Troppo pigri? Dormire bene ci protegge

“Chi dorme non piglia pesci” recita un noto proverbio, eppure dormire è importantissimo per il nostro benessere fisico e mentale.

Le conseguenze della carenza di sonno sulla salute sono note da tempo e riguardano molteplici aspetti. Secondo alcuni studi dormire poco aumenterebbe il rischio di avere incidenti stradali, ridurrebbe la memoria e la capacità di concentrazione ed avrebbe anche ripercussioni comportamentali. Nello specifico, facendo dei confronti tra due gruppi di persone che dormivano rispettivamente sei ore e mezza e sette ore e mezza, nei secondi si avrebbe una riduzione dei processi infiammatori, dell’attivazione del sistema immunitario e dello stress.

Ma questo non sembrerebbe tutto, infatti, un riposo continuativo e della giusta durata ridurrebbe il rischio cardiovascolare e il rischio di andare in contro ad obesità ed alle relative conseguenze.

Una bella dormita aiuterebbe a regolare la produzione nel midollo osseo delle cellule infiammatorie e si occuperebbe anche di preservare la salute dei vasi sanguigni. Al contrario, l’interruzione del sonno bloccherebbe questi meccanismi portando a più infiammazioni e un aumento delle malattie cardiache.

I ricercatori del Massachusetts General Hospital (MGH) hanno confermato un aumento del rischio di infarto cardiaco e dello sviluppo di aterosclerosi (patologia caratterizzata dalla deposizione di colesterolo a livello delle pareti vasali con conseguente infiammazione della stessa e possibile occlusione del vaso) in soggetti con disturbi del sonno, scoprendo il pathway attraverso cui quest’ultimo ci proteggerebbe. A fare da protagonista sarebbe l’ipocretina, un importante neurotrasmettitore noto per correlare con la veglia, che controlla anche la produzione di CSF1, un fattore stimolante la produzione di monociti, importanti effettori del sistema immunitario e in condizioni particolari, parte attiva dei processi aterosclerotici. Quello che Swirski ed il suo team hanno visto è che i topi che presentavano una frammentazione del sonno, avevano una carenza di ipocretina ed una maggiore espressione di CSF1 con conseguente monocitosi (aumento dei monociti in circolo) presentando anche delle lesioni aterosclerotiche molto più grandi rispetto ai topi di controllo con un sonno regolare (vedi Figura 1). Se questo studio venisse confermato sull’uomo, l’ipocretina potrebbe addirittura essere utilizzata a scopo terapeutico.

Figura 1

I disturbi del sonno hanno un impatto negativo anche sulle scelte alimentari, sulla fame e sull’appetito, comportando conseguenze metaboliche deleterie, che se sopraggiungono in giovane età rischiano di essere portate agli estremi patologici nella vita adulta.

Normalmente è facile associare l’obesità all’idea di sedentarietà e se questo è vero, è anche vero che dormire poco, ma soprattutto dormire male, è uno dei nuovi fattori di rischio individuati per l’obesità. Milioni di persone nel mondo soffrono di insonnia o comunque non ottengono un riposo soddisfacente. Abitudini queste, che predispongono il soggetto ad una serie di patologie metaboliche a causa di un “disallineamento circadiano”. Per ritmo circadiano sonno-veglia “normale” si intende l’alternarsi di fasi diurne (luce) in cui si è svegli e fasi notturne (buio) in cui si dorme.Molti sono i motivi riconducibili a questo disallineamento di cui parlano gli americani McHill e Wright, come ad esempio l’avvento delle nuove tecnologie che permette di lavorare anche al di fuori degli orari diurni soliti, o disturbi ambientali, come rumore e temperatura.

