Giraffe: il segreto per un cuore sano

L’estrema lunghezza del collo delle giraffe fa sì che i loro ventricoli debbano lavorare a pressioni altissime: come fanno ad avere un cuore sano?

Elenco dei contenuti

I valori pressori umani e dei mammiferi

Negli esseri umani adulti, i valori pressori “normali”, sono di circa 130 mmHg per la pressione sistolica (quella “massima”, corrispondente alla contrazione dei ventricoli) e di 80mmHg per quella diastolica (anche detta “minima”, corrispondente al rilassamento dei ventricoli del cuore).
Esistono tuttavia certi range nei quali la pressione arteriosa è considerata normale, mentre altri in cui ci si avvicina ad una condizione di pericolosità.
In questa tabella possiamo vedere i valori pressori classificati in base alla loro pericolosità secondo le linee guida del2018 del ESC/ESH – European Society of Cardiology – European Society of Hypertension.

 

Livello Pressione sistolica (mmHg) Pressione diastolica (mmHg)
Ottimale <120 <80
Normale 120-129 80-84
Normale – Alta 130-139 85-89
Ipertensione di grado 1 140-159 90-99
Ipertensione di grado 2 160-179 100-109
Ipertensione di grado 3 ≥ 180 ≥ 110
Ipertensione sistolica isolata ≥ 140 ≤ 90

 

Oltre certi livelli pressori, il cuore si inizia a danneggiare in quanto costretto ad un lavoro maggiore, con conseguente carenza di ossigeno, danni ecc. Nel tempo ciò porta ad un rimaneggiamento del cuore stesso, che da cuore sano inizia inesorabilmente a trasformarsi in un cuore scompensato, malato. I tessuti muscolare ed elettrico iniziano a diventare tessuti fibrotici, con tutti i problemi che ne derivano (aritmie, insufficienza cardiaca ecc).
Ecco perché è importante mantenere i valori pressori entro certi target, per evitare questa evoluzione fibrotica del cuore.
Nei mammiferi di media e grossa taglia, il funzionamento del cuore e le varie pressioni sono simili, come è simile il danno che deriva da un eccesso pressorio, tranne che in un caso: nelle giraffe.

Crediti immagine: https://www.medimagazine.it/fibrosi-cardiaca-mantenere-cuore-sano-gli-acidi-biliari/

La pressione arteriosa delle giraffe

Le giraffe, spinte dalla pressione evolutiva, hanno sviluppato nel corso di migliaia di anni un collo spropositatamente lungo rispetto al resto del corpo. Certamente questo le aiuta a nutrirsi in ambienti aridi come la savana, raggiungendo cibo che nessun altro animale rivale è in grado di raggiungere.
Il rovescio della medaglia per un simile traguardo evolutivo è però quello di un’eccessiva pressione arteriosa. Per far sì che il sangue raggiunga il cervello delle giraffe, situato a oltre 2-2,5 metri dal petto, il cuore di una giraffa deve lavorare a pressioni elevatissime: 220/180 mmHg, per ottenere a livello cerebrale una pressione normale di 110/70 mmHg.
Ma come fanno allora le giraffe, nonostante questa enorme pressione a livello cardiaco, a non sviluppare patologie legate all’ipertensione come la fibrosi cardiaca, la fibrillazione atriale e lo scompenso cardiaco?

Crediti immagine: https://www.medscape.com/viewarticle/951907

Come la ricerca sulle giraffe potrebbe curare lo scompenso cardiaco

La biologa evoluzionista Barbara Natterson-Horowitz e i cardiologi dell’Università di Harvard e dell’ UCLA  (University of California, Los Angeles), incuriositi da queste caratteristiche hanno scoperto che esse possiedono dei ventricoli più spessi, ma senza rigidità nelle pareti degli stessi o fibrosi, cosa che invece hanno gli esseri umani sottoposti ad elevate pressioni arteriose per molto tempo.
Andando quindi a studiare il genoma delle giraffe, gli scienziati hanno visto come nei loro geni siano presenti 5 mutazioni nei geni che producono fibrosi (es. ACE, FGFR-L1, ecc.) rispetto agli altri mammiferi.
Ulteriori ricerche hanno dimostrato come le giraffe possiedano delle proprie varianti genetiche specifiche per geni coinvolti nei processi di fibrosi.

Crediti immagine: Did giraffe cardiovascular evolution solve the problem of heart failure with preserved ejection fraction?
June 2021Evolution Medicine and Public Health 9(1)

 

Conclusioni

Ulteriori studi da effettuare su questi animali potrebbero svelare altre meraviglie del loro sistema cardiovascolare, rappresentando così una possibile svolta per i problemi cardiaci dell’uomo. Dallo scompenso cardiaco alla fibrillazione atriale, aritmie ecc., si potrebbero curare molte patologie cardiache.
Scoperte del genere dovrebbero farci riflettere su quanto meraviglioso ed interconnesso sia il mondo della scienza. Dei fisici curiosi si saranno chiesti a che pressione lavorasse un cuore di giraffa per pompare il sangue così in alto, una biologa evoluzionista ha fatto delle ipotesi, con la genetica si sono trovate delle mutazioni ai geni della fibrosi.
Da qui, in futuro potremmo avere delle cure migliori per il cuore.

 

 

Roberto Palazzolo

Irradiazione protonica: possibile svolta con la terapia laser

Terapia protonica (protonterapia), una tecnologia innovativa e in evoluzione costante, ma con difficoltà legate agli enormi costi. Recentemente però, grazie alle nuove scoperte (protonlaserterapia) potrebbe diventare una delle nuove e più potenti armi contro il cancro.

INDICE

Cos’è la protonterapia?

Cosa sono i protoni e come funziona?

Quali malattie si possono trattare?

Nuove scoperte e prospettive future

Approccio terapeutico

 

Cos’è la protonterapia?

La protonterapia è una metodica di radioterapia esterna, che sfrutta i protoni per irradiare un tessuto malato (come una massa tumorale), al fine di danneggiare il DNA delle cellule e “uccidere quelle bersaglio”, portando a guarigione il paziente.

Cosa sono i protoni e come funziona?

I protoni sono particelle pesanti subatomiche dotati di carica positiva, facenti parte degli adroni (nello specifico dei barioni, contenti un numero dispari di quark). È proprio questa caratteristica che li rende adatti alla radioterapia. Infatti, grazie alla loro massa, posseggono una bassa dispersione laterale nell’attraversamento dei tessuti e, inoltre, la dose erogata al tessuto è massima solamente negli ultimi millimetri del tragitto della particella (questo punto è chiamato picco di Bragg, Fig 1).

(Fig. 1) Fonte: http://www.informa.airicerca.org/

Questo consente di evitare che il fascio si diffonda ai tessuti sani e rimanendo localizzato sul bersaglio, garantisce la massima efficacia terapeutica con bassi effetti collaterali, permettendo di utilizzare delle dosi più cospicue per una migliore prognosi ( a differenza dei raggi x o radioterapia tradizionale, dove non si possono utilizzare dosi più elevate senza il rischio di compromettere i tessuti sani a causa della dose d’uscita).

Fonte https://linearbeam.com/protonterapia/
Fonte https://linearbeam.com/protonterapia/

Quali malattie si possono trattare?

I tumori che ad oggi si possono trattare sono tutti quelli in cui attualmente si utilizza la radioterapia convenzionale.  Essa è indicata nei casi di tumori radio-indotti (sorti in pazienti già trattati con radioterapia convenzionale), nei tumori vicino a organi nobili (come il cervello) e contro tutti i tumori solidi pediatrici.

