Un bruco mangia-plastica per salvare il pianeta

Chi lo doveva dire che un bruco comunemente usato come esca dai pescatori fosse in grado di biodegradare il polietilene, o PE, una delle plastiche più resistenti e più diffuse al mondo?

Il bruco in questione è la larva della farfalla Galleria mellonella, meglio nota a pescatori con il nome di camola del miele o tarma maggiore della cera. A fare questa importante scoperta è stata una biologa italiana, Federica Bertocchini dello Csic, l’Istituto spagnolo di Biomedicina e Biotecnologia della Cantabria. L’italiana avrebbe condotto l’esperimento , dopo una intuizione casuale lavorando su tutt’altro, insieme a  Christopher Howe, del dipartimento di Biochimica dell’università di Cambridge.

Durante l’esperimento, un centinaio di larve dono state poste vicino a una busta di plastica nella quale, già a distanza di 40 minuti, sono comparsi i primi buchi. Dopo 12 ore la massa della busta si era ridotta di 92 milligrammi: un tasso di degradazione estremamente rapido, rispetto a quello finora osservato in altri microrganismi capaci di digerire la plastica (alcune specie di batteri nell’arco di una giornata riescono a degradare 0,13 mg).

“Se alla base di questo processo chimico ci fosse un unico enzima, la sua riproduzione su larga scala utilizzando le biotecnologie sarebbe possibile” ha osservato Bombelli. “La scoperta potrebbe essere uno strumento importante per liberare acque e suoli dalla grandissima quantità di buste di plastica finora accumulata”.

Alessio Gugliotta

I Tumori: Sfortuna o pessimi stili di vita?

La caratteristica più bella della Scienza è la sua continua evoluzione. Grazie al suo efficace metodo è riuscita a descrivere ed analizzare gran parte della natura che ci circonda. Tuttavia metodo ed innovazione non bastano. Infatti la comunità scientifica è provvista, nella maggior parte dei casi, da un enorme senso di umiltà che la mette in uno stato di perenne dubbio in merito a tutto ciò che viene detto o scoperto. Essa è il primo critico di se stessa. Siamo abituati a pensare che se un qualche cosa “lo ha detto la Scienza” allora è sacra ed inconfutabile, e penso che non esista frase più sbagliata. Ogni giorno vengono portate avanti ricerche, i risultati vengono continuamente pubblicati su tutte le più prestigiose riviste scientifiche e molto spesso i dati di un ricercatore contraddicono i dati di un altro.

Il 2 gennaio 2015 Bert Vogelstein ha pubblicato uno studio provocatorio su Science : utilizzando alcuni modelli matematici, stimava l’incidenza della formazione di cellule tumorali, in assenza di sostanze che inducono cancro (carcinogene), sulla base delle riproduzioni che avvengono in un determinato tessuto.

Tuttavia questo articolo, in seguito, fu smentito dalla stragrande maggioranza degli studi epidemiologici e dall’intera comunità scientifica. Oltre a dare vita ad un messaggio fuorviante, esponeva ad un enorme rischio di insuccesso tutto il faticoso lavoro dei medici nel pubblicizzare e sostenere i benefici della prevenzione. Sebbene da tempo sia chiaro che il numero di divisioni cellulari aumenta il rischio di mutazioni e, con esso, di cancro, la maggioranza dei tumori più comuni è fortemente correlata con le esposizioni ambientali e gli stili di vita, perciò con un miglioramento di questi, l’incidenza dei tumori, su di una specifica popolazione, si abbassa notevolmente.

A sostenere questa tesi ci sono numerosissimi studi epidemiologici, ovvero le ricerche effettuate per determinare la frequenza di una determinata malattia in una popolazione. Un esempio sono i melanomi, che hanno una incidenza 200 volte più alta in Australia che in Cina. Ovviamente uno potrebbe contrastare questi dati affermando che si tratti di un motivo genetico e legato soltanto al continente australiano. Tuttavia, durante la composizione di questi studi, si prende in esame anche una popolazione campione che in questo caso sono gli australiani trasferiti in una regione non particolarmente soleggiata come lo è l’Australia, ed, in effetti, in questa la frequenza dei melanomi è simile ad un qualsiasi altra popolazione. Altri esempi sono legati ai tumori delle cavità orali per i lavoratori esposti all’amianto, i tumori ai polmoni per i fumatori, al tratto digerente e al fegato per quanto riguarda il consumo di alcol, ed, in ultimo, al colon per quanto riguarda l’eccessivo consumo di carne rossa e di insaccati.

