Saranno i lama a salvarci dal nuovo Coronavirus?

Il SARS-CoV-2 ha messo il mondo moderno di fronte a una situazione senza precedenti. Rispetto agli altri Coronavirus si diffonde molto più rapidamente e causa stadi patologici molto critici. Gli scienziati di tutto il mondo stanno lavorando per porre fine ai danni che sta generando. Sono in atto tantissimi studi che promettono una cura efficace contro la COVID-19 e un vaccino che possa prevenirla. Ma se il segreto fosse nel sangue dei lama?

Come potrebbero aiutarci i lama

Gli anticorpi, l’esercito che ognuno di noi ha per poter combattere i patogeni, hanno una struttura formata da due catene leggere e due catene pesanti. Rispetto agli umani, i camelidi (lama, cammelli e alpaca) presentano anche una variante contenete soltanto le catene pesanti. Una porzione del loro anticorpo, quella che va a riconoscere l’antigene, è conosciuta come nanocorpo (nanobody). Grazie alle loro piccole dimensioni, stabilità e facilità di produzione sono spesso utilizzati in diagnostica in alternativa agli anticorpi convenzionali.

http://www.vitares.org/index.php/it/magazine/40-nano-anticorpi-una-lezione-imparata-da-cammelli-e-squali

Un gruppo di ricerca britannico ha focalizzato la sua attenzione su queste particolari strutture. Utilizzando anticorpi provenienti dal sangue di un lama hanno creato dei nuovi nanobody che riescono ad interagire con il SARS-CoV-2 bloccando il suo ingresso nelle cellule umane.

Lo studio

Pubblicato su “Nature Structural & Molecular Biology”, lo studio degli scienziati del Rosalind Franklin Institute approfondisce in particolare due nanobody: H11-D4 e H11-H4, i quali hanno avuto maggiore affinità per il virus.

Il genoma del SARS-CoV-2 codifica per le proteine Spike. Queste particolari proteine si trovano sulla superficie del virus e sono particolarmente importanti per poter infettare le cellule. Mediante il dominio legante il recettore (RBD) possono legarsi al ACE2 (enzima 2 convertitore dell’angiotensina), presente sulla superficie delle cellule umane, e successivamente invadere l’organismo. Infatti queste strutture (ACE2) rappresentano la porta di ingresso per il virus nelle cellule.

Il legame tra le due strutture, risulta essere molto più forte rispetto a quello dei precedenti Coronavirus, sottolineando la pericolosità del nuovo virus. Le proteine Spike hanno suscitato molto interesse per i ricercatori; andando a bloccarle era possibile evitare il loro legame con la cellula, di conseguenza inibire l’infezione.

Lo studio rivolge la sua attenzione proprio su questo aspetto. I nanocopri riescono a legarsi alle proteine Spike occupando la porzione della proteina che si lega con ACE2. In questo modo risulta impossibile per il virus infettare la cellula.

Inserendo il virus in una coltura di cellule umane, H11-D4 e H11-H4  hanno impedito che il virus entrasse all’interno delle cellule per potersi moltiplicare. Ciò ha dimostrato che le piccole strutture riescono a neutralizzare il virus. Tra le due si è osservato che H11-H4 è quello che  ha una maggiore potenza.

https://www.rfi.ac.uk/engineered-llama-antibodies-neutralise-covid-19-virus/

Sempre in questo studio gli scienziati hanno dimostrato che i nanocorpi possono trovare applicazione anche in combinazione con anticorpi umani. I “nanocorpi umanizzati” hanno dimostrato di essere più efficaci rispetto ai singoli componenti: diventa più difficile per il virus sfuggire alla terapia in queste condizioni.

Ottimismo per i nanocorpi

Abbiamo visto come il plasma convalescente ha migliorato notevolmente i risultati clinici in pazienti con COVID-19 suggerendo che l’immunizzazione passiva può essere utile come terapia. I nanocorpi  potenzialmente potrebbero essere utilizzati in un modo simile al plasma convalescente, avendo anche dei vantaggi. Essendo strutture molto più piccole rispetto agli anticorpi umani sono facili da produrre in laboratorio (potrebbero quindi essere sintetizzati su richiesta).

Le ricerche sono state condotte soltanto in coltura cellulare, quindi vanno ancora fatti approfondimenti prima di poter affermare l’efficacia sull’uomo. Nonostante ciò i ricercatori sono ottimisti e pensano che i loro nanocorpi potrebbero essere applicati in terapia per immunizzazione passiva di pazienti COVID-19 in gravi condizioni.

Eppure chi lo avrebbe mai pensato che la soluzione stava nel sangue del lama !

Georgiana Florea

Infezione da Sars-Cov-2 negli animali: incidenza e trasmissione

Dall’inizio della pandemia si è spesso discusso del ruolo degli animali domestici nella diffusione del virus. Ad oggi però non esiste ancora nessuna evidenza che affermi che essi abbiano un compito attivo a riguardo. In ogni caso alcuni studi sperimentali dicono che ne sono occasionalmente suscettibili. La suscettibilità al virus, per quanto se ne sappia ad oggi, può influenzare l’animale quasi esclusivamente se i proprietari di esso siano infetti e, pertanto, l’animale domestico si trova costantemente in un ambiente in cui è presente una forte circolazione viraleIn queste condizioni non è così strano se anche il gatto o il cane di casa arrivino a contrarre l’infezione. Al fine di non creare allarmismi è bene però sottolineare che la possibilità che un animale domestico infetti un umano non è ancora stato dimostrato e, a oggi, non è mai avvenuto. Al contrario, seppur in pochi casi, è stato riscontrato che alcuni umani abbiano infettato i loro animali. Per ridurre i rischi al minimo sarebbe opportuno evitare di lasciare che altre persone, al di fuori della propria famiglia, prendano contatto con i propri amici a quattro zampe, a meno che essi abbiano bisogno di cure veterinarie. E’ importante applicare il distanziamento sociale non solo agli umani ma anche agli animali.

L’infezione nei cani

Ad inizio giugno, il National Veterinary Services Laboratories del dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti ha confermato un caso di Coronavirus in un pastore tedesco a New York. Al cane sono stati prelevati dei campioni dopo che esso ha mostrato alcuni problemi respiratori, i quali sono poi migliorati di giorno in giorno. Si è scoperto che uno dei proprietari del cucciolo era positivo al virus ancora prima che la Covid-19 colpisse il pastore tedesco.

Un secondo cane della stessa famiglia, tuttavia, non ha riscontrato alcun sintomo, ma nonostante ciò gli sono stati rilevati anticorpi, suggerendo quindi che abbia contratto il virus proprio come il suo compagno di giochi, seppur con un esito diverso. Ad oggi, dati i pochi casi, non si è ancora capito se il virus sia in grado di causare gravi danni al migliore amico dell’uomo.

E’ però certo che non esiste alcuna prova che affermi che i cani possano infettare le persone.

L’infezione nei gatti

Sempre ad inizio giugno è stata accertata la positività di un gatto nel Minnesota. Qui il veterinario ha deciso di capire l’eventuale positività al virus del felino in quanto esso presentava una temperatura corporea elevata ed aveva problematiche respiratorie simili a quelle causate dalla Covid-19. Inoltre il suo proprietario era risultato positivo alla malattia già una settimana prima, e quindi anche in questo caso sembra che il virus sia stato trasmesso dall’uomo all’animale. Proprio per quanto riguarda i gatti però, una lettera sul Journal of Medicine del New England ha fatto notare che per questo animale domestico è possibile trasmettere il Coronavirus ad altri esseri viventi della sua specie.Per questo motivo nelle zone ad elevato rischio contagio si consiglia di isolare il proprio gatto dagli altri felini.A livello globale sono stati riscontrati pochi altri animali domestici risultati positivi al SARS-CoV2.