Nello specifico, secondo la US National Library of Medicine i tumori che possono essere trattati sono:

  • Tumori cerebrali, cordomi e condrosarcoma della base cranica;
  • Melanomi oculari;
  • Tumore dei seni paranasali;
  • Tumore delle ghiandole salivari;
  • Melanomi mucosa delle alte vie respiratorie;
  • Linfomi;
  • Tumore al pancreas e del fegato;
  • Tumore alla prostata, cordoni e contro sarcoma sacrali, tumori del retto;
  • Sarcomi le parti molli.

Nuove scoperte e prospettive future

Uno dei principali problemi della terapia protonica è che richiede grandi acceleratori di particelle e costi elevati. Proprio per questo motivo, gli studiosi, hanno analizzato l’impiego di metodiche alternative, come i sistemi laser, per ovviare al problema.
Un team di ricerca presso l’HZDR (Helmholtz-Zentrum Dresden-Rossendorf), ha testato con successo l’irradiazione con protoni laser sugli animali.
La Dott.ssa Beyreuther ha spiegato che è frutto di un intenso lavoro ed avanzamento delle tecnologie: “Lavoriamo al progetto da 15 anni, ma solo negli ultimi tempi siamo riusciti ad ottenere, finalmente, miglioramenti cruciali, soprattutto grazie ad una migliore comprensione dell’interazione dei flash laser. Ora possiamo adattarli per creare impulsi di protoni che hanno energia sufficiente e sono anche abbastanza stabili“.

Fonte: HZDR / Juniks

Approccio terapeutico

Il nuovo approccio si basa su due principi:

  • Laser ad alta potenza;
  • Enorme intensità che permetterebbe la somministrazione della dose di radiazioni nell’arco di un milionesimo di secondo.

Elke Beyreuther ha infatti affermato: “È importante un laser ad alta potenza per generare forti impulsi di luce di estrema brevità, che vengono poi sparati su una sottile lamina di plastica o metallo. In seguito, l’intensità di questi lampi emette fasci di elettroni, creando un forte campo elettrico che può raggruppare i protoni in impulsi ed accelerarli ad alte energia. Ci sono indicazioni che una somministrazione di una dose così rapida aiuta a risparmiare il tessuto circostante sano anche meglio di prima. Vogliamo quindi condurre studi preclinici per studiare quando e come questo metodo di irradiazione rapida dovrebbe essere utilizzato per ottenere un vantaggio nella terapia del cancro“.

Livio Milazzo

Bibliografia

Irradiazione protonica: la nuova frontiera per combattere il cancro (everyeye.it)

Tumour irradiation in mice with a laser-accelerated proton beam | Nature Physics

Wikipedia, l’enciclopedia libera

Linearbeam

 

Crioablazione: nuove frontiere nella ricerca al Rizzoli di Bologna

L’istituto Rizzoli di Bologna mediante la tecnica della crioterapia, è riuscito a curare i primi sei pazienti affetti da fibromatosi desmoide.

  1. Cos’è la fibromatosi desmoide?
  2. Il trattamento convenzionale
  3. Cos’è la crioablazione?
  4. Procedura clinica
  5. Intervento al Rizzoli di bologna
  6. Conclusioni

Cos’è la fibromatosi desmoide?

La fibromatosi desmoide è una neoplasia fibrosa benigna (raramente maligna), che origina dal tessuto connettivo, rappresentando il 3% delle neoplasie dei tessuti molli.
È una malattia rara che colpisce soggetti giovani (10-40 anni di età), con maggiore prevalenza nel sesso femminile. Si manifesta con crescita anomala dei tessuti molli delle estremità e delle cellule fibromuscolari a livello addominale. Ne consegue dolore, compressione degli organi interni e disturbi della motilità.
Esistono forme sporadiche e forme genetiche. Le prime sono dovute, nell’ 80% casi, alla mutazione del gene beta-catenina, mentre nel restante 20% al gene APC. Le seconde, invece, sono correlate alla poliposi familiare per alterazione del gene APC.

 

https://conganat.uninet.edu

Il trattamento convenzionale

Il trattamento convenzionale, fino ad oggi utilizzato, comporta l’asportazione chirurgica combinata alla chemioterapia o radioterapia. 
A causa delle numerose recidive riscontrate nel 60% dei pazienti, si è notato però che non è preferibile intervenire chirurgicamente ma farmacologicamente, bloccando unicamente la crescita del tumore.
Grazie alla tecnica della crioterapia, è stata studiata la possibilità di eliminare la neoplasia attraverso crioablazione, riducendo così il deficit derivante all’intervento chirurgico tradizionale.

Che cos’è la Crioablazione?

La crioablazione è una tecnica della radiologia interventistica eseguita sotto guida radiologica, che consiste nel congelare letteralmente le cellule. Gli ambiti di applicazione variano dalla cardiochirurgia, utilizzata nella cura delle aritmie, fino alla rimozione di tumori, come avvenuto al Rizzoli di Bologna per sei pazienti affetti da fibromatosi desmoide.

 

https://cdn.gvmnet.it/

Procedura clinica

L‘intervento avviene in anestesia locale, inserendo uno o più aghi nella massa tumorale. Attraverso questi viene inoculato gas di temperatura inferiore ai -20 °C. In tal modo l’acqua presente nelle cellule tumorali si condensa in ghiaccio, causando necrosi cellulare e liberando gli antigeni tumorali. Ciò induce una risposta immunitaria contro il tumore.
Dunque la crioablazione consente di agire solo sulla massa tumorale senza intaccare tessuti sani, come avviene difatti con la chemioterapia.

Intervento al Rizzoli di Bologna

Il primo intervento in Italia è stato eseguito a luglio 2020 su un paziente di 39 anni. Il soggetto soffriva di dolore intenso e debilitante nella zona di crescita del tumore. Ha portato a scomparsa quasi completa della massa tumorale con una singola seduta.
Lo studio è stato diretto dal dottor Costantino Errani e dal radiologo interventista Giancarlo Facchini, basandosi sui primi risultati di uno studio americano del Memorial Sloan Kettering Cancer Center ed uno studio multicentrico francese.

 

http://www.ior.it/

Conclusioni

Offrire ai malati non solo una valida alternativa a un trattamento aggressivo o invasivo ma soprattutto una tecnica più efficace è ciò che ogni medico desidera per i propri pazienti”
Anselmo Campagna

Livio Milazzo

Bibliografia

Congelare il tumore con la crioterapia. Al Rizzoli di Bologna curati con questa tecnica i primi 6 pazienti affetti da fibromatosi desmoide | ISTITUTO ORTOPEDICO RIZZOLI (ior.it)

Fibromatosi di tipo desmoide – irccstumori (istitutotumori.mi.it)

Poliposi adenomatosa familiare – Disturbi gastrointestinali – Manuali MSD Edizione Professionisti (msdmanuals.com)

Alzheimer: approvato il primo farmaco specifico per la malattia

È di ieri, 7 Giugno 2021,  la fantastica notizia dell’approvazione, da parte dell’FDA (Food and Drug Admininistration), dell’Aducanumab (nome commerciale Aduhelm), il primo farmaco specifico contro l’Alzheimer.

Cos’è l’Alzheimer?

L’Alzheimer è una malattia neurodegenerativa che causa demenza progressiva ed inarrestabile. Essa porta, a lungo andare, ad un’auto-insufficienza, determinando dopo 4-8 anni di malattia la morte per le precarie condizioni igienico-alimentari dovute all’allettamento.