Nella formazione di un tumore concorrono numerosissimi fattori, sia protettivi che lesivi. Questi sono determinati, in gran parte, dalla predisposizione genetica ed, in secondo ruolo, dai fattori ambientali. Infatti una qualsiasi persona, attraverso l’adozione di uno stile di vita impeccabile dal punto di vista salutistico, non può avere la certezza di non ammalarsi di cancro, ma con esso abbasserà di molto la possibilità di contrarne uno. La prevenzione, quindi, assume ancora oggi un ruolo fondamentale nella difesa contro il cancro. Un male che, purtroppo, si difende ancora troppo bene anche dalle più innovative cure.

Francesco Calò

approfondimenti:

 

 

Scimmia torna a camminare grazie ad un chip wireless

La maggior parte delle persone ha un animale domestico. Tale animale si comporta da animale: mangia, dorme, gioca, è più o meno interessato alle coccole, ci fanno sicuramente tanta tanta compagnia.

Possiamo affermare un’altra cosa con assoluta certezza: con i nostri animali domestici non possiamo interfacciarci tramite Wi-Fi. Ovvero, non possiamo mandare un segnale a Fuffi che gli dica ‘’Vai, esci, fai i bisogni e torna’’.

Ancora: se il vostro cane, gatto, cincillà avesse un incidente e rimanesse semiparalizzato o paralizzato, voi cosa fareste? La maggior parte risponderebbero: tutto. Ed è proprio così: fareste di tutto. Anche impiantare dei cavi elettrici nel vostro amico a quattro zampe, se questo consentirebbe di ripristinare la sua funzionalità motoria.

È quello che è stato fatto sulla scimmia Macacus Rhesus: le sono stati impiantati dei chip elettrici che hanno consentito all’animale di ricominciare a muoversi.  La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Nature ed è stata fatta presso il Politecnico Federale di Losanna (EPFL).

Come funziona?

Nello studio, due macachi rhesus con lesioni spinali, che impedivano il controllo di un arto, sono riusciti a camminare di nuovo grazie a un “ponte” realizzato tra la corteccia motoria (il centro del movimento nel cervello) e i nervi dell’arto paralizzato.

Le lesioni al midollo spinale bloccano il passaggio dei segnali elettrici che dal cervello consegnano istruzioni ai nervi responsabili del movimento degli arti. Sono ferite che raramente guariscono e che causano varie forme di paralisi.

Questo “ponte” (chip) impiantato nel cervello delle scimmie, registra l’attività elettrica dei neuroni, i quali mandano le “istruzioni” alle gambe. In seguito viene inviato il messaggio ad un computer esterno  mediante il WiFi, che lo inoltra ad un generatore di impulsi, stimolando così i nervi e quindi le gambe delle scimmie (c’è comunque un’immagine sotto che spiega il tutto)

La cosa sorprendente è che, in sei giorni circa, le scimmie sono tornate a camminare, anche se non perfettamente.

Potrà essere usato sull’Uomo?

Eeeh mi sa che ancora ci vorrà del tempo. Il fatto è che a differenza dei macachi gli uomini sono bipedi e fanno movimenti più articolati (es. evitare ostacoli o cambiare direzione), quindi hanno bisogno di tecnologie più sofisticate. Tuttavia c’è speranza, non temere, perché  la tecnologia utilizzata per stimolare il midollo spinale è la stessa di quella utilizzata nella stimolazione cerebrale profonda del morbo di Parkinson, questo potrebbe semplificare l’inizio dei test sugli esseri umani.

Che dire mi sembra un enorme passo avanti per la scienza, una tecnologia che solo qualche anno fa sarebbe sembrata futuristica e che potrebbe risolvere problemi enormi e risollevare la vita di molte persone, o animali.

Elena Anna Andronico

Riccardo Figliozzi

Alzheimer, ricerca ne svela la causa

Fresco di appena qualche giorno, lo studio che getta nuova luce sul morbo di Alzheimer è consultabile su Nature Communications – rigorosamente in inglese. Si tratta di un lavoro nostrano condotto da  un gruppo di ricercatori guidati da Marcello D’Amelio, professore di Fisiologia Umana e Neurofisiologia presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma.

La demenza di Alzheimer (è il nome del neurologo tedesco che la codificò per primo nel 1907) è una malattia neurologica in cui si verifica un declino cronico – ovvero di lunga durata – e progressivo delle capacità cognitive ed intellettive del paziente. Il sintomo più precoce è la perdita di memoria per gli eventi recenti. Ora, sulla base di queste evidenze cliniche si è sempre ritenuto, fino a qualche giorno fa, che il morbo fosse dovuto ad una degenerazione delle cellule dell’ippocampo, area cerebrale da cui dipendono appunto i meccanismi del ricordo.

