Antibiotico-resistenza, un’emergenza che potrebbe diventare più pericolosa del cancro

 

Il ventesimo secolo merita di essere ricordato per la scoperta di una delle sostanze che più contribuì ad aumentare l’aspettativa di vita della popolazione: la penicillina, il capostipite dei moderni antibiotici.

A partire dalla metà del secolo scorso, infezioni che generalmente si concludevano nel peggiore dei modi, divennero improvvisamente controllabili e ben curabili; malattie come polmoniti e meningiti fecero sempre meno paura e non furono più sinonimo di una morte preannunciata.

Il progresso scientifico portò alla scoperta di sempre più tollerabili ed efficienti antibiotici tanto che, nel decennio compreso tra il 1983 e il 1992, la FDA (Food and Drug Administration, ente statunitense che si occupa della regolamentazione dei farmaci) approvò più di 30 nuove molecole per l’uso clinico.

Sir Alexander Fleming, inventore della penicillina, tuttavia, in una intervista successiva alla vincita del Premio Nobel nel 1945, ci lasciò un messaggio molto importante:

Chiunque giochi con la penicillina senza pensare alle conseguenze, è moralmente responsabile del decesso di chi morirà per una infezione sostenuta da un microrganismo resistente alla penicillina

anticipando quello che sarebbe stato uno dei più gravi e pericolosi problemi del ventunesimo secolo: l’antibiotico-resistenza.

Secondo una review del 2017 infatti, in Europa, i batteri resistenti sono responsabili di circa 33 mila morti ogni anno. Emerge un dato drammatico in Italia dove, nel 2015, si sono verificate ben 10762 morti, tanto che il nostro, insieme alla Grecia, rappresenta il peggior paese per rischio infettivo in Europa. Si stima che le infezioni resistenti provochino lo stesso numero di morti dovute a tubercolosi, HIV ed influenza messe assieme.

In particolare, in un recente lavoro pubblicato su The Lancet Infectious Diseases è stata eseguita un’analisi su otto specie batteriche più frequentemente rinvenute in liquidi biologici, tra cui: Pseudomonas aeruginosa multifarmaco-resistente; Klebsiella pneumoniae carbapenemi e cefalosporine di terza generazione-resistente; Pneumococco penicilline e macrolidi-resistente; Stafilococco aureus meticillino-resistente. Tutti batteri responsabili di infezioni diffuse alle vie urinarie, apparato respiratorio, apparato digerente e dei siti chirurgici che, nei peggiori casi, possono portare a setticemia (condizione grave caratterizzata dalla presenza di batteri nel sangue).

Abbiamo infatti indotto i batteri ad adattarsi ai nostri tentativi volti a combatterli, tanto che alcune popolazioni batteriche, come riportato, risultano completamente immuni alle terapie. La causa di questo fenomeno si deve ricercare nell’uso sregolato di questi farmaci: spesso vengono utilizzati antibiotici “di ultima generazione” per infezioni banali o anche lì dove non sarebbero necessari.

Occorre infatti precisare che numerose malattie stagionali quali raffreddori ed influenze, non sono generalmente causate da batteri (cellule viventi a tutti gli effetti) ma da virus (macromolecole incapaci di riprodursi fuori dall’organismo ospite), sui quali gli antibiotici non hanno alcuna efficacia e quindi, vanno evitati ad ogni costo. Numerosi studi confermano tra l’altro che l’uso di antibiotici in caso di alcune patologie delle alte vie respiratorie non migliora significativamente né la sintomatologia né la clinica dell’infezione che si risolve nello stesso periodo di tempo, rischiando però di provocare, ovviamente, maggiori effetti collaterali. Quindi, alla prossima influenza, bisogna rifletterci un po’ prima di chiedere l’antibiotico.

