Le applicazioni di CRISPR Cas9, Nobel per la Chimica 2020

Il Nobel per la Chimica quest’anno è stato “vinto a parimerito” dalla chimica americana Jennifer A. Doudna e dalla biochimica francese Emmanuelle Charpentier. 

Il metodo di modificazione del DNA da loro scoperto è attualmente, nelle sue nuove varianti, il più preciso conosciuto. Le applicazioni di CRISPR Cas9 provengono da scienziati di tutto il mondo, per esperimenti che spaziano dalla medicina, all’agroalimentare e alle energie pulite. 

Qualche esempio in ambito zootecnico-alimentare 

Partendo dall’ambito non medico, grazie alle applicazioni di CRISPR Cas9 è possibile realizzare degli OGM con una precisione ed efficienza mai viste prima: 

  • Mais geneticamente modificato per produrre delle colle (evitando l’uso di idrocarburi o altre sostanze particolarmente tossiche per l’uomo e per l’ambiente)
  • La pianta erbacea Setaria viridis modificata per produrre biocarburante (che fa si che si che la CO2 prodotta sia stata prima sottratta all’ambiente, dalla fotosintesi delle piante modificate)
  • La Camelina sativa modificata per produrre notevoli quantità di omega3, noti protettori cardiovascolari (1)
  • Produzione di alimenti con più alto valore nutritivo per riuscire a nutrire più persone, risparmiando risorse in termini di acqua, disboscamento ed energia, aiutando i Paesi poveri con alimenti “supernutrienti”. Un esempio è il golden rice, un riso ricco di Beta carotene, vitamina essenziale per la vista (2) 
Crediti immagine: Wikipedia

Prima per realizzare simili modifiche occorrevano anni e milioni di dollari. Ad esempio bisognava infettare le piante con virus o batteri vettori che comunque avevano poca efficienza, dovuta ai precedenti metodi come ZFNTALENs. 

Un esempio di una possibile futura applicazione, stavolta quasi fantascientifica, potrebbe essere il “Riportare in vita” delle specie estinte, come i Mammutprendendo il DNA dai fossili ed inserendolo in cellule dei loro più vicini discendenti, gli elefanti. (3)

Crediti immagine: Focus

Insomma, le applicazioni sono pressoché illimitate. 

In ambito medico abbiamo già diversi esempi di applicazioni di CRISPR Cas9

Nel 2018 in Europa è iniziato un trial clinico per la cura della Beta Talassemia, malattia che richiede a chi ne è affetto trasfusioni di sangue continue. Essa è causata da un difetto dell’emoglobina contenuta nei globuli rossi. 

Tramite CRISPR Cas9, prendendo le cellule staminali del sangue dei pazienti malati, è possibile correggere il loro difetto genetico (produzione dell’emoglobina anomala), quindi reinserirle nel corpo del paziente e una volta moltiplicatesi, esse andranno a produrre globuli rossi perfettamente funzionanti. (4)

Crediti immagine: genomeup

In Cina ed in altri Paesi sono in corso studi per la cura dell’HIV. Nonostante infatti venga tenuta a bada dalle terapie antiretrovirali, rimane latente nel corpo dei sieropositivi in quanto il virus riesce ad integrarsi nel DNA del soggetto malato. Con CRISPR Cas9 gli scienziati cinesi sono riusciti ad eliminare totalmente il virus dal corpo dei ratti di laboratorio infettati con HIV. 

Insomma, con CRISPR Cas9 qualunque patologia apparentemente incurabile sembra risolvibile. Infatti, tra le altre applicazioni future ci potrebbero essere: 

  • Corea di Huntington
  • Leucemia Mieloide Acuta 
  • Emofilia
  • Sarcoma di Ewing 
  • Distrofia muscolare 
  • Vari tipi di tumori (5)

E molte altre patologie, se si riconoscerà il gene difettoso e quindi si capirà cosa andare a “correggere”. 

Il problema etico 

Nel 2018, in Cina, due gemelle, Lulu e Nana, sono nate immuni all’HIV. Gli scienziati cinesi hanno modificato il loro DNA quando ancora erano degli embrioni, rimuovendo il recettore CCR5 dai loro globuli bianchi, recettore usato dal virus per infettare le cellule.  (6)

Crediti immagine: scienza fanpage

Sembra un traguardo sensazionale ma, in primis, nessuno sa quali svantaggi comporterà in queste bambine la mancanza di tale recettore. Esso è infatti importante per i segnali con cui comunicano le cellule, come le interleuchine, il TNF ecc. Mancando, potrebbe sì proibire alle bambine di ammalarsi di HIV, ma al contempo potrebbe scatenare in loro nuove patologie sconosciute. 

In secondo luogo, modificare fin dalla nascita un essere vivente perché non si ammali di una eventuale patologia, significa avvicinarsi pericolosamente al concetto di Eugenetica. A nascere e meritare la vita sarebbero solo gli individui geneticamente perfetti, facendo perdere da un lato l’eterogeneità della razza umana, importantissima sia in quanto tale, che per scongiurare un’estinzione della specie. Ad esempio, potrebbe nascere una malattia che attacca solamente gli “esseri perfetti”, che invece risparmia quelli con qualche difetto.

Senza dimenticare che le bambine non hanno chiesto di nascere con quella mutazione, che fintanto frutto del caso sarebbe “accettabile”, ma se provocata artificialmente pone un interrogativo: chi ha il diritto di decidere come dovrai nascere? 

Magari oggi si inizia dall’evitare il contagio dell’HIV, per finire un giorno, in un futuro distopico, ad avere solamente soggetti con occhi verdi, o soggetti alti più di una determinata altezza. 

Fortunatamente la comunità scientifica internazionale ha aspramente criticato tale comportamento, prendendone le distanze. 

Conclusioni

Il traguardo tecnologico raggiunto nell’editing genomico con questa scoperta ha fatto sì che il Nobel per le scienziate Jennifer A. Doudna e Emmanuelle Charpentier sia arrivato molto in fretta, più che meritatamente. Di solito, infatti, passano anche decine di anni per l’assegnazione del premio. 

Ben presto, una volta che i trial clinici già in atto e quelli futuri dimostreranno come migliorare la tecnica per evitare quei pochi effetti indesiderati, qualunque patologia genetica conosciuta sarà curabile. Con un po’ di ingegno, si potranno curare anche patologie come i tumori, magari modificando il sistema immunitario in modo che possa riconoscerli e attaccarli selettivamente (tecnica già in sperimentazione chiamata CAR-T). 

Si potranno realizzare OGM sempre più efficienti che aiuteranno sia l’umanità che la natura, cercando di risparmiare risorse o salvare specie in pericolo. 

Un grande grazie andrebbe urlato dal mondo intero a queste scienziate, donatrici di un nuovo potentissimo strumento nelle mani dell’umanità.
Starà a noi, come del resto vale per qualunque potente mezzo tecnico-scientifico, deciderne l’uso ed evitarne l’abuso.