Tuttavia la nuova ricerca, condotta anche in collaborazione con la Fondazione IRCCS Santa Lucia e del CNR di Roma, vira l’attenzione su un’altra area che si trova a livello del tronco encefalico, specificatamente nel mesencefalo, l’area Tegmentale Ventrale.

Nessun ricercatore aveva finora pensato che potessero essere coinvolte aree diverse  dall’ippocampo nell’insorgenza della patologia.

 “L’area tegmentale ventrale – ha spiegato il professor D’Amelio – non era mai stata approfondita nello studio della malattia di Alzheimer, perché si tratta una parte profonda del sistema nervoso centrale, particolarmente difficile da indagare a livello neuro-radiologico”.

 Era già noto che a questo livello i neuroni fossero responsabili della sintesi di dopamina, neuro-trasmettitore essenziale per alcuni meccanismi di comunicazione tra le cellule nervose. Piuttosto non si sapeva che – come in un effetto domino – la morte delle cellule cerebrali deputate alla produzione di dopamina provocasse il mancato arrivo di questa sostanza nell’ippocampo, causandone il ‘tilt’ che genera la perdita di memoria. Lo studio ha evidenziato proprio questo: la morte progressiva dei soli neuroni dell’area tegmentale ventrale e non di quelli dell’ippocampo, già nelle primissime fasi della malattia.

“Abbiamo verificato – ha chiarito D’Amelio – che l’area tegmentale ventrale rilascia la dopamina anche nel nucleo accumbens, l’area che controlla la gratificazione e i disturbi dell’umore, garantendone il buon funzionamento. Per cui, con la degenerazione dei neuroni che producono dopamina, aumenta anche il rischio di andare incontro a progressiva perdita di iniziativa, indice di un’alterazione patologica dell’umore”.

Questi risultati confermano le osservazioni cliniche secondo cui, fin dalle primissime fasi di sviluppo dell’Alzheimer, accanto agli episodi di perdita di memoria i pazienti riferiscono un calo nell’interesse per le attività della vita, mancanza di appetito e del desiderio di prendersi cura di sé, fino ad arrivare alla depressione.

“Il prossimo passo – ha aggiunto il docente che ha coordinato tutta la sperimentazione – dovrà essere la messa a punto di tecniche neuro-radiologiche più efficaci, in grado di farci accedere ai segreti custoditi nell’area tegmentale ventrale, per scoprirne i meccanismi di funzionamento e degenerazione. Inoltre, i risultati ottenuti suggeriscono di non sottovalutare i fenomeni depressivi nella diagnosi di Alzheimer, perché potrebbero andare di pari passo con la perdita della memoria. Infine, poiché anche il Parkinson è causato dalla morte dei neuroni che producono la dopamina, è possibile immaginare che le strategie terapeutiche future per entrambe le malattie potranno concentrarsi su un obiettivo comune: impedire in modo ‘selettivo’ la morte di questi neuroni”.

Sono, pertanto, molteplici le prospettive schiuse da questo studio che ci avvicina ad aggiungere un tassello rilevante nella comprensione di questa malattia e, quindi, alla  conseguente possibilità di trovarne una cura.

Ivana Bringheli

 

Le onde gravitazionali: questi miti!

Eistein aveva predetto l’esistenza di queste onde sin dal secolo scorso, purtroppo non aveva l’adeguata strumentazione per poterle captare. Sono state rilevate per la prima volta solo il 14 settembre 2015 e annunciate l’11 febbraio del 2016 da LIGO, negli USA, che ha misurato le onde gravitazionali causate dalla collisione di due buchi neri.

 

 

Altri fenomeni fisici per introdurre le onde gravitazionali

 

 

Possiamo definire genericamente e banalmente un’onda come la propagazione di energia nello spazio. Un sasso che cade in un lago, cede la sua energia cinetica alle molecole di acqua, queste, a loro volta, la trasferiscono alle molecole vicine, generando quel fenomeno che in termini macroscopici prende il nome di onda.

 

 

Un’ onda elettromagnetica è un fenomeno simile. La luce emanata da una lampadina o dal sole non sono altro che un fascio di queste specifiche onde.

 

Come possiamo vedere, a seconda della lunghezza dell’onda elettromagnetica, possiamo identificare: onde radio, microonde, raggi X…ecc

Attraverso le onde elettromagnetiche gli esperti  riescono a determinare le sostanze di cui sono fatti i pianeti e le stelle senza mai doverci mettere piede. Infatti uno specifico elemento, colpito da un fascio elettromagnetico, emette un’onda con una lunghezza specifica per quella determinata sostanza. Questo significa che se è oro, il materiale compito, questo emetterà un’onda elettromagnetica specifica per l’oro. Stesso discorso per ossigeno, piombo, azoto, carbonio, e tutti gli elementi della tavola periodica.