La situazione in ospedale non è dissimile: a causa della comparsa di specie sempre più resistenti gli infettivologi sono obbligati ad utilizzare potenti antibiotici di nuova generazione che per adesso danno ottimi risultati, ma ai quali i batteri, in futuro, potrebbero diventare immuni per lo stesso principio. La colpa non è comunque solo di medici e pazienti, infatti più del 65% del consumo di antibiotici annuo è destinato agli allevamenti animali e nell’agricoltura, ambienti nei quali si creano facilmente dei batteri super-resistenti che talvolta possono essere trasmessi all’uomo.

Complessivamente, stando agli ultimi dati, il fenomeno dell’antibiotico-resistenza nel 2018 continua ad essere in crescita. Da poco si è conclusa la settimana dedicata all’antibiotico-resistenza (12-18 Novembre) in cui, oltre ad iniziative mediche, sono state avanzate iniziative sociali e politiche al fine di migliorare la gestione dei farmaci a disposizione. L’obiettivo è quello di promuovere l’uso di linee guida standardizzate per la prescrizione e un servizio attivo di monitoraggio per l’eventuale comparsa di altre specie multi-resistenti.

Purtroppo, nonostante ciò, l’Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che, senza adeguate misure di prevenzione, da qui al 2050 i super-batteri killer saranno la prima causa di decesso a livello mondiale, superando cancro, diabete ed infarti.

Il cambiamento dovrà quindi comunque partire da medici e pazienti e da una reciproca fiducia per i farmaci prescritti in quanto, come detto prima, contrariamente alle credenze, l’antibiotico non è comunque il rimedio a tutti i mali. Con l’augurio di trovare meno spesso “mostri” come questo:


Antonino Micari

Dipendenza Patologica da Internet: meccanismi biochimici e neurobiologici

Basta salire su un autobus o frequentare un locale affollato, per rendersi conto di quanto oggi il nostro sguardo si sia abbassato.

Siamo letteralmente assorbiti, catturati dai nostri smartphone. Sempre connessi, sempre impegnati, al punto di perdere il contatto con la realtà.

“Sapete quante volte viene toccato lo schermo di un telefono? 2600 volte al giorno. Sapete quante di queste sono veramente necessarie? Solo 14”. Così recita Fabrizio Bentivoglio nel recente film Sconnessi, film che denuncia come Internet abbia modificato il nostro stile di vita creando una vera e propria dipendenza.

Circa il 90% della popolazione mondiale possiede una connessione internet. Dal 1999 gli utenti sono notevolmente aumentati. Dall’analisi statistica dei dati provenienti da 239 Paesi, è emerso come il numero degli utenti connessi ad Internet nel mondo abbia sorpassato la soglia dei 4 miliardi di persone. Un dato storico ci informa che oggi più della metà della popolazione mondiale è online.

Non sorprende a pensare che si stanno diffondendo sempre più i disturbi da abuso della rete telematica, l’Internet Addiction Disorder (IAD)che hanno riscosso una crescente attenzione da parte della comunità scientifica.

Il fenomeno sta acquistando una rilevanza sociale tanto da parlare di dipendenza.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) descrive la dipendenza patologica come quella condizione psichica, e talvolta anche fisica, causata dall’interazione tra una persona e una sostanza tossica. Tale interazione determina un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo scopo di provare i suoi effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione. Le nuove dipendenze, o dipendenze senza sostanza, si riferiscono a una vasta gamma di comportamenti anomali. Tra essi possiamo annoverare il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza da tv, da internet, dal sesso, shopping compulsivo, dall’eccesso di allenamento sportivo.

 

La dipendenza patologica e i criteri diagnostici

Il DSM5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) comprende anche il gioco d’azzardo che non è correlato all’uso di una sostanza.

Servono ulteriori ricerche ed evidenze per includere formalmente i disturbi da abuso della rete telematica IAD (l’Internet Addiction Disorder ) nel DSM5.

Già nel 1995 Ivan Goldberg propose di introdurli nel DSM . Si stanno rapidamente diffondendo senza un ufficiale riconoscimento e con continui disaccordi rispetto ai criteri diagnostici da utilizzare.