A prescindere dall’eziologia, ciò che hanno riscontrato è che la media di ore di sonno notturne è intorno alle sei ore, quando se ne consigliano almeno sette. Eppure è spontaneo pensare che, essendo la veglia il momento più facile della giornata per consumare energie, dormire poco dovrebbe favorire la magrezza; ma così non è. L’organismo, per sostenere una corretta vigilanza e garantire prestazioni costanti durante la giornata, compenserebbe facendo aumentare l’assunzione di cibo; ed è proprio l’apporto calorico in positivo, oltre le quantità realmente necessarie, a favorire l’accumulo di massa grassa. Dati di laboratorio segnalano un riarrangiamento degli ormoni in circolo correlati rispettivamente con la fame e con la sazietà. In particolar modo si avrebbe un aumento dei primi ed una riduzione dei secondi.

E ancora alla Risonanza magnetica encefalica, un’indagine strumentale che mostra l’attività cerebrale a seconda degli stimoli in tempo reale, si è riscontrato un aumento dell’attivazione delle aree del cervello che controllano la fame.

Ma come si correla tutto questo con il rischio di andare incontro al diabete?

Come si legge nello studio di Spiegel e colleghi, pubblicato su Lancet, soggetti che dormivano 4 ore a notte per una settimana, hanno mostrato una riduzione della sensibilità all’insulina (ormone che favorisce la riduzione del glucosio in circolo, permettendone l’utilizzo da parte delle cellule dell’organismo) che non riuscirebbe più a mantenere la glicemia nei range normali, con il raggiungimento di valori molto simili a quelli dei soggetti con diabete conclamato.

Sicuramente sonno insufficiente e disallineamento circadiano sono dei nuovi fattori di rischio per l’obesità che devono essere attenzionati soprattutto nei soggetti già predisposti.

Simili studi devono essere ulteriormente sviluppati, in particolar modo per valutare come questi possano essere intrecciati con altri fattori come dieta ed attività fisica, e quali siano i meccanismi per la disregolazione metabolica. Nel frattempo…cosa ci fate ancora svegli? Correte a dormire!

Claudia Di Mento

 

Bibliografia:

https://www.nature.com/articles/s41586-019-0948-2

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/obr.12503

https://www.physiology.org/doi/full/10.1152/japplphysiol.00660.2005

https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(99)01376-8/fulltext

Tumori: è possibile farli “morire di fame”?

La ricerca percorre ogni giorno strategie diverse nel tentativo di sconfiggere il cancro. Un passo in avanti molto promettente è emerso da un ragionamento tanto intuitivo quanto efficace: perché non sfruttare il modo in cui il tumore si nutre per combatterlo? 

Sebbene esistano innumerevoli tipologie di tumori, esistono caratteristiche ben definite che le accomunano. 

Tali caratteristiche permettono la cosiddetta progressione tumorale. Il tumore riesce nel tempo a diventare più invasivo, resistente sia al sistema immunitario che alle terapie, acquisendo sempre maggiore malignità. Ciò è permesso dalla eterogeneità delle cellule tumorali che mutano continuamente, per cui anche se molte cellule effettivamente non sopravvivono, altre sfuggono a ogni controllo e continuano a moltiplicarsi. Ma svolgono un ruolo centrale anche particolari alterazioni metaboliche. 

Già nel 1924 Otto Heinrich Warburgpremio Nobel nel 1931, postulò la cosiddetta ipotesi di WarburgDi norma, in base alla disponibilità di ossigeno, le cellule sfruttano due vie metaboliche per tratte energia: in condizioni di aerobiosi prediligono la fosforilazione ossidativa; in condizioni di anaerobiosi sono costrette a ricorrere alla glicolisi e alla fermentazione lattica. Secondo l’effetto Warburg, caratteristica chiave della cellula tumorale è quella di prediligere la glicolisi aerobia 

Sono state avanzate due spiegazioni per tale comportamento: 