Secondo i dati del Ministero della Salute, in Italia, il numero dei pazienti con demenza è di oltre 1 milione (circa 600.000 a causa dell’Alzheimer) e 3 milioni sono le persone coinvolte nella loro assistenza, con enormi conseguenze economiche e sociali.
Ma il problema non è solo italiano. Nel 2010, in tutto il mondo 35,6 milioni di persone erano affette da demenza.
Si stima inoltre un aumento del doppio nel 2030, del triplo nel 2050, con 7,7 milioni di nuovi casi all’anno e con una sopravvivenza media, dopo la diagnosi, di 4-8-anni.

Crediti immagine: truenumbers.it

Quali sono le cause della malattia?

L’eziologia della malattia non è ancora ben compresa. Si crede contribuiscano fattori ambientali, come evidenziato dal Global Burden of Disease (nello specifico, il particolato PM 2.5), fattori genetici come i geni presenilina-1 (PSEN1), presenilina-2 (PSEN2) e proteina precursore di beta-amiloide (APP), l’elevato stress ossidativo (ROS) causato da un eccessivo stato infiammatorio.

Il meccanismo attraverso il quale la malattia causa demenza consiste nella formazione di placche nel cervello, dette placche amiloidi, ed ammassi neurofibrillari. Essi si accumulano via via nel cervello, “intasandolo” ed impedendone il corretto funzionamento, conducendo infine a morte i neuroni.

Crediti immagine: Brainer.it

Le placche di beta-amiloide e gli ammassi neurofibrillari (costituiti da proteina Tau) sono dovuti ad un errato ripiegamento delle proteine, che normalmente hanno una conformazione ad alfa elica o a foglietto beta. Non essendo ripiegate bene, a causa di tutti i fattori di cui sopra, saranno difficili da smaltire per la microglia (insieme di cellule deputate alla “pulizia” del tessuto nervoso) e si accumuleranno sempre di più.

Come veniva curato?

Fino a ieri, la terapia della malattia si è basata su un approccio farmacologico ed uno psicosociale-cognitivo.

L’approccio psicosociale-cognitivo consiste in programmi di training cognitivo, basati sulla stimolazione cognitiva e comportamentale attraverso “esercizi mentali”. Effetti positivi sono dati pure dalla musico-terapia e arte-terapia, che influiscono positivamente sull’umore dei malati.

Crediti immagine: tieniamente.it

L’approccio farmacologico consiste nell’uso di farmaci non specifici per il morbo di Alzheimer, ma in grado in generale di potenziare le rimanenti funzioni cognitive, ormai deficitarie. Si tratta di molecole come l’acetilcolina e gli inibitori dell’acetilcolina colinesterasi (che ne aumentano la concentrazione cerebrale), come la fisostigmina, la neostigmina ecc.
Altri farmaci utilizzati comprendono i glutammatergici, come la memantina.

Questi farmaci, seppur in grado di rallentare il declino della malattia, non ne modificano il decorso, purtroppo infausto.

Aducanumab, il nuovo farmaco

L’Aducanumab, (nome commerciale Aduhelm) è un anticorpo monoclonale diretto contro le placche di beta-amiloide che si accumulano nel cervello. Si somministra una volta al mese per via endovenosa.

Crediti immagine: nursetimes.org

Rappresenta una svolta epocale, in quanto prima di ieri nessun farmaco era diretto a contrastare il meccanismo patogenetico della malattia. I farmaci precedentemente usati, infatti, avevano solamente un effetto non specifico, in grado di potenziare le funzioni  cognitive rimaste, ma non influenzavano il decorso finale dell’Alzheimer.

Vista lefficacia del farmaco, valutato in 3 studi che hanno coinvolto 3482 pazienti, l’FDA ha approvato con un protocollo di approvazione accelerato, usato quando si scopre un farmaco efficace per una malattia grave e pericolosa per la vita.

I pazienti infatti, tramite studi in doppio cieco e randomizzati, hanno mostrato una significativa riduzione dose e tempo-dipendente delle placche di beta-amiloide nei pazienti che ricevevano il farmaco, rispetto a quelli che assumevano il placebo.

Per tali ragioni ieri, 7 Giugno 2021, l’FDA ha autorizzato la vendita di questo prodigioso farmaco, prodotto dalla Biogen, che ha iniziato a svilupparlo nel lontano 2003.

Prospettive future

Grazie all’Aducanumab, probabilmente la storia naturale dell’Alzheimer potrà cambiare.

La speranza è che, grazie ad esso e a successivi farmaci, si riuscirà a far diventare l’Alzheimer una malattia cronica un po’ come il diabete.
C’è da considerare, infatti, che sebbene sia il primo farmaco diretto contro il meccanismo patogenetico, adesso si ha la prova che questo tipo di farmaci, ovvero gli anticorpi monoclonali, funzionano.

Crediti immagine: infomedics.it

Questo farà sì che altre aziende farmaceutiche spenderanno in ricerca per realizzare nuovi farmaci contro questa ed altre malattie neurodegenerative caratterizzate da meccanismi simili.

Si prospetta dunque un’epoca d’oro per la medicina odierna e futura. Grazie infatti ai calcoli dei super computer è ormai facile realizzare farmaci ad hoc contro un particolare bersaglio molecolare.

L’epoca della target-therapy è iniziata da pochi anni, ma già mostra le sue incredibili potenzialità. Presto molte malattie, finora incurabili, potranno avere nuove terapie.

Crediti immagine: nuvola.corriere.it

Un sincero grazie ai ricercatori che nel silenzio, ogni giorno, lavorano per noi e che, ormai spesso, ci omaggiano di queste fantastiche notizie.

Roberto Palazzolo

Un anticorpo monoclonale per la lotta al coronavirus

Recentemente la corsa al vaccino anti-SARS-CoV2 sembra aver ricevuto un’accelerata decisiva: in studi di fase tre, i due sieri delle case farmaceutiche americane Pfizer e Moderna sono risultati efficaci in più 90% dei casi. Ma, oltre al vaccino, ci sono altre vie che ci potranno aiutare ad uscire una volta per tutte da questa pandemia globale? La risposta è sì: il 28 ottobre è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine uno studio sull’utilizzo dell’anticorpo monoclonale LY-CoV555 (sempre di una casa farmaceutica americana, Ely Lilly). Questo riuscirebbe a ridurre l’ospedalizzazione dei malati Covid dal 70 al 90%.

Sede centrale di Eli Lilly ad Indianapolis (USA)

Prima di tutto: cos’è un anticorpo monoclonale?

Gli anticorpi o immunoglobuline sono glicoproteine prodotte normalmente dei nostri linfociti B, attivati a plasmacellule, in risposta all’incontro con antigeni patogeni. Gli anticorpi monoclonali hanno lo stesso obiettivo, ma li produciamo in laboratorio attraverso metodiche di ingegneria genetica.

Si tratta di una tecnologia nuova? No, tutt’altro. Dobbiamo la loro scoperta a Georges Koheler e Cesar Milner, che nel 1984 vinsero il Nobel per la medicina. La prima tecnica utilizzata per produrli è stata quella dell’ibridoma, che sfrutta cellule di origine murina e conta una serie di passaggi:

  1. Immunizzazione del topo attraverso l’iniezione dell’antigene verso cui vogliamo produrre gli anticorpi.
  2. Prelievo delle plasmacellule murine dalla milza.
  3. Fusione di queste cellule con cellule neoplastiche in coltura: si ottiene una cellula detta ibridoma, che produce una quantità elevata del nostro anticorpo.
  4. Quindi moltiplicazione dell’ibridoma in coltura.