Cosa è consigliato fare se sono malato di Covid-19, o se sospetto di esserlo?

In questo caso al fine di preservare la salute dell’animale, bisogna limitare il contatto con esso.Sarebbe opportuno chiedere a qualcuno di fiducia di occuparsi del proprio cane o gatto che sia.Se non si conosce nessuno a cui chiedere un favore simile, è bene continuare a prendersi cura del proprio animale domestico tramite alcune precauzioni come lavarsi le mani prima e dopo essere entrati in contatto con lui ed utilizzare una mascherina quando si è in sua presenza. Come abbiamo visto non c’è assolutamente bisogno di creare allarmismi al riguardo. Solo in alcuni casi è bene prendere un paio di accorgimenti al fine di garantire la loro buona salute.

Possiamo quindi continuare a godere della buona amicizia che ci offrono senza preoccupazioni!

Roberto Cali’

Bibliografia

https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-animali-domestici

https://www.oregonvma.org/care-health/zoonotic-diseases/coronavirus-faq

https://content.govdelivery.com/accounts/USDAAPHIS/bulletins/28eae2e

https://www.startribune.com/carver-county-pet-cat-tests-positive-for-coronavirus/570963412/?refresh=true

https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMc2013400

Scoperto il primo farmaco specifico contro il Sars-CoV-2

Il Sars-CoV-2 ha sconvolto di punto in bianco la quotidianità del mondo, Stato per Stato e continente per continente. E se inizialmente le news che le varie testate giornalistiche riportavano erano poco rassicuranti ed i numeri delle casistiche erano neri come poche altre pandemie nella storia, adesso sono sempre di più i titoli che riportano notizie incoraggianti su diversi approcci terapeutici nella gestione della malattia. Ricerca che corre parallela a quella per un vaccino, indispensabile per garantire che, chi non sia stato fino ad ora contagiato, non lo sia nemmeno in futuro.

A che punto siamo

Fino ad ora le conoscenze sul SARS-CoV-2 sono aumentate esponenzialmente e di pari passo anche ai singoli approcci terapeutici. Avevamo già visto come primo baluardo l’uso del Tocilizumab, del Remdesevir, per poi passare all’eparina e concludere con una disamina di tutte le terapie sperimentali fino ad ora approvate in Italia. Tutti protocolli studiati (alcuni ancora in corso di studio) che hanno fatto ben sperare ed hanno dato risultati evidenti.

Prendere dei farmaci “in prestito” da altre patologie con le quali, la Covid-19, condivide il forte substrato immunogeno, ci ha permesso di attuare una resistenza attiva al virus e di limitare la mortalità entro certi range che altrimenti sarebbero stati di molto peggiori.

Poco però, fino a questo momento, si era riuscito a fare nella messa a punto di un farmaco specifico per il SARS-CoV-2.

La svolta

Negli scorsi giorni è stato raggiunto un nuovo traguardo, tra i più rilevanti, e cioè l’introduzione del primo anticorpo monoclonale umano altamente specifico per il Coronavirus. Si tratta un di un anticorpo prodotto artificialmente, che però presenta la stessa struttura e gli stessi meccanismi d’azione delle immunoglobuline (=anticorpi) prodotte fisiologicamente dai pazienti infetti, fondamento della recente terapia con il plasma.

Esemplificazione dell’interazione anticorpi (in viola) proteine spike del Coronavirus (in rosso). – Claudia Di Mento©

Il suo nome è 47D11 e potrebbe essere considerato il primo trattamento antivirale specifico per la Covid-19. Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, conferma il lavoro condotto precedentemente dallo stesso autore Berend-Jan Bosch e dal suo team pubblicato su BioRxiv.

Per interferire con l’organismo umano, il virus richiede l’interazione di alcune proteine trimeriche di superficie, dette Spikes, con il recettore cellulare ACE2. La proteina Spike presenta una porzione S1, che si occupa del legame, ed una porzione S2 che si occupa della fusione della membrana del virus con la membrana cellulare dell’ospite.

In particolare è a carico della regione S1 che si trova il Receptor Binding Domain (RBD) che è il target dell’immunoglobulina artificiale. Bloccare questo sito, significa impedire il legame del SARS-CoV-2 e determinare l’impossibilità di quest’ultimo di infettare nuove cellule. Si tratta del primo risultato scientifico in grado di bloccare il virus all’opera.

In basso vediamo come i topi che presentano produzione anticorpale riescano ad inibire il legame della proteina spikes al recettore ACE2. Fonte:https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0092867420302622

Ma lo studio non si è limitato solo a questo. Gli esperti hanno infatti confrontato altri membri della famiglia Coronaviridae, in particolar modo SARS-CoV e MERS-CoV. Sappiamo che tra questi ed il nuovo SARS-CoV-2 esistono numerose analogie in determinate regioni geniche.

47D11 lega una regione che è altamente conservata (RBD), spiegando così la sua capacità di neutralizzare in modo crociato sia il SARS-CoV, che SARS-CoV-2. Si rende perciò possibile anche uno scopo terapeutico nei confronti della famosissima SARS del 2003. Per la MERS, invece, i risultati sono stati contrari.

Ma queste scoperte non dovrebbero stupire più di tanto, in quanto Berend Jan Bosch non è infatti nuovo al mondo della ricerca in questo campo, avendo già studiato da vicino la SARS ed avendo con sé un background di tutto rilievo. Che abbia trovato la via più rapida per risolvere il problema contemporaneo?

Si noti l’affinità di 47D11 con SARS-CoV e SARS-CoV-2, ma non con MERS-CoV. Fonte: https://www.nature.com/articles/s41467-020-16256-y

Conclusioni

La domanda che tutti si pongono è: è forse il primo passo concreto verso una cura specifica? Probabilmente sì. I test, eseguiti in atto solo su cellule in coltura, fanno ben sperare e l’utilizzo sull’uomo non sembra poi così lontano.

Ma il potenziale di 47D11 non si limita solo alla cura dei soggetti affetti, si stanno vagliando infatti anche le ipotesi che possa essere utilizzato per i tanto richiesti test sierologici, ma soprattutto che possa essere sfruttato per la messa a punto di un vaccino efficace. Trattandosi infatti di un anticorpo umano, riduce di molto eventuali rischi nel suo utilizzo e soprattutto i tempi di preparazione, che non tengono conto del passaggio da specie intermediarie, come ad esempio i topi nel caso degli anticorpi chimerici.

Insomma, sembrerebbe solo questione di tempo. Che si riescano a prendere due piccioni con una fava?

                                                                                                                            Claudia Di Mento

Plasma di soggetti guariti contro il COVID-19: ottimismo per il nuovo trattamento

Sono oltre 70000 in Italia le persone che hanno vinto la battaglia contro il Coronavirus. Potrebbero aiutare chi ancora sta lottando con il virus? Utilizzare il plasma dei pazienti guariti come terapia per l’infezione da SARS-CoV-2 fa ben sperare.

Farmaci Covid-19: a che punto siamo

La pandemia da Coronavirus ha creato una grave crisi sanitaria in tutto il mondo.  Sviluppare un vaccino o dei farmaci antivirali specifici in questo momento rappresenta una priorità, ma si prospettano ancora tempi non molto vicini per la loro commercializzazione ed utilizzo.

Nell’attesa si è dato il via all’utilizzo di farmaci off-label come lopinavir/ritonavir, idrossiclorochina, eparina; essendo “presi in prestito” da altre malattie, questi farmaci non presentano indicazioni terapeutiche specifiche per il trattamento della Covid-19. In questo momento sono in atto diversi studi sperimentali che si spera portino presto a nuove informazioni in merito alla loro reale efficacia e sicurezza.