 

Roberto Palazzolo

 

(1) https://www.lescienze.it/news/2018/01/16/news/crispr_genetica_piante_migliorate_ogm-3822923/

(2) https://www.lescienze.it/news/2020/03/17/news/il_nuovo_golden_rice_dell_era_crispr-4698594/

(3) https://www.focus.it/ambiente/animali/editing-genetico-per-creare-un-mammut-ibrido

(4) https://www.osservatoriomalattierare.it/malattie-rare/talassemia/13892-beta-talassemia-avviata-in-europa-la-prima-sperimentazione-clinica-con-crispr

(5) https://www.osservatoriomalattierare.it/malattie-rare/talassemia/13892-beta-talassemia-avviata-in-europa-la-prima-sperimentazione-clinica-con-crispr

(6) https://www.dday.it/redazione/33319/bambine-geneticamente-modificate-hiv-ricerca-mit

 

Patologie incurabili, sequenziato per la prima volta un intero cromosoma umano, compresi i telomeri

Progresso tecnologico e speranze future per le patologie incurabili. 

Un team di scienziati statunitensi e britannici ha prodotto la sequenza di DNA senza interruzioni, dall’inizio alla fine, di un cromosoma X umano 

Un telomero è l’estremità di un cromosoma che protegge l’interno del cromosoma stesso dai danni durante la divisione cellulare. Crediti immagine: Darryl Leya, NHGRI 

 

Luglio 2020, una bellissima scoperta scientifica è passata un po’ in sordina. 

Un team di scienziati ha sequenziato interamente un cromosoma umano. 

Ma cosa significa? Non avevamo già sequenziato l’intero genoma umano? 

Sì e no. 

Nel 2000 grazie al “Progetto genoma umano” sono stati sequenziati e mappati tutti i geni (ovvero la parte di DNA che viene “letta” e quindi trasformata in proteina) del nostro DNA 

Tuttavia una parte del genoma, l’eterocromatina, a causa della sua compattezza” è stata impossibile da sequenziare 

In parole povere è come se fossimo riusciti a tradurre un libro senza però riuscire a tradurne la copertina, ma sappiamo tutti che in un libro anche la copertina ha la sua importanza. 

Ma come hanno fatto gli scienziati a sequenziale i Telomeri ed il Centromero, impresa ritenuta prima impossibile? 

Usando una particolare tecnologia con nanopori, sono riusciti ad evitare che le lunghe ripetizioni di nucleotidi che si susseguono in queste particolari regioni del DNA, facessero saltare la DNA polimerasi o peggio rompessero il filamento ottenuto.
La tecnologia a nanopori ha inoltre permesso di identificare sequenze con metilazioni, riuscendo così anche a vedere i cambiamenti epigenetici avvenuti nel cromosoma. 
Per quanto riguarda il centromero i ricercatori sono riusciti ad identificare le varianti della sequenza di ripetizioni, e usando dei marcatori hanno allineato le lunghe stringhe di DNA ottenute per poi unirle, coprendo l’intera lunghezza del centromero. 
Infine, usando software avanzati sono stati in grado di garantire una maggiore precisione per avere una maggiore accuratezza nella sequenza delle basi sequenziate. (1) Continua a leggere “Patologie incurabili, sequenziato per la prima volta un intero cromosoma umano, compresi i telomeri”

Accordo vaccino Oxford-Pomezia: 400 milioni di dosi per la popolazione europea entro fine anno

In attesa dei risultati finali della sperimentazione, ormai alle soglie della fase II-III, l’Italia, insieme a Francia, Germania e Olanda, ha firmato un accordo con AstraZeneca che distribuirà il candidato vaccino elaborato dalla collaborazione Oxford-Pomezia.

L’annuncio è arrivato dalla pagina Facebook del ministro della Salute, Roberto Speranza che ha espresso molto entusiasmo per la potenziale cura, che in tempistiche così ridotte sembrava impossibile.

Il contratto con AstraZeneca, multinazionale svedese del settore farmacologico, prevede l’approvvigionamento di circa 400 milioni di dosi di vaccino da destinare a tutta la popolazione europea.

La soluzione vaccinica potenziale nasce dagli studi dell’Università di Oxford , che coinvolgerà nella fase di sviluppo e produzione anche importanti realtà italiane.

Il vaccino sviluppato dallo Jenner Institute-Università di Oxford consiste in un adenovirus (il virus del raffreddore degli scimpanzé) svuotato del suo patrimonio genetico, quindi privato della capacità di infettare, e riempito della proteina Spike sintetizzata, cioè prodotta chimicamente in laboratorio. La Spike è indispensabile per il Sars-CoV-2 in quanto gli permette di entrare nella cellula umana. Il vaccino ha la funzione di stimolare nell’organismo attaccato dal Sars-CoV-2 la produzione di anticorpi contro la proteina e di prevenire la malattia. (fonte Corriere.it) 

L’impegno prevede che il percorso di sperimentazione, già in stato avanzato, si concluda in autunno con la distribuzione della prima tranche di dosi entro la fine del 2020.

Arriva dunque un primo promettente passo avanti per l’Italia e per l’Europa nella corsa al vaccino, unica risposta definitiva al Covid-19.

“All’Italia, che è stata la prima in Europa a conoscere da vicino questo virus, oggi è stato riconosciuto di essere tra i primi Paesi a dare una risposta adeguata. Dimostriamo che vogliamo essere in prima linea nella ricerca di un vaccino  e nelle terapie che allo stato attuale risultano essere più promettenti”, così ha commentato con la consueta pacatezza il Premier Conte.

Il candidato vaccino in questione, sperimentato sui macachi e già inoculato a volontari tra cui alcuni ricercatori, sarà testato in Brasile, oltre che in Inghilterra.

Il composto, al quale sta lavorando l’Università di Oxford in collaborazione con l’azienda Advent Irbm di Pomezia, coinvolge 5000 volontari sani nel Regno Unito, già selezionati, ed altrettanti nel paese sudamericano.

Allo Jenner Institute della Oxford University sono in corso i test al momento più avanzati in Europa.
Secondo il protocollo, la seconda e terza fase di sperimentazione prevedono la somministrazione ad un campione molto più ampio, per un totale di circa 10.000 volontari sani.

Dell’importanza di sviluppare uno o più vaccini per prevenire Covid-19 si sta parlando ormai da mesi; sarebbe sicuramente importante averne la disponibilità nel caso in cui dovesse arrivare la temuta seconda ondata.

I primi a ricevere il vaccino saranno i lavoratori della sanità e le persone a rischio, per età o perché colpite da certe patologie, e le forze dell’ordine.

Lo afferma il consulente del ministero della Salute Walter Ricciardi che in una intervista a Repubblica traccia la strategia per immunizzare il paese dopo l’annuncio dell’accordo con AstraZeneca per la produzione del vaccino.

La campagna di vaccinazione, infatti, verrà organizzata dal ministero della Salute e sarà gratuita, un po’ come succede con il vaccino antiinfluenzale che viene offerto alla categorie a rischio (over 65 e malati cronici).