 

 

Onde gravitazionali

 

Le onde gravitazionali sono una scoperta incredibile ed importantissima per il futuro della Scienza. Dobbiamo immaginare l’intero Universo formato da 4 dimensioni: 3 per lo spazio (lunghezza, larghezza e profondità) e il tempo. Questo sistema a 4 dimensioni viene chiamato spaziotempo. Come possiamo vedere dall’immagine, qualsiasi corpo con massa m, devia il piano spaziotempo. Se avviene lo spostamento di grandi quantità di massa, si generano le onde gravitazionali.

 

E’ un fenomeno fisico molto simile alle onde generate dal sasso che cade nel lago. In entrambi abbiamo la propagazione di energia sotto forma di onda. Qualsiasi corpo, anche noi stessi, distorce lo spaziotempo circostante, quindi, attraverso un suo brusco spostamento, otteniamo la formazione di un’onda gravitazionale. Tuttavia è impossibile misurare l’onda gravitazionale generata da una mano in movimento o da un qualsiasi corpo sulla terra. Questo perché le onde gravitazionali di questi corpi hanno una lunghezza d’onda troppo bassa per poterle misurare. Ecco perché misuriamo le onde gravitazionali generate dalle collisioni di corpi celesti provvisti di masse infinite, se confrontate alla Terra.

 

La scoperta delle onde gravitazionali è un evento memorabile che scriverà e cambierà nettamente la storia dell’astronomia e della Scienza. Quello che abbiamo scoperto non è un semplice elemento da aggiungere alla sfera del conoscibile, come se fossero 10 semplici pagine da aggiungere al libro di Scienza delle superiori. Le onde gravitazionali sono un nuovo modo per osservare e studiare l’universo e i suoi fenomeni.

L’immagine sopra riprende il Professor Farnsworth, celeberrimo personaggio della nota serie Futurama, mentre osserva l’Universo con un particolare telescopio. Tale strumento permette, a chi lo utilizza, di annusare l’odore proveniente da una specifica zona dell’universo. Questo è ovviamente impossibile nel mondo reale, tuttavia, con le onde gravitazionali, è come se gli scienziati avessero acquisito un senso in più, una modalità in più per relazionarsi con l’Universo. Adesso uno scienziato avrà la possibilità di studiare una specifica zona dell’universo non sono con le onde elettromagnetiche, ma anche con le onde gravitazionali e magari confrontare i dati ricavati da entrambi i tipi di onde. Quindi pensate alle milioni di scoperte che si potranno fare nel prossimo futuro, le bellezze che potremo scoprire grazie a questo nuovo modo di studiare lo spazio. Insomma ancora non potremo annusare l’odore di Marte o di Giove, ma poco ci manca.

Francesco Calò

Messina e Reggio, due sponde differenti unite da uno stile di vita: l’Avis.

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Antonio Romeo e Francesco Previte, i rispettivi presidenti comunali Avis di Reggio e Messina, ci chiariscono le idee sulla donazione di sangue e sul futuro della associazione.

 

Come si è avvicinato al mondo Avis?

Pres. Previte: “ Entrai a far parte dell’avis come semplice socio, intorno agli inizi degli anni 80. Avevo promesso al mio insegnante di elettronica che, dopo i 18 anni, sarei entrato a far parte del mondo Avis. E così, dopo la mia prima donazione, mi resi conto dell’importanza del dono.

Pres. Romeo: “Con l’esempio in famiglia, con la “dipendenza” che ti prende la prima volta che arrivi in sede, quello spirito di servizio che mi ha sempre contraddistinto nella vita scout.”

Da quanti anni è presidente e quali altri incarichi ha ricoperto in questa associazione?

Pres. Previte: “Son presidente comunale dallo scorso mandato, per quanto riguarda le cariche rappresentative avisine, da semplice socio a tesoriere, dirigente regionale, consigliere ragionale e potrei continuare. Posso affermare che sotto questo punto di vista ho fatto molta gavetta e ne vado fiero.”

Pres. Romeo: “Dal 2013 sono presidente dell’Avis comunale di Reggio. Abbiamo assistito alla trasformazione dell’Avis da semplice associazione ad impresa sociale, l’avvento dell’accreditamento ci ha portato sulla strada della qualità e della programmazione, ma anche sulla strada della burocrazia. Questo sacrificio viene richiesto dall’Europa e noi ci buttiamo con grande coraggio. In quattro anni abbiamo dovuto cambiare sede, costruirne una nuova ed ottenere per primi in Calabria l’accreditamento all’assessorato alla sanità della Calabria, ed ora mantenerlo con la visita biennale. Tutto ciò, durante il mio primo mandato in assoluto, ma le sfide non mi hanno mai impaurito, anzi mi hanno sempre affascinato e stimolato.