Tra le varie proposte di trattamento nell’ultimo periodo ha attirato l’attenzione la possibilità di curare gli infetti con il plasma dei pazienti che hanno già superato l’infezione.  Per gli esperti non è niente di nuovo, in passato fu già utilizzata con successo anche per altre epidemie come SARS, MERS e H1N1 con efficacia e sicurezza soddisfacenti.

Terapia con il plasma, cosa significa?

Quando vi è in atto l’invasione da parte di un microrganismo, l’uomo attiva il suo sistema immunitario per difendersi. Si instaura così un meccanismo di riconoscimento del patogeno da parte dei leucociti, che genera una risposta mediata dalla produzione di anticorpi specifici per eliminarlo. Questo processo però richiede tempo, spesso anche settimane, e in base al tipo d’infezione l’individuo potrebbe anche perdere la vita. La formazione di anticorpi specifici per un microrganismo è quindi fondamentale.

Tra i vari anticorpi prodotti da un’individuo nel corso dell’infezione abbiamo: le IgM e le IgG. Le prime sono immunoglobuline prodotte nelle prime fasi dell’infezione e la loro presenza nel sangue indica un’infezione in corso. Le IgG, prodotte più tardivamente, indicano invece l’immunizzazione del paziente verso il patogeno nel tempo. Ovvero, la presenza di quest’ultime nel sangue dell’individuo indica che esso ha contratto il virus e ha già sviluppato un “esercito” pronto a combatterlo.

Un recentissimo studio pubblicato su Nature Medicine conferma che, i pazienti con Covid-19, a distanza di 19 giorni dai sintomi, hanno sviluppato tutti (285 i casi esaminati) immunoglobuline-G (IgG) contro SARS-CoV-2.

Ottenuto attraverso la centrifugazione del sangue, il plasma rappresenta la sua parte liquida, all’interno della quale sono presenti vari componenti, principalmente acqua, proteine (tra queste anche anticorpi) e sali minerali.

Fornire ad un malato di Covid-19 il plasma proveniente da un paziente precedentemente infetto, potrebbe essere utilizzato come cura, ma anche come profilassi per sfuggire all’infezione.

 

Lo studio

In Cina è stato effettuato uno studio che riporta l’esito dell’utilizzo di questa pratica clinica. I dati riguardano pochi pazienti, quindi vanno eseguiti ulteriori sperimenti e verifiche sulla sua effettiva sicurezza ed efficacia. I primi risultati suggeriscono che potrebbe essere un approccio utile nel trattamento dei pazienti più critici.

Prelevati da 40 pazienti guariti, 39 campioni di plasma hanno dimostrato di avere un alto titolo di anticorpi. Per svolgere il trattamento in completa sicurezza il plasma, prima di essere somministrato, è stato trattato eliminando eventuali tracce di Coronavirus o altri patogeni. Ad essere arruolati sono stati 10 pazienti con una media di 52,5 anni che presentavano sintomi importanti.

Gli effetti della terapia

Somministrando 200 mL di plasma si è potuto osservare un miglioramento dei sintomi clinici (febbre, dolore al petto, tosse) entro 3 giorni e la scomparsa della viremia dopo 7 giorni. Esami radiologici hanno mostrato assorbimento delle lesioni polmonari entro 7 giorni. Lo studio ha dimostrato anche sicurezza della trasfusione e assenza di effetti avversi severi.

Benché sia una ricerca preliminare, ha provato che la terapia con il plasma può migliorare le condizioni cliniche del paziente e neutralizzare la viremia.

I primi trial clinici anche in Italia

Ultimamente l’interesse degli esperti si è rivolto verso questo tipo di cura. La Food and Drug Administration ha già approvato il trial clinico per l’impiego del plasma da convalescenti come trattamento per i pazienti critici con infezione da Covid-19.

Non solo all’estero! Anche l’Italia si sta muovendo in questa direzione, in diversi ospedali sono già iniziate le sperimentazioni nei pazienti più gravi. Gli ospedali di Mantova, Pavia, Roma sono solo alcuni in cui si sta già adottando questa tecnica che finora ha dato esiti positivi.

Nonostante la dimostrazione che ci sia una ripresa con una riduzione della convalescenza, la terapia  potrebbe presentare dei limiti: una sola donazione basta per pochi pazienti e non tutti gli anticorpi sono potenti in egual modo.

E se potessimo selezionare soltanto gli anticorpi migliori?

Sempre basata sul plasma dei guariti, gli esperti stanno cercando anche un’altra soluzione: gli anticorpi d’elitè.  A lavorarci è un gruppo di ricercatori del Rockefeller University Hospital di New York. Il piano è di trovare i pazienti che hanno combattuto il virus talmente bene che i loro anticorpi potranno diventare farmaci. Trovati quelli più efficaci, schierati dal sistema immunitario contro il SARS-CoV-2, il fine ultimo è di clonarli e usarli in campo clinico. Iniettare un concentrato di questi “super anticorpi” sarebbe utile per combattere il virus in pazienti e prevenire l’infezione in popolazioni ad alto rischio.

In una rapida evoluzione della pandemia, c’è bisogno di una cura efficace e mirata contro la Covid-19, come anche un vaccino che possa prevenirla. Nell’attesa del loro sviluppo, l’utilizzo della terapia con plasma convalescente potrebbe essere una soluzione.

Georgiana Florea

Eparina e Covid-19: come e perchè della nuova sperimentazione AIFA

Negli ultimi giorni è stata data molta attenzione all’utilizzo dell’eparina nella terapia contro il SARS-CoV-2. Descritta da alcune testate giornalistiche con titoli sensazionalistici come “cura contro il Coronavirus” o letteralmente “molecola di Dio”l’eparina è davvero una novità tanto importante? Importante lo è senz’altro, ma una novità certamente no, vediamo perché. 

Cos’è l’eparina e quando viene utilizzata

L’eparina è una molecola con funzione principale di anticoagulante naturale. Si lega a un fattore del sangue, l’antitrombina III (AT-III), che a seguito del legame con l’eparina stessa cambia conformazione esponendo il suo sito attivo. L’AT-III attivata a sua volta inattiva la trombina, il Fattore X, e altre proteasi coinvolte nella coagulazione del sangue. Per la sua funzione biologica l’eparina viene utilizzata da decenni in casi di infarto miocardico, fibrillazione atriale, trombosi venosa profonda, embolia polmonare ed altre condizioni in cui si formano trombi nel circolo sanguigno.  

Perché utilizzare l’eparina in una polmonite virale

Non bisogna pensare che, in corso di polmoniteil resto dell’organismo non sia coinvolto. Possono essere variamente interessati cuore, reni, fegato, cervello e nervi, sistema emopoietico (ecco un articolo divulgativo della Fondazione Veronesi). Ciò può avvenire per azione diretta del virus, o anche per azione indiretta. La spiegazione è semplice: in corso di polmonite, specie se di grave entità, vengono rilasciate elevate quantità di chemochine e citochine pro-infiammatorie che agiscono a livello sistemico e alterano, tra gli altri, il normale equilibrio della coagulazione. Infiammazione e coagulazione sono strettamente correlate e si influenzano vicendevolmente, anche a livello polmonare. 

Queste complesse interazioni molecolari sono state comprovate clinicamente da diversi studiRicerche condotte nell’ambito del “MEGA study” (Multiple Environmental and Genetic Assessment of risk factors for venous thrombosis), uno degli studi più estesi mai compiuti per lo studio di fenomeni trombotici, hanno confrontato 4956 pazienti affetti da TVP (trombosi venosa profonda) o EP (embolia polmonare) contro oltre 6000 controlli. Nell’ambito di tali gruppi, è stato dimostrato come, nella sottopopolazione di pazienti affetti da polmonite, il rischio di andare incontro a TVP fosse di 3-4 volte maggiore e il rischio di EP, con o senza TVP, fosse da 6 a 10 volte maggiore.  