Gli occhi preoccupati del mondo, e non solo, da mesi sono puntati su Oxford e sulla azienda AstraZeneca che nelle settimane scorse ha annunciato una capacità di produzione di 1 miliardo di dosi nel 2021 e che avrebbe avviato le prime consegne a Settembre, periodo nel quale sono attesi i risultati finali della fase III.

I primi a stipulare un accordo erano stati i britannici con la prelazione di 30 milioni di dosi; la compagnia aveva reso noto che stava lavorando ad accordi in parallelo con altri governi europei, per assicurare una ampia ed equa fornitura del vaccino nel mondo in risposta all’emergenza pandemica.

La società riconosce che il vaccino potrebbe anche non funzionare, ma che ha sicuramente contribuito nel progresso rapido del programma clinico e dell’avanzamento scientifico nella lotta al Covid-19.

L’Azienda ha fatto sapere che starebbe incrementando ulteriormente la sua capacità produttiva e che è aperta alla collaborazione con altre aziende al fine di rispettare l’impegno di sostenere l’accesso al vaccino senza alcun profitto durante la pandemia.

Grandi speranze scientifiche che nei prossimi mesi si potrebbero tradurre in importante realtà.

Antonio Mulone

L’incomprensione di un genio: il viaggio di Boltzmann alla scoperta dell’entropia

La lotta di uno scienziato, dalla visione avanguardistica, per far accettare la sua scoperta

Immaginate di trovarvi nella Vienna di fine ‘800, immersi in quel panorama fertile e stimolante della Belle Époque, che avrebbe influenzato, con profondi mutamenti, tutto il secolo successivo. Mutamenti, questi, che investirono anche il mondo della fisica, grazie ad importanti contributi quali quelli dei fisici Maxwell, Lorentz, e…Ludwig Boltzmann.

 

Ludwig Boltzmann

Nato a Vienna nel 1844, Boltzmann fu docente di fisica-matematica all’università di Graz, ambiente che gli permise di conoscere due tra i padri fondatori della termodinamica: Helmholtz e Kirchhoff. Fra i suoi più importanti lavori si possono annoverare la teoria cinetica dei gas, che stabilisce il legame tra l’energia di un gas e la sua temperatura assoluta, e la legge di Stefan-Boltzmann che descrive come la quantità di energia irradiata da un corpo nero (come il Sole) sia proporzionale alla quarta potenza della sua temperatura assoluta. La scoperta che, però, più rivoluzionò il panorama scientifico internazionale fu la formulazione statistica dell’entropia.

Ma cos’è davvero l’entropia?

Concetto tanto affascinante quanto complesso, dal punto di vista fisico l’entropia è definibile come una funzione di stato, ossia una grandezza fisica che dipende unicamente dal suo stato iniziale e finale, non tenendo conto del percorso che collega i due estremi. Spesso banalmente associata al disordine di un sistema, essa è in realtà un concetto intuitivamente molto astratto, e questo, di certo, Boltzmann l’aveva compreso.

Nel 1877, infatti, il fisico viennese fornì una descrizione statistica dell’entropia, secondo cui questa varia in base alle diverse configurazioni assunte dai microstati che compongono l’intero sistema in esame: se l’entropia è massima, vorrà dire che il nostro sistema ha raggiunto uno stato di equilibrio termodinamico!

Equazione statistica dell’entropia

Personalità complessa e tormentata, Boltzmann mal sopportò le critiche che la comunità scientifica rivolse alla sua nuova descrizione di entropia. Infatti, la fisica statistica era un concetto ancora troppo all’avanguardia, se comparato alla più consolidata e “rassicurante” fisica classica. Per anni Boltzmann tentò di far accettare la sua formulazione, senza purtroppo ottenere i risultati sperati; fu così che il 5 ottobre 1906, durante quella che apparentemente sembrava una semplice vacanza di famiglia, egli si suicidò impiccandosi a Duino (Trieste), per motivi incerti ma intuibili data la sua personalità dalle cangianti sfumature. Tra le cause più accreditate per questo gesto estremo, spicca certamente la sfiancante battaglia che egli dovette compiere durante la sua intera vita per difendere la propria creazione, tanto da scegliere di far incidere come epitaffio la sua formula sull’entropia.

Sepolcro di Ludwig Boltzmann

Forse poiché appesantita dall’apparente freddezza di formule matematiche e concetti così complessi, non viene debitamente riconosciuto alla scienza lo stesso stretto legame emotivo che intercorre tra un poeta e la sua poesia, tra un compositore e la propria opera. La vita di Ludwig Boltzmann è l’esempio più lampante e sconvolgente di come, in realtà, la ricerca scientifica sia ben diversa dall’immaginario comune: un vero e proprio processo creativo, non soltanto volto alla scoperta delle leggi che regolano l’universo attorno a noi, ma anche di quelle che dominano il mondo sfaccettato della nostra interiorità.

Subito dopo la sua morte, le evidenze sperimentali confermarono a pieno la teoria di Boltzmann, costringendo la comunità scientifica a riconoscere al fisico austriaco la sua importanza per la nascente fisica statistica.

Giovanni Gallo

Giulia Accetta

Insonnia ai tempi del Covid19: perché accade e come rimediare

Alla data del 10 maggio 2020 a livello mondiale sono stati confermati 3.884.434 casi di COVID-19 e 272.859 morti. A quanto ammonta il “costo sociale” di questo virus? Conoscere la risposta a tale interrogativo è fondamentale per migliorare il nostro benessere psicofisico attuale e futuro.


A chi in questo periodo non è capitato dopo aver dormito poco e male? Il coronavirus può davvero avere impattato negativamente anche sulla salute mentale dei soggetti che si sentivano al sicuro barricati tra le mura domestiche durante il lockdown?

Recenti indagini dimostrano le ripercussioni del COVID-9 sulla salute mentale della popolazione. In Cina dall’analisi di un campione di 1.210 persone sono emersi elevati tassi di depressione e insonnia rispettivamente del 30% e del 17%.

Risultati affini sono quelli relativi al nostro Paese: una ricerca condotta dall’Università Tor Vergata di Roma ha dimostrato che il 37% degli intervistati presenta sintomi da stress post traumatico, il 21% stress, il 20% ansia severa, il 17% depressione, il 7% insonnia.

I soggetti maggiormente esposti sono: i giovani, le donne, i contagiati, le persone che hanno subito un lutto o che hanno dovuto interrompere la loro attività lavorativa a causa del Covid.
Lo studio delle suddette evidenze ha dimostrato che l’insonnia non è un sintomo del Covid-19, tuttavia le condizioni generate dalla particolare circostanza potrebbero provocare difficoltà a lasciarsi rapire dalle forti e dolci braccia di Morfeo.

Diventa così attuale più che mai l’ultimo slogan del World Sleeping Day: “Sonno Migliore, Vita Migliore, Un Pianeta Migliore”.

Il neurologo Hernando Pérez, specialista del Centro de Neurología Avanzada de España, spiega che il sonno ha due principi regolatori: la stanchezza e il ciclo luce-oscurità.