In particolare, il dibattito in corso mira a definire se l’IAD deve essere classificato come una dipendenza comportamentale, un disturbo del controllo degli impulsi o un disturbo ossessivo-compulsivo.

La dipendenza da internet è legata al tipo di attività svolta varia in genere in relazione al sesso e all’età.

Attualmente sono stati riconosciuti cinque tipi di dipendenza:

-Dipendenza dalle relazioni virtuali (Cyber-Relational Addiction) Tendenza ad istaurare relazioni di amicizia o amorosi via chat, forum, social networks. Tali relazioni diventano man mano più importanti delle relazioni reali.

-Dipendenza dal sesso virtuale (Cybersexual Addiction) uso compulsivo di pornografia e sesso virtuale.

-Gioco Offline (Computer Addiction), tendenza al coinvolgimento eccessivo in giochi virtuali che non prevedono l’interazione tra più giocatori e non in rete.

-Gioco Online (Net Compulsion), coinvolgimento eccessivo e comportamenti compulsivi collegati a varie attività online quali il gioco d’azzardo, lo shopping compulsivo, i giochi di ruolo.

Quando parliamo di dipendenza da internet?

Quando la maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo della rete, creando in tal modo menomazioni forti e disfunzionali nelle principali e fondamentali aree esistenziali, come quella personale, relazionale, scolastica, familiare, affettiva. Le dinamiche di dipendenza dalla rete telematica si possono sviluppare al punto da presentare fenomeni analoghi alle dipendenze da sostanze, con comparsa di tolleranza (aumentare il numero di ore trascorse in rete per avere lo stesso effetto gratificante) craving (desiderio impulsivo) e assuefazione e astinenza( Se il soggetto tenta di ridurre le ore o si disconnette dalla rete diventa irritabile, nervoso, ansioso.)

La dipendenza patologica come ogni malattia mentale, altera il comportamento è tutto ciò che limita il nostro libero modo di essere, di comportarci, di scegliere è un qualcosa che ci viene sovraimposto. Il soggetto non sceglie di stare tutta la giornata davanti al pc, non andare a lavoro, perdere sonno.

NON È RILEVANTE LA VOLONTÀ del soggetto a smettere, il soggetto può avere anche un alto quoziente intellettivo e avere una dipendenza da internet come da nicotina.

Perché?

Poiché ovviamente tutti noi dobbiamo  fare i conti con i limiti del nostro sistema nervoso, con dei processi biochimici sovraimposti dalla biologia e dalla fisiologia. E’ un meccanismo biochimico che si autoinnesca nel cervello.

 

Come avviene la dipendenza?

La dipendenza da sostanze e comportamenti usa un meccanismo antichissimo, caro all’evoluzione e alle diverse specie ovvero la gratificazione, il circuito della ricompensa ed il rinforzo negativo o positivo.

Il circuito della ricompensa è un comportamento attuato anche dal neonato, da ogni specie dalle farfalle all’essere umano. Tanto più un’azione è gratificante tanto più essa tende ad essere ripetuta nel tempo. Sono dei meccanismi che servono a salvaguardare la specie. Non tutte le dipendenze sono patologiche anzi alcune sono necessarie. Ad esempio l’atto sessuale è un evento gradevole che tende ad essere ripetuto nel tempo e consente la riproduzione per questo le specie non si sono estinte.

Le dipendenze fisiologiche o patologiche si basano sul circuito della ricompensa.

Esso è costituito da tre momenti:

– La componente preparatoria (il desiderio e le azioni messe in atto per raggiungere l’oggetto del piacere);

– La componente incentivante motivazionale (motivazione a provare qualcosa di nuovo);

– La componente consumatoria: piacere, soddisfazione e gratificazione.

 

Biochimicamente cosa avviene nel cervello?