  • Man mano che il tumore cresce, in stadi precoci in cui si ha scarsa vascolarizzazione, le cellule tumorali si trovano in condizioni più o meno gravi di ipossia, per cui sopravvivono le cellule che prediligono la glicolisi; tali modifiche diventerebbero permanenti anche ristabilendo la normossia. 
  • Un’ipotesi più recente si basa sull’idea che la cellula tumorale ha come unico scopo quello di moltiplicarsi, e per farlo deve sintetizzare DNA, RNA, organelli cellulari, per cui necessita non solo di energia, ma di intermedi del metabolismo da cui ottenere lipidi, proteine e acidi nucleici. La glicolisi, pur fornendo meno energia (sotto forma di molecole di ATP) rispetto alla fosforilazione ossidativa, fornisce gli intermedi necessari alla sintesi di tutti i componenti cellulari. 

Quindi la cellula tumorale, sebbene possa attuare anche la fosforilazione ossidativa, è strettamente dipendente dal glucosio. 

Proprio su queste caratteristiche peculiari delle cellule tumorali si è concentrata la ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Cancer Cell, coordinata da Saverio Minuccidirettore del Programma Nuovi Farmaci dell’Istituto Europeo di Oncologia, e sostenuta dalla Fondazione AIRC. 

Era già noto che la restrizione calorica e il cosiddetto intermittent fasting, ovvero il digiuno intermittente, fossero degli approcci utili per contrastare la crescita tumorale e per incrementare l’efficacia dei trattamenti chemioterapici.
Tuttavia, la restrizione calorica causa spesso eccessiva perdita di peso, nausea, disordini della riparazione delle ferite e del sistema immunitario; mentre l’intermittent fasting non ha particolari effetti collaterali e anzi, protegge da alcuni effetti tossici dei chemioterapici. 
Inoltre, il metabolismo energetico delle cellule tumorali può essere bersagliato tramite la metformina, farmaco diffusamente utilizzato nel trattamento del diabete di tipo 2: essa contrasta e rallenta la fosforilazione ossidativa, deviando l’utilizzo del glucosio verso la glicolisi.  

Basandosi su ciò, i ricercatori hanno architettato un esperimento su topi, nei quali sono state impiantate cellule di melanoma prelevate da pazienti, suddividendo diversi gruppi: 

  • Due gruppi di topi non sono stati sottoposti a restrizioni alimentari; di questi, uno è stato sottoposto a trattamento con metformina. 
  • Tre gruppi sono stati sottoposti a intermittent fasting, con periodi di digiuno di 24 ore; di questi, due gruppi sono stati trattati con metformina, di cui uno nei periodi di digiuno, l’altro nei periodi di alimentazione. 

Tale organizzazione ha permesso di valutare l’efficacia dei trattamenti combinati, anche con tempistiche diverse. Il tutto paragonato a topi “controllo” sottoposti a trattamento singolo o non trattati. 

Il digiuno intermittente è risultato efficace nel ridurre i livelli di glucosio a livello del tumore, a conferma di precedenti studi; la metformina, da sola, non ha mostrato effetti rilevanti. 
Il risultato più importante è stata la grave compromissione della crescita tumorale nei topi soggetti a entrambi i trattamenti, indicativa dell’effetto anti-proliferativo della metformina, specialmente se somministrata durante i periodi di ipoglicemia. 

Ulteriori studi su colture cellulari hanno spiegato che sono proprio i bassi livelli di glucosio a sensibilizzare le cellule all’azione citotossica della metformina, da cui l’efficacia del loro sinergismo. Intuitivamente si comprende che, riducendo i livelli di glucosio, la cellula tumorale si trovi costretta a deviare dalla glicolisi verso la fosforilazione ossidativa, e poiché la metformina antagonizza proprio tale via metabolica l’ipoglicemia è una premessa fondamentale per renderla efficace. In sostanza, in condizioni di ipoglicemia la metformina attiva un complesso meccanismo intracellulare che sfocia nell’apoptosi o morte programmata della cellula tumorale. 
Di seguito i dettagli molecolari per gli interessati. 