Se si mantiene il corpo attivo durante il giorno, la sera si percepirà una sensazione di stanchezza; contrariamente, il mancato coinvolgimento in varie attività inciderà sul sonno.

Se durante la quarantena ci si sveglierà più tardi si perderanno ore di luce solare essenziali affinché il cervello sappia che tra 12 o 14 ore arriverà il momento di dormire.

L’insonnia influisce negativamente sull’esistenza condizionando l’aspetto cognitivo, fisico e relazionale dell’individuo.

Tra i suoi effetti si annoverano:
– la compromissione del sistema immunitario;
– l’aumento del rischio di diabete e obesità, in quanto la mancanza di sonno altera i livelli di leptina e grelina, ormoni che controllano la sensazione di fame e sazietà;
– disturbi di concentrazione e apprendimento, perché durante il sonno i neuroni memorizzano e consolidano le informazioni apprese durante il giorno;
– la compromissione delle emozioni: possono insorgere sbalzi di umore improvvisi;
– la manifestazione di ansia, paranoia, depressione, irritabilità è dovuta alla deprivazione del sonno nel tempo;
– il maggior rischio di ictus e infarti: dormire male incide anche sulla possibile comparsa di malattie cardiache con pericolose alterazioni del sistema cardiovascolare.

È evidente che il sonno sia di vitale importante per l’intera umanità, pertanto diverse associazioni tra queste l’ Associazione ltaliana di Medicina del Sonno (AIMS) e la Società Spagnola di Neurologia (SEN) si sono occupate dell’emergenza COVID: la prima lanciando un servizio telematico di supporto, la seconda individuando dieci raccomandazioni per un buon sonno ristoratore ai tempi del covid.

Le strategie da adottare sarebbero le seguenti:
– mantenere una routine giornaliera;
– esporsi al sole;
– non preoccuparsi a letto;
– evitare di leggere o svolgere altre attività a letto affinché il cervello sviluppi l’associazione letto-riposo;
– evitare i riposini pomeridiani e nel caso in cui ciò non fosse possibile fare in modo che non superino i trenta minuti;
– non usare tablet o cellulari a letto, perché non solo la luce del display inibisce la secrezione di melatonina (ormone importantissimo per rilassarsi e dormire), anche perché si possono trovare in internet informazioni o messaggi che aumentano i livelli di ansia e incertezza;
– evitare l’esercizio fisico poco prima di andare a dormire;
– provare a rilassarsi prima di andare a letto ascoltando musica, meditando;
– anche  in assenza di impegni lavorativi o di studio non alterare i ritmi sonno-veglia, in quanto correggere il ciclo del sonno non è semplice;
– consultare uno specialista se i problemi di insonnia si protraggono nel tempo.

In conclusione: quando il sonno è profondo, salute e felicità abbondano!

Daniela Cannistrà

Bibliografia:

Coronavirus: How to get to sleep during lockdown, https://www.bbc.com/news/newsbeat-52311643 

Extensive and divergent effects of sleep and wakefulness on brain gene expression, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/14715133 

Coronavirus: por qué la pandemia de covid-19 nos está afectando el sueño (y cómo puedes prevenirlo), https://www.bbc.com/mundo/noticias-52196490 

#LottaCoronaVirusMondo Verso i 4 mil di contagi I paesi coinvolti sono 208 e quasi 280mila morti (10/05/2020 ore 16.30) , https://www.welfarenetwork.it/lottacoronavirusmondo-verso-i-4-mil-di-contagi-i-paesi-coinvolti-sono-208-e-quasi-280mila-morti-10-05-2020-ore-16-30-20200316/ 

Coronavirus: por qué la pandemia de covid-19 nos está afectando el sueño (y cómo puedes prevenirlo), https://www.bbc.com/mundo/noticias-52196490 

COVID-19 medical staff experience insomnia and higher stress, https://www.medicalnewstoday.com/articles/covid-19-medical-staff-experience-insomnia-and-higher-stress 

Insomnio en niños y adolescentes. Documento de consenso Insomnia in children and adolescents. A consensus document, https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1695403316302090 

Por qué duermes mal y padeces insomnio durante el confinamiento, según dos expertos del sueño, https://www.businessinsider.es/expertos-explican-duermes-mal-tienes-insomnio-confinamiento-623867 

Prevalence of depression, anxiety, and insomnia among healthcare workers during the COVID-19 pandemic: A systematic review and meta-analysis, https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S088915912030845X 

Quarantena e problemi di insonnia? Il sostegno dell’Associazione Italiana di Medicina del Sonno, https://magazine.unibo.it/archivio/2020/04/07/quarantena-e-problemi-di-sonno-il-sostegno-dellassociazione-italiana-di-medicina-del-sonno   

Sleep Guidelines During the COVID-19 Pandemic, https://www.sleepfoundation.org/sleep-guidelines-covid-19-isolation   

(Video) Coronavirus e insomnio: ¿por qué dormimos mal?, https://www.nacion.com/ciencia/salud/video-coronavirus-e-insomnio-por-que-dormimos/654b6dda-a6b0-48c7-9896-9d8f8fbb9ef8/video/   

Why it’s important to get a good night’s sleep during the coronavirus outbreak, https://www.uchicagomedicine.org/forefront/coronavirus-disease-covid-19/advice-for-sleeping-well-during-the-covid-19-outbreak

Tutte le nuove terapie sperimentali approvate in Italia contro la COVID-19

Innumerevoli titoli sensazionalistici si sono susseguiti, su giornali e riviste non strettamente scientifiche, durante questa emergenza: dalle possibili panacee per tutti i mali alle cure più bizzarre, spesso risulta difficile orientarsi con cognizione di causa in questo labirinto di informazioni.

Oggi parliamo di tutte le novità in campo terapeutico e cerchiamo di comprendere quali potrebbero essere i farmaci più promettenti.

Sarilumab e siltuximab

Come ormai abbiamo imparato, la COVID-19 ha qualcosa in comune con l’artrite reumatoide (AR), patologia infiammatoria che colpisce le articolazioni. Già la scienza ha preso in prestito da questa malattia un farmaco, il tocilizumab, che già ha mostrato qualche risultato interessante, alcuni ancora non pubblicati, sopratutto nei pazienti gravi.

Se per il sarilumab ancora siamo agli albori, cosa ha spinto l’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) ad approvare studi a riguardo?

Entrambi (come potete notare anche dalla somiglianza dei nomi) sono anticorpi monoclonali: altro non sono che proteine prodotte in laboratorio, le quali legano specifiche molecole responsabili delle patologie delle quali stiamo parlando, in questo caso il recettore dell’interleuchina 6 (IL-6). Quest’ultima è una citochina (proteina prodotta in corso di infiammazione) che è molto rappresentata in pazienti affetti sia da AR che da COVID-19: per agire, l’IL-6 deve legare a sua volta il suo recettore, in modo tale da innescare processi che portano al proseguire dell’infiammazione e del danno a tessuti.