Oggi esistono anticorpi monoclonali totalmente umani, così da superare completamente il rischio di immunogenicità.

Tipologie di anticorpi monoclonali in base alla composizione prevalentemente murina o umana

 

Alcuni esempi

Prima di parlare dello studio che ha dimostrato l’efficacia di LY-coV555 nei pazienti affetti da Covid-19, vediamo alcuni degli anticorpi monoclonali oggi utilizzati.

  • Omalizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro le IgE, ovvero le immunoglobuline coinvolte nelle reazioni allergiche. È indicato nel trattamento dell’asma allergico grave e dell’orticaria, quando le altre terapie non si sono dimostrate valide per il controllo della malattia.
  • Trastuzumab, anch’esso un anticorpo umanizzato, è rivolto contro il dominio extracellulare del recettore HER-2, utilizzato nei carcinomi mammari che lo iper-esprimono. Il settore oncologico è probabilmente quello in cui gli anticorpi monoclonali stanno portando le migliori innovazioni.
  • Infliximab è invece un anticorpo chimerico, il suo bersaglio è il fattore di necrosi tumorale e la FDA (Food and Drug Administration) lo ha approvato per alcune malattie autoimmuni, come il morbo di Crohn, la colite ulcerosa, la spondilite anchilosante, la psoriasi e l’artrite psoriasica.

Altro esempio è il Tocilizumab: questo agisce da immunosoppressore bloccando l’azione di una delle citochine chiave della risposta infiammatoria, ovvero l’interleuchina 6 (IL-6). È il gold standard nell’artrite reumatoide e, nel mese di aprile ad inizio della pandemia, era stato utilizzato con discreti risultati anche per il trattamento di alcuni pazienti affetti da Covid-19.

Il trial sull’anticorpo monoclonale LY-CoV555

LY-CoV555 ha un meccanismo d’azione molto semplice da spiegare, si tratta di un potente anticorpo anti-spike. Lega ad alta affinità il dominio della spike di SARS-CoV-2 che gli permette di penetrare nelle nostre cellule e lo neutralizza.

https://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-8285333/Antibody-prevents-COVID-19-virus-infecting-human-cells.html

Il trial della Ely Lilly ha coinvolto 452 pazienti provenienti da 41 centri degli Stati Uniti, tutti testati positivi al nuovo coronavirus e presentanti sintomi lievi o moderati. La popolazione in studio è stata suddivisa in due bracci: uno riceveva un’infusione endovenosa di LY-CoV555, mentre l’altro un placebo. Nel primo braccio possono essere distinti anche tre sottogruppi in base alla dose di farmaco ricevuta, rispettivamente 700 mg, 2800 mg e 7000 mg.

L’outcome primario dello studio era quello di calcolare la variazione della clearance virale all’undicesimo giorno rispetto al giorno dell’infusione. Entrambi i gruppi hanno mostrato un miglioramento, con una diminuzione media di -3,81 nell’intera popolazione dal valore basale. Coloro che avevano ricevuto il farmaco hanno mostrato un maggior decremento del gruppo “placebo”. In questo il sottogruppo ottimale è risultato essere quello con il dosaggio intermedio di LY-CoV555, ovvero 2800 mg.

Quali effetti su ricovero e sintomi? E quali effetti indesiderati?

Per quanto riguarda l’ospedalizzazione, al 29esimo giorno soltanto l’1,6% dei pazienti trattati era ancora in ospedale e di questi la maggioranza aveva un’età superiore a 65 anni ed un BMI superiore a 35, considerati comunque fattori di rischio aggiuntivi. Nel gruppo placebo il tasso di ospedalizzazione alla stessa data era invece del 6,3%.

Ulteriore risultato positivo riguarda i sintomi. Questi sono stati valutati clinicamente mediante uno score: ognuno stimato da 0 (nessun sintomo) a 3 (sintomi severi). Il punteggio totale raggiungibile era di 24 ed i principali sintomi considerati erano: tosse, perdita del respiro, febbre, fatica, mal di gola, mal di testa e perdita dell’appetito. LY-CoV555, a qualsiasi dosaggio, ha dimostrato di ridurre la durata del periodo sintomatico, come evidente nel grafico seguente.

Nel trial non si sono verificati effetti avversi gravi nei pazienti del gruppo “farmaco”, mentre per quanto riguarda gli effetti avversi non considerati gravi questi si sono manifestati nel 22,3%. Il più frequente riportato era la nausea (3,9%), seguita da diarrea (3,2%) e vertigini (3,2%).

Lo studio non ha coinvolto gravi ammalati e solo uno degli arruolati, appartenete al gruppo “placebo”, è finito in terapia intensiva. Altro punto a svantaggio di questa terapia è il costo degli anticorpi monoclonali e, come detto dalla virologa Ilaria Capua in una recente intervista, “è illusorio pensare che questa cura possa arrivare a tutte le persone in pochi mesi”Nel frattempo rispettiamo le regole, utilizzando le mascherine e mantenendo il distanziamento sociale.

Antonio Mandolfo

 

 

Bibliografia

https://www.infomedics.it/servizi/biotecnologie/la-storia.html

https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2029849

http://www.informazionisuifarmaci.it/omalizumab

Sars-Cov-2 nelle acque reflue di Milano e Torino da Dicembre 2019: studio in fase di pubblicazione

Secondo le varie fonti scientifiche i primi casi di Covid-19 si sono verificati in Cina tra ottobre e novembre 2019, per poi aumentare esponenzialmente intorno agli inizi di gennaio e diffondersi nel resto del mondo.
Ma è proprio questo il nodo cruciale: quando esattamente è iniziato il contagio negli altri Paesi?
Si sarebbe potuto evitare?
Il sospetto che il nuovo coronavirus fosse arrivato nel nostro Paese prima del famoso “paziente zero” ha più volte sfiorato le menti dei ricercatori, ma all’atto pratico ancora nessuno è riuscito a venire a capo di questo enigma.
Una risposta potrebbe arrivare dallo studio della presenza del virus nelle acque reflue di alcune delle città più colpite.

Lo studio

Tra i primi a effettuare queste analisi sono stati i ricercatori spagnoli, con il prelievo e lo studio delle acque reflue di due impianti di trattamento di Barcellona.
I risultati dimostravano la presenza di materiale genetico del Sars-Cov-2 già in campioni risalenti al 12 marzo 2019. Se la scoperta si rivelasse attendibile, potrebbe essere molto utile per tracciare il percorso che il virus ha seguito nella sua diffusione.
Questo vorrebbe inoltre dire che molti contagiati avrebbero potuto avere i sintomi della Covid-19 ma essere scambiati per semplice influenza.
Casi passati in sordina ma che adesso potrebbero pesare come macigni.

Veniamo a noi

Secondo uno studio in fase di pubblicazione, nelle acque reflue di Milano e Torino sono state ritrovate tracce del virus a dicembre 2019.
Lo studio ha previsto l’analisi di alcuni campioni prelevati tra dicembre 2019 e gennaio 2020 e altri di controllo, prelevati in un periodo antecedente al presunto inizio della pandemia.
I risultati, hanno evidenziato presenza di RNA di SARS-Cov-2 nei campioni prelevati nelle suddette città, così come a Bologna.
Nelle stesse città sono stati trovati campioni positivi prelevati nei mesi seguenti, mentre i campioni di ottobre e novembre 2019, come pure tutti i campioni di controllo, hanno dato esito negativi.