La donazione a Reggio come si svolge?

Pres. Romeo: “E’ un ambiente familiare ma contemporaneamente professionale, il donatore è accolto nella nuova sede dai primi interlocutori che sono i nostri amministrativi, compila il questionario, viene visitato dal nostro medico selezionatore svolgendo un colloquio in maniera riservata, gli viene effettuato un emocromo a 18 parametri da sangue capillare, che in italiano significa, che non ci fermiamo alla semplice misurazione dell’emoglobina, per sicurezza controlliamo altri 17 parametri. Il donatore viene reso idoneo e passa in sala prelievi dove effettua il suo gesto d’amore. Successivamente in sala ristoro, dove gli viene offerta una calda colazione.”

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Per quanto riguarda la donazione i Messinesi sono attivi?

Pres. Previte: “Una domanda da 1 milione di dollari! I dati non sono incoraggianti, dal 1 Gennaio ad il 26 Novembre 2016 sono state 2686 le donazioni di sangue, pochissime rispetto agli abitanti. E’ strano perché di fronte all’emergenza, il donatore messinese si presta, ma è un po’ pigro e distratto. Un ulteriore problema è che i nostri giovani donatori finito il primo ciclo Universitario vanno a trovare lavoro fuori, quindi la fuga di cervelli implica anche una grossa perdita di donatori. Ad esempio, uno studio effettuato dall’Avis nazionale, ha dimostrato che i primi ed i secondi della classifica donatori piemontesi sono rispettivamente calabresi e siciliani, dunque sulla generosità di noi meridionali c’è poco da lavorare.

Quanti donatori ha l’Avis Reggio e quanti l’Avis di Messina?

Pres. Romeo: “Circa cinque mila, numero esiguo rispetto la popolazione reggina e rispetto all’esigenze della azienda ospedaliera. Quasi 8000 prelievi annui tra emazie, plasma e piastrine, adesso però, ne serviranno circa undici mila data l’apertura del reparto di cardiochirurgia presso l’azienda ospedaliera Bianchi Melacrino Morelli.”

Pres. Previte: “Circa due mila i donatori messinesi, un dato che non rispecchia per nulla la mole di questa città.”

Le raccolte di sangue nelle scuole e come pensa di riavvicinare i giovani alla donazione?

Pres. Previte: “Per quanto riguarda i giovani siamo andati meglio negli anni passati, con il coinvolgimento di università e scuole, non entrando nelle aule, ma coinvolgendo le società studentesche abbiamo potuto implementare l’affluenza giovanile. Anche con borse di studio, per creare quel tipo di sana concorrenza per stimolarli al massimo. Ed infine informazione fatta tramite i nostri infermieri e medici, attuando una propaganda il più professionale possibile. Ricordo che Messina, è un città metropolitana, ma ancora non autosufficiente. Le grandi città hanno dei problemi per quanto riguarda la comunicazione dell’importanza del dono. Ma mi domando: perché in Piemonte siamo i primi e qui gli ultimi?

Pres. Romeo: “Continueremo a divulgare tutte le informazioni attraverso ogni nostro mezzo a disposizione, attraverso il nostro magazine, rispondendo sempre presente ad ogni manifestazione, ad essere promotori di una cultura solidale, come quella della donazione, essendo protagonisti nelle scuole e nelle università. E tutto questo è possibile grazie al nostro Gruppo Giovani, che da quindici anni è parte fondante del nostro reparto Avis.

Propositi per il nuovo anno..

Pres. Previte: “? Perché non un gemellaggio? Con Reggio condividiamo quasi tutto, basti pensare allo stretto, alla nostra cultura, le Università, l’aeroporto, la buona cucina, e mi fermo per non risultare noioso. La collaborazione è la chiave per cercare di dare una mano a chi ne ha veramente bisogno.”

Pres. Romeo: “Concordo pienamente con il Presidente Francesco Previte, mi impegnerò in prima persona affinché questo gemellaggio si possa fare prima di Febbraio. Condividiamo davvero tanto, perché non condividere anche un gesto d’amore come la donazione?”

Un saluto a tutti i donatori..

Pres. Previte: “Buon anno a tutti! Spero possiate dedicare tempo della vostra vita per salvarne un’altra. Donare è un azione concreta che giova al ricevente e al donatore. Il dono è vita, fate qualcosa che possa fare la differenza, venite a donare!”