Immagine che mostra come il Kevzara (nome commerciale del sarilumab) lega il recettore dell’IL-6 (m IL-6R e sIL-6R) impedendo l’azione della stessa – Fonte:kevzarahcp.com

Questo aumento ingente delle citochine si verificherebbe soprattutto nei pazienti più gravi, che ad oggi devono pertanto affidarsi a farmaci in sperimentazione.

Attualmente sono in corso due studi: uno pilota su un piccolo numero di pazienti e senza confronto con altre terapie, e uno molto più ampio (AMMURAVID) nel quale saranno confrontati ben 7 diversi protocolli terapeutici. Tra questi spunta anche il siltuximab, che agisce direttamente contro l’IL-6.

L’ormai assodata intuizione sulla correlazione alto grado di infiammazione-gravità della COVID19 fa ben sperare: oltre – chiaramente – al meccanismo comune con l’ormai noto Tocilizumab.

Baricitinib

Altro farmaco in prestito dall’artrite reumatoide. Senza scendere troppo nei dettagli, questa volta il meccanismo è un po’ diverso: innanzitutto il farmaco è somministrabile anche per bocca (i precedenti sono utilizzati endovena); inoltre, agisce dopo che il legame molecola-recettore è già avvenuto, bloccando questa volta piccole proteine (JAK), sempre coinvolte nella sintesi delle citochine infiammatorie.

Il vantaggio potrebbe risiedere nella maggiore maneggevolezza; inoltre, se i precedenti si focalizzano solo su IL-6 e il suo recettore, le proteine JAK si trovano coinvolte in molti altri meccanismi che causano infiammazione, nonché (come abbiamo imparato) il peggioramento del paziente. Una sorta di effetto multiplo che potrebbe risultare più efficace.

Vari meccanismi d’azione del Baricitinib (ed altre molecole simili) – Fonte: Lancet

Ma c’è di più. Secondo uno studio pubblicato su Lancet, questo farmaco agirebbe anche su un altro fronte: l’ingresso del virus nella cellula. Come è ormai noto, la porta di ingresso del virus è il recettore ACE2: l’entrata del virus è tuttavia possibile solo se interviene anche un’altra proteina (AAK1) la cui funzione è inibita dal baricitinib.

Insomma, un’intuizione non da poco che, se si dimostrerà efficace, agirà su più fronti rispetto ad altri farmaci attualmente in possesso. Non a caso, l’Aifa ha autorizzato due studi, dei quali uno è il già citato AMMURAVID.

Selinexor

Questa volta cambiamo tipologia di farmaco: il selinexor è stato recentemente approvato negli USA nella terapia di casi molto resistenti di mieloma multiplo, tumore di interesse ematologico (ovvero che coinvolge cellule sanguigne, nello specifico le plasmacellule). L’approvazione è stata addirittura accelerata, in quanto questi pazienti non rispondono ad altre terapie e il farmaco si è dimostrato abbastanza efficace.

Ma cosa hanno in comune un’infezione virale ed un tumore?

Sembrerebbe strano tentare di utilizzare lo stesso farmaco, ma il selinexor induce la morte cellulare (apoptosi) delle cellule tumorali, così come potrebbe indurla nelle cellule infettate dal virus. Qualche cenno al meccanismo: anche qui abbiamo una doppia azione, mediata dall’inibizione di un processo chiamato “esportazione nucleare“; questa è svolta, tra le altre proteine, dall’esportina 1. 

Schematica descrizione dell’azione  antitumorale del selinexor: in questo caso, le proteine “bloccate” sono quelle che promuovono la crescita e sopravvivenza delle cellule tumorali

Quanto le proteine implicate nell’infiammazione, tanto quelle virali hanno bisogno dell’esportina 1 per svolgere la loro funzione correttamente. Da questo dato, è stato impostato uno studio che coinvolge 40 centri a livello internazionale.

Piccola nota sull’AMMURAVID: tutti i farmaci testati saranno associati alla terapia standard (idrossiclorochina) e confrontati non solo tra loro, ma anche con l’uso della sola idrossiclorochina stessa. Per questo motivo, lo studio promosso dalla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, potrebbe fornire informazioni molto interessanti per focalizzare la ricerca sulle cure realmente migliori rispetto ad altre, selezionando il farmaco più efficace.

Nell’attesa che questi studi dimostrino – come ci auguriamo – l’efficacia di nuove terapie, una cosa è certa: la scienza non si ferma, nemmeno di fronte ad un virus e ad una malattia totalmente nuovi.

Quello che possiamo fare attualmente, essendo il vaccino un’opzione più tardiva, è affinare al meglio la strategia terapeutica, grazie a due elementi fondamentali: l’intuito e le conferme inequivocabili dei dati scientifici.

Emanuele Chiara

 

Bibliografia:

https://www.aifa.gov.it/sperimentazioni-cliniche-covid-19

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1002/jmv.25964

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7137985/

Stephen Hawking: l’uomo invincibile

Il 14 marzo di due anni fa ci lasciava Stephen Hawking, uno dei più celebri astrofisici della storia noto in particolare per i suoi studi sui buchi neri, sulla cosmologia quantistica e sull’origine dell’universo. Una personalità geniale che è riuscita a donare al mondo nozioni preziosissime in ambito scientifico, nonostante la presenza di una terribile malattia che lo ha ostacolato e abbattuto lentamente, giorno dopo giorno.

La sua vita è rappresentata nel film La teoria del tutto (2014) di James Marsh, ispirato al libro Verso l’infinito scritto Jane Wilde Hawking (moglie di Stephen).

Locandina del film La teoria del tutto (2014) – Fonte: pinterest.it

La trama

Università di Cambridge, 1963. Un giovane Stephen Hawking, ormai prossimo ad ultimare gli studi, è intenzionato ad elaborare un’equazione che sia in grado di spiegare la nascita dell’universo. È un ragazzo timido, dotato di un gran senso dell’umorismo e dalla mente brillante, che vive una vita normale all’interno del college inglese.

Ad un party universitario conosce Jane, una studentessa di lettere della quale si innamora a prima vista, e dopo alcune avances riesce a conquistarla. La loro relazione viene fin da subito messa a dura prova da una malattia del motoneurone (ancora oggi è dibattuto da quale patologia specifica fosse affetto) che affliggerà Stephen per il resto della sua vita.

Nonostante tutte le difficoltà a cui andrà in contro, con la moglie sempre accanto pronta a sostenerlo, continuerà le sue ricerche fino ad imporsi come uno dei più grandi astrofisici viventi.

Felicity Jones e Eddie Redmayne in una scena del film – Fonte: tpi.it

Il cast

Per il ruolo di Stephen Hawking la produzione scelse l’attore Eddie Redmayne, il quale aveva già recitato in grandi film come The Good Sheperd – L’ombra del potere (2006), Elizabeth: The Golden Age (2007) e Les Miserables (2012).

Per interpretare uno soggetto afflitto da atrofia muscolare progressiva, Eddie ha visitato il Queen Square Centre, un istituto dove vengono assistiti i pazienti affliti da MND (acronimo inglese per malattia del motoneurone).

