Omeopatia: tra scienza e menzogna

La diagnosi di tumore è sempre una tragedia che sconvolge la quotidianità di un soggetto e di tutti coloro che gli stanno intorno, cambiando la prospettiva sulla vita e sul mondo.
È una malattia sociale, per così dire, che può condurre la persona in un profondo stato di prostrazione mentale e spingerla alla ricerca di medicine alternative che possano in qualche modo smentire o sovvertire la sentenza del medico curante.
Tra coloro che in buona fede si elevano ad araldi delle parascienze, c’è anche chi lucra sulla sofferenza dei disperati.
A svettare sulle pratiche non convenzionali troviamo la chiacchieratissima omeopatia, che da anni rimbalza da giornali a salotti televisivi, spaccando l’opinione pubblica in due fazioni agguerrite.
Ma cos’è esattamente?

Un po’ di storia

È un metodo basato sul principio per cui il rimedio a una malattia è la sostanza, diluita e agitata, che in una persona sana dia gli stessi sintomi della malattia in questione.
Hahnemann, il medico che teorizzò l’omeopatia, affermava che per curare la malaria servisse una pianta che se assunta provocava sintomi simili, ma senza febbre.
Caso volle che quella pianta fosse la Cinchona succirubra, da cui si estrae il chinino.
A quei tempi era l’unico rimedio a tale patologia, quindi effettivamente i pazienti guarivano, e l’uomo ritenne di aver compiuto una scoperta eccezionale.


Ad oggi nessuno è riuscito a dimostrare l’applicabilità degli studi di Hahnemann, tuttavia sono ancora molti coloro che voltano le spalle alla scienza, in una cieca adorazione dei vari “guru” che promettono cure miracolose.

Cosa dicono i dati?

Tra i tanti studi effettuati, in uno del 2007 vennero arruolati due gruppi di pazienti oncologici (tra essi il più simili possibile dal punto di vista della malattia per evitare di incorrere in errori), al fine di verificare se ci fosse o meno una correlazione tra l’omeopatia e il miglioramento della qualità della vita dei soggetti.
Un gruppo ricevette la terapia convenzionale, l’altro il trattamento omeopatico unito o meno a terapia convenzionale.
Alcuni pazienti in trattamento omeopatico rifiutarono la terapia convenzionale.
E’ da notare che coloro che si rivolgono all’omeopatia sono di solito più giovani e con uno stadio della malattia più avanzata e che hanno terminato i cicli di radio e chemioterapia.
L’obiettivo principale della ricerca era il miglioramento della qualità della vita dopo un anno, mentre gli obiettivi secondari erano la diminuzione dell’astenia, della depressione e l’aumento della soddisfazione del paziente.
Alla fine, lo studio riportò che i soggetti che avevano assunto il supplemento omeopatico mostravano un miglioramento della qualità della vita rispetto al gruppo di controllo, una diminuzione dell’astenia, ma nessuna variazione sulla progressione della malattia.

L’effetto placebo

Il funzionamento dell’omeopatia potrebbe essere spiegato con il ben noto effetto placebo.
Si tratta di un meccanismo per cui un soggetto che assume una molecola non attiva, migliora grazie al rilascio di sostanze endogene che agiscono sul sistema nervoso.
Importante per la buona riuscita di questa procedura è che il paziente sia convinto di assumere una medicina e soprattutto che l’operatore che la sta somministrando sia capace di infondere un totale senso di fiducia.
Ed è su questo che molti giocano la propria partita, spacciando come efficaci dei preparati così diluiti da non poter avere ormai alcun impatto sulla salute del soggetto.
I risultati ottenuti sull’omeopatia sono molto simili in tutti gli studi condotti fino a ora; ciò induce a pensare che non ci sia alcuna utilità terapeutica in queste molecole, ma soltanto un blando e momentaneo beneficio psicologico.
Il problema è, forse, che non sono state messe in atto adeguate campagne di informazione su larga scala al fine di istruire il pubblico e aiutarlo a riconoscere eventuali truffe o inganni, celati dietro la falsa promessa di rivelare segreti, che la medicina tradizionale non vorrebbe elargire.

Maria Elisa Nasso

I batteri che salvano il pianeta

Nell’immaginario collettivo i batteri sono indissolubilmente legati alle infezioni e quindi al concetto di malattia. In pochi sanno che in realtà solo una minima parte dei microrganismi appartenenti a questo regno sono dannosi per l’uomo.

Ma cosa c’entrano i batteri con la salvaguardia dell’ambiente?

Da diversi anni sono ormai note le grandi potenzialità di questi microrganismi, che si sono rivelati un ausilio fondamentale in diverse branche della scienza: dalla medicina alla biologia, dalla ricerca fino alle applicazioni pratiche innumerevoli.

Recentemente due diversi studi hanno dimostrato come alcune specie di batteri siano in grado di aiutarci nella risoluzione di due problematiche che da anni affliggono l’ecosistema terrestre: l’inquinamento causato dalla plastica e il riscaldamento globale.

Il problema ambientale inerente alla plastica è ormai noto a tutti: gli oggetti in plastica impiegano un tempo più o meno lungo a degradarsi nell’ambiente, causando danni consistenti a tutti gli ecosistemi.

Risale al 2016 la scoperta da parte di Shosuke Yoshida del Kyoto Institute of Technology del batterio Ideonella sakaiensis 201-F6, pubblicata sulla rivista Nature. Questo microrganismo produce due enzimi in particolare: PETase e MHETase, in grado di digerire il PET (polietilene tereftalato).

