a studiarne ulteriormente i meccanismi fisiopatologici. 

Carlo Reina

Le nuove frontiere della chirurgia: il disco intervertebrale bio-ingegnerizzato

Il dolore alla schiena e al collo è una delle più frequenti patologie nella popolazione generale e colpisce i due terzi degli adulti.
Il dolore cronico è inoltre tra i fattori che contribuiscono ad aumentare gli anni vissuti con disabilità e le spese mediche per curarlo sono esorbitanti rispetto ai risultati esigui.
Nonostante le cause effettive siano sconosciute, la degenerazione del disco intervertebrale è senza dubbio una delle principali.
Tale degenerazione è dovuta a una combinazione tra morte cellulare, disorganizzazione del tessuto fibroso e perdita di proteoglicani nel nucleo polposo.
Il collasso del disco, infine, ne compromette del tutto la funzione, provocando una vasta gamma di disturbi, tra cui appunto il dolore.

Le attuali conoscenze

Considerando l’incidenza di tale patologia e la mancanza di terapie efficaci c’è un grande bisogno di condurre studi in questo campo.
L’ingegneria tissutale sembra offrire ottime prospettive: sostituire il disco degenerato con uno bio-ingegnerizzato potrebbe essere la risposta al problema.
Ad oggi un buon numero di dischi bio-ingegnerizzati sono stati realizzati e testati in vitro, ma non abbastanza in vivo.
Comprendere il funzionamento a lungo termine di questi dispositivi, su modelli animali, è essenziale per poterli poi traslare in studi clinici su esseri umani.
Per fare questo gli scienziati hanno realizzato una struttura simile a un disco, per mimare perfettamente l’anatomia del segmento spinale e l’hanno poi impiantata nei ratti da laboratorio.
I materiali scelti sono acido ialuronico seminato con cellule o gel di agarosio e poli-ε caprolactone, i primi per la loro alta idratazione, mentre il secondo per la natura robusta e resistente alla trazione. 

I risultati

I dati dello studio sui ratti mostrano che questi dischi risultavano avere delle caratteristiche molto simili a quelle reali a 20 settimane.
L‘integrazione funzionale di un disco ingegnerizzato in vivo non è stata dimostrata in precedenza, ma questo è un punto di riferimento critico per la traduzione clinica.
Poiché la funzione del disco nativo è principalmente di natura meccanica, i carichi di pressione sulla colonna vertebrale sono supportati attraverso lo sviluppo della pressione idrostatica all’interno del nucleo polposo che mette in tensione le fibre di collagene dell’anello fibroso.
Inoltre le interfacce del disco nativo con quello adiacente sono fondamentali per la corretta funzione meccanica e sono essenziali.
Viene dimostrato anche che il disco può essere fabbricato con successo da cellule derivate dal midollo osseo.
Una fonte cellulare più clinicamente rilevante per l’ingegneria dei tessuti del disco rispetto alle cellule della colonna.
Dallo studio emerge anche che la colonna cervicale di capra è un modello preclinico particolarmente attendibile per la sua statura semi-eretta e l’altezza e la larghezza dello spazio del disco simile alla colonna cervicale umana.
Dispositivi dimensionati per il disco cervicale di capra potrebbero essere utilizzati in una sostituzione totale del disco nell’uomo, usando lo stesso approccio chirurgico e la stessa strumentazione.

Cosa ci prospetta il futuro

L’ingegneria dei tessuti è promettente come strategia di trattamento per i pazienti con degenerazione del disco allo stadio terminale che richiedono un intervento chirurgico.
Dopo l’impianto in vivo, una sostituzione del disco ingegnerizzata con successo nel tessuto ripristinerebbe l’altezza dello spazio del disco nativo, si integrerebbe con i dischi adiacenti, riprodurrebbe la funzione meccanica del disco sotto carico fisiologico e conserverebbe una popolazione cellulare vitale per mantenere la composizione e la distribuzione della matrice simili a il disco nativo e sano.
Per progredire verso la traduzione clinica, i dischi ingegnerizzati dovrebbero essere infine valutati utilizzando modelli animali di grandi dimensioni con geometria, anatomia e meccanica comparabili alla colonna vertebrale umana.
Si spera dunque che in un futuro prossimo possano essere fatti passi avanti nella ricerca e che con i nuovi strumenti medici si possa restituire una vita dignitosa a coloro che soffrono di dolore cronico.