Per queste ragioni, già note, l’utilizzo di eparina a scopo preventivo è indicato dall’OMS in corso di COVID-19 fin da inizio gennaio. 

Le caratteristiche della COVID-19 che fanno ben sperare

Sono state riscontrate alcune peculiarità che hanno catturato l’attenzione della comunità scientifica. 

Premettendo che il fulcro del discorso sono i pazienti ricoverati in terapia intensiva, e non tutti i soggetti positivi al SARS-CoV-2, un recente studio ha evidenziato come oltre il 30% dei soggetti ammessi in ICU manifesti complicanze trombotiche. Si tratta di un’incidenza molto significativa che non va sottovalutata.  

Inoltre è stato dimostrato che il Sars-Cov-2 lega l’eparan-solfato e l’eparina endogena prodotti dal nostro organismo e localizzati soprattutto nella membrana basale delle arterie polmonari. Il legame avviene tramite il dominio RBD della proteina Spike S1 e provoca un’importante alterazione conformazionale che inattiva tali molecole. Non solo le molecole endogene, ma anche l’eparina esogena subisce lo stesso effetto. Questo apre le porte a diversi ragionamenti: da un lato il virus provoca direttamente, oltre che scatenando un’intensa risposta infiammatoria, un’alterazione dei processi emocoagulativi; dall’altro l’eparina potrebbe avere un ruolo nel “sequestrare” il virus inibendone l’ingresso nelle cellule.  

Non a caso si sta ipotizzando la somministrazione del farmaco per via inalatoria, nebulizzata, per sfruttare questa sua azione diretta “antivirale”. 

L’eparina non è solo un anticoagulante

La sperimentazione dell’eparina in casi di ALI (Acute Lung Injury), come può essere la ARDS (Sindrome da Distress Respiratorio Acuta) da qualsiasi causa, è in corso da oltre un decennioIl razionale di ciò è che tale molecola ha dimostrato in numerosi studi molte altre proprietà oltre a quella anticoagulante 

In vitro l’eparina è in grado di inibire la cascata di trasduzione del fattore NF-κB e di ridurre così l’espressione di molteplici mediatori pro-infiammatori nei macrofagi alveolari e negli pneumocitiIn vivo, attraverso studi su topi con ALI indotto, sono stati dimostrati effetti simili di inibizione del NF-κB e del TGF-β, ma anche di riduzione del reclutamento di granulociti neutrofili e dell’edema alveolare, tramite somministrazione per via inalatoria. Inoltre ridurrebbe la disfunzione endoteliale avendo un effetto protettivo sul sistema cardiovascolare.

Anche se questi effetti ottenuti in vitro e su modelli animali non hanno avuto lo stesso riscontro in studi clinici applicati a pazienti sotto ventilazione meccanica, in pazienti con ARDS manifesta la somministrazione di eparina ha ridotto il numero di giorni di ventilazione meccanica necessari per il recupero. Inoltre, una meta-analisi ha evidenziato come il trattamento per via inalatoria con eparina a basso peso molecolare entro i primi 7 giorni di ALI/ARDS riducesse il rischio di mortalità del 48% entro la prima settimana e del 37% entro il primo mese, migliorando anche l’efficacia degli scambi gassosi polmonari, specie nei pazienti trattati con alte dosi. Gli stessi autori dichiarano però che il basso numero di studi e di pazienti esaminati potrebbe rendere i risultati fuorvianti, per cui sono necessari ulteriori dati clinici da analizzare.  

Il punto della situazione

Premessa l’assenza di una terapia efficace contro la COVID-19, lelevata incidenza di complicanze trombotiche nei pazienti affetti e le potenziali azioni multiple dell’eparina hanno portato l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ad approvare un nuovo protocollo di sperimentazione 

Il documento dell’AIFA descrive come la COVID-19 segua schematicamente tre fasi di malattia 

  • una fase precoce con sintomi simil-influenzali;  
  • una parte di pazienti passa ad una seconda fase che si caratterizza per una polmonite interstiziale spesso bilaterale;  
  • in una terza fase, in un numero di casi limitato, si può evolvere verso un quadro clinico ingravescente dominato dalla cosiddetta tempesta citochinica, con uno stato iperinfiammatorio che può sfociare in ARDS grave e in alcuni casi in CID (Coagulazione Intravascolare Disseminata).  

In tale complesso quadro le EBPM (eparine a basso peso molecolare) si collocano: 

  • Nella fase iniziale della malattia, quando è presente la polmonite, a dose profilattica con lo scopo di prevenire il tromboembolismo venoso, come già noto.  
  • In fase avanzata, in pazienti ricoverati in terapia intensiva, per contenere i fenomeni trombotici conseguenza dell’iperinfiammazione. In tale caso le EBPM dovranno essere utilizzate a dosi terapeutiche.   

14 centri italiani sono stati coinvolti nello studio; il farmaco sarà fornito gratuitamente dall’azienda farmaceutica Techdow Pharma e somministrato a 300 pazienti ammessi alla sperimentazione per via sottocutanea. Un primo gruppo di 200 pazienti con dose di profilassi (pari a 4.000 U.I.) e un secondo di 100 partecipanti con dosi terapeutiche intermedie (di 6.000, 8.000 o 10.000 U.I. in base alla massa corporea).  

Si spera così di rispondere ai quesiti irrisolti sui potenziali effetti terapeutici e non solo preventivi dell’eparina nei pazienti con COVID-19. Va però sottolineato che si tratta di tutt’altro che una novità o un farmaco miracoloso, come è stato pubblicizzato. Ma potrebbe rivelarsi una potenziale speranza in più, al pari di molti altri farmaci di cui si è discusso, in pazienti in fase avanzata di malattia per i quali purtroppo, ad oggi, la medicina non può far altro che andare per tentativi. 

Davide Arrigo

 

Bibliografia:

https://www.aifa.gov.it/documents/20142/0/Eparine+Basso+Peso+Molecolare_11.04.2020.pdf/31ad4388-05aa-956b-c1a3-10cbd5354fc3
https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/j.1538-7836.2012.04732.x
https://www.thrombosisresearch.com/article/S0049-3848(20)30120-1/pdf
https://www.biorxiv.org/content/10.1101/2020.02.29.971093v1.full.pdf
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5799142/#r11
https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1111/jth.14821
http://www.ijcem.com/files/ijcem0057580.pdf

Lo sviluppo cognitivo in quarantena: i videogames

Come ormai sappiamo tutti, l’economia italiana sta affrontando un periodo inaspettato e mai vissuto prima.

Quasi tutte le piccole e grandi industrie sono messe alle corde e cercano una soluzione per uscire anche economicamente da questo tunnel.

Tuttavia, una delle poche economie che tende a non fermarsi, in Italia come nel resto del mondo, è quella legata ai videogiochi.

In Cina, in cui il peggio sembra essere ormai passato, c’è stato un incremento del 39% nel solo mese di febbraio riguardanti i download di app dedicate al mondo dei videogiochi per smartphone e dispositivi portatili. L’app store si è visto aumentare del 62% il traffico da scaricamento per giochi mobile.

La quarantena obbliga tutti a restare in casa ed i videogiochi vengono visti come un ottimo passatempo.

Inoltre, come spiega Ray Chambers, Ambasciatore dell’Oms per la strategia globale“L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha messo in risalto l’efficace potere terapeutico dei videogiochi in questo periodo”, spiegando che essi, in particolar modo quelli con accesso online, permettono alle persone di distrarsi e di restare a contatto nonostante la quarantena.