Pres. Romeo: “Vorrei augurare a tutti i nostri donatori e non, un anno pieno di salute e felicità, ma vorrei sottolineare, che purtroppo, nonostante questi giorni di festa, <il malato non va in ferie>. C’è sempre bisogno di dare una mano per salvare più vite umane possibili. Il donatore reggino non ha ancora ben compreso l’importanza della donazione programmata e assidua. Sperando che in futuro questo trand possa cambiare, abbraccio di cuore tutti coloro che donano e che si avvicineranno a questo stile di vita. Donate e vi sentirete dei supereroi.”

 

Vincenzo Romeo

Meningite: psicosi o vero pericolo?

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Ogni anno, il cittadino medio afferma, tirano fuori una malattia nuova che, in poco tempo, diventa una vera e propria epidemia.

Questo anno è il turno di una grave infezione che si instaura a livello dei tessuti encefalici: la meningite.

Che cos’è la meningite? La meningite è un’infiammazione delle meningi, ovvero delle tre membrane che ricoprono l’encefalo e impediscono che esso sfreghi contro la scatola cranica, costituendo una vera e propria barriera protettiva.

La meningite può essere scatenata da vari virus e batteri. Tra essi abbiamo il meningococco vero e proprio, oppure dallo pneumococco, dall’haemophilus influenzae e altri.

È una malattia che difficilmente si instaura in quanto, l’agente patogeno, deve riuscire ad oltrepassare la barriera naturale di cui il nostro encefalo è provvisto: la barriera ematoencefalica. Pochissime sostanze e tossine riescono ad oltrepassarla e, nei casi in cui questo avviene, è importante capirne il come e il perché.

Se però questo accade, con l’impianto dell’agente a livello di queste 3 membrane (soprattutto la pia madre e l’aracnoide), può svilupparsi la meningite.

Ovviamente, l’età infantile è la più colpita in quanto, sembra chiaro, l’organismo del bambino (ma anche quello dell’anziano) è più delicato rispetto a quello dell’adulto.

I sintomi principali della meningite sono febbre, nausea, vomito e irritazione delle membrane meningee che il paziente avverte come una forma di rigidezza dei muscoli nucali. Tipici segni collaterali sono anche la diminuzione dello stato di coscienza, con senso di torpore, battito cardiaco rallentato ed episodi convulsivi.

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Bebe Vio, Campagna di Sensibilizzazione Contro la Meningite by Anne Geddes

Ma, la vera domanda è, in questo momento siamo veramente ‘’in pericolo’’? C’è veramente un’epidemia tale da dover aver paura di un colpo di tosse? È davvero così facile essere contagiati?

È chiaro che, similmente al terrorismo, anche quando si tratta di malattie potenzialmente mortali e di cui si sentono 5, 10, 15 casi nell’arco di 30 giorni, facilmente si sviluppa una vera e propria psicosi.

Vari esponenti italiani della sanità, infatti, parlano di ‘’allarmismo ingiustificato’’ causato, piuttosto, dalla solita eversione cui capo ci sono i mass media.

In effetti, il contagio non è un evento frequente, anzi. E, soprattutto, di base ci deve essere questo passaggio della barriera ematoencefalica del batterio che, in altrettanto modo, è raro.

Questo non vuol dire di non preoccuparsi. Però, meglio preoccuparsi a piccole dosi.

Sicuramente la miglior cura, come sempre, è prevenire. Quindi SI alla vaccinazione. Dai più piccoli ai più grandi, bisogna vaccinarsi. Chi è a rischio infezione è giusto che si vaccini e, quindi, si parla di tutte quelle persone che lavorano a stretto contatto con tante altre persone, in posti affollati, ad esempio, o in ambiente ospedaliero, o a stretto contatto con i bambini, soprattutto i bambini stessi.

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Bebe Vio, campionessa paraolimpionica, e la sua famiglia per la campagna #IoMiVaccino

Quello che possiamo consigliare, quello che a noi studentelli è stato consigliato, è di rivolgersi al proprio medico curante e, con assoluta tranquillità, seguire i suoi consigli. E, spesso e volentieri, di spegnere la televisione o cambiare canale.

Elena Anna Andronico

Pesce Zebra: come può un minuscolo pesciolino aiutare l’essere umano

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Pesce Zebra, Daino Zebrato, Zebrafish, Danio Rerio: questi sono i nomi con cui viene chiamato lo stesso piccolo pesciolino d’acqua dolce, appartenente alla famiglia Cyprinidae.

Il pesce zebra è molto comune in Asia, anche se lo si ritrova in quasi tutti gli acquari del mondo poiché si adatta facilmente ai vari habitat. Negli ultimi anni è diventato il modello animale più utilizzato negli studi di sviluppo e di funzione di geni, in tossicologia, oncologia e di rigenerazione.