Le dichiarazioni dei ricercatori

“Dal 2007 con il mio gruppo portiamo avanti attività di ricerca in virologia ambientale e raccogliamo e analizziamo campioni di acque reflue prelevati all’ingresso di impianti di depurazione” spiega Giuseppina La Rosa del Reparto di Qualità dell’Acqua e Salute del Dipartimento di Ambiente e Salute dell’Istituto Superiore di Sanità, che ha condotto lo studio in collaborazione con Elisabetta Suffredini del Dipartimento di Sicurezza Alimentare, Nutrizione e Sanità pubblica veterinaria. “Lo studio – prosegue La Rosa –  ha preso in esame 40 campioni di acqua reflua raccolti da ottobre 2019 a febbraio 2020, e 24 campioni di controllo per i quali la data di prelievo (settembre 2018 – giugno 2019) consentiva di escludere con certezza la presenza del virus. I risultati, confermati nei due diversi laboratori con due differenti metodiche, hanno evidenziato presenza di RNA di SARS-Cov-2 nei campioni prelevati a Milano e Torino il 18/12/2019 e a Bologna il 29/01/2020

Questo cosa comporta?

Ovviamente il ritrovamento del virus non implica che le catene di trasmissione principali che hanno portato all’epidemia nel nostro Paese si siano originate proprio da questi primi casi.
Adesso non è ancora il momento delle certezze, tuttavia, una rete di sorveglianza sul territorio può rivelarsi preziosa e questo studio che è stato condotto ha posto le basi per mettere in atto degli interventi di controllo dell’epidemia.
Come afferma Luca Lucentini, direttore del Reparto Qualità dell’Acqua e Salute “Passando dalla ricerca alla sorveglianza sarà indispensabile arrivare ad una standardizzazione dei metodi e dei campionamenti poiché sulla positività dei campioni incidono molte variabili quali per esempio il periodo di campionamento, eventuali precipitazioni metereologiche, l’emissione di reflui da attività industriali che possono influire sui risultati di attività ad oggi condotte da diversi gruppi”.
Attendiamo dunque fiduciosi nuovi sviluppi nel campo della ricerca, poiché il tempo al momento è l’unico che potrà dirci in che direzione andrà questa seconda parte del 2020.

Maria Elisa Nasso

Bambini, Kawasaki e Sars-CoV-2: quanto c’è di vero?

Nella nostra rubrica abbiamo già visto come nei bambini la Covid-19 abbia un decorso indolente (letalità molto bassa: circa 0,06% nella fascia di età 0-15 anni) ed abbiamo visto come il vero problema è che i bambini, per lo più paucisintomatici o asintomatici, diventino più che il bersaglio, un vero e proprio mezzo di diffusione.

Dal 4 maggio in Italia via alla fase 2, che fine faranno i bambini?
Fonte: bariviva.it

Ma è giusto limitarsi a questo?

In realtà no, le insidie ci sono anche per i più piccoli.

Oramai da mesi si parla di una possibile correlazione tra la malattia di Kawasaki e l’infezione da SARS-CoV-2. In particolare molti dei bambini ricoverati in ospedale per sintomi assimilabili alla prima, risultavano poi positivi al tampone.

La malattia di Kawasaki è una vasculite sistemica (malattia infiammatoria dei vasi) solitamente autolimitante e la cui prognosi dipende essenzialmente dal coinvolgimento delle arterie coronarie (vasi che irrorano il cuore). L’Italia presenta un’incidenza annua di circa 14 casi su 100.000 in bambini di età inferiore a 5 anni.

Malattia di Kawasaki e COVID-19: esiste una correlazione ...
Fonte: missionescienza.it

Nonostante diverse evidenze suggeriscano un’origine infettiva o una risposta immunologica anomala a un’infezione in bimbi geneticamente predisposti, nulla è ancora certo sulla causa specifica. La patogenesi però è sicuramente immunomediata e questo potrebbe giustificare la correlazione “temporale” con l’infezione da Coronavirus, che ne avrebbe favorito un aumento di incidenza. Non sarebbe infatti il virus a causare il danno in maniera diretta, quanto la forte infiammazione che suscita nel momento in cui innesca la risposta immunitaria dell’ospite. A sostegno di questa testi, il fatto che la patologia si sia manifestata solo in un secondo momento rispetto alla diffusione del SARS-CoV-2, configurandosi come un “quadro post-infettivo”.

Ma siamo sicuri si tratti proprio di Kawasaki?

Uno studio tutto italiano pubblicato sulla prestigiosa rivista The Lancet, spiega come sia meglio parlare di una patologia simil-Kawasaki. Se da un lato infatti, la terapia con immunoglobuline endovena, applicata secondo le linee guida del trattamento della malattia di Kawasaki, è efficace, è pure vero che in alcuni bambini si presenta in una forma più grave con coinvolgimento miocardico e/o gastroenterologico, assenti nella forma classica. Sicuramente i sintomi sono davvero simili e non vanno sottovalutatati in quanto un pronto riconoscimento e intervento ne limitano i danni.

Alcune delle caratteristiche peculiari della malattia di Kawasaki.

Bergamo, sede dello studio, è infatti una delle città che ha visto un aumento di circa 30 volte dell’incidenza della Kawasaki, ma nonostante le molte analogie, erano pochi i quadri completamente sovrapponibili.

Incidenza della malattia di Kawasaki nel periodo di studio e negli ultimi 5 anni – Fonte: https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(20)31103-X/fulltext

A conferma di questi dati nostrani, arriva il numero sicuramente più elevato di bambini affetti negli USA, uno dei Paesi maggiormente colpiti dalla pandemia, che annovera anche 3 decessi. Qui il quadro pediatrico è descritto drammaticamente in un articolo pubblicato sul New York Times: la Grande Mela da sola conta 161 piccoli pazienti affetti.

In un calderone di “multifattorialità” non si sa bene se possa essere incluso anche un fattore etnico, ma oltreoceano (alcuni casi anche nel Regno Unito) ci sarebbe una maggiore presentazione di sintomi che non hanno a che vedere con le caratteristiche della suddetta tabella, tipiche della Kawasaki. Alcuni bambini manifesterebbero dolori addominali, vomito, oltre ai già citati disturbi a carico del miocardio, accompagnati da un calo di piastrine e di linfociti. Tutto ciò ha reso necessario l’istituzione di una serie di teleconferenze (ancora in corso) organizzate dal Boston Children’s Hospital che vedono coinvolta tutta la pediatria mondiale.

Tutto questo ha un nome: Sindrome infiammatoria acuta multisistemica

Il 15 Maggio l’ECDC ha pubblicato un Rapid Risk Assessement sulla Sindrome infiammatoria acuta multisistemica, che si è resa protagonista nell’ultimo periodo. Si tratterebbe di un’evoluzione più grave (spesso complicanza della Kawasaki stessa) che richiederebbe spesso gli ausili della terapia intensiva a seguito di un interessamento di più organi contemporaneamente. Numerose sono infatti le evidenze europee di casi dubbi nei quali la sintomatologia è comparsa a circa 2-4 settimane dal picco massimo di infezione da SARS-CoV-2, suggerendo anche qui un danno mediato dalla risposta immunitaria aberrante, più che dal virus in sè.

Fonte: logo ECDC

Tuttavia, l’ECDC rileva inoltre che le evidenze per una relazione causale fra COVID-19 e la Sindrome infiammatoria acuta multisistemica sono ancora limitate. Aggiunge anche che il rischio di manifestazione della stessa nei bambini sia molto basso e che il trattamento è possibile ed efficace. Ne sono un illustre esempio i 10 bambini dello studio di Bergamo tutti guariti, nonostante le complicanze multiorgano.