#PlayApartTogether è l’hashtag lanciato dall’OMS in collaborazione con le maggiori industrie di giochi.

 

E’ stato riscontrato scientificamente che i videogiochi fanno molto bene al nostro cervello.

I videogiocatori infatti sono in grado di ottimizzare l’utilizzo delle proprie risorse mentali (percezione, attenzione e memoria) per risolvere problemi o prendere decisioni in tempi rapidi.

Questi miglioramenti si hanno in quanto spesso nelle realtà virtuali si è soggetti a dover compiere più azioni nello stesso lasso di tempo o in una rapida successione.

Molti gamers possiedono una capacità elevata nell’identificare rapidamente un singolo oggetto, in un contesto estremamente popolato di fonti di distrazione, e di seguirlo con lo sguardo anche in presenza di elementi visivamente molto simili.

Anche sul piano lavorativo i videogiochi possono portare dei vantaggi, soprattutto in ambiti in cui è richiesto un alto livello di attenzione, una buona coordinazione mano-occhio, un’ottima memoria operativa e processi decisionali accelerati.

A proposito di ciò, due ricerche hanno rivelato che la gran parte dei giovani chirurghi con un passato o presente da giocatori seriali mostrano abilità superiori rispetto ai colleghi che non hanno esperienze virtuali.

I videogiochi sono uno strumento terapeutico per il trattamento di molti disturbi legati alle abilità visive e cognitive.

Uno studio effettuato nel 2010, dimostra che l’attività videoludica può rivelarsi un mezzo molto efficace nel trattamento dell’ambliopia (occhio pigro).

Molti dei pazienti coinvolti in questa sperimentazione sono stati sottoposti ad una terapia a base di action game ad alto tasso di dinamismo, ottenendo benefici eccezionali e raggiungendo, in alcuni casi, il recupero completo delle funzionalità compromesse dalla malattia.

Un altro studio eseguito dall’esperto in psicobiologia, Sandro Franceschini, ha addirittura confermato che i videogiochi possono essere usati efficacemente nel trattamento della dislessia mettendo in risalto come i bambini coinvolti nell’esperimento dimostrassero miglioramenti più importanti rispetto a quelli ottenuti con le metodiche di base.

L’intrattenimento digitale può offrire un importante contributo anche nel limitare il declino mentale causato dall’invecchiamento.

È stato dimostrato che l’attività videoludica può contribuire al mantenimento di flessibilità cognitiva, livello d’attenzione, memoria operativa e ragionamento astratto, andando quindi ad influire positivamente sulla qualità di vita degli anziani.

I giovani giocatori, invece, sono dotati di migliori capacità di concentrazione, buona memoria, analisi e giudizio ragionato. Senza dimenticarci che essendo usati da grande parte dei ragazzi, essi rappresentano un importantissimo fattore di inclusione.

L’altra faccia della medaglia: i Gaming Disorders

Ovviamente tutti questi vantaggi si raggiungono se si gioca responsabilmente e senza esagerare. Se, invece, si passano intere giornate davanti al mondo virtuale, subentrano numerosi svantaggi fino a parlare di Gaming Disorder (dipendenza da videogiochi).

Nonostante ad oggi, vista la situazione causata dal Covid-19, è stato fatto un piccolo passo indietro, l’OMS ha inserito il Gaming Disorder tra i disturbi mentali riconosciuti dall’ente internazionale.

Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la dipendenza dal gioco consiste in comportamenti continui e ricorrenti che prendono il sopravvento su altri interessi della vita, in quanto si tende a dare priorità al gioco.

Tutto ciò ovviamente può portare disagi sia in famiglia sia a livello professionale.

L’obiettivo dell’OMS è quello di trovare terapie adeguate per la cura di questa dipendenza. Ovviamente quando si arriva a parlare di ciò, ci si riferisce a casi veramente molto gravi.

In conclusione non si può non dire che collegarsi virtualmente un paio di ore al giorno può rivelarsi un toccasana per chiunque.

In questo periodo così difficile, oltre ai gamers, molti di noi si stanno ritrovando a dissotterrare quella Nintendo o quella Playstation piena di polvere, rivivendo emozioni rinchiuse nei giochi virtuali che preferivamo da bambini.

Roberto Cali’

Bibliografia:

https://www.everyeye.it/articoli/speciale-i-videogiochi-fanno-dannatamente-bene-vostro-cervello-dice-scienza-39847.html

https://www.journalofplay.org/sites/www.journalofplay.org/files/pdf-articles/7-1-article-video-games.pdf

https://www.semanticscholar.org/paper/The-impact-of-video-games-on-training-surgeons-in-Rosser-Lynch/c4fed15b73fc12cb8e71a7f8400568416ff90e07

https://openarchive.ki.se/xmlui/handle/10616/44614

https://journals.plos.org/plosbiology/article?id=10.1371/journal.pbio.1001135

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0960982213000791

https://icd.who.int/dev11/l-m/en#/http%3a%2f%2fid.who.int%2ficd%2fentity%2f1448597234

Covid-19, primo studio: su quali superfici e per quanto tempo sopravvive il virus

Siamo in piena pandemia da Coronavirus. Ridurre al minimo gli spostamenti, distanziamento sociale, igiene personale accurata, disinfezione quotidiana di superfici: sono solo alcuni degli accorgimenti che in questo periodo è consigliabile (se non obbligatorio) seguire.

Disturbo ossessivo compulsivo per l’igiene o pericolo reale?

È sicuramente possibile che un soggetto infetto possa depositare, inconsapevolmente, il virus toccando oggetti vari dopo aver tossito o starnutito nella propria mano, o non schermando correttamente un colpo di tosse o starnuto (per questo motivo viene indicato di starnutire o tossire nel proprio gomito). Sappiamo infatti, che i virus possono sopravvivere su determinate superfici per un tempo indeterminato.

Quanto tempo resiste il Coronavirus?

Se prima la durata della sopravvivenza del virus sulle superfici non era certa, adesso emergono i risultati del primo studio. Questa ricerca conferma come sia considerevole la trasmissione del virus attraverso vie “indirette” (attraverso le nostre mani toccando superfici infette e poi portandole, senza renderci conto, alla bocca, negli occhi o nel naso).

Il lavoro, pubblicato sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine, spiega come il virus potrebbe sopravvivere su varie superfici da alcune ore fino a tre giorni. La particolarità di questo studio è di aver valutato, oltre alla permanenza del microrganismo, anche la sua capacità di infettare col passare delle ore.

I ricercatori, attraverso particolari tecniche, hanno simulato la diffusione del virus da parte dell’uomo su varie superfici.  Sono state analizzate quattro diverse tipologie di materiali: plastica, acciaio inossidabile, rame e cartone. Successivamente è stato verificato anche come la capacità infettiva dalla deposizione, cambi nel tempo. Gli esperimenti sono stati condotti in condizioni di temperatura ambiente, ovvero 21-23°C e 40% di umidità relativa.

In base ai risultati ottenuti sembra che il SARS-CoV-2 sia molto stabile sulla plastica e sull’acciaio inossidabile rispetto al cartone e al rame. Per quanto riguarda i primi due tipi di materiale è stato rilevato che il virus permane per 72 ore sulla plastica e 48 ore sull’acciaio inossidabile. Sembra invece che non gradisca molto il rame e il cartone, dove resiste rispettivamente per non più di 4 ore e 24 ore.

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Ma la possibilità di infettare resta costante per tutte queste ore?