La ragione di questo ampio utilizzo è sia di natura genetica, il suo genoma sequenziato nel 2001, è infatti molto simile a quello umano, sia di natura pratica poiché è un pesce che si riproduce molto velocemente ed i suoi embrioni, trasparenti, facilitano l’osservazione di numerosi aspetti biologici legati allo sviluppo e differenziazione cellulare.

La particolarità, in assoluto, del pesce zebra è che il suo organismo è in grado, allo stadio larvale, di rigenerare tutti i tessuti, per questo motivo è un modello di grande interesse per la medicina rigenerativa.

Negli ultimi mesi, grazie ai ricercatori della Duke University, è stato visto che, tra i tessuti dell’animaletto, anche il tessuto nervoso detiene questa capacità di rigenerazione. Se, infatti, l’animale va incontro a una lesione al midollo spinale, nell’arco di 8 settimane questa si rigenera.

L’esatto contrario accade nell’uomo. Il midollo spinale dell’essere umano, essendo il nostro tessuto nervoso di tipo permanente e quindi perdendo la capacità di rigenerarsi, non può andare incontro a tale fenomeno. Succede quindi che, se il midollo spinale si lede, si va incontro a paralisi o, nei casi più gravi, a morte.

Ma, qual è il meccanismo biologico che avviene nel pesce zebra? Se c’è una lesione nel midollo spinale dello zebrafish, questo va incontro ad una fase di rigenerazione durante la quale si crea un ponte cellulare al di sopra di essa. Un gruppo di cellule nervose di supporto (le cellule della glia) forma proiezioni che si estendono a distanze di decine di volte la loro lunghezza: solo a questo punto nuove cellule nervose le seguono a ruota, riempiendo il “buco” della ferita.

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Tra le decine di geni di zebrafish che si sono mostrati più attivi dopo una lesione spinale, i ricercatori ne hanno identificati sette che codificano per proteine secrete dalle cellule. Una di queste, chiamata CTGF (fattore di crescita del tessuto connettivo) ha calamitato l’attenzione perché i suoi livelli sono massimi nelle cellule della glia che intervengono a far da ponte in caso di danno. Quando gli scienziati hanno eliminato geneticamente il CTGF dagli zebrafish, gli animali sono risultati incapaci di riparare alle lesioni.

La versione umana di CTGF condivide il 90% degli amminoacidi con quella degli zebrafish: quando i ricercatori hanno aggiunto il nostro fattore di crescita alle lesioni dei pesci, gli animali sono ritornati a nuotare a due settimane dal danno.

La differenza sembra essere nel modo in cui la proteina viene controllata: la semplice presenza di proteina CTGF nell’uomo non garantisce infatti la medesima capacità di rigenerazione. Gli stessi studi compiuti sui topi chiariranno forse perché, nei mammiferi, non avvenga un simile processo di guarigione e se, in qualche modo, si possa “insegnare” al nostro Dna il segreto del pesce zebra e, finalmente, trovare una cura anche per noi.

Elena Anna Andronico

Umberto Veronesi: cosa l’umanità ha ereditato da lui

© Roberto Monaldo/LaPresse 22-02-2008 Pd: tra i candidati Umberto Veronesi Nella foto: Umberto Veronesi ¤foto di repertorio¤
© Roberto Monaldo/LaPresse
22-02-2008
Pd: tra i candidati Umberto Veronesi
Nella foto: Umberto Veronesi
¤foto di repertorio¤

L’importante non è sapere, ma cercare.

Sconfiggere l’ignoranza sia il vostro impegno primario, perché l’ignoranza non ci dà alcun diritto.

Continuate a cercare fino alla fine, con la consapevolezza che non potete fare a meno del bene e della vita.

 

 

 

 

L’8 novembre 2016 è venuto a mancare un grande medico e scienziato: Umberto Veronesi. Quel giorno, quindi, non verrà ricordato solo per l’ascesa politica di Donald Trump che è stato eletto 45° presidente degli Stati Uniti d’America, ma anche per la perdita di una delle menti più acute della storia italiana.

Umberto Veronesi non era solo un medico e un ricercatore: era un vero e proprio pioniere. Le sue idee, dalle più piccole alle più grandi, hanno contribuito a cambiare il mondo scientifico e non solo.

Per quanto alcuni dei suoi pensieri possano non essere condivisi da alcuni di noi, non vi è alcun dubbio sul fatto che ha lasciato a tutta l’umanità una grande eredità.

Cosa ha cambiato Veronesi?

Umberto Veronesi nasce come oncologo. Lo studioso si è occupato per decenni della ricerca sul cancro, soprattutto per quanto riguarda il carcinoma mammario. Il carcinoma mammario è tra le prime cause di morte (spesso prematura) della donna. Esso può svilupparsi a partire dalle cellule di due strutture della mammella: o dalle cellule dei dotti galattofori o dalle cellule dei lobuli mammari. Parleremo, quindi, di carcinoma duttale o carcinoma lobulare.