L’attore stesso ha dichiarato che per rappresentare al meglio gli effetti della malattia l’ha approcciata come una danza, imparando ad accorciare i muscoli invece di allungarli. Il risultato finale è un’interpretazione magistrale mediante la quale è riuscito a trasmettere ogni piccola emozione semplicemente con il suo sguardo, dimostrando il suo innato talento attoriale che è stato premiato con l’Oscar per il miglior attore protagonista nel 2015.

L’attrice Felicity Jones veste i panni della moglie Jane Wilde Hawking, rivelandosi un’interprete eccezionale per il modo in cui è stata capace di rappresentare perfettamente la figura di una donna che, di fronte alle estreme difficoltà create dalla malattia del marito, riesce a tenere unita la famiglia. La sua prova d’attrice le è valsa una candidatura ai premi Oscar 2015 nella categoria per la miglior attrice protagonista.

Il lavoro svolto sia da Eddie Redmayne che da Felicity Jones è stato particolarmente apprezzato da Stephen Hawking. I due attori erano presenti al suo funerale, tenutosi in forma rigorosamente privata.

Eddie Redmayne insieme a Stephen Hawking sul set del film – Fonte: newscinema.it

Regia

Il regista James Marsh ha scelto di narrare l’intero racconto incentrandosi sulla storia d’amore tra i due protagonisti, senza analizzare dettagliatamente le scoperte scientifiche del professor Hawking. Decisione opinabile, ma visto il grande successo riscosso al botteghino ed il parere positivo della maggior parte della critica, è da ritenere sicuramente una scelta vincente.

Forza di volontà

La malattia del motoneurone che ha colpito Stephen Hawking è sicuramente tra le peggiori esistenti. Toglie qualsiasi cosa, in maniera lenta e spietata.

Il protagonista nella sua giovane età non credeva nemmeno in un dio, ma solo ed esclusivamente nella scienza. Nel momento in cui gli viene diagnosticata la malattia, la scienza stessa gli dice che non esiste la minima speranza di curarsi, con un’aspettativa di vita di soli 2 anni. In quell’istante, senza un dio e nonostante la sentenza della medicina, Stephen Hawking continua ad andare avanti e riesce ad estendere al mondo la sua conoscenza e le sue teorie.

Un film a dir poco magnifico, che racconta la storia altrettanto incredibile di un uomo, esempio della concretizzazione dell’invincibilità umana. Finché non moriamo non possiamo essere sconfitti, anche se siamo da soli senza un dio e senza un criterio razionale che ci sostenga.

Però abbiamo noi stessi, i nostri cari e la nostra vita; e finché c’è vita c’è speranza.

Vincenzo Barbera

 

Per approfondire l’aspetto scientifico: 

Dal big bang ai buchi neri, breve storia del tempo (Stephen Hawking, 1988)

La teoria del tutto, origine e destino dell’universo (Stephen Hawking, 2002)

La grande storia del tempo (Stephen Hawking, Leonard Mlodinow, 2005)

 

Sapresti riconoscere la depressione e il bipolarismo e aiutare chi ne soffre?

Se esiste qualcosa che affascina gli uomini è l’incompleta comprensione di certi fenomeni naturali.
Tra questi, il confine tra biologia e psiche, tra anima e corpo, è qualcosa che forse l’uomo non riuscirà mai a comprendere sino in fondo.

Espressione di questo confine sono anche i disturbi dell’umore, vere e proprie malattie psichiatriche che vengono spesso sottovalutate perché non capite. L’incomprensibile non è sempre amato, a volte viene stigmatizzato o banalizzato.

” Sono bipolare perché a volte sono triste, altre nervoso”.

” Tirati su, perché stai sempre a piagnucolare, a lamentarti? Rimboccati le maniche e reagisci!”, frasi spesso ripetute da familiari e amici a chi soffre di depressione.

Frasi figlie di un’epoca che ignora il substrato biochimico e neurobiologico di certe patologie, con la conseguente incapacità di aiutare e sostenere chi si trova in queste situazioni, per mancanza di strumenti di conoscenza adeguati.

E’ stata dimostrata l’esistenza di un’alterazione di neurotrasmettitori e neurobiologica nei pazienti affetti da depressione e da disturbo bipolare.

In particolare, caratteristiche della depressione sono:

Alterazione della serotonina (5HT) implicata nel buon umore e nel piacere.

  • Riduzione della concentrazione nel liquido cefalo-rachidiano dell’acido 5-idrossi-indolacetato, il principale metabolita del 5HT;
  • Deplezione dei siti di legame del trasportatore del 5HT nel mesencefalo e nelle piastrine;
  • Riduzione del L-Triptofano, precursore del 5HT;

Alterazione della Noradrenalina (NA) implicata nell’energia, nella vitalità.

  • Bassi livelli dei metaboliti della NA sono stati trovati nelle urine e nel liquido cefalorachidiano;
  • Lo stress aumenta l’attività della NA nei circuiti cerebrali;
  • Gli inibitori del reuptake della NA hanno azione antidepressiva;

Alterazioni della dopamina (DA) implicata nella motivazione, nella memoria.

  • Riduzione dei metaboliti della DA nel liquido cerebrospinale;
  • Studi di brain imaging e studi post mortem hanno rilevato un aumento del trasportatore della DA e un incremento dei recettori D2/D3 ad indicare una riduzione nella trasmissione DA;
  • Farmaci che incrementano la neurotrasmissione DA hanno azione antidepressiva;

Alterazioni neuroanatomiche e neurofunzionali.

  • Diminuzione del volume corticale e subcorticale tramite studi con risonanza magnetica;
  • Studi post mortem hanno mostrato riduzione del volume ippocampale, della corteccia frontale, del talamo e dei gangli della base;
  • Gli studi effettuati con la PET hanno evidenziato una riduzione della sostanza grigia nell’amigdala, nella corteccia prefrontale e nella corteccia del cingolo. Infatti l’amigdala è coinvolta nella salienza emozionale delle esperienze, l’ippocampo nei processi di memoria e la corteccia prefrontale è la sede delle funzioni esecutive e di autostima.

Alterazioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrenale.

Si tratta di strutture aventi un ruolo importante nelle funzioni di base come il sonno, l’appetito e la libido, che mediano anche la risposta agli stress.

Le aree di interesse delle manifestazioni cliniche

Area affettiva-emotiva: l’umore altamente depresso non è modificabile da eventi positivi. Il dolore è un’esperienza soggettiva difficile da comprendere, deriva da un’idea di male presente pervasiva, attuale, immodificabile, nel quale l’unica via d’uscita è l’idea suicidaria per sfuggire.

Rallentamento nella psicomotricità: qualsiasi azione richiede uno sforzo immane. A volte l’unica azione possibile è un pianto continuo e disperato.

Area cognitiva: l’alterazione di quest’area comporta difficoltà di concentrazione, disturbi della memoria, difficoltà ad affrontare la vita quotidiana, il lavoro e tutto ciò porta all’isolamento sociale.