Questa molecola fa parte della categoria dei materiali plastici ed è usato in particolare per la produzione di bottiglie; si stima che una bottiglia di dimensioni medie impieghi circa 450 anni a degradarsi grazie a fenomeni naturali spontanei. Provate a moltiplicare questo tempo per la quantità enorme di bottiglie di plastica che produciamo ogni giorno: soltanto una parte di esse sarà riciclata, senza contare tutte quelle che sono state inadeguatamente smaltite in passato.

Tuttavia, servirebbe una quantità notevolmente elevata di batteri per degradare anche una sola bottiglia in PET. Far proliferare una mole così grande di batteri sarebbe un approccio svantaggioso in quanto troppo dispendioso.

Come possono dunque aiutarci questi microrganismi?

A questa domanda hanno provato a dare una risposta i ricercatori dell’Università di Greifswald e del Centro Helmholtz di Berlino; il loro studio si inserisce in un quadro più ampio di lavori britannici e statunitensi volti a identificare la struttura tridimensionale degli enzimi PETase e MHETase (figura in basso).

Conoscere la struttura 3D di queste due proteine è fondamentale, in quanto permette di capire esattamente come esse svolgano la loro funzione e di riprodurle in laboratorio con tecniche di biologia molecolare in quantità virtualmente illimitate.

Come se non bastasse, la conoscenza dettagliata delle reazioni biochimiche, che permettono la degradazione del PET, renderà possibile modificare la struttura degli enzimi per renderli ancora più efficienti.

Le implicazioni per il futuro sono estremamente interessanti: una volta “migliorati” in laboratorio, PETase e MHETase potranno essere impiegati per smaltire grandi quantità di PET nei suoi costituenti elementari (glicole etilenico e acido tereftalico). Questi, a loro volta, potranno essere riutilizzati per la sintesi di nuove molecole di PET in un ciclo virtualmente chiuso, senza danni per l’ambiente e più efficiente degli attuali sistemi di riciclaggio.

Il secondo argomento che affronteremo richiede un breve ripasso dei meccanismi alla base del riscaldamento globale.

L’effetto serra è un fenomeno naturale essenziale per lo sviluppo della vita sulla terra: i cosiddetti gas serra non sono altro che sostanze presenti nell’atmosfera che intrappolano parte delle radiazioni solari mantenendole all’interno dell’atmosfera stessa. In poche parole, questi gas permettono alle radiazioni di entrare nell’atmosfera, ma non di uscirne. Questo non è altro che un meccanismo di regolazione della temperatura della superficie terrestre.

Infatti, le radiazioni solari trasportano energia (dunque calore) attraversando i vari strati atmosferici per essere poi riflessi sulla superficie terrestre, come una pallina lanciata contro il muro che torna indietro.

Se non fossero presenti i gas serra, i raggi solari e la loro energia tornerebbero nuovamente nello spazio dopo aver “colpito” la superficie terrestre: la temperatura del globo sarebbe così bassa da non permettere lo sviluppo della vita.

Tuttavia, se la concentrazione di gas serra aumenta eccessivamente si osserva il fenomeno inverso: la temperatura della superficie terrestre si innalza, con tutte le conseguenze dannose che ne derivano. Esempi di gas serra sono il vapore acqueo (H2O), l’anidride carbonica (CO2), il protossido di azoto (N2O) e il metano (CH4). Questi gas sono sia di origine naturale, sia antropica, termine che indica la loro produzione in una serie di processi dei quali è responsabile l’uomo.

Ma come fa un organismo piccolo come un batterio a ridurre l’effetto serra?

Semplicemente metabolizzando i gas sopracitati, ovvero sottraendoli dall’ambiente per trasformarli in sostanze innocue.

Lo studio pubblicato da Boran Kartal e colleghi del Max-Planck Institut su Nature si focalizza sul batterio Kuenenia stuttgartiensis. Questo microrganismo è in grado di fare reagire il monossido di azoto (NO) con l’ammoniaca producendo azoto (N2), normale costituente dell’atmosfera.

Il NO ha un potenziale dannoso: viene convertito a protossido di azoto (N2O), annoverato tra i gas serra.

Le principali fonti di NO di origine umana sono vari processi di combustione, come quelli dovuti al funzionamento di motori dei mezzi di trasporto (sia diesel che benzina e GPL) e alla produzione di calore ed elettricità.

Un’idea interessante potrebbe essere l’impiego di questi batteri negli impianti di trattamento delle acque reflue, che permetterebbe di sottrarre gran parte del NO prodotto da processi industriali.

Se degli organismi così piccoli possono fare così tanto per il pianeta, possiamo noi umani essere da meno?

A giudicare dagli ultimi dati sul riscaldamento globale e sulla plastica negli oceani, sembrerebbe di sì.

Emanuele Chiara

 

Bibliografia:

Structure of the plastic-degrading Ideonella sakaiensis MHETase bound to a substrate, Uwe T. Bornscheuer et al.

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09326-3)

Nitric oxide-dependent anaerobic ammonium oxidation, Boran Kartal et al. 

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09268-w)

Buchi neri, grande passo avanti della scienza

Oggi per la prima volta nella storia vedremo le foto di un buco nero.
Un evento di portata storica.
È lo straordinario successo di un gruppo di ricerca formato da scienziati internazionali che ha riunito una rete di telescopi sparsi su tutta la Terra per raggiungere la risoluzione necessaria a “fotografare” il misterioso fenomeno.

La diretta della conferenza dell’Eso (European Southern Observatory) avrà inizio alle ore 15 e sarà trasmessa su Youtube nel canale della Commissione europea.
Su Focus lo speciale sarà trasmesso dalle ore 14:30 fino alle 16:00, e ancora in seconda serata questa sera alle 23:15.