  • L’Area tegmentale ventrale rilascia dopamina,
  • Liberazione dopamina dal Nucleo Accumbens. Il rilascio di dopamina dal Nucleo Accumbens è correlato al piacere alla gratificazione,
  • Contemporaneamente avviene l’inibizione del lobo frontale (area deputata al giudizio, alla coscienza, alla razionalizzazione. Consequenzialmente se tale area è inibita il soggetto non considera più il pericolo, la sua razionalità è compromessa).
  • Inibizione dell’amigdala la quale in genere è deputata a far insorgere nel soggetto ansia, paura e consente di scappare dinnanzi un pericolo, se tale area è inibita il soggetto non è ansioso, è quindi troverà beneficio dall’ azione, sentendosi più rilassato, meno agitato e non tenderà a scappare).Ciò funziona per tutte le dipendenze anche da sostanza e comportamento. Esaminiamo la dipendenza più comune quella da social network.Oltre al circuito di ricompensa avviene un rinforzo positivo:

    Se il soggetto ha difficoltà ad istaurare relazioni nella realtà per tratti di personalità per la sua timidezza, per la sua personalità evitante, per la sua introversione, sarà facilitato da internet ad instaurare relazioni velocemente, a parlare  liberamente senza arrossire o essere impacciato, sarà più disinibito.

    Il soggetto tramite i social può offrire un’immagine di sé che non è reale, fornire agli altri un’immagine idealizzata che vorrebbe avere.

    Avrà più facilmente accesso ad essere in contatto con le persone di suo interesse. Grazie a facebook, instagram, whatsapp sarà aggiornato sulla vita e sui movimenti di chi gli interessa, ci saranno foto, video, pensieri condivisi dalla persona ,i social vanno tanto di moda perché sono basati  sulla stimolazione piacevole della curiosità, erotizzazione delle informazioni.

    Rinforzo negativo eviterà il rifiuto diretto, essere nascosti dietro uno schermo evita figuracce, la perdita di tempo nell’ottenere informazioni.

    La specie si evoluta basandosi sul rinforzo positivo e negativo. Tutte le azioni umane sono esplicate per avvicinarsi al piacere o allontanarsi dal dolore.

     

    Dipendenza e tratti di personalità

    Ci sono persone più inclini a sviluppare dipendenze patologiche da internet, comportamentali o patologiche? Si, senza dubbio.

    In parte è genetica, correlato a tratti di personalità come il Neuroticismo, l’impulsività e l’eccesiva reattività a stimoli esterni.

    Il  neuroticismo è quella  caratteristica di personalità connessa alla tendenza a provare emozioni prevalentemente negative come il pessimismo.

    Questo tratto risulta associato tanto al disturbo da uso di sostanze quanto ai disturbi depressivi e ai disturbi d’ansia.

    Più elevata sensibilità allo stress. I soggetti con tale tratto hanno la predisposizione al sensation-seeking, la tendenza di avere una continua ricerca del nuovo e dal costante bisogno di provare di forti emozioni, unitamente all’ipersensibilità verso le ricompense, il piacere e a una parallela insensibilità alla punizione.

    L’Impulsività  si riferisce a un modello di comportamento sotto-controllato e privo di limiti, nel quale l’individuo incapace a ritardare la gratificazione, agisce senza alcuna preoccupazione rispetto alle potenziali conseguenze.

    L’impulsività è il tratto comportamentale che sembra maggiormente correlato all’uso problematico di sostanze e alle dipendenze, comprese quelle comportamentali, come il gioco d’azzardo patologico.

    L’eccessiva reattività agli stimoli esterni, rappresenta un ultimo tratto comportamentale accordato sulle frequenze del disturbo da dipendenza, nello specifico connesso alla fase della ricaduta. Gli individui a maggior rischio di ricaduta siano quei soggetti per i quali gli stimoli esterni presentano un elevato potere incentivante; questo è in linea con il fatto che la ricaduta è spesso determinata da quegli stessi stimoli ambientali (luoghi, persone, strumenti) o psichici (particolari emozioni, stati dell’umore, pensieri ricorrenti) precedentemente associati all’assunzione di droghe, di sostanze psicoattive.