 

Per comprendere quali fossero gli attori molecolari in gioco, i ricercatori hanno inibito diversi enzimi studiando le conseguenti risposte cellulari. L’enzima chiave si è rivelato essere la glicogeno sintasi chinasi 3β (GSK3β) che, se inibita, rendeva le cellule resistenti al trattamento. È stato ipotizzato che la combinazione di basso glucosio e metformina fosse responsabile della mancata fosforilazione di questo enzima, con la sua conseguente iperattivazione.  

La GSK3β è coinvolta nella regolazione della sintesi proteica, della proliferazione e differenziazione cellulare e dell’apoptosi. La sua iperattivazione porta all’incremento della degradazione di MCL-1, una proteina anti-apoptotica; quindi nel complesso viene favorita l’apoptosi. 

Inoltre, gli studiosi hanno identificato la proteina responsabile della defosforilazione e quindi attivazione della GSK3β: si tratta di PP2A, una fosfatasi, la cui assenza, così come l’inibizione della GSK3β, rende le cellule resistenti al trattamento. I bassi livelli di glucosio incrementano l’attività di PP2A influenzandone una subunità regolatoria. Inoltre, PP2A è inibita dalla proteina CIP2A: quest’ultima è il bersaglio della metformina, che ne riduce i livelli aumentandone la degradazione. 

Quindi la combinazione di bassi livelli di glucosio e metformina permette sinergicamente l’attivazione di PP2A, che attiva GSK3β, la quale riduce i livelli di MCL-1 portando alla morte della cellula. Tutto questo è stato infine confermato non più su colture in vitro ma sui topi in vivo. 

Tali risultati sono estremamente promettenti, ma rimangono incognite l’efficacia sull’uomo e l’entità reale della riduzione della crescita del tumore. 
Inoltre, esistono tumori in cui i componenti dell’asse molecolare PP2A-GSK3β-MCL-1 o altre proteine che con essi interagiscono sono alterati, determinando una probabile insensibilità al trattamento: in pratica, non tutti i pazienti rispondono alla metformina. 

In ogni caso, afferma Minucci: “Siamo nelle condizioni di avviare immediatamente studi clinici, e questo passaggio così rapido è molto raro nel passaggio dalla ricerca di base alla clinica, ed è per noi motivo di grande soddisfazione e di aspettativa per gli sviluppi futuri”. 

Non resta che attendere, con orgoglio del forte contributo italiano, gli sviluppi di una ricerca che fa davvero ben sperare.  

Davide Arrigo

 

Bibliografia:

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1535610819301527?via%3Dihub 
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5095922/
 

E se la terapia genica curasse la sordità?

L’udito è il primo dei cinque sensi a svilupparsi durante la gravidanza e mediare i primi contatti del nascituro con l’ambiente esterno. Esistono delle patologie però, diagnosticate solitamente in epoca neonatale, che impediscono questi contatti e che prendono il nome di sordità congenite. A loro volta queste si suddividono in sindromiche e non sindromiche.

Oltre la metà dei casi di sordità congenita non sindromica, cioè non associata ad altre anomalie del corpo, ha una causa genetica e circa l’80% di questi casi è dovuta a forme autosomiche recessive (entrambe le copie del gene sono mutate) note con la sigla DFNB. La patologia colpisce l’orecchio interno, in particolar modo le cellule predisposte alla ricezione del suono presenti a livello di un complesso chiamato Organo del Corti, causando nei bambini affetti una perdita dell’udito bilaterale che solitamente è congenita. Viene definita come prelinguale, se ostacola l’apprendimento della parola, oppure a volte può avere insorgenza tardiva (meno frequente) e per questo definita postlinguale (dopo i 36 mesi di vita).

Un tipo particolare di malattia (DFNB9) presenta una mutazione a carico del gene OTOF che codifica per una proteina l’otoferlina: si parla di sordità prelinguale di grado severo.