I risultati del progetto, dal nome Event Horizon Telescope, segneranno una pietra miliare nell’astrofisica, che potrebbe confermare ma anche smentire alcune delle principali teorie che costituiscono la base della nostra comprensione del cosmo, inclusa la teoria della relatività di Albert Einstein.

 

 

 

I buchi neri si generano quando le stelle muoiono, collassano su se stesse e creano una “regione” dove la forza di gravità è così forte che nulla può sfuggire venendo risucchiati per sempre.

Fino ad oggi gli scienziati non sono mai stati in grado di fotografarli, ma sono riusciti solo ad ascoltarli: quando i buchi neri si scontrano l’uno con l’altro, rilasciano infatti enormi onde gravitazionali che sono state rilevate da appositi strumenti negli osservatori degli Usa e anche dell’Italia.

L’impossibilità di fotografare questi fenomeni è dovuta ad una serie di motivi.

La loro attrazione gravitazionale rende impossibile la fuga della luce.

Inoltre i buchi neri si trovano molto distanti dalla Terra.

Ciò che gli scienziati stanno cercando di catturare è “l’orizzonte degli eventi”, il confine di un buco nero e il punto di non ritorno oltre il quale tutto viene risucchiato per sempre.

 

 

 

Sebbene sia uno dei luoghi più violenti dell’universo, gli scienziati ritengono che i radiotelescopi possano catturare i fotogrammi dell’orizzonte degli eventi.

Oltre a mostrare l’immagine, gli scienziati sperano di fare chiarezza su alcuni dei temi più dibattuti in astronomia e fisica teorica. Uno di questi è la forma dei buchi neri: secondo la teoria della relatività, essi sono circolari, ma altri scienziati ritengono sia ‘prolata’, ovvero schiacciata lungo l’asse verticale, o ‘oblata’, schiacciata lungo l’asse orizzontale.

Se non fossero circolari, questo – secondo gli scienziati di Event Horizon Telescope – non vorrebbe dire che la teoria della relatività è sbagliata, ma che semplicemente “nella fisica c’è ancora molto da capire”.

Un evento di portata astronomica, proprio per restare in tema, che traccia un solco nello studio dell’astrofisica e che rischia di porre in discussione perfino il buon vecchio caro Albert Einstein.

Antonio Mulone

Dieta mima digiuno per 3 mesi: perdi chili e ringiovanisci le cellule

Studi inediti confermano l’efficacia della dieta mima digiuno, da seguire per 5 giorni e per soli 3 mesi.

La dieta mima digiuno aiuta ad abbassare la pressione, tenere sotto controllo la glicemia e dimagrire, in totale armonia col prorpio corpo.

A svelarlo la nuova ricerca bio-medica che mette in luce, ancora una volta, i benefici di questo regime alimentare basato sul digiuno assennato.

Sviluppata dallo scienziato Valter Longo questa dieta è considerata rivoluzionaria, agisce non solo sulla perdita di peso, ma anche sulla salute di chi la segue.

Un recente studio realizzato dalla University of Southern California, ha dimostrato che bastano tre mesi di dieta mima digiuno per conseguire ottimi risultati.

5 giorni al mese in cui si segue questo regime alimentare, bastano per avere una riduzione della massa grassa addominale e una perdita di peso consistente.

Le analisi hanno dimostrato che la dieta mima digiuno porta anche un abbassamento della pressione arteriosa e della glicemia, aiutando a tenere sotto controllo i trigliceridi, la proteina C reattiva, che causa infiammazioni, e il fattore insulino-simile, che è responsabile dell’invecchiamento cellulare.

“I dati ottenuti su biomarker e fattori di rischio associati a invecchiamento, cancro, diabete e malattie cardiovascolari, unitamente all’elevata compliance alla dieta e alla sua sicurezza di utilizzo – hanno spiegato i ricercatori – indicano che la Dieta Mima Digiuno possa rappresentare una strategia alimentare ad alto potenziale di efficacia nella promozione della salute umana”.

Basta dunque meno di una settimana della dieta mima “Longo” per ritornare in forma e migliorare la propria salute.

Nello specifico si tratta di un regime alimentare con pochissime calorie, basso contenuto di proteine e zuccheri semplici.

Si consumano soprattutto alimenti a base vegetale, senza lattosio o glutine, come zuppe, tisane, snack, barrette, minestre, integratori o tè.

Lo scopo di questi cibi è “ingannare” l’organismo, che si comporta come se si trovasse in una situazione di digiuno, attivando particolari meccanismi reattivi.

Questo comporta una perdita di peso, ma anche una rigenerazione e protezione dell’organismo.

Mediamente, in 3 mesi si possono perdere sino a 2 kg e mezzo, con una diminuzione considerevole della circonferenza addominale.

Un passo avanti rivoluzionario nella tematica che lega, ancora una volta, l’alimentazione al benessere ed al bio-equilibrio.

                                                                                                                                             Antonio Mulone

Mostra “Capire i cambiamenti climatici”

La grande sensibilizzazione in atto sui temi del cambiamento climatico sta avendo un “effetto- eco” molto positivo.

La sempre maggiore comprensione del fenomeno, oltre che sensibilizzare le coscienze, aumenta la consapevolezza della necessità di cambiamento e la curiosità.

A partire dallo scorso weekend, famiglie e scolaresche stanno affollando il Museo di Storia Naturale di Milano per visitare la mostra “Capire il cambiamento climatico” –Experience exhibition.