    Cosa fare se si ha una dipendenza patologica da internet?

    Ammettere di avere un problema.

    Rivolgersi ad uno psicoterapeuta ed iniziare una terapia cognitivo- comportamentale mirata alla riduzione graduale del comportamento patologico dipendente, con l’individuazione e attuazione di comportamenti alternativi, sufficientemente gratificanti, che possano sostituirlo,

    Superare  difficoltà socio-relazionali.

    In ambito strategico le patologie legate all’utilizzo patologico di internet possono venire suddivise in due tipologie:

    • quelle basata sulla ricerca del piacere
    • quelle basate su un meccanismo di tipo ossessivo-compulsivo.

    Il paziente attraverso stratagemmi terapeutici viene inconsapevolmente condotto dal terapeuta  a vivere esperienze emozionali che sblocchino la sua rigidità e lo indirizzino verso una nuova visione della realtà.

    Nelle patologie incentrate sul piacere, le manovre vertono a far interrompere il rituale piacevole di cui il soggetto non riesce a fare a meno.

    Nel caso in cui sia presente un meccanismo di tipo ossessivo-compulsivo si seguirà una logica differente. In questo caso il soggetto è vittima delle sue strategie di controllo. La prescrizione principale  in tale caso in genere è quella di eseguire il rituale in modo più gravoso, confinandolo in un determinato spazio e tempo. Si tratta quindi di opporre al rituale un contro-rituale che ne riduca l’effetto o l’ipnoterapia.

    Vi sono differenti strategie:

    • Strategia legata alle conseguenze positive future. Sottolineare gli aspetti gratificanti di lungo termine legati al superamento della dipendenza stressando gli aspetti negativi del presente. Usando le tecniche immaginative orientate al futuro.
    • Strategia legata all’accentuazione delle conseguenze negative. mettere il paziente di fronte alle conseguenze negative della sua dipendenza svalutandone allo stesso tempo il piacere immediato. fantasie immaginative avverse, concentrandosi sulle conseguenze negative del comportamento che sono specifiche per il soggetto.
    • Strategia legata alla sostituzione del mezzo di gratificazione. L’attenzione in questo caso è rivolta alla ricerca di metodi non distruttivi che permettano al soggetto di ridurre il suo stato di tensione. Centrali in questo caso sono le tecniche di rilassamento autoguidato che permettono di trasportare le suggestioni ipnotiche nella situazione in cui l’individuo necessita aiuto. Queste tecniche, permettono di controllare la respirazione, la tensione muscolare e la sensazione associata di ansietà, fornendo al soggetto la percezione di autoefficacia, incoraggiandone così la messa in atto di strategie adeguate di coping.
    • Strategia di autogratificazione. Si opera in tale caso sul rinforzo del se del soggetto mediante suggestioni che vanno ad accrescere l’autostima, il sentimento di autoefficacia e la motivazione intrinseca al cambiamento.

    L’insieme di queste strategie permette di strutturare nel soggetto un comportamento di decision-making consapevole. Invece di rispondere in forma automaticamente e abitualmente, il soggetto viene portato a decidere in modo consapevole se concedersi il lusso di un’abitudine distruttiva .

    Nel caso in cui la dipendenza abbia coinvolto negativamente la famiglia,

    viene introdotta la terapia familiare supportare la motivazione del soggetto ad affrontare e risolvere la dipendenza.

    I gruppi di supporto sono una valida alternativa terapeutica soprattutto in quelle situazioni in cui la dipendenza da internet sia stata prodotta da mancanza di supporto all’interno della rete sociale di appartenenza.

    Terapia farmacologica

    Nei casi gravi vengono dati farmaci antidepressivi o stabilizzatori dell’umore che vanno ad agire sui sintomi causati dall’astinenza (ad esempio nel gioco d’azzardo patologico online).