È noto ormai da quasi 20 anni che topi privi di otoferlina sono sordi e non presentano le normali risposte neuronali a seguito di stimoli acustici. La prima cosa che si pensò fu che l’otoferlina mutata potesse alterare la morfologia delle sinapsi delle cellule ciliate, la cui funzione è quella di trasformare i suoni percepiti in un messaggio chiaro per il cervello.

Queste strutture però sia nei topi con mutazione sia nei topi sani, si presentavano similari. Dunque, i ricercatori ipotizzarono che il ruolo della proteina fosse da ricercarsi in processi legati alla dinamica delle vescicole sinaptiche più che ad alterazioni morfologiche delle stesse; infatti diversi test, condotti da Roux e colleghi, nel 2006 rivelarono che l’otoferlina interagisce con i componenti dell’apparato di secrezione vescicolare attraverso dei meccanismi calcio-dipendenti ed una sua mutazione impedisce il legame della stessa al calcio ione. La diretta conseguenza è che viene manomessa la fusione delle vescicole alla membrana presinaptica con liberazione del neurotrasmettitore in esse contenuto. Essendo impedito questo meccanismo, qualsiasi impulso sonoro non riesce ad essere trasmesso dal nervo acustico e quindi percepito in maniera cosciente dal soggetto.

Gli impianti cocleari sono attualmente l’unica opzione terapeutica per recuperare l’udito in questi pazienti. Questi sono dei dispositivi in grado di trasformare i suoni in impulsi elettrici e di inviarli al nervo acustico, nonostante l’alterazione funzionale e/o morfologica degli apparati a monte.

Uno studio pubblicato il 19 Febbraio 2019 sulla rivista PNAS, potrebbe però aprire nuovi scenari eclatanti e per farlo si servirebbe della terapia genica.

Secondo questa ricerca la terapia genica risolverebbe definitivamente la sordità congenita nei topi in modo tale che a breve cominceranno i primi test sull’uomo. Omar Akil ed il suo team sono riusciti a ripristinare l’udito in topi adulti affetti da DFNB9 sfruttando il DNA come un farmaco: l’iniezione del gene mutato (gene OTOF), veicolato da vettori virali (virus adeno-associati), sembrerebbe correlare con il ripristino a lungo termine dell’espressione di otoferlina nelle cellule ciliate ed il ripristino della funzione uditiva.

I segreti di questa tecnica sono da ricollegare alla possibilità di andare a “tagliare” le porzioni di materiale genetico interessate dalla mutazione ed andarle a sostituire inserendo il gene corretto, con relativa espressione della proteina prima difettosa.

Inoltre sembrerebbe non essere importante il periodo di somministrazione della terapia. Il sistema uditivo si forma in utero già entro le prime 20 settimane, mentre la diagnosi si fa solitamente in età neonatale e non alla nascita. Questo apre nuovi scenari nella terapia delle sordità congenite, insieme a quelle con mutazione d‘otoferlina, suggerendo sviluppi imminenti che potrebbero cambiare drasticamente la vita di questi bambini.

Claudia Di Mento

Sindrome di Tourette

Immagina di essere a una cena molto elegante, in un ristorante di super lusso, per un evento importante tipo un matrimonio. Con gli altri invitati, tutta gente per bene, discuti sottovoce per non disturbare i commensali, e i temi della conversazione vanno dall’arte alla scienza. Tra tutte c’è una bellissima ragazza, delicata e ben vestita, che leggiadramente osserva gli invitati. Mentre stai ascoltando attento l’argomento della conversazione, la ragazza tanto educata di prima si alza con furia, iniziando a lanciare improperi e bestemmiando, poi corre via. La situazione potrà sembrare un po’ paradossale, e forse anche Marc Itard, pedagogista di metà ottocento, si sorprese nell’assistere alla sfuriata della marchesa Dampiérre andata in escandescenze senza un apparente motivo durante una cena di gala.