 

 

Anche grazie ad ENGIE Italia, Global&Active Partner della mostra, sono stati prolungati gli orari di apertura nei prossimi due weekend, a partire da oggi, venerdì 22, poi domenica 24, venerdì 29 e domenica 31 marzo, fino alle 19:30 così da garantire la migliore fruibilità della primo evento dedicato al cambiamento climatico.

Uno spazio narrativo ed esperienziale in cui i visitatori scoprono le cause e gli effetti attuali e futuri del riscaldamento globale, attraverso il linguaggio fotografico visivo, ludico e ricreativo di National Geographic, le tecnologie digitali immersive e interattive, e la curatela scientifica di Luca Marcalli Presidente Società Meteorologica Italiana.

Uno dei “focus” principali della mostra è quello di stimolare emotivamente i visitatori a diventare loro stessi soggetti attivi per la salvezza del pianeta.

 

 

Tra le diverse iniziative in programma, ENGIE sta realizzando un Kit per le scuole, che trae ispirazione dal percorso didattico della mostra, per sensibilizzare ai temi dell’ambiente e all’adozione di quei comportamenti, apparentemente scontati e banali, ma in realtà virtuosi che consentono risparmio energetico,la tutela dell’ambiente e dunque la preservazione della nostra identità.

“L’obiettivo di ENGIE è quello di essere leader nella transizione a zero emissioni di C02.

Vogliamo accompagnare le aziende e le comunità in questa transizione proponendo soluzioni mirate, innovative e digitali, che incidono positivamente sulla riduzione dell’impatto ambientale” – ha commentato Olivier Jacquier CEO ENGIE Italia.

E’ necessario continuare tracciare il solco di un percorso che è appena iniziato, che prevede non solo la maturazione graduale di un pensiero etico e rispettoso della “nostra casa naturale”, ma che deve’essere abbinato a concretezza e pragmatismo.

Antonio Mulone

Solo 6/100 maschi tra gli esseri umani più longevi. Perché le donne vivono più degli uomini?

Jeanne Calment (21 febbraio 1875/ 4 agosto 1997) è il nome della donna più longeva di sempre, che, con i suoi 122 anni, è risultata l’unica fino ad oggi ad avere la possibilità – 1 su 3 milioni – di vivere per un tempo ≥ 110 anni, avvalendosi così della nomina di supercentenaria. Pensate che questa signora è passata dalla prima trasmissione radio, all’invenzione dell’automobile, della TV e del computer, del cinema e del giradischi; ha vissuto la Prima e la Seconda Guerra Mondiale e gli anni della conquista dello spazio; è sopravvissuta a 22 presidenti francesi (nasce e muore ad Arles) ed a ben 10 Papi.

Ma perché esiste questa differenza tra i due sessi?

Si potrebbe pensare che il tutto si basi su tempistiche differenti di invecchiamento, ma le donne non vivono più degli uomini perché invecchiano più lentamente, piuttosto perché risultano essere più “resistenti” durante le varie età. Paradossalmente però, pur avendo una minore mortalità, hanno un maggiore tasso di malattia (soprattutto cronica), di visite mediche e di ospedalizzazione rispetto gli uomini. Questo quanto si legge nei lavori del professor Steven N. Austad, preside del Dipartimento di Biologia presso l’Università di Alabama a Birmingham, ed esperto di “invecchiamento”.

 

Allora in che modo le donne sono più “resistenti” degli uomini?

Di certezze ce ne sono poche, ma le ipotesi sono diverse ed avvincenti.

Una di queste è che le donne abbiano un sistema immunitario molto più robusto degli uomini. Questa opzione è confermata da numerose ricerche condotte dall’Università della Pennsylvania finalizzate alla dimostrazione che le donne sono meno soggette, o affrontano meglio rispetto alla controparte maschile, l’influenza, grazie alla “robustezza” del loro sistema immunitario. Robustezza che però si traduce in una maggiore suscettibilità (statisticamente dimostrata) delle donne nel manifestare malattie autoimmuni, patologie caratterizzate da una risposta anomala del sistema immunitario nei confronti di parti dell’organismo stesso.  Ma in che modo il sistema immunitario garantisca una più longeva sopravvivenza al gentil sesso, non si sa ancora.

Una seconda ipotesi, sicuramente più famosa, è basata sull’azione protettiva degli estrogeni, gli ormoni femminili che sembrerebbero giocare un ruolo difensivo soprattutto nei confronti di patologie quali ad esempio l’infarto e l’aterosclerosi. È nota a tutti l’incidenza maggiore nell’uomo di malattie cardiovascolari rispetto alle donne in età fertile. Questa differenza diminuisce notevolmente, finendo per far avvicinare i due valori, con la menopausa, periodo in cui la concentrazione di questi ormoni diminuisce in maniera drastica. Gli estrogeni, infatti, influenzano la biodisponibilità di ossido nitrico (NO), mediatore endogeno con effetti vasodilatatori, riducono le possibilità di formazione di coaguli e diminuiscono le LDL (il cosiddetto “colesterolo cattivo”) in circolo, riducendo così la possibilità di sviluppare l’aterosclerosi.

Gli estrogeni sono inoltre impegnati nella risposta allo stress ossidativo da accumulo di radicali liberi (molecole reattive potenzialmente pericolose), causa più che nota del normale invecchiamento in entrambi i sessi. L’estrogeno, una volta legato il suo recettore, attiva NF-kB, un fattore trascrizionale che aumenta la sintesi di enzimi con funzione antiossidante. Risulta chiaro come le donne, avendo più estrogeni e di conseguenza più enzimi anti-radicalici, contrastino meglio lo stress ossidativo.