    Conclusioni e consigli pratici

    La tecnologia è un ottimo strumento di crescita se ben usata, ma può causare gravi dipendenze patologiche. Per prevenire ciò è necessario:

    – La  conoscenza e l’autodisciplina.

    – Limitare uso trascorso in internet, monitorandolo, stabilendo di essere connessi solo per un periodo di tempo determinato incoraggiare utilizzo di reminder bigliettini

    – Praticare sport il rilascio di endorfine, evita la ricerca di piacere da altre fonti come internet, il cibo.

    – Instaurare relazioni vere ,fatte di chiacchiere, sguardi, canzoni. Iscriversi in attività di gruppo, vi sono diverse associazioni di ballo, canto, teatrali, politiche, sportive in relazione ai propri interessi che ti permettono di fare amicizia con gente che condivide le tue passioni.

    – Utilizzare app che bloccano l’accesso ai social per un tempo determinato e ti consentono un uso moderato e rimanere concentrato nelle tue attività: ad esempio Forest, un app free in cui ogni ora che sei concentrato senza guardare il cellulare e il pc cresce un alberello, di varie dimensioni e tipologie a secondo del tempo che stabilisci.

    Se mentre svolgi l’attività che avevi programmato in cui dovevi essere focalizzato nello studio o nel lavoro entri sui social l’albero muore. A fine giornata sarà piacevole vedere i frutti del tuo lavoro osservando la foresta con gli alberi che hai piantato con le ore concentrato nel tuo lavoro.

    – Fare belle passeggiate in cui si è sconnessi da  internet, chi ha necessità di trovarci può sempre chiamare.

    – Connettersi con la natura: usare i sensi, al giorno d’oggi non facciamo più caso ai nostri sensi. Utilizzarli consapevolmente.

    -Acuire l’osservazione, cogliere i dettagli, i colori, le forme geometriche.

    Prestare attenzione ai suoni, ai rumori, al tatto alle superfici, al nostro respiro e ai nostri passi,

    – Ascoltare il proprio corpo, verificare la nostra postura, la posizione che assunta nello spazio, la tensione che è presente in alcuni muscoli.

    – Sintonizzarci con la realtà vera.

    – Concentrarsi nelle cose pienamente, se  si studia, studiare e basta, se si lavano i piatti non pensare ad altro, rimanere concentrati,essere assorti pienamente nell’attività che stiamo svolgendo.

    Metà della felicità è nel contatto con la natura e nella consapevolezza del sé.

    A cosa  serve conquistare il mondo, avere milioni di informazioni quando poi si perde l’essenza del proprio se e della realtà?

    Cosa racconteremo ai nostri figli “…passavo ore con la testa bassa sul telefono a chattare con sconosciuti, a leggere email”?!

    Cosa ci stiamo perdendo? Sorrisi, sguardi, tramonti, interrotti da una notifica, dall’attesa di un messaggio, il nostro tempo è limitato, stressato da continui messaggi a cui rispondere. Siamo diventati schiavi.

    “Ascolta te stesso, sii libero, non dipendere da niente e da nessuno questa è la chiave della felicità.”

                                                                                                                                                                                                                                  Daniela Cannistrà

La frutta: dono preziosissimo della Natura

Immaginiamoci in una giornata afosa, a mezzogiorno e nella beata Sicilia. Unico cibo, che abbiamo voglia di mangiare in queste condizioni, è la frutta, quel meraviglioso dono che alcune piante ci fanno da millenni. Ma cosa sono realmente i frutti? Perché le piante dovrebbero utilizzare le loro preziose energie per darci del cibo? Da cosa sono fatti? Perché sono colorati? Ha più calorie un frutto maturo o uno acerbo? In questo articolo cercheremo di rispondere a queste ed ad altre curiosità. Cercherò di farvi comprendere che l’arancia, non è solo bella, dolce e nutriente, è anche viva!