A prima vista questi dati possono spaventarci, però lo studio ha dimostrato che, nonostante il SARS-CoV-2 rimanga vitale su queste superfici per un periodo così lungo, la sua carica virale precipita nel tempo, ovvero si riduce la sua capacità di infettare. Nel caso della plastica e dell’acciaio inossidabile, dopo rispettivamente 6 e 7 ore, si ha il dimezzamento della capacità infettiva.

I dati ottenuti sono molto simili a quelli riscontrati in altri studi effettuati sul SARS-CoV-1 (il ceppo che causò SARS nel 2003). Quest’ultimo permane più tempo sul rame (8 ore) e meno sul cartone (8 ore). Per quanto riguarda gli altri due tipi di materiali i due ceppi presentano una permanenza e un dimezzamento della carica virale pressoché uguale.

Come possiamo proteggerci?

L’utilizzo di disinfettanti a base di alcol o candeggina rimane sempre un sistema valido in grado di ridurre al minimo la possibilità di contrarre l’infezione. Da non dimenticare però che tra le prime raccomandazioni nel prevenire la diffusione del Coronavirus c’è il lavaggio accurato delle mani (ne avevamo già parlato in un articolo precedente).

Questi dati non fanno altro che confermare che un’adeguata igiene personale e delle superfici è fondamentale per prevenire la contaminazione. La fonte principale rimane sempre il contatto interumano, ma non è da trascurare un contagio attraverso superfici infette. Il rischio di contrarlo con questa seconda modalità si riduce dopo alcune ore, ma si azzera completamente solo dopo due o tre giorni.

Non solo contro il Coronavirus, ma sempre, lavarsi le mani serve!

Georgiana Florea

COVID-19: miti da sfatare e risposte alle domande più frequenti

In questi giorni sono state mandate un’enormità di catene su WhatsApp in cui venivano date svariati informazioni inesatte sul Coronavirus. Sfatiamone alcune.

“il coronavirus è piuttosto grande (diametro circa 400-500 nanometri) quindi ogni tipo di mascherina può fermarlo.”
Il Coronavirus è molto più piccolo, e soprattutto non è vero che ogni mascherina può fermarlo. Anzi al momento non esiste nessuna mascherina capace di impedire del tutto il passaggio di un virus (neanche quelle usate da personale sanitario).

“Se una persona infetta starnutisce davanti a voi, tre metri di distanza saranno sufficienti per far cadere il virus a terra, così facendo non vi colpirà.”
In realtà le particelle espulse con uno starnuto viaggiano a velocità molto alte e possono rimanere in aria a lungo. Non esiste nessuna regola dei tre metri.

“Le bevande calde uccidono il virus in quanto esso non resiste a temperature superiori a 26-27 gradi.”
È facile capire che questa sia una bufala in quanto la nostra temperatura corporea normale è superiore di almeno 10 gradi a quella indicata. Se questa notizia fosse vera, il virus sarebbe incompatibile con l’essere umano, ed invece non è così.
In ogni caso non c’è modo di alzare la temperatura del nostro corpo assumendo una bevanda calda o stando al sole.

“La vitamina C può essere d’aiuto per contrastare il Coronavirus.”
È molto importante avere un’alimentazione equilibrata, compreso il giusto apporto di vitamina C, ma non ci sono prove che esso abbia effetti nel contrastare il virus.

Di seguito alcune domande che molti di noi si pongono in questi giorni.

Sintomi

Quanto dura il periodo di incubazione del nuovo coronavirus SARS-CoV-2?

Le informazioni sulle caratteristiche cliniche delle infezioni da SARS-CoV-2 stanno aumentando. Si stima che il periodo di incubazione vari in media tra 2 e 14 giorni, ma incubazioni più lunghe sono state riportate (fino a 27 giorni) in alcuni studi preliminari.

Come distinguere la tosse da “infreddatura” da quella da nuovo coronavirus SARS-CoV-2?

Il rischio di sviluppare questa infezione è quello di essere venuto a contatto con il virus che circola in alcune zone del mondo, incluso in alcune limitate aree italiane. Quindi in presenza di sintomi, potrebbero avere contratto la malattia COVID-19 le persone che negli ultimi 14 giorni hanno viaggiato in zone in cui il virus sta circolando, hanno avuto contatti con persone con infezione da nuovo coronavirus SARS-CoV-2 probabile o confermata in laboratorio o, infine, aver frequentato o lavorato in una struttura sanitaria dove siano ricoverati pazienti con infezione da SARS-CoV-2. In Italia, attualmente, stanno circolando altri virus, in particolare il virus influenzale. Qualora dovessero comparire febbre e disturbi respiratori, in assenza delle condizioni di rischio suddette, è opportuno rivolgersi al proprio medico curante, possibilmente non recandosi in Pronto Soccorso. Se si pensa di essere stati contagiati dal virus SARS-CoV-2, si raccomanda di contattare il numero verde 1500, attivo 24 ore su 24, istituito dal ministero della Salute per rispondere alle domande sul nuovo coronavirus SARS-CoV-2 e fornire indicazioni sui comportamenti da seguire o, in alternativa, il 112 (o il 118 a secondo della regione) o i numeri verdi regionali dedicati al coronavirus, ove presenti.

L’infezione da nuovo coronavirus SARS-CoV-2 causa sempre una polmonite grave?

No, l’infezione da nuovo coronavirus SARS-CoV-2 può causare disturbi lievi, simil-influenzali, e infezioni più gravi come le polmoniti in una minoranza di casi. È opportuno precisare, in ogni caso, che poiché i dati in nostro possesso provengono principalmente da studi su casi ospedalizzati, e pertanto più gravi, è possibile che sia sovrastimata al momento la proporzione di casi con manifestazioni cliniche gravi.

Trasmissione

È vero che si può contrarre il nuovo coronavirus SARS-CoV-2 attraverso il contatto con le maniglie degli autobus?

Poiché la trasmissione può avvenire attraverso oggetti contaminati, è sempre buona norma, per prevenire infezioni, anche respiratorie, lavarsi frequentemente e accuratamente le mani, dopo aver toccato oggetti e superfici potenzialmente sporchi, prima di portarle al viso, agli occhi e alla bocca.

Ricevere una lettera o un pacco dalla Cina può essere pericoloso?

No, le persone che ricevono pacchi dalla Cina non sono a rischio di contrarre il nuovo coronavirus SARS-CoV-2. Da precedenti analisi, sappiamo che in funzione del tipo di superficie e delle condizioni ambientali il virus può resistere da poche ore a un massimo di alcuni giorni.

Gli animali domestici possono diffondere il nuovo coronavirus SARS-CoV-2?

Al momento, non ci sono prove che animali da compagnia come cani e gatti possano essere infettati dal virus SARS-CoV-2. Tuttavia, è sempre bene lavarsi le mani con acqua e sapone dopo il contatto con gli animali domestici anche per evitare la trasmissione di altre malattie più comuni.

I bambini sono a rischio infezione?
La malattia nei bambini sembra essere lieve e comunque rara. Uno studio fatto in Cina ha dimostrato che solo poco più del 2% dei casi aveva meno di 18 anni. Di questi meno del 3% ha sviluppato conseguenze gravi.

E le donne incinta?
Non ci sono ancora evidenze scientifiche che indichino la gravità della malattia nelle donne incinta.

Qual è il rischio di infezione da Covid-19 per quanto riguarda i prodotti alimentari provenienti dalle zone colpite?
Non c’è stata alcuna relazione di trasmissione di Coronavirus tramite alimenti, pertanto non vi è alcuna prova che i prodotti alimentari provenienti dalle zone colpite siano veicoli di trasmissione della malattia.

Il Coronavirus può essere trasmesso in zone calde e umide?
Da quel che si è visto fino ad oggi, il virus Covid-19 può essere trasmesso in tutte le aree, comprese le zone con clima caldo e umido.