L’invito che l’Istituto Superiore di Sanità fa è diretto ai professionisti e non: fare attenzione nel cogliere i segni precoci, nonostante sia una condizione rara. La immunoglobuline endovena, i corticosteroidi ed un’eventuale terapia di supporto sono ottime armi nel contrastare la patologia, basta riconoscerla in tempo!

Capiremo prima o poi cosa si nasconde dietro questa associazione, ma in questo caso la rapidità d’azione viene prima dei mille perché.

Claudia Di Mento

App Immuni, analisi della documentazione: garantirà l’anonimato, le immagini ufficiali

Analisi funzionamento App Immuni
App Immuni: analisi del funzionamento

È stata recentemente pubblicata su GitHub la documentazione di Immuni, l’App per il tracciamento dei contatti già preannunciata che potrebbe diventare un alleato importante nella lotta al virus. Il governo annuncia che la sperimentazione potrebbe partire da fine Maggio, ma non manca un certo scetticismo da parte della popolazione. L’attenzione è infatti rivolta alla tematica privacy, tanto che sarà necessario il via libera da parte del Garante per la Privacy che ha già esternato delle perplessità.

Dalle informazioni pubblicate emerge subito l’attenzione posta da parte degli sviluppatori al fine di rispettare la privacy degli utilizzatori. Analizziamo quindi il funzionamento dell’applicazione per comprendere l’importante lavoro svolto per tutelare i dati sensibili degli utenti. Discuteremo anche alcuni potenziali punti deboli su cui sono a lavoro gli sviluppatori.

Immuni non accede al GPS e quindi non registra la nostra posizione geografica

L'App non si serve del GPS bensì del Bluetooth
L’App utilizza il Bluetooth, quindi non registrerà posizioni geografiche

Al contrario di quanto si potrebbe pensare l’applicazione non avrà accesso alla nostra posizione tramite GPS. Immuni funzionerà anche con servizio GPS spento utilizzando il Bluetooth, sfruttando in particolare la tecnologia BLE (Bluetooth Low Energy) che tutelerà la durata della batteria. L’App quindi non registrerà mai i vostri spostamenti nel corso della giornata o la vostra posizione assoluta geografica, ma soltanto i contatti con altri dispositivi con l’applicazione in funzione. È necessario quindi che molti utenti installino l’App e la tengano in funzione. Da qui si deduce un potenziale fattore limitante: una scarsa diffusione ridurrà l’efficacia dello strumento.

Esempio di funzionamento: nessuna generalità sull’utente ma solo codici temporanei

L’utente non condividerà con altri dispositivi o con il server centrale alcun dato relativo alle proprie generalità. Ecco un esempio schematico del funzionamento. L’applicazione dell’utente genererà una chiave temporanea giornaliera ogni ventiquattro ore, senza nessuna informazione sensibile. A partire dalla chiave verranno ricavati dei codici identificativi che il dispositivo aggiornerà ogni quindici minuti. Questi sono i codici che verranno scambiati al momento del contatto con l’applicazione di un altro utente, e salvati nei dispositivi di ciascuno. Nessuno dei codici fin’ora citati contiene riferimenti personali all’utente o al dispositivo dell’utente che li ha generati.

Al momento del contagio servirà l’intervento da parte di un operatore sanitario, ma l’utente deciderà se condividere

L'App richiede la presenza di un operatore sanitario
L’App richiede la presenza di un operatore sanitario per confermare e comunicare l’eventuale contagio

Se l’utente risulterà contagiato dal virus dovrà comunicare un codice all’operatore sanitario che confermerà la positività del test, per evitare false segnalazioni. A questo punto soltanto l’utente potrà autorizzare la comunicazione dei dati ad un server centrale. I dati, anche in questo caso, non comprendono informazioni anagrafiche o geografiche. Verranno caricati, oltre al risultato del test, i codici casuali dell’utente ed informazioni di natura epidemiologica. Tra questi la Provincia che avrà solo una valenza statistica e comunque non rappresenta nulla in più rispetto a quanto già giornalmente comunicato dalla Protezione Civile.

L’organizzazione da parte della sanità locale e nazionale sarà fondamentale. Il sistema da solo non basterà a garantire la gestione dei contatti dei soggetti positivi, quindi i test diagnostici dovranno essere resi disponibili e gli utenti seguiti da personale sanitario.

I contatti verranno avvisati e saranno invitati ad attuare strategie di prevenzione

I contatti dei contagiati saranno avvisati in forma anonima dall'applicazione
I contatti dei contagiati saranno avvisati in forma anonima dall’applicazione

Le applicazioni installate nei dispositivi degli utenti contatteranno periodicamente il server e verificheranno se hanno stabilito un contatto negli ultimi tempi con un soggetto segnalato come positivo. In questo caso l’App segnalerà all’utente il contatto (senza specificare informazioni temporali) attraverso una notifica. Quindi lo inviterà a mettersi in contatto con un operatore sanitario e a segnalare la presenza di eventuali sintomi.

I dati saranno gestiti dallo Stato e verranno eliminati periodicamente

Il sistema prevede che la società ideatrice non abbia accesso ai server su cui saranno immagazzinati i dati. I server saranno infatti localizzati nel territorio nazionale e gestiti da Sogei, SPA Informatica del Ministero dell’Economia. Tutti i dati raccolti dal sistema, sui dispositivi e sui server saranno eliminati quando diventeranno epidemiologicamente irrilevanti (quindi entro qualche settimana). Ciò avverrà comunque non oltre il 31 Dicembre di quest’anno. Il ministero della Sanità avrà il pieno controllo sulle modalità di gestione dei dati e sul loro utilizzo, che comunque avranno la sola finalità di contenimento del contagio e di ricerca.

I “punti in sospeso” degli sviluppatori

Come evidenziato dalla documentazione gli sviluppatori sono ancora al lavoro per ottimizzare ogni aspetto. Uno dei principali punti deboli potrebbe essere rappresentato dal traffico scambiato mediante Bluetooth. Infatti potrebbe essere rilevato da parte di utenti esterni. Un altro rischio potrebbe essere l’accesso da parte di malintenzionati al server in cui sono contenuti i dati. Gli sviluppatori confermano l’intenzione di mantenere al minimo possibile la richiesta di dati personali dell’utente, che comunque non verranno mai scambiati o raccolti sul server.

In relazione alla tecnologia BLEla stima della distanza è soggetta ad errori, in quanto il segnale dipende da fattori come l’orientamento dei due dispositivi l’uno rispetto agli altri e gli ostacoli tra di essi“. Quindi verrà preso in considerazione il tempo di contatto: “Un contatto che dura solo un paio di minuti a diversi metri di distanza sarà considerato a basso rischio. Tale modello però potrebbe evolversi man mano che saranno disponibili ulteriori informazioni sul virus” sottolineano gli sviluppatori.

Sui dispositivi degli utenti verranno conservati dati relativi alla salute dell’utilizzatore, per lo più basati sulla registrazione dei sintomi. In caso di furto/smarrimento del dispositivo un’efficiente protezione dei dati sarà necessaria al fine di evitarne qualsiasi tentativo di accesso.

La community su cui è stata pubblicata la documentazione è costantemente attiva nella segnalazione di eventuali punti deboli o spunti che possano spingere gli sviluppatori ad apportare dei miglioramenti.