Altra ipotesi è la cosiddetta “teoria del sesso eterogametico”: la mancanza del secondo cromosoma X causerebbe nell’uomo (XY) una serie di svantaggi dovuti alla perdita di più di 1000 geni assenti nell’Y, ma presenti nell’ X. Quindi qualsiasi allele (forma alternativa di uno stesso gene) mutato sul cromosoma X maschile non ha un corrispettivo compensatorio sul cromosoma Y, mentre la donna (XX) gode di questa opportunità. Se ciò non bastasse, ci sono evidenze che dimostrano che nel sangue periferico, più si è avanti con l’età, maggiore è il numero di cellule che tendono ad avere o il cromosoma X paterno o X materno, piuttosto che un’inattivazione random, dunque una sorta di scelta consapevole dell’allele “migliore”. Inoltre, il 17% dei geni inattivati nel cromosoma X non lo sono completamente e questo potrebbe essere un ulteriore vantaggio nella sopravvivenza a lungo termine.

Jose Viña e Consuelo Borrás, professori dell’Università di Valencia, hanno introdotto il concetto di “longevity associated genes” cioè di “geni associati alla longevità”, basandosi su studi condotti sui topi di laboratorio (Wistar rats). Questi geni, se iperespressi, correlano con una vita più duratura. Parliamo di geni antiossidanti, che codificano per gli enzimi impegnati nella risposta all’accumulo dei radicali liberi, e di geni che codificano per le proteine p53, nota come “guardiano del genoma”, e p16. Queste ultime sono impegnate nel controllo della replicazione cellulare, in particolare permettono alle cellule “sane” di procedere nel ciclo replicativo, mentre mandano in fase di quiescenza o, nei casi estremi, in apoptosi (morte programmata) le cellule irreparabilmente “alterate”.

 

Nel loro studio viene citata anche la telomerasi, un’enzima che evita che ad ogni replicazione del DNA, i cromosomi diventino sempre più corti con il rischio che venga danneggiata l’informazione genica e la cellula muoia o si trasformi. Quando questa è iperespressa però, aumenta la probabilità che la cellula da sana, diventi cancerogena, perché l’enzima la “immortalizza”, quindi parlare di “gene associato alla longevità” non sembra il caso. Eppure se la telomerasi si trova notevolmente espressa in cellule aventi una proteina p53 funzionante, si ha un aumento dell’aspettativa di vita del 50%. Questo soprattutto nelle femmine di Wistar rats, infatti l’enzima presenta un sito responsivo agli estrogeni e quindi la sua concentrazione aumenta di conseguenza. La telomerasi avrebbe anche un ruolo antiossidante, perché viene ad essere regolata dal glutatione (peptide con proprietà antiossidanti), i cui livelli nelle femmine di Wistar rats, sono più elevati che nei maschi.

Queste sono solo alcune delle teorie che provano a spiegare la differenza tra i due sessi in termini di longevità. Osservando i dati registrati durante carestie ed epidemie, periodi di estrema difficoltà che hanno segnato la storia mondiale, le donne sono sopravvissute dai 6 mesi fino ai 4 anni in più rispetto agli uomini. Ma come si evince dall’immagine introduttiva all’articolo, non sono solo motivi prettamente “genetici”, spesso gli uomini tendono a mettersi in situazioni pericolose senza valutarne il reale rischio.

Nella corsa per l’immortalità, insomma, le donne sono in vantaggio rispetto agli uomini. Nessuno sa se nei prossimi decenni le cose potranno inaspettatamente ribaltarsi, ma fino a quel momento cari uomini, meglio non fare arrabbiare le donne, dovrete sopportarle per tutta la vita!

 

Claudia Di Mento

… Messina 1949 è il nome di un asteroide?

Pochi sanno che di Messina come città ne esistono due, una nella ridente isola del Mediterraneo e l’altra in Sud Africa; ancora meno persone sono a conoscenza che addirittura nello spazio, nella fascia tra Marte e Giove (detta fascia principale degli asteroidi) vi è un corpo celeste, scoperto l’8 luglio del 1936 da Cyril V. Jackson, che venne chiamato proprio 1949 Messina. I motivi di tale denominazione sono probabilmente riferibili al soggiorno che lo scienziato stesso ebbe nella città sullo Stretto, e rimanendo affascinato dalla solarità dei cittadini e dalle bellezze del paesaggio pensò di dedicare la scoperta proprio alla nostra città.

Sebbene la vita degli asteroidi sia abbastanza breve a causa della loro conformazione che per materiali è molto simile a quella terrestre, per quel tanto che 1949 Messina rimarrà nello spazio ci sarà sicuramente da andarne fieri.

Paola Puleio

E se fosse possibile costruire il mantello dell’invisibilità di Harry Potter?

 

Se cercate la parola ”invisibilità” su Google, vi renderete subito conto di come l’idea di molti (soprattutto dei più giovani) riguardo l’argomento sia legata alla possibilità di realizzare il famoso “mantello” in grado di rendere qualsiasi cosa invisibile. Troverete inoltre tra i primi risultati un video realizzato in Cina nel quale un uomo scompare dopo avere indossato proprio un mantello, poi del tutto smentito in quanto falso (realizzato al computer).

Quanto c’è di scientifico nel concetto di invisibilità? Esiste concretamente al giorno d’oggi tale possibilità?

Numerosi ricercatori stanno e hanno tentato di realizzare tali dispositivi, principalmente con l’impiego dei cosiddetti metamateriali, ovvero materiali creati in laboratorio con proprietà del tutto sorprendenti.  Ma quali sono le problematiche principali riscontrate negli anni riguardo tale possibile tecnologia? Innanzitutto la difficoltà di rendere un oggetto invisibile a tutte le lunghezze d’onda (ovvero a tutti i “colori”) della luce naturale (a ogni colore corrisponde una diversa lunghezza d’onda, figura sotto).