Il freddo può uccidere il virus?
Non c’è motivo di credere che il freddo possa uccidere il Coronavirus. La temperatura normale del corpo umano rimane 36,5 – 37 gradi, indipendentemente dalla temperatura esterna. Stesso discorso vale se si pensa di prevenire il virus facendosi un bagno caldo.

Terapia

Esiste un vaccino contro il nuovo coronavirus SARS-CoV-2?

Al momento non è disponibile un vaccino contro il nuovo coronavirus SARS-CoV-2. Quando si sviluppa una nuova malattia, un vaccino diventa disponibile solo dopo un processo di sviluppo che può richiedere diversi anni.

Quanto tempo ci vorrà per avere un vaccino in grado di contrastare il nuovo coronavirus SARS-CoV-2?

Il meccanismo per la produzione del vaccino è stato attivato con alta priorità, tuttavia gli esperti concordano che sarà difficile che questo possa essere disponibile e distribuibile su larga scala prima dei prossimi 2 anni.

Il risciacquo regolare del naso con soluzione salina può aiutare a prevenire l’infezione?
No, al momento non esistono prove scientifiche a riguardo.

I vaccini contro la polmonite proteggono dal nuovo Coronavirus?
I vaccini contro alcuni tipi di polmonite, come il vaccino anti-pneumococcico e il vaccino contro l’haemophilus influenzae B, non forniscono protezione contro il Covid-19. Ciò nonostante, questi vaccini sono indicati in categorie di persone a rischio per queste infezioni

Assumere farmaci antivirali previene l’infezione da Covid-19?
No, al momento non ci sono evidenze scientifiche a riguardo.

Gli antibiotici sono efficaci contro il Coronavirus?
Gli antibiotici non funzionano contro i virus ma solo contro i batteri. Quindi a meno che subentrino co-infezioni batteriche, essi sono inutili contro il Covid-19.

Esistono medicinali specifici per prevenire il virus?
Ad oggi non è raccomandato alcun medicinale specifico per prevenire o trattare il Coronavirus. Tuttavia coloro che sono stati infettati devono ricevere cure adeguate così da alleviare i sintomi. Alcuni trattamenti specifici sono in fase di studio e saranno testati attraverso studi clinici.

Roberto Calì

Bibliografia:

https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/faq

https://www.who.int/emergencies/diseases/novel-coronavirus-2019/advice-for-public/myth-busters

I disinfettanti ci proteggono davvero dal Coronavirus?

Coronavirus. La parola più ricercata sul web negli ultimi due mesi. Siamo tutti preoccupati del nuovo virus che sta colpendo sempre più persone. Partito dalla Cina è ad oggi arrivato in quasi tutto il mondo. Ma come fa un virus ad essere trasportato da un capo all’altro del mondo?

In questa dinamica il trasporto aereo gioca un ruolo fondamentale. Contribuisce giornalmente al contatto tra persone provenienti da tutto il mondo, alcune delle quali potrebbero trasportare con sé anche infezioni epidemiche dal Paese di origine. Inoltre, negli aeroporti sono presenti numerose superfici frequentemente toccate da passeggeri  (tavoli, banconi, maniglie) aventi un’alta contaminazione microbica.

Una ricerca pubblicata su Risk Analysis rivela che promuovere l’abitudine di lavarsi le mani negli aeroporti collegati alle zone colpite da infezioni virali rallenterebbe la propagazione dei patogeni.

Una delle prime raccomandazioni che il Ministero della Salute suggerisce per prevenire la diffusione del Covid-19 è proprio il lavaggio accurato delle mani. Questa semplicissima regola serve a ridurre la possibilità dell’ingresso dei virus e batteri all’interno del corpo attraverso naso, bocca, occhi, che tocchiamo con le mani.

Per alcuni, però, sembra che questa banale regola non basti a proteggerli dal virus; preferiscono utilizzare un disinfettante o un gel igienizzante. Guardandoci intorno possiamo affermare che la paura del Coronavirus ha incentivato la gente a prendere d’assalto farmacie e supermercati, facendo sparire l’Amuchina.

Amuchina è il nome commerciale dato ad una serie di prodotti disinfettanti, altro non è che un gel a base di alcol etilico. La ricetta che ci propone l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per questo tipo di prodotto contiene: 8333 ml di etanolo (alcol etilico) 96%, 417 ml di perossido di idrogeno 3%, 145 ml di glicerolo 98% e acqua distillata quanto basta per arrivare a 10 litri.

Ogni ingrediente ha un ruolo ben preciso in questa formulazione. L’etanolo ha la principale funzione del composto: uccidere i microrganismi. Trovandosi a contatto con i patogeni altera la struttura delle loro proteine, essenziali per la loro sopravvivenza, impedendo di svolgere le loro funzioni. La glicerina è un eccipiente umettante e che aumenta la densità del prodotto. Ed infine il perossido di idrogeno serve per eliminare eventuali spore batteriche che l’alcol non può eliminare.

Questo tipo di disinfettante è molto efficace sulla pelle, agisce infatti in pochi secondi, a patto che la percentuale di alcol etilico nell’intera preparazione sia tra 60% e 80%.  In altre parole una miscela di alcol etilico e acqua è più efficace dell’alcol puro, questo perché acqua e alcol denaturano più efficacemente le proteine.

L’utilizzo molto frequente di un gel disinfettante non fa certo bene! Tutti i prodotti a base di alcol hanno lo svantaggio di disidratare la pelle e il loro eccessivo utilizzo potrebbe causarne irritazioni e secchezza. Inoltre potrebbe anche favorire nei patogeni lo sviluppo di resistenze nei confronti di questo tipo di prodotto. L’utilizzo di gel disinfettanti in maniera inutile ed incondizionata è quindi sconsigliato.

Ma è veramente indispensabile questo tipo di prodotto per proteggersi dal Coronavirus ? Non sempre. Lo afferma anche il sito del Ministero della Salute. Basta lavarsi spesso e accuratamente le mani con acqua calda e sapone per almeno 60 secondi. Il disinfettante per mani entra in gioco quando non si ha la disponibilità di acqua e sapone.

È ancora in fase di studio la durata della sopravvivenza del Coronavirus sulle superfici, ma alcune informazioni suggeriscono che il virus possa resistere almeno alcune ore. A riguardo, sempre il sito del Ministero, suggerisce l’utilizzo di disinfettanti a base di cloro per le superfici. La banale candeggina in questo caso potrebbe essere utile. Contiene infatti l’ipoclorito di sodio che, per la sua azione ossidante, riesce a uccidere spore, funghi e virus.

L’efficacia dell’ipoclorito di sodio come disinfettante dipende da vari fattori come: la sua concentrazione, che deve essere all’1%, e il tempo di contatto, in quanto il prodotto va lasciato agire per circa 10 minuti. Proprio per questo motivo disinfettanti a base di cloro non vanno bene anche per le mani in quanto potrebbero causare severe irritazioni.

“Prevenire è meglio che curare” dice il proverbio, e si addice perfettamente a questa situazione. Prendere precauzioni per cercare di evitare l’espandersi del Coronavirus è la cosa migliore che possiamo fare. Lo afferma anche uno studio  pubblicato sul Journal of the American Medical Association (JAMA), il quale sostiene che un’attenta pulizia delle superfici è fondamentale per eliminare il virus.

Ognuno di noi deve essere coinvolto nel tentativo di ridurre l’espandersi di questo particolare virus. La conseguenza sta anche nelle nostre mani!

Georgiana Florea

Coronavirus e Influenza: facciamo chiarezza

Fin dall’inizio della diffusione del SARS-CoV-2 è stata fatta molta confusione con la comune influenza. La carenza di dati e la stretta somiglianza dei sintomi d’esordio hanno fortemente disorientato l’opinione pubblica.