Un depresso non sceglie la sua malattia, non sceglie di rimanere fermo immobile come un vegetale nel letto bloccato a piangere, perché è poco intelligente, perché ha poco carattere. I suoi sensi di colpa aumentano quando gli si dice: “Forza alzati! Reagisci!”

Finiscono per essere lasciati dalla moglie, dal marito, abbandonati dagli amici. Chi vuole star accanto ad una persona che piange sempre?

C’è una paralisi della mente, non si può motivare chi biologicamente non ce la fa. In questo tunnel buio si è completamente soli, incompresi dalla società.

Il bipolarismo è un sistema più complesso. Il soggetto oscilla da un umore basso ad un umore alto, che può salire vertiginosamente in breve tempo. Vira da periodi di depressione ripetuti ad episodi ipomaniacali e maniacali.

In fase ipomaniacale il soggetto sperimenta l’euforia, la gioia di vivere, l’entusiasmo, l’aumento di energia o dell’attività finalizzata, il diminuito bisogno di sonno, per poi arrivare alla fase maniacale dove le idee sono troppo veloci, si ha un autostima grandiosa, idee di onnipotenza, coinvolgimento in attività che hanno alto rischio, oppure un umore disforico caratterizzato da grande aggressività, maggiore loquacità, discorsi sconnessi, che può degenerare fino al delirio.

E’ come essere in una giostra continua di alti e bassi, come essere sulle montagne russe: salire su, per poi toccare il fondo e sperimentare il vuoto e l’anedonia.
I soggetti bipolari presentano un rischio molto più alto di suicidio.

Eppure molti personaggi bipolari non sono tanto lontano da noi, a volte si nascondono per vergogna, altri hanno scritto la storia. Ad esempio in ambito politico erano bipolari Winston Churchill, Napoleone Bonaparte, ma anche Silvio Berlusconi e Francesco Cossiga, più vicini ai nostri tempi, o in ambito letterario e filosofico Charles Baudelaire, Virginia Woolf, Carl Gustave Jung.

Francesco Cossiga

 

Silvio Berlusconi

In ambito umanitario invece Gandhi o Martin Luther King, o personaggi famosi, come cantanti o calciatori, dai quali ci si aspetterebbe una vita felice grazie al loro successo e alla loro popolarità, in realtà hanno sofferto del disturbo della depressione.

Probabilmente, però, senza questo aspetto della loro vita, questi personaggi avrebbero perso un pezzo di tessuto in loro che li ha arricchiti.

Tutto ciò non nega il caro prezzo che hanno dovuto pagare, un dolore immenso perché come scriveva Goethe descrivendo la sua depressione:

Quando siamo derubati di noi stessi, siamo derubati da tutto. Le mie forze creative sono state ridotte a un’irrequieta indolenza. Non ho fantasia, nessun sentimento per la natura e leggere mi è diventato ripugnante.”

Forse bisognerebbe conoscere meglio certe patologie, per amare ed aiutare veramente chi non ha un “io” molto forte per uscirne fuori.

Ma come aiutare una persona affetta da depressione?

  • Non dirle “Forza, reagisci!”.
  • Spronarla a uscire di casa.
  • Evitare l’isolamento sociale.
  • Evitare che abbandoni il lavoro per la sua malattia.
  • Farle conoscere gente nuova.
  • Risvegliare passioni abbandonate e stimolare passioni nuove.
  • Farle praticare sport, il più potente antidepressivo naturale.
  • Consigliarle un consulto medico da uno specialista.

Per aiutare una persona bipolare bisogna:

  • Farle prendere coscienza e adeguata conoscenza della sua malattia.
  • Raccontarle biografie di persone che hanno condotto una vita brillante con il loro stesso disturbo: la diversità può essere fonte di grande ricchezza.
  • Spiegarle che non ha nulla di cui vergognarsi dei gesti compiuti in fase maniacale.
  • Farle comprendere che con un’adeguata cura farmacologica che tiene costantemente in equilibrio l’umore, può evitare gli up e down.
  • Evitare di alterare il ritmo sonno-veglia (dormire almeno 8 ore al giorno).

                                                                                              Daniela Cannistrà

 

L’astronauta J. N. Williams, in esclusiva per UniversoMe

©Giulia Greco – Jeffrey N. Williams – Unime, 31 Ottobre 2019 

Lo scorso 31 Ottobre, presso l’Aula Magna del rettorato, si è svolta la Cerimonia di Conferimento del Dottorato honoris causa in Fisica al Colonnello Jeffrey N. Williams, uno degli astronauti più importanti della NASA. L’astronauta ha partecipato a diverse missioni spaziali, trascorrendo in totale ben 534 giorni nello spazio, durante i quali ha compiuto cinque spacewalks per un totale di circa 32 ore. Il Colonnello ha lavorato allo sviluppo dei programmi della Stazione Spaziale Internazionale, contribuendo inoltre all’upgrade della cabina di pilotaggio dello Space Shuttle.

Noi di UniVersoMe siamo riusciti a porgli qualche domanda.

Cosa significa per lei ricevere il Dottorato honoris causa in Fisica presso la nostra Università?

Beh, è senz’altro un onore per me ricevere questo Dottorato proprio in questo Ateneo, che è uno dei nostri partner con cui collaboriamo.

Lei è stato fino al 2017 l’astronauta americano che ha trascorso più tempo nello spazio. Qual è il momento più bello che ha vissuto nello spazio, e quale quello peggiore?

Non credo di aver avuto un momento peggiore, ho avuto però tanti momenti bellissimi. Ho avuto la fortuna e l’onore di poter contribuire all’assemblaggio della Stazione Spaziale Internazionale e di vederla realizzata. E’ un incredibile risultato di collaborazione internazionale ed un punto di riferimento per la ricerca spaziale. Il primo modulo è stato assemblato nel 1998 e continuerà ad orbitare attorno alla Terra per tanti altri anni.

©Giulia Greco – Jeffrey N. Williams – Unime, 31 Ottobre 2019 

Il tempo che ha passato nello spazio l’ha cambiata? O comunque, ha influenzato qualche sua convinzione?

Certamente ha ampliato la mia visione della vita. Vedo il mondo in maniera diversa, le persone in modo diverso. Quando si cresce nella propria comunità si ha una visione limitata delle cose, e certamente un’esperienza del genere ti cambia. Per questo voglio condividere con tutti ciò che ho vissuto, come con voi oggi.

Nel suo libro “The work of his hand” afferma che lo spazio mostra la prodigiosa creazione di Dio. Crede che vi sia un conflitto tra fede e scienza? Come la fede può stare al passo con la continua rivoluzione scientifica? 

Non credo ci sia un conflitto tra scienza e fede, specialmente tra la scienza e la Bibbia. Dipende dall’approccio che abbiamo: se credi in Dio, e credi che si manifesti attraverso la natura e puoi studiare la natura attraverso la scienza ed attraverso la Sua parola, che riconosce la scienza, allora non c’è conflitto; se invece fai scienza partendo dal presupposto che non esiste un Dio, quindi devi spiegare l’esistenza di tutto senza una fede, devi affidarti al caso, ed è qui che nasce il conflitto.