Questo tumore, a prescindere dalle sue caratteristiche anatomo-patologhe, veniva eradicato attraverso una tecnica chirurgica detta mastectomia radicale, ovvero l’asportazione dell’intera mammella (o di ambedue). Tale intervento fu ‘’collaudato’’ nel 1894 dal chirurgo William Halsted e viene tutt’ora praticato. All’epoca era l’unica tecnica conosciuta: tutte le donne, quindi, anche quelle con tumori poco invasive, ‘’subivano’’ questa manovra del tutto radicale che lascia senza la mammella malata e che, chiaramente, ha un grave peso psicologico.

Nel 1969, però, il maestro Veronesi espose, a Ginevra, il rivoluzionario intervento che, in alcuni casi di tumore non invasivo può essere utilizzato: la quadrantectomia. Tale tecnica ha lo scopo di asportare solo il quadrante malato della mammella, risparmiando la restante parte dell’organo e preservando la femminilità della paziente.

Ma non solo: grazie a lui ora conosciamo la regola del linfonodo sentinella. Se esso è stato metastatizzato allora anche gli altri lo saranno e si procederà con la linfoadenectomia, se invece non è metastatizzato non c’è bisogno di procedere.

Ancora, Veronesi, rivoluzionò ed evolse il suo stesso intervento: infatti perfezionò la quadrantectomia con l’introduzione del ‘’nipple- sparing’’. La ‘’nipple-sparing’’ è un ulteriore modifica del professore che consente di salvaguardare il capezzolo.

In ultimo, ma non per importanza, la radioterapia intraoperatoria: durante i suoi interventi vide come attuare in itinere la radioterapia sul tessuto malato non solo era più efficace ma, in alcuni casi, risparmia anche un lungo e arduo percorso alla paziente.

Grazie a tutto questo è stato definito il paladino delle donne, nonché ‘’Donna ad Honorem’’ da parte di varie associazioni femministe. Ma non se n’è mai sentito offeso, definendo lui stesso il genere femminile come ‘’superiore in qualsiasi campo al genere maschile’’.

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A parte la sua lotta contro il cancro, lo abbiamo visto esporsi nei riguardi di due argomenti dal grande peso sociale: l’aborto e l’eutanasia.

Seppur dichiarandosi contro l’aborto, ha sempre spronato le ragazze e le donne a non praticare aborti nascosti per vergogna: se è una decisione di cui non si può fare a meno che venga praticata da specialisti competenti. Si è sempre, infatti, manifestato contro le ‘’mammane’’ e i metodi fai da te.

Sostenitore dell’eutanasia, inoltre, si espose in un suo libro cominciando a rompere il tabù italiano nei riguardi di tale argomento.

Certo, la sua carriera ed etica, possiamo dire girassero solo intorno a una cosa: il benessere del paziente.

Elena Anna Andronico

Nasi all’insù: tutti in attesa della Super- Luna

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Bentornati a tutti amici della scienza! Questa settimana parliamo di un avvenimento che accadrà Lunedì 14 Novembre (tra 4 giorni, per essere pratici) e che vi spronerà a tenere i nasi all’insù.

La Luna, il nostro bellissimo satellite, in quella data sarà, infatti, piena al perigeo (ovvero il punto più vicino alla terra, al contrario dell’apogeo che è il punto più lontano dalla terra). Sembrerà incredibilmente vicina, tanto che, in modo poco scientifico, si è meritata l’appellativo di Super- Luna.

Ovviamente tutti gli anni la Luna, ad un certo punto, si trova al perigeo. La curiosità dell’evento sta nel fatto che si troverà nel pieno del plenilunio: non capitava da circa 70 anni. L’ultima volta si vide così grande nel 1948 e la prossima sarà nel 2034.

Mentre i complottisti si stanno già scatenando sul significato apocalittico del caso, noi vi diamo appuntamento in questo ordine: alle 12:24 ore italiane, la Luna si troverà alla minima distanza dalla Terra, 356.511 km. Poco meno di due ore e mezza più tardi, alle 14:52 ore italiane, il nostro satellite raggiungerà il culmine della fase di Luna piena. Dalle 18:35 ore italiane, sarà possibile per tutti ammirarla.

 

Risulterà il 14% più grande e il 30% più brillante, salvo complicazioni: nebbia, luci artificiali, nubi. E quindi vi consigliamo di passare la sera in un punto alto e scuro, lontano dai lampioni. Magari in compagnia di qualcuno. E poi, chissà…

Elena Anna Andronico