Inoltre, restano irrisolte le questioni legate all’ombra e alla direzione della sorgente. In poche parole, anche se oggi è possibile rendere ad esempio una penna invisibile alla luce blu proveniente da una sola direzione, queste condizione non si verificano praticamente mai nella vita quotidiana. Infatti, la luce “bianca” solare contiene tutti i “colori” ovvero tutte le lunghezze d’onda dello spettro e viene da ogni direzione.

Capite bene che simili tecnologie non servirebbero praticamente a nulla!

Un esperimento molto vicino alla soluzione del problema è stato fatto nel 2018 presso l’Institut National de la Recherche Scientifique—Énergie, Matériaux et Télécommunications (INRS-EMT) di Montreal, in Canada. La ricerca è stata poi pubblicata su Optica, tra le più importanti riviste di ottica e fotonica.

Immagine riassuntiva: in basso, si osserva come un dispositivo tra oggetto (in verde) e fascio luminoso “annulli” la luce in ingresso. Un secondo dispositivo, posto dietro l’oggetto, la ricompone successivamente, dando l’idea di continuità dell’immagine e mascherando l’oggetto. Tuttavia, gli stessi ricercatori ammettono che sono ben lontani dalla creazione del famoso mantello.

Quali potrebbero essere, quindi, le nuove prospettive offerte dalla scienza?

Le risposte sulla questione invisibilità potrebbero arrivare da un campo nato da pochissimi anni: i quasicristalli. La scoperta di questi nuovi materiali è valsa a Dan Shechtman il premio Nobel per la chimica nel 2011. Curiosamente, nonostante la loro esistenza fosse stata teorizzata già nel 1982, Shechtman guadagnò oltre il Nobel anche aspre critiche e derisioni dalla comunità scientifica, che non credeva all’esistenza di tali materiali.

Ma quali sono le caratteristiche dei quasicristalli  che potrebbero risolvere il nostro “problema” invisibilità? Perché gli scienziati del settore erano così scettici a riguardo?

Modello atomico di un quasicristallo di argento e alluminio.

Per capirlo meglio dobbiamo prima definire i comuni cristalli: essi hanno una struttura ordinata e periodica, ovvero formata dalla stessa “unità fondamentale” ripetuta più volte ordinatamente. Esempio: un cubo con ai vertici determinati atomi si ripeterà per tutta la struttura con gli stessi atomi. In altre parole in qualsiasi punto guardi il cristallo avrà la stessa composizione, come nella figura sotto. Totalmente diversi sono invece i cosiddetti materiali amorfi (letteralmente “senza forma”) che non hanno una struttura ordinata.

Il termine “quasicristallo” nasce dall’esigenza di definire un materiale che è ordinato come i cristalli, ma non periodico: esiste la possibilità di trovare nella sua struttura dei punti che differiscono, senza che venga persa la simmetricità (altra caratteristica fondamentale dei cristalli). Anzi, ed è questo il punto cruciale, hanno una simmetria particolarissima detta pentagonale, ritenuta prima della loro scoperta impossibile.

È tale simmetria a conferire ai quasicristalli “proprietà fisiche sorprendenti”, a detta del geologo e ricercatore italiano dell’università di Firenze Luca Bindi, tra i massimi esperti nel settore. Lo stesso Bindi ha scoperto nel 2009 i quasicristalli di origine naturale studiando alcuni meteoriti (scoperta pubblicata da Science e inserita tra le migliori 100 del 2009 dal Washington Post) . Infatti, gli unici quasicristalli naturali che conosciamo provengono dallo spazio e si sono formati in seguito a collisioni ad altissima energia. Molto comuni sono invece i quasicristalli artificiali creati in laboratorio, che contengono perlopiù alluminio.

Sapete quali applicazioni hanno attualmente?

Rivestimento di alcune comuni padelle, lame di strumenti chirurgici e… rendere invisibili alcuni jet militari ai radar. Di fatto un radar è una sorgente di onde elettromagnetiche (onde radio/microonde) esattamente come il sole è fonte di luce (anche essa un’onda elettromagnetica). La differenza? Quella che definiamo luce è composta da onde con lunghezze d’onda e frequenze visibili dal nostro occhio e diverse dalle onde radio/microonde emesse dai radar.

Potrebbe dunque essere questo il materiale tanto ricercato per ottenere l’invisibilità?

Non c’è ancora una risposta certa: ad oggi ci sono soltanto 50-60 persone in tutto il mondo che si occupano di quasicristalli. Cosa ci permette di essere fiduciosi? Lo stesso Bindi ammette: “se c’è qualcosa che caratterizza la ricerca scientifica in questo settore sono le continue sorprese”. E come dargli torto? Un materiale che a detta di molti non sarebbe mai potuto esistere, può essere non solo creato in laboratorio, ma anche trovato in natura in meteoriti provenienti dallo spazio. Ha anche poi aggiunto il ricercatore italiano, in un’intervista rilasciata recentemente a Wired Italia, che a breve verrà annunciata la scoperta di un altro nuovo materiale: i quasi-quasicristalli.

Morale della favola: riguardo l’invisibilità non ci resta altro che farci sorprendere, ancora una volta, dai progressi della ricerca scientifica.