 

Maria Elisa Nasso

 

Si può predire l’aggressività di un soggetto osservandone il volto?

© Pinterest - psychcentral.com

Il volto è ciò che principalmente ci contraddistingue: piccole differenze nei tratti facciali possono suscitare reazioni diametralmente opposte in un osservatore. L’attrazione, la fiducia o la diffidenza sono influenzate dalle caratteristiche del viso di un’altra persona. Ma il nostro parere corrisponde alla realtà? Sarebbe possibile stimare l’aggressività di un soggetto soltanto guardandolo in faccia?

Negli anni in molti hanno provato a dare una risposta scientifica a queste domande. Sfortunatamente definire associazioni ben precise non è semplice. I tratti fisionomici da analizzare sono tantissimi e difficilmente possono essere esaminati separatamente in quanto si influenzano a vicenda.

Il rapporto tra la larghezza e l’altezza del volto per predire l’aggressività

Nel tentativo di predire l’aggressività, una proposta che possa tenere conto di più caratteristiche è quella del rapporto tra larghezza e altezza del volto (fWHR: facial width to height ratio). La larghezza è misurata tra gli zigomi, l’altezza è misurata dal margine superiore della bocca al margine inferiore dalle sopracciglia.

Uno studio del 2009 ha dato conferma del fatto che gli osservatori reputassero più aggressivi i volti che presentavano un rapporto aumentato. Altri studi successivi hanno poi confermato la stessa evidenza. Ciò può indicarci che stimare la potenziale aggressività di un soggetto sulla base delle caratteristiche del viso potrebbe essere vantaggioso per la sopravvivenza. Quest’analisi ha un razionale comportamentale: chi è arrabbiato o aggressivo tende ad abbassare le sopracciglia e alzare leggermente le labbra, riducendo l’altezza e alzando quindi il rapporto.

fWHR di personaggi famosi
© Youtube – Manlytq – fWHR di personaggi famosi

Una teoria simile venne ipotizzata oltre un secolo fa

Fu un medico e antropologo italiano, Cesare Lombroso, a gettare le basi secondo cui il comportamento e il temperamento potessero essere previsti sulla base della fisionomia. Egli formulò delle osservazioni pseudoscientifiche per cui alcuni uomini possano presentare delle tendenze criminali fin dalla nascita e manifestarlo attraverso delle caratteristiche ben precise. Queste includono, per esempio, delle sopracciglia sporgenti o una mandibola particolarmente pronunciata.

Nel secolo scorso la teoria venne ritenuta quasi un modello in ambito criminologico, pur non essendo suffragata da dati reali. In effetti questi tratti antropometrici possono influenzare il rapporto tra larghezza e altezza del viso. L’attuale analisi di questo rapporto da parte degli studiosi può contribuire a dare il giusto valore alla teoria storica.

Chi ha un rapporto maggiore è davvero più aggressivo?

Si è tentato di trovare una risposta a questa domanda con lo studio di discipline sportive. In particolare l’analisi si è basata su dati come cartellini, penalità e sanzioni che possano in qualche modo essere riflesso dell’aggressività degli atleti.

Un primo studio del 2008 ha analizzato il fWHR nei giocatori di hockey. Il rapporto risultava essere aumentato nei giocatori più irregolari durante le partite, che in particolare passavano più tempo fuori dal campo a causa delle penalità. Nel 2014 è stata osservata un’associazione tra il valore e la performance di combattimento in atleti di uno sport di combattimento (MMA). Ciò è dimostrazione, quindi, che maggiore è la larghezza del loro volto maggiori sono i risultati sportivi in combattimento.

Nel 2018 però un ampio studio su giocatori di calcio mette in dubbio l’associazione tra il fWHR e l’irregolarità nello sport, contraddicendo quanto sostenuto prima. Non c’è alcuna associazione tra la caratteristica del volto e il numero di cartellini gialli o rossi assegnati, né sui falli commessi.