Il frutto è quell’organo della pianta che ha la funzione di fornire protezione, nutrimento e mezzo di diffusione al seme che contiene. Tuttavia, se torniamo ad osservare la nostra amata arancia, notiamo che essa non ha semi. Il motivo è dovuto al fatto che l’uomo, ormai da secoli, crea ibridi, per migliorare sempre di più il sapore di tali pietanze. Un altro esempio sono le banane, che hanno subito le stesse modifiche genetiche delle arance, attraverso infiniti incroci avvenuti nei secoli. La riproduzione di queste piante è assicurata, quindi, non dal frutto, che ha perso i suoi semi, ma dall’uomo, attraverso procedure artificiali come l’innesco.

Questa è una foto della ancestrale Musa Balbisiana, dalla quale derivano, attraverso l’incrocio con un altra specie (Musa Acuminata), quasi tutte le moderne banane. Quando si genera un ibrido (come il caso della “moderna” banana), questo, quasi sempre, non ha i semi.

Attraverso i semi, contenuti nei frutti, le piante si riproducono. Più un frutto riesce a proteggere e a nutrire a lungo il seme, più sarà garantita la sopravvivenza e la diffusione di quella specie. Nella riproduzione delle piante entrano a far parte anche altri organismi viventi, come l’uomo. L’uomo è un animale egoista. Se qualcosa gli piace, tenta in tutti i modi di preservare quel qualcosa. Se una pianta è in grado di fornire frutti belli, dolci e saporiti, state pur certi che quella pianta avrà vita lunga. Inoltre è stato dimostrato che molti semi riescono a sopravvivere all’azione dei succhi digestivi di molti esseri viventi. Questo significa che anche i semi di un frutto ingerito possono, se raggiungono il terreno dopo aver attraversato l’intero canale alimentare, dar vita ad una pianta. Inoltre, in questo modo, il frutto sfrutta un organismo vivente come un mezzo per raggiungere territori ancor più vasti e ciò non può che essere positivo ai fini della diffusione della specie.

Penso che in natura non esista organo più incline al volersi far mangiare da altri organismi viventi, per rispondere a tale desiderio il frutto va incontro a maturazione. Nella prima fase di crescita, il frutto diventa sempre più voluminoso, mentre il seme si perfeziona rendendosi funzionale. Importante che tale fase avvenga sull’albero, poiché il frutto nei primissimi momenti di vita è dipendente dai nutrienti che la pianta gli dona. Successivamente, quando il frutto ha raggiunto un minimo stadio di maturazione, può continuare questo processo da solo.

La maturazione di tale organo, una volta staccato dall’albero, è garantita dal fatto che le cellule del frutto riescono a respirare e a vivere anche dopo che il frutto ha lasciato l’albero. Questo è possibile grazie alla parete cellulare delle cellule vegetali, non presenti nelle cellule animali, che conservano al loro interno più a lungo acqua e altre molecole indispensabili. Quindi quando poniamo sul carrello della spesa la nostra bellissima frutta, questa è ancora viva: le sue cellule stanno effettuando la respirazione, ovvero quell’insieme di reazioni chimiche che generano energia sotto forma di ATP, partendo da substrati come zuccheri e ossigeno. E’ inoltre interessante notare che la resistenza di un frutto al di fuori della pianta è inversamente proporzionale all’intensità della respirazione, ovvero più un frutto matura velocemente, al dì fuori della pianta, quanto prima esso deperirà.

Ci sono due grandi famiglie di frutti: i climaterici ed i non climaterici. I primi, dopo essere stati raccolti, producono un ormone volatile chiamato etilene che è in grado di far continuare la maturazione del frutto. I secondi continuano la maturazione solo grazie all’etilene esogeno, che può essere somministrato dall’uomo o da frutti climaterici posizionati vicini.