 

 

Emanuele Chiara

Il valore di un’esperienza, un cardiochirurgo che ha creduto nell’uomo

Quanti di voi stanno già contando i giorni che mancano a Natale? Tranquilli, non è nessuna strana sindrome dello studente! Tra lezioni, tirocini e studio può diventare difficile organizzarsi e trovare il giusto equilibrio tra l’impegno e lo svago, mantenendo desta la coscienza del proprio cammino. E quindi, nonostante la buona volontà, l’entusiasmo per quello che ci appassiona può affievolirsi, a meno che non si trovi una guida o un modello che testimoni concretamente l’essenza dell’essere medico.

Gian sulle Dolomiti.

In modo più o meno diverso, ciascuno di noi ha incontrato l’esperienza preziosa di un giovane cardiochirurgo italiano che ridestando il nostro desiderio, ci ha uniti nell’intento di raccontarla anche a voi.

Giancarlo Rastelli (per noi solo Gian) ebbe una vita breve, ma intensa. Nato a Parma nel 1933 da una famiglia benestante dell’epoca, già da bambino è sicuro di voler studiare medicina finché, dopo avere frequentato il liceo in città, riesce finalmente ad intraprendere la facoltà tanto desiderata. Quelli dell’università sono degli anni intensi che passano veloci, tra lo studio di una materia ed un’altra.

Gian si contraddistingue per le sue particolari doti intellettive che si combinano con una grande mitezza ed attenzione nei confronti dei compagni in difficoltà. Piero, un compagno del tempo, ricorda in una testimonianza il garbo con cui Gian gli diede una mano a studiare in un periodo particolarmente difficile di ristrettezze economiche.

Da studente non ci fu mai nulla che riuscì a distoglierlo dal desiderio di imparare per bene la scienza medica. Capitò, per esempio, che non tutti i professori durante i vari corsi fossero disposti a trasmettere le proprie conoscenze; in particolare, uno di questi, un uomo colto e di grande professionalità, era così geloso delle cartelle cliniche dei suoi pazienti e dei macchinari sanitari, tanto da custodirli gelosamente in uno scantinato a cui solo pochi avevano possibilità di accesso. Fu solo grazie ad un assistente del professore che alcuni studenti, tra cui Rastelli, riuscirono a soddisfare la voglia smisurata di imparare “sul campo”. Ad ogni modo, da neolaureato, ebbe anche l’onore di vedere pubblicata la sua tesi e, poco dopo, vinse una borsa di studio per la ricerca che lo portò nel “fantastico” mondo americano. Erano gli anni dell’American dream e scelse di continuare il lavoro alla Mayo Clinic di Rochester che ancora oggi rimane uno tra i più grandi ed importanti centri di ricerca. Proprio qui trovò l’ambiente favorevole per poter sviluppare appieno la propria creatività, non accontentandosi soltanto di quanto gli veniva insegnato dal suo direttore ma nutrendo il desiderio di approfondire e condurre sempre nuove ricerche.

Questo suo zelo lo portò persino a contraddire la diagnosi del suo maestro, il prof Kirklin, riuscendo ad intuire la condizione anomala del cuore del piccolo paziente prima ancora che venisse portato in sala operatoria: era il dicembre 1962.
Accanto alla soddisfazione ed il successo, questi furono anche gli anni in cui scoprì di avere un linfoma di Hodgkin, una malattia maligna che colpisce il sistema linfatico, all’epoca non curabile. Con una forza d’animo invidiabile ma che Gian sapeva bene da dove attingere avendo ricevuto e maturato nella sua giovinezza una Fede naturaliter christiana, continuò fino all’ultimo respiro la sua attività di clinico e ricercatore. Ciò è testimoniato dalle diverse pubblicazioni scientifiche in cui, meticolosamente, descrisse la morfologia di alcune cardiopatie congenite poco caratterizzate all’epoca. In particolare, dedicò molto tempo alla definizione anatomica del Canale atrio-ventricolare comune (si tratta di una “famiglia” di patologie legate ad una alterata formazione della porzione centrale del cuore, costituita dalle valvole atrio-ventricolari e le porzioni di setto inter-atriale ed inter-ventricolare ad esse contigue) e di altre due cardiopatie congenite molto gravi quali la trasposizione dei grossi vasi e del tronco comune arterioso. Grazie a questi studi poté formulare le tecniche chirurgiche, Rastelli 1 e Rastelli 2 che consentirono di ridurre sorprendentemente la mortalità ospedaliera dei pazienti operati dal 60 al 20%!

Nonostante l’America e la Mayo Clinic gli avessero dato la grande opportunità di realizzarsi appieno dal punto di vista professionale, Gian non dimenticò mai le sue origini italiane tanto che creò subito un cordone ombelicale con la sua Parma e l’Italia, avviando quello che venne definito “un pellegrinaggio della speranza” dei bambini cardiopatici italiani. Non solo offriva la disponibilità di intervento, ma spesso aiutava le famiglie a sostenerne i costi, pagando di persona, o organizzando delle vere e proprie

A. Il cartellone nello studio di Gian;                               B. Gian con Vincenzo dopo l’intervento.

campagne per raccogliere fondi. E’ straordinaria la storia di Vincenzo Ferrante, all’epoca un bambino considerato inoperabile che, invece, giunto alla Mayo, venne adeguatamente curato e visse fino a qualche tempo fa lavorando come ingegnere a Napoli. Come lui molti altri bambini ebbero la stessa opportunità e le loro storie sono tutte raccolte in un poster che Gian teneva nel suo studio. Ancora oggi si legge la scritta centrale “L’amore vince” con tutte le firme dei bambini operati.