Non sembrano esserci differenze tra donne e uomini

Nonostante alcuni studi affermassero che vi fosse una differenza significativa nell’analisi del rapporto tra donne e uomini, i risultati sono stati contraddetti da un lavoro del 2013. L’esame di una popolazione di 4960 persone non ha trovato alcuna associazione tra il fWHR e il sesso. Inoltre questo studio ha valutato un’eventuale associazione con l’aggressività al di fuori del contesto sportivo. Sono stati messi a paragone un campione di prigionieri condannati per vari crimini con un gruppo di cittadini incensurati, non trovando alcuna differenza significativa della caratteristica del volto.

Anche se, più o meno consapevolmente, sviluppiamo delle opinioni sulla base della fisionomia dei soggetti non c’è una conferma inequivocabile del fatto che possano effettivamente essere fondate, almeno per quanto riguarda la possibilità di valutare l’aggressività dal volto.

Insomma, sulla base delle informazioni scientifiche fin’ora a nostra disposizione, mai giudicare un libro dalla copertina!

Antonino Micari

Studiare medicina: sogno o incubo? La depressione tra gli studenti

Fin dai tempi antichi lo studio della medicina ha sempre affascinato l’uomo.
Chi riusciva a comprendere il complesso meccanismo del corpo umano era osannato e paragonato quasi a un dio, intoccabile e indiscusso.
Oggi la figura del medico, pur ridimensionata, è ancora importante dal punto di vista sociale.
Non stupisce, dunque, che siano in molti covare il desiderio di poter vestire un giorno il camice bianco.
Sia per un riscatto sociale che la professione sembra poter dare, sia per una effettiva passione per queste materie così affascinanti.
A volte però il sogno di una vita può trasformarsi in un vero e proprio incubo. Orari massacranti, privazioni, rinunce ai propri hobby per non restare indietro con gli esami e lo stress accumulato dallo studio per superare i test di ingresso creano un cocktail esplosivo. Tutto ciò nuoce alla salute mentale di molti ragazzi e anche i più appassionati possono ritrovarsi in un limbo: bloccati tra l’amore per ciò che studiano è l’ansia per una meta che sembra non arrivare mai.

Cosa dicono gli esperti

Uno studio che ha coinvolto varie università americane mostra risultati allarmanti.
L’obiettivo era stimare la percentuale di studenti che manifestavano una sindrome depressiva o intenzioni di suicidio tramite questionari e interviste.
Gli studiosi hanno preso in considerazione studenti di medicina provenienti da ben 43 Paesi diversi.
Il 27,2% di questi studenti presentava sintomi depressivi, che sono rimasti invariati durante il periodo degli studi (quindi sia durante i primi anni che negli anni successivi, quelli in cui si studiano materie prettamente cliniche e, magari, più stimolanti).
Per quanto riguarda invece il pensiero ricorrente al suicidio, si attestava all’11 % con 24 Paesi partecipanti.
Inoltre fu dimostrato che chi presentava depressione durante gli anni dell’università tendeva a portare dietro questi segni anche una volta conseguita la laurea, con gravi ripercussioni sulla produttività lavorativa.

La pressione sociale

I giovani si trovano dunque stretti in una morsa: da una parte le aspettative della famiglia e della società, dall’altra il senso di inadeguatezza nei confronti dei colleghi.
La competizione gioca un ruolo fondamentale, e lo studente può arrivare anche a compiere gesti estremi, sotto il peso delle materie accumulate.
Molto spesso si sentono infatti notizie di ragazzi che si tolgono la vita perché non riescono ad affrontare le difficoltà universitarie.


In questo mondo che è sempre di corsa, alcuni non trovano spazio per dedicarsi alla salute mentale, che viene trascurata a lungo.
Altre motivazioni a questa alta prevalenza della depressione negli studenti di medicina potrebbero essere i frequenti contatti con la malattia e la morte, che raramente lasciano indifferente chi è alle prime armi.

Una possibile soluzione

È importante riconoscere al più presto le avvisaglie della depressione e intervenire con delle sedute di psicoterapia, mirate a individuarne la causa.
Anche la sensibilizzazione dei giovani sull’approccio a questa patologia potrebbe essere un ottimo punto di inizio per sradicare il problema.
Tuttavia il primo ostacolo da abbattere è senza dubbio il pregiudizio.
I taboo che ancora girano intorno a chi soffre di questa malattia pregiudicano l’adesione a qualunque tipo di trattamento, con risvolti a volte tragici.
Si spera quindi che un giorno tali barriere possano essere abbattute, per migliorare la permanenza dei giovani all’università.

Maria Elisa Nasso