Oggi però si sta delineando in modo sempre più chiaro il profilo del nuovo virus, della patologia di cui è responsabile e dei provvedimenti corretti da seguire.

COVID-19 e influenza: i virus responsabili

Il nuovo coronavirus SARS-CoV-2 è responsabile della COVID-19, dove “CO” sta per corona, “VI” per virus, “D” per disease (malattia) e “19” indica l’anno in cui si è manifestata.

I coronavirus sono virus a RNA capsulati che causano malattie respiratorie di gravità variabile, dal raffreddore comune alla polmonite fatale. Dei numerosi ceppi di coronavirus, diffusi in diversi animali, sono 7 quelli patogeni per l’uomo. Quattro di questi ceppi sono responsabili di un semplice raffreddore comunetre invece causano infezioni respiratorie molto più gravi, e talvolta fatali:

  • il SARS-CoV, responsabile della “Sindrome respiratoria acuta grave“, patologia con una mortalità media del 10%, che varia significativamente per età, fino a oltre il 50% per età ≥ 65 anni; la SARS è stata rilevata per la prima volta in Cina alla fine del 2002 e si è diffusa in oltre 30 nazioni, con oltre 8000 casi nel mondo e 774 decessi, per spegnersi poi nel 2004;
  • il MERS-CoV, responsabile della “Sindrome respiratoria del Medio Oriente“, identificata nel 2012 in Arabia Saudita e responsabile ad oggi di circa 2500 casi in 27 Paesi e almeno 850 decessi;
  • il SARS-CoV-2, responsabile della COVID-19, così chiamato per la forte somiglianza con il SARS-CoV, dal quale si distingue per la letalità molto minore.

Il SARS-CoV-2 non è quindi né il primo né il più letale dei coronavirus già conosciuti, ma ha una maggiore velocità di diffusione.

L’influenza propriamente detta è determinata invece dai virus influenzali della famiglia degli Orthomyxoviridae, divisi in gruppo A, B e C in base a specifiche caratteristiche. Tuttavia, molte centinaia di altri virus possono causare sindromi parainfluenzali (causate dai Paramyxovirus) o  simil-influenzali (compresi alcuni ceppi di coronavirus), con sintomi sovrapponibili.

Le modalità di trasmissione e i sintomi d’esordio

Sia i virus influenzali e parainfluenzali, sia il SARS-CoV-2, condividono le stesse modalità di trasmissione ed una sintomatologia iniziale aspecifica.

La trasmissione avviene soprattutto per via aerea, attraverso le cosiddette “particelle di Flügge“. Si tratta di microgocce di saliva emesse soprattutto con tosse e starnuto che veicolano, sospese nell’aria, agenti infettivi di numerose patologie, fino alla distanza di oltre 1 metro.
I virus possono essere trasmessi anche per contatto diretto o indiretto tramite oggetti, sui quali i diversi virus sopravvivono per tempi variabili (alcune ore per il SARS-CoV-2).

La sintomatologia dell’influenza è quella che ognuno sperimenta quasi ogni anno. Dopo un periodo asintomatico di incubazione, mediamente di 48 ore, nei casi lievi si limita a un semplice raffreddore comune. Nei casi più manifesti si aggiungono febbre, tosse, malessere, stanchezza, dolori ossei e muscolari, cefalea anche intensa e a volte disturbi gastrointestinali come nausea, vomito e diarrea.

La COVID-19 ha un esordio più subdolo, tant’è che l’incubazione può protrarsi fino a 14 giorni secondo le prime stime. Quindi insorgono i sintomi che, nei primi 5 giorni, secondo un recente studio del Chinese Center for Disease Control, sono rappresentati da febbre, che nel 99% dei casi è il primo sintomo, tosse secca presente nel 68% e faticabilità nel 38%, dolori muscolari e cefalea nel 14% ed in una percentuale ridotta prevalgono nausea e diarrea (4%).

L’esordio delle due patologie è quindi praticamente identico, il che pone la necessità, per fare diagnosi precoce ed evitare la diffusione del virus, di eseguire tamponi per la diagnosi già ai primi sintomi aspecifici.

Le possibili complicanze e la letalità

Qui le principali differenze tra le due patologie.

Per quanto riguarda l’influenza, nella massima parte dei casi i sintomi si calmano entro 5 giorni e si ha guarigione completa in 1-2 settimane. La complicanza più comune è la sovrapposizione di un’infezione batterica a carico dell’apparato respiratorio, che può portare a bronchite ed aggravarsi fino a sviluppare una polmonite batterica secondaria. Può essere interessato anche l’orecchio con otite, sinusite, soprattutto nei bambini, ma anche complicanze a carico dell’apparato cardiovascolare (miocardite) e del sistema nervoso, oltre che l’aggravamento di malattie preesistenti. Più della metà dei casi complicati si registrano nei soggetti di età superiore ai 65 anni.

La COVID-19 invece, secondo l’ultimo rapporto dell’OMS del 9 marzo, è causa di:

  • infezioni lievi o asintomatiche nell’80% dei casi;
  • forme severe nel 15% dei casi, complicate da una polmonite primaria data dallo stesso SARS-CoV-2 che si manifesta intorno al 5°-7° giorno dall’esordio dei sintomi e richiedono ossigenoterapia;
  • infezioni critiche nel 5% dei casi, che richiedono ventilazione assistita.

Riguardo la letalità dell’influenza, secondo le stime del Ministero della Salute e dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia ogni anno circa il 9% della popolazione è colpito dall’influenza (5-8 milioni di persone), con un numero di morti diretti che oscilla tra i 300 e i 400 e con un numero di decessi che oscilla tra i 4 mila e i 10 mila per chi sviluppa complicanze gravi a causa dei virus influenzali.
Il tasso di letalità è globalmente basso, inferiore allo 0,1%, ma estremamente significativo se si considera l’elevato tasso di incidenza.

La mortalità per COVID-19 si attesta ad oggi, mediamente, al 3-4% dei casi, ed è strettamente dipendente dall’età del soggetto.

Inoltre, un soggetto affetto da COVID-19 trasmette il virus mediamente a 2-2.5 persone, molto più rispetto all’influenza (circa 1.3), il che giustifica le strette misure necessarie per contenere i contagi.

Le possibili terapie e il punto della situazione

Per l’influenza esistono sia vaccini, rinnovati annualmente, che farmaci antivirali efficaci nei casi complicati.
Tali presidi invece sono inefficaci contro il SARS-CoV-2: ad oggi l’unica terapia è quella di supporto supporto in ambiente ospedaliero. Tuttavia la ricerca di farmaci specifici e di un vaccino è già estremamente attiva.

COVID-19 e influenza sono dunque due patologie estremamente diverse, se non per il loro esordio. Così come COVID-19 è una patologia diversa da altre epidemie e pandemie che si sono verificate in passato. In realtà, dati alla mano, non avrebbe neanche senso fare un paragone.

Come spesso è accaduto in passato, ci si trova davanti ad un virus del tutto nuovo, originato probabilmente dal cosiddetto “salto di specie” dagli animali all’uomo, che ha caratteristiche uniche che la comunità scientifica sta imparando a conoscere e ad affrontare.
A maggior ragione, è necessario evitare speculazioni e contenere la disinformazione, affinché ogni cittadino possa collaborare con il giusto senno in questa sfida.

Davide Arrigo

 

Bibliografia:

https://www.who.int/emergencies/diseases/novel-coronavirus-2019/situation-reports
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/32139372
https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2
https://ourworldindata.org/coronavirus
https://www.cdc.gov/flu/about/keyfacts.htm
https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2002032
http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioFaqNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&id=228#1