Una vita simile non può che stupire nella misura in cui viene riportata alla nostra realtà. S’impone forte il desiderio di vivere in modo autentico il nostro studio e, un giorno, la professione medica, proprio come Gian faceva. Questi che stiamo vivendo sono degli anni fondamentali in cui dobbiamo formarci per raggiungere l’obiettivo, essere bravi medici. Spesso Gian diceva che la prima forma di carità ai malati è la scienza, per questo non si tirò mai indietro di fronte alla ricerca. Dobbiamo essere capaci di curare i pazienti come va fatto, altrimenti tutto rischia di ridursi ad un paternalismo, ad un pietismo che non serve. E’ evidente che lo studio di oggi potrà fare la differenza un domani; con questa consapevolezza è possibile superare la fatica dell’apprendere, mantenendo fervida la motivazione.

E’ vero, però, che il percorso è lungo e la strada irta di ostacoli, così la stessa passione che ci ha portati a compiere certe scelte -per alcuni ben più radicali che per altri- viene e sarà messa alla prova costantemente (pensate a tutti i vostri colleghi che sono stati disposti a lasciare casa, gli amici di sempre e le loro città solo per poter studiare medicina, magari sei proprio tu che leggi!).

Capiremo man mano quanto siamo disposti al sacrificio, alla fatica di comprendere come funziona questo corpo. Pian piano le conoscenze si rafforzano e tassello dopo tassello saremo sempre più in grado di inquadrare le diverse condizioni ed assisterle. Capiremo anche che solo lo studio non basta, che la scienza da sola alla fine è sterile. Anche Gian lo aveva capito, infatti, durante le sue ore di studio con i compagni, improvvisamente incominciava a recitare l’inno alla Carità di San Paolo ed una volta medico diceva spesso: “Sapere senza saper amare è nulla, anzi meno di nulla!”.

Questa frase è probabilmente paradigmatica di tutta la sua esperienza umana, racchiude tutto il significato di una vita e, come tale, è preziosa.
La conoscenza, tutta la conoscenza che acquisiamo sarà, in definitiva, del tutto sterile se non la mettiamo a servizio dell’affetto, della simpatia nei confronti dei malati. Infatti, persa di vista l’ottica del servizio, la scienza diventa un mero tecnicismo applicato, ma non a favore dell’uomo.

Magari starete pensando che si tratti di una felice eccezione, probabilmente irripetibile o anacronistica. Eppure un grande scrittore del secolo scorso, C.S.Lewis, diceva: “Ciò che salva un uomo è fare un passo. Poi ancora un altro”. Per cui mettetevi anche in discussione, ma continuate a camminare tenendo alto il cuore. Sicuramente anche tra mille difficoltà e dispiaceri troverete chi, nel suo piccolo, vive la professione medica come totalizzante per la vita in una sintonia quasi spirituale con Gian.

 

Per approfondire:

 https://www.itacaedizioni.it/catalogo/giancarlo-rastelli/ 

https://www.annalsthoracicsurgery.org/article/S0003-4975(04)02308-2/fulltext

 

Ivana Bringheli

Daniele Carrello

Annalisa Ceruti

Benedetta Cherubini

Federica Mazzone

Su Marte scoperto ossigeno nell’acqua

Finora si era sempre supposto che su Marte potessero vivere solo microrganismi ed entità biologiche monocellulari simili ai batteri presenti sulla Terra, tipici degli ambienti privi di ossigeno.

In realtà la scoperta scientifica dell’ossigeno contenuto nell’acqua salata presente nel sottosuolo del pianeta aprirebbe scenari di vita e sopravvivenza inediti e sorprendenti.

L’acqua riuscirebbe a catturare l’ossigeno dalla’atmosfera circostante “il pianeta rosso” all’interno della quale il gas sarebbe presente in piccole tracce.

L’ossigeno, certamente sinonimo di vita, potrebbe trovarsi anche all’interno dell’acqua ricca di minerali del lago scoperto dal radar italiano “Marsis” sulla sonda spaziale europea “Mars Express”, a condizione che vi possano essere delle contaminazioni di gas con l’atmosfera.

Queste le novità scientifiche ed i dati emersi dagli studi scrupolosissimi condotti dal “California Institute of Technology”.

Le analisi indicano che la presenza d’ossigeno potrebbe garantire la vita sia di piccolissimi microrganismi che di animali più complessi come le spugne.

“Non siamo sicuri se Marte abbia mai ospitato la vita”, affermano i ricercatori, ma “i risultati dei nostri studi sicuramente estendono le possibilità di cercarla”.

Per le forme di vita, che basano la loro esistenza sulla presenza imprescindibile dell’ossigeno nell’aria, Marte aveva rappresentato fin qui una condizione biologica impossibile, data la scarsa presenza di questo gas nella sottilissima atmosfera del pianeta rosso.

Gli aggiornamenti scientifici dunque mostrano orizzonti biologici nuovi ed inaspettati: il gas fondamentale per la vita dall’acqua salata potrebbe entrare in contatto con le altre sostanze aeriformi dell’atmosfera attraverso fessure della crosta, come fanno i “mari terrestri”, evidenzia E. Pettinelli dell’Università Roma Tre.

Quanto sostenuto dall’astrobiologa di Tor Vergata D. Billi, “i nuovi dati allargano la gamma delle possibili forme di vita che Marte potrebbe ospitare”.

Spiega infatti la Dottoressa che, “nel tempo i livelli di presenza di ossigeno nell’atmosfera potrebbero essere diventati tali da supportare organismi dal metabolismo basato sull’ossigeno.

La scienza dunque, ancora una volta come magico luogo di scoperte per la vita e di nuove possibilità di esistenza per l’uomo anche su altri pianeti, dettate forse dall’istinto di sopravvivenza.

Antonio Mulone