©Giulia Greco – Jeffrey N. Williams – Unime, 31 Ottobre 2019 

Se potesse incontrare il Jeffrey N. Williams appena ventenne, quali consigli vorrebbe dargli? 

Gli consiglierei di continuare a lavorare duro, ad essere una persona di carattere, di studiare, di sviluppare e seguire i propri interessi e le proprie passioni così da essere pronti alle occasioni che si apriranno.

Oggi, specialmente in Italia, è difficile per i giovani scienziati essere valorizzati, portare avanti le proprie ricerche e pensare in grande. Cosa consiglia a tutti a tutti loro?

A volte pensiamo che aspirare a qualcosa di grande sia al di là delle nostre potenzialità. Ma il progresso, soprattutto nell’ambito scientifico, si è compiuto a piccoli passi. Quindi direi loro di cogliere le opportunità e responsabilità che gli sono offerte e non pensare subito e solo al grande obbiettivo che si ha. Così ti ritroverai ad un certo punto a guardarti indietro, e vedrai quanta strada e quanto contributo sei riuscito a dare senza accorgertene.

 

Antonio Nuccio

È possibile diagnosticare un tumore con un prelievo di sangue?

Una delle maggiori problematiche della medicina moderna è la diagnosi precoce dei tumori maligni: identificarli in uno stadio iniziale corrisponde a dare ottime chance di guarigione al paziente. I metodi oggi a disposizione per ottenere tale scopo sono essenzialmente 2 ed entrambi presentano grossi limiti:

  1. Metodiche di imaging: ecografia, radiografia, TC (ex TAC), risonanza magnetica e altre, che ci permettono di visualizzare strutture all’interno del corpo umano. Tuttavia, neoplasie molto piccole sfuggono costantemente a queste metodiche, nonostante un tumore sia considerato tale già quando composto da poche cellule.
  2. Dosaggio di marcatori tumorali: sostanze che se rilevate su un campione di sangue in quantità elevate indicano la presenza di un tumore. Esempio noto è il PSA (Antigene Prostatico Specifico) per il cancro della prostata. Tuttavia questi markers mancano spesso sia di specificità (ovvero si riscontrano elevati anche in patologie benigne) sia di sensibilità (anche se è presente una neoplasia sono a livelli normali).

Moderna TC

Inoltre, per evitare indagini inutili e costose, l’utilizzo di entrambi deve essere mirato a quei soggetti che seppur sani presentano dei fattori di rischio (condizioni ambientali o ereditarie/familiari) che aumentano la possibilità di sviluppare un cancro.

In altre parole: sarebbe impensabile sottoporre annualmente tutta la popolazione a TC total-body nel tentativo di evidenziare una neoplasia, considerando anche che questa metodica usa radiazioni ionizzanti e quindi è potenzialmente dannosa se usata indiscriminatamente.

Ma veniamo al dunque: è possibile identificare tumori con tecniche non invasive per il paziente e allo stesso tempo efficaci?

Da qualche anno ormai si sta puntando sulla cosiddetta biopsia liquida. Questa tecnica non è altro che un prelievo di sangue, adeguatamente processato in laboratorio. Permette di rilevare molecole rilasciate dal tumore (ccDNA, DNA circolare circolante) e in alcuni casi cellule neoplastiche.

Comporta per il paziente un disagio minimo (per coloro i quali hanno timore del prelievo ancora la scienza non offre molte alternative), se confrontata alla biopsia classica. Questa consiste nel prelevare mediante un ago un campione di tumore, presenta rischio di complicanze e certamente chiunque preferirebbe fare un prelievo sanguigno piuttosto che vedere un ago abbastanza lungo bucare la propria pelle.

Se fino ad ora vi è sembrata una metodica promettente, è inutile sottolineare che -come tutte le cose belle- presenta notevoli difficoltà (soprattutto tecniche). Pertanto ad oggi più che per la diagnosi è usata per monitorare i pazienti con una neoplasia già nota, evitando l’esecuzione di più biopsie invasive.

Ma come è possibile isolare componenti del tumore in mezzo a tutte le altre cellule del sangue?

E se in quel campione specifico non fossero presenti?

A questi problemi ha provato a dare delle risposte il team di ricerca italiano dell’Università degli studi di Catanzaro, guidato dalla dottoressa Malara, in uno studio pubblicato su Nature (sezione oncologia di precisione) nel novembre 2018. Lo studio si concentra non sulla rilevazione di cellule o ccDNA, ma ha un approccio totalmente nuovo: la valutazione delle modificazioni del secretoma. Sicuramente ognuno di voi avrà sentito parlare di genoma, l’insieme di tutti geni presenti nel nostro DNA. Il secretoma non è altro che l’insieme di tutte le proteine secrete, ovvero immesse nei liquidi al di fuori delle cellule, dalle cellule stesse. In particolare, in caso di neoplasia è stato riscontrato un aumento della protonazione, ovvero della quantità di protoni legati a tali proteine.

Questa variazione è spiegata dalla predilezione delle cellule neoplastiche per la glicolisi , via metabolica che ha come risultato:

  1. La produzione di sostanze che rilasciano protoni che quindi si legheranno alle proteine secrete.
  2. La produzione di sostanze che alterano la struttura delle proteine, facilitando il legame ai protoni

In breve: cellula tumorale → glicolisi esclusiva → più protoni → proteine secrete maggiormente protonate. La tecnica prevede una biopsia liquida (5 ml di sangue), la successiva eliminazione delle cellule del sangue (globuli rossi e bianchi, piastrine) e la coltura del materiale rimanente per 14 giorni.

Dalle cellule rimanenti, che nel tempo si moltiplicano, si estrae il campione per l’analisi del secretoma: questo verrà analizzato da un dispositivo all’avanguardia facente parte delle nanotecnologie. È stato inoltre confrontato il campione così ottenuto con campioni estratti direttamente dal tessuto tumorale: le componenti sono risultate essenzialmente identiche, convalidando l’ipotesi che anche da piccole quantità di sangue si possa risalire alla presenza di una neoplasia.

Nei 36 soggetti sottoposti allo studio, alcuni dei quali con neoplasia maligna nota ma non trattata e altri sani, è stata ritrovata una corrispondenza del 100% tra aumento protonazione e cancro.

Non solo: di due pazienti con valori intermedi di protonazione ,uno ha poi effettivamente sviluppato un melanoma (tumore maligno della cute).

Tra gli svantaggi di questa tecnica ci sono la laboriosità ed il costo. Inoltre un risultato positivo indica soltanto la presenza di un tumore, ma non il tipo e la localizzazione. Tuttavia, studiando il singolo soggetto è possibile valutare il rischio personale cancerogenico ed eventualmente approfondire con altre tecniche diagnostiche.

Questa interessante metodica può rappresentare un punto di svolta nella diagnosi precoce di cancro.

In fondo basta solo un po’ di sangue!

Emanuele Chiara