Tanto fu bizzarro il caso che Itard decise di appuntarlo, senza però riservargli molta considerazione. Solo un cinquantennio dopo, sul finire del 1800, un grande medico neurologo francese, tale Gilles de La Tourette, attenzionò lo scritto di Itard, ed incuriosendosi per la quantomeno anomala sintomatologia, decise di ricercare e studiare casi simili a quello della Marchesa. Dopo anni di campionamento, Tourette potè finalmente dimostrare l’esistenza di un complesso di sintomi, fisici e psicologici che erano riscontrabili in un campione più o meno vasto. Le manifestazioni di quella che venne poi chiamata sindrome di Tourette sono comunque state tralasciate per circa un secolo dalla nosografia psichiatrica, per poi essere riprese, dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e dall’APA (American Psychiatric Association) circa un ventennio fa nel DSM (Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali).

Ecco i criteri diagnostici aggiornati all’ultima edizione del manuale (DSM-V):

A. Frequenti manifestazioni ticcose (almeno 3 tic motori e 1 vocale) associate a coprolalia.
B. I sintomi devono presentarsi per un periodo minimo di un anno.

C. Stati d’ansia e agitazione.
D. L’esordio della malattia deve essere prima dei 18 anni di vita.
E. I sintomi non devono essere riconducibili ad altra condizione medica o all’utilizzo di sostanze.I sintomi devono dare luogo a un disaggio significativo.

Visti i sintomi risulta chiaro quanto tale sintomatologia, che coinvolge l’intero funzionamento dell’individuo, possa essere invalidante, e stereotipizzi il soggetto, che risulta impossibilitato a vivere una vita normale.

L’ICD10 (International Classification of Diseases) risulta molto più completo sotto il punto di vista strutturale della patologia, evidenziando le possibili implicazioni fisiologiche associate al disturbo e dividendole in due categorie:

  1. Un disordine neurologico causato da un un mancato funzionamento dei neurotrasmettitori nel cervello. Ciò è caratterizzato da movimenti involontari (Tic motori) e incontrollabili suoni (Tic verbali).
  2. Un disordine neuropsicologico relativo al metabolismo della dopamina e dei neurotrasmettitori coinvolti nella zona frontale-subcorticale.

I moderni studi di neuroimmagine hanno evidenziato anche un parziale coinvolgimento della struttura piramidale ed extrapiramidale, responsabile del movimento involontario in questi pazienti.

La farmacologia risulta parecchio compromessa dalle commorbilità dei pazienti che risultano nel 65% dei casi affetti anche da DOC (Disturbo Ossessivo Compulsivo) spesso legato al gioco d’azzardo.
Seppure si eleggano come farmaci da utilizzare neurolettici e antipsicotici, in particolare l’Olanzapina che agisce sui recettori D1, D2 della dopamina, molte delle manifestazioni del disturbo rimangono inalterate e a ciò si associano gli effetti collaterali dati dall’uso degli psicofarmaci, che seppure moderati rispetto a quelli dei farmaci tradizionali, presentano comunque, nei soggetti predisposti, delle controindicazioni.

A supporto della terapia farmacologica, si affianca una psicoterapia, generalmente di tipo cognitivo comportamentale, volta anche ad affievolire i disturbi dati dalle commorbilità con Depressione Maggiore, ADHD, e DOC.

Per il controllo delle manifestazioni ticcose è stato riscontrato un moderato successo dell’Habit Reversal Trainig, che portando allo stato di coscienza i movimenti involontari, e quindi rendendoli noti al paziente, tenta di limitarne la frequenza.

Seppure ci sia ancora parecchio da scoprire sulla patologia, è importante informare i ragazzi sulla sindrome di Tourette in modo tale da evitare di stereotipare e isolare questi giovani, che spesso abbandonano gli studi proprio perché il contesto classe non è accogliente nei loro confronti.

Paola Puleio