Non solo un’iniziativa italiana: il contact tracing informatico è un’iniziativa globale per un ritorno alla “normalità”

L’intero funzionamento dell’applicazione si basa su una spina dorsale ideata dalla collaborazione tra Apple e Google. I due giganti del mondo informatico hanno sviluppato un framework che permetterà ai Paesi di sviluppare le proprie applicazioni per il contenimento del contagio. Ciò garantirà degli aggiornamenti puntuali che correggeranno eventuali falle che dovessero emergere. Permetterà inoltre il funzionamento su tutti i dispositivi Android e Apple forniti di Bluetooth con i massimi standard di sicurezza. L’Italia si sta quindi adeguando a quella che, con ogni probabilità, diventerà un’iniziativa globale.

Paesi come la Corea del Sud ci hanno insegnato come un’efficace implementazione di strumenti sanitari, diagnostici e informatici possa garantire un’efficiente riduzione della circolazione del virus. Seppur la tutela della privacy di questi Paesi possa aver fatto discutere, al contrario l’attenzione posta dagli sviluppatori italiani è innegabile e garantisce all’utente che non verranno diffuse generalità o informazioni geografiche.

Viviamo in un periodo storico in cui è prassi condividere i propri contenuti sui Social Network, usare assistenti vocali e tracciare le proprie attività sportive o i propri viaggi in auto. Dobbiamo davvero dubitare e ostacolare la diffusione di un’applicazione che potrebbe contribuire concretamente al contenimento dell’epidemia, anche nella malaugurata eventualità di una seconda ondata estiva o autunnale? A voi la risposta! La certezza è che, eventualmente, non bisognerà farci trovare nuovamente impreparati.

Antonino Micari

Covid 19: la trasmissione oro-fecale è possibile?

Da quando la minaccia Covid19 ha iniziato a prendere forma, destando un notevole allarme mondiale per la sua rapida diuffusibilitá e altissima contagiosità, un particolare su tutti venne immediatamente identificato: il coronavirus responsabile si trasmette per via aerea mostrando perciò un’elevatissima somiglianza con l’allora ben più nota SARS. Il virus si trasmette tramite le goccioline di flügge ed è responsabile di una serie di manifestazioni che hanno come comune denominatore l’assoluta aspecificità: tosse e febbre (tipici di un’infezione acuta delle vie aeree inferiori) che possono complicarsi in alcuni casi con lo sviluppo di dispnea, ipossiemia e ARDS.

Ma siamo sicuri che quella respiratoria sia l’unica via di trasmissione?

Infezione oro-fecale da Covid19, cosa sappiamo oggi

Gli ultimi dati provenienti da un recentissimo studio pubblicato sulla rivista ufficiale della società Americana di gastroenterologia “Gastrojournal” mettono in evidenza, tramite una serie di attente osservazioni cliniche, la presenza di tracce di RNA virale in campioni fecali. Ciò confermerebbe l’infezione gastrointestinale avvalorando maggiormente la tesi di una trasmissione oro-fecale. Dal 1 al 14 Febbraio 2020, 73 campioni unici ottenuti da pazienti infetti provenienti da un unico nosocomio, in accordo con le Linee guida del controllo e della prevenzione della Cina, sono stati isolati e sottoposti al test di amplificazione molecolare (PCR). I risultati confermano che su 73 campioni fecali analizzati 39 (53,42%), di cui 25 uomini e 14 donne, contenevano tracce di RNA virale con una positività dagli 1 ai 12 giorni. Il dato che però più sorprende è la positività del test fecale anche dopo la completa negativizzazione del tampone naso faringeo su 17 pazienti dei 39 positivi, che tradotto clinicamente indicherebbe una potenziale infezione oro-fecale, principalmente con acque contaminate da feci infette, anche con la completa negativizzazione dell’espettorato.

Prelievi bioptici multipli, colorati con Ematossilina Eosina testimoniano l’ingresso del virus nei vari distretti del tubo digerente.    Fonte: Gastrojournal.org

 

Come penetra il virus?

E’ stato ormai appurato che, alla base del processo infettivo, ci sia lo spiccato tropismo del Sars-CoV-2 per i recettori ACE2 che il virus sfrutta ampiamente per colonizzare le cellule che lo esprimono. I prelievi bioptici eseguiti a livello della mucosa esofagea, gastrica, del piccolo e grande intestino su più pazienti positivi al test fecale non hanno dimostrato danni macroscopici alla colorazione con ematossilina eosina, la quale ha piuttosto messo in risalto un’elevata presenza di recettori virali e di conseguenza di proteine appartenenti al nucleocapside virale a livello del citoplasma delle cellule gastriche, duodenali e rettali particolarmente predilette dal virus e sfruttate per la produzione di nuovi virioni. In merito a ciò un altro studio cinese ci mette di fronte a due importantissime chiavi di lettura:

– per infettare tali distretti il virus dovrebbe riuscire a resistere all’acidità gastrica. Lo stomaco in condizioni normali vanta un PH altamente acido (1-3) dato dalla elevata produzione di HCL da parte delle cellule parietali costituenti le ghiandole gastriche e che renderebbe impossibile il transito gastrointestinale del poco gradito ospite. È stato notato però che bastano moderate variazioni di PH (5-9) per far sopravvivere il virus;

– l‘età media dei positivi al test fecale è di 49 anni, ciò suggerirebbe che un eventuale rischio di infezione oro-fecale è prevalentemente, ma non esclusivamente, correlato con l’età. L’aumento del PH gastrico in relazione all’età sarebbe giustificato da una serie di condizioni morbose statisticamente appannaggio dell’adulto. In particolar modo l’infezione da Helicobacter Pylori, nota ai più come responsabile di una gastrite acuta, se non adeguatamente trattato con terapia antibiotica eradicante tende a determinare un quadro di gastrite cronica attiva, che in una piccola percentuale di soggetti tende ad evolvere in una gastrite atrofica e successivamente in metaplasia intestinale. In quest’ultima condizione avviene una completa sostituzione delle ghiandole gastriche con ghiandole intestinali le quali sono responsabili della produzione di mucine in ambiente gastrico, ciò tenderebbe a determinare un’alcalinizzazione del PH gastrico (5-9) data l’assenza totale di cellule secernenti HCL, ambiente che diventerebbe, secondo quanto detto precedentemente, ideale per la stabilizzazione del virus.

La presenza di queste due chiavi di lettura ci porta a dire che nei soggetti con tali condizioni cliniche il virus sopravvive all’acidità gastrica, diffondendosi ampiamente anche a livello intestinale e rettale. La mucosa esofagea sembra essere solo in parte coinvolta mentre, sono ancora in fase di studio possibili coinvolgimenti pancreatici ed epatici, lievi innalzamenti di amilasi e transaminasi sembrerebbero più da attribuire agli effetti sistemici del virus sull’organismo.

Sintomi gastrointestinali da Covid19

Sulla base di quanto detto quali sintomi dovrebbero allarmarci? Anche le manifestazioni gastrointestinali sono altamente aspecifiche. Uno studio retrospettivo condotto su 1141 pazienti affetti da Covid19, ricoverati allo “Zhongan hospital of  Wuhan university” , ha evidenziato che 183 di questi presentavano solo sintomi gastrointestinali estremamente comuni a quelli di una normale infezione gastrointestinale. La maggior parte dei pazienti al ricovero lamentava perdita di appetito, nausea e vomito seguiti solo successivamente da dolore addominale e diarrea con la quale ovviamente i malati eliminano il virus.

In un momento in cui il distanziamento sociale è all’ordine del giorno non sappiamo ancora quanto questi dati possano influire sull’inizio imminente della stagione balneare, ma rimane indiscusso come una nuova possibilità di contagio non farà dormire sogni tranquilli coloro i quali, ormai da tempo, sono in prima linea nella lotta contro il nuovo nemico. Ancora una volta il Sars-CoV-2 sa sorprenderci.

Saro Pistorio

Bibliografia

  • Gastrojournal: https://doi.org/10.1053/j.gastro.2020.02.055

 

Il rischio “seconda ondata” è reale, gli studi lo confermano: esclusa una riapertura totale

Abbiamo sperato di riaprire tutto. Dalle nuove indicazioni per la “fase 2” ci si attendeva delle scelte che mirassero verso una ripartenza senza mezzi termini, ma così non è stato. In molti se ne sono chiesti la ragione sottostimando, talvolta con un velo polemico, i potenziali rischi. Analizzando alcuni studi e i documenti che hanno supportato la scelta, cerchiamo di far più chiarezza su quali siano state le ragioni che hanno escluso una riapertura totale. Allo stesso tempo, cerchiamo di fornire qualche ipotesi su cosa accadrebbe prolungando il lock-down per un periodo ancora maggiore. In entrambi i casi la preoccupazione è la medesima, ed è reale: una tanto discussa e temuta “seconda ondata“.

Una seconda ondata prevista già mesi fa

Partiamo da un lavoro dell‘Imperial College di Londra, noto per essere stato lo studio che è piombato come un secchio d’acqua ghiacciato sulle teste di Boris Johnson e Donald Trump. I due leader erano orientati verso un approccio senza rigide misure di distanziamento, mirando a una sorta di “immunizzazione di massa”. Le conclusioni della previsione sono severe, e ci proiettano verso un’evoluzione ancora verosimile e che giustifica la cautela nei confronti di un’immediata ripartenza.

Previsione a 18 mesi dell'Imperial College di Londra
Fonte: Imperial College di Londra – Andamento epidemico a 18 mesi

Lo studio, che si riferisce alla popolazione britannica, ci mostra come in un periodo di diciotto mesi si potranno avere delle riattivazioni cicliche dell’epidemia. L’obiettivo è evitare una risalita troppo brusca che possa mettere in crisi gli ospedali e precludere le cure ad alcuni pazienti. Si potrà capire quando (ri)chiudere sulla base dei flussi in ingresso nei reparti di terapia intensiva, indice reale della diffusione del virus nella popolazione. Almeno finché non verranno sviluppati strumenti terapeutici in grado di dare, finalmente, una conclusione al fenomeno.

Il Comitato Tecnico Scientifico ci mette di fronte alla realtà

Un documento del CTS, emerso poco dopo la presentazione delle nuove misure di contenimento (“fase 2”), lascia spazio a pochi dubbi. Il comitato taglia corto sulla riapertura delle scuole. Infatti, “aumenterebbe in modo significativo il rischio di ottenere una nuova grande ondata epidemica con conseguenze potenzialmente molto critiche sulla tenuta del sistema sanitario nazionale”.

Il comitato analizza varie ipotesi, tra cui anche quella di una riapertura totale: manifattura, settore edile, commercio, ristorazione, settore alberghiero e togliendo i limiti ai contatti sociali, alle possibilità di spostamento e alle capacità dei mezzi di trasporto ma mantenendo le scuole chiuse e il telelavoro lì dove possibile. Saremmo comunque proiettati verso uno scenario disastroso con un picco di oltre ottantamila ricoverati in terapia intensiva orientativamente nel mese di Settembre. Ciò determinerebbe un alto numero di decessi. Riaprire le scuole e tornare integralmente al lavoro aprirebbe ad uno scenario ancor più disastroso, anch’esso analizzato nello studio. Ciò ci fa apparire più chiaro comprendere come difficilmente si potrà avere “tutto e subito”.

La soluzione sta nel tenere sotto controllo l’R0: “indice di contagiosità”

Si discute molto dell’indice R0 che rappresenta il numero di persone contagiate in media da un singolo infetto. L’obiettivo è mantenerlo a valori inferiori o comunque prossimi ad 1. Valori superiori, come si evince dalle oltre novanta simulazioni presentate nel documento, avrebbero un impatto notevole e a tratti drammatico sul sistema sanitario nazionale.

Aumento R0 in caso di riapertura scuole
Fonte: Documento del CTS- Aumento R0 in caso di riapertura delle scuole

Riaprire le scuole con l’impostazione tradizionale farebbe schizzare R0 a livelli difficilmente gestibili del SSN. Il rischio sarebbe quello di creare dei cluster epidemici familiari che potrebbero far ripartire il contagio in scala nazionale.

Effetto della riapertura di alcuni settori
Fonte: Documento del CTS – Effetto della riapertura di alcuni settori

Una delle possibili soluzioni per far ripartire le attività produttive ed evitare (nuovamente) il collasso della sanità prevede una riapertura parziale che però impone dei limiti cautelativi sull’età, con delle limitazioni nei trasporti e nella circolazione. Tutto ciò nell’ipotesi di un’efficienza di protezione (non certa secondo il comitato) da parte delle mascherine. Il governo ha di fatto seguito quest’indicazione, senza però imporre limiti sull’età.

La soluzione non è neanche restare chiusi per sempre

L’ipotesi di prolungare delle restrizioni estese fino a nuove possibilità terapeutiche sarebbe comunque insostenibile da un punto psicologico, economico e sociale. Probabilmente non sarebbe neanche la migliore soluzione da un punto di vista scientifico in quanto spegnere il lockdown richiederebbe mesi, con la possibilità di importazioni future del virus e ripartenze di focolai epidemici. In assenza di possibilità terapeutiche risolutive, che sono promettenti ma non certe, riaprire anche a distanza di un anno potrebbe causare una riattivazione dell’epidemia.

Andamento dell'epidemia con l'attuale contenimento
Fonte: Nature Medicine, Giulia Giordano et al. – Sarebbero necessari mesi per azzerare i positivi attivi

Un recente articolo italiano pubblicato su Nature Medicine, prestigiosa rivista del settore, prevede un modello in cui l’azzeramento dei casi nel nostro Paese non si verificherebbe prima di quasi un anno dall’inizio dell’epidemia. L’articolo prevede, allo stesso tempo, che un prematuro allentamento delle restrizioni con valori di R0 vicini ad 1 condurrebbe a decine di migliaia di morti entro la fine dell’anno.

Chiudere quando serve, chiudere quanto basta

Come afferma l’autrice dello studio in realtà, non abbiamo solo il lockdown come possibile contromisura. Un’altra potrebbe essere quella di effettuare test sierologici e tamponi a tappeto sull’intera popolazione e un tracciamento accurato dei contatti, in modo da poter isolare qualunque focolaio emergente dal principio. Isolare infetti, fornire cure e arrestare la diffusione.

Questa considerazione riassume le intenzioni emerse dalle dichiarazioni del governo. Attento tracciamento dei contagi, tamponi e test sierologici sulla popolazione, zone rosse isolate se superati certi valori soglia critici che presto dovrebbero essere resi noti.

Di fronte ad una situazione senza precedenti le considerazioni e le valutazioni degli esperti rendono chiaro come una riapertura totale sia, al momento, soltanto uno slogan che mira al consenso popolare piuttosto che alla salute pubblica. Fidiamoci di cosa ci viene suggerito e non cediamo facilmente ad ipotesi che, per quanto desiderabili, potrebbero essere potenzialmente disastrose.

Antonino Micari