 

L’etilene è un ormone vegetale la cui principale azione è quella di favorire la maturazione del frutto. Tale processo è notevolmente dispendioso dal punto di vista energetico, e per questo motivo con essa aumenta anche la respirazione delle cellule del frutto.

La produzione di etilene è favorita da alcuni fattori:

  • l’Auxina, altro ormone vegetale.
  • Stress, come ferite e urti. Infatti se notate una mela ammaccata matura molto più velocemente.
  • Ritmi Circardiani (si ha un picco di produzione diurno, un po’ come il nostro cortisolo).
  • Infine lo stesso etilene ha un azione permissiva sulla propria produzione.

Come fanno questi fattori ad aumentare la formazione di etilene? Andando ad attivare l’enzima ACC sintasi

 

Quali sono gli effetti all’interno della cellula di questo ormone?

L’etilene, attraverso una via di trasduzione, va a regolare la trascrizione di specifici geni che codificano determinati enzimi, indispensabili per la maturazione del frutto e per altre funzioni.

Gli enzimi a questo punto sintetizzati cosa faranno?

  • La clorofilla, pigmento notoriamente verde, viene ridotta in molecole più semplici, talvolta con formazione di nuovi pigmenti, come carotenoidi, xantofille e antociani, che impartiscono ai frutti maturi la loro colorazione.
  • Alcune cellule cominciano ad accumulare nei vacuoli diverse sostanze, aumentando di volume e arricchendosi di molecole fino a raggiungere la composizione caratteristica del frutto maturo (questo solo quando il frutto è ancora posto sulla pianta).
  • L’amido, presente nella banana, viene ridotto in carboidrati più semplici. Rendendo, in questo modo, il frutto più dolce.
  • Le macromolecole di pectina vengono idrolizzate in acidi pectici, rammollendo la polpa e la buccia del frutto.

Spero che da adesso in poi vedremo la frutta con occhio diverso. Penseremo al fatto che essa sia viva, che essa stia sintetizzando etilene ai fini di continuare il suo processo di maturazione, al fini di apparire più bella ai nostri occhi e più saporita, per il solo unico suo scopo di essere mangiata da noi. Vi lascio con un’ultimissima interessante nozione: un frutto più maturo è più dolce, ma non più calorico di uno acerbo. Le calorie si basano sulla quantità di zuccheri e non sulla qualità. Durante il processo di maturazione la frutta non aggiunge zuccheri, ma li idrolizza soltanto, rendendoli “semplici”. Gli zuccheri semplici entreranno prima nel circolo sanguigno rispetto ai zuccheri complessi di un frutto più acerbo, donandovi subito più energia e vitalità. Per non parlare del sapore, ma a chi piace la banana quando è ancora verde? Forse abbiamo, davanti a noi, l’unico caso, in cui, un qualcosa di buono, non per forza fa “ingrassare” di più, anzi, fa stare bene.

Francesco Calò

La nuova scoperta nella lotta al cancro. Orgoglio italiano (fuggito) su Nature

Correva l’anno 2000 quando, sulle pagine de La Repubblica, nei primi giorni di ottobre, compariva l’ennesimo articolo sulla fuga di cervelli italiani all’estero.

Forse, il Prof. Antonio Iavarone e la moglie Anna Lasorella, autori di quell’articolo-denuncia, non immaginavano che dopo vent’anni la situazione per gli studenti e ricercatori italiani sarebbe rimasta la stessa, anzi peggiorata.

I due lavoravano al Gemelli di Roma, presso il reparto di Oncologia pediatrica, dove portavano avanti ricerche estremamente innovative riguardo tumori pediatrici: il loro laboratorio “non aveva nulla da invidiare a quelli americani” affermava con una nota di rabbia e dispiacere Lavarone ai tempi. Fin quando, per il solito nepotismo e ostruzionismo, furono costretti a percorrere vie legali contro il primario di allora. Come è facile immaginare, nonostante la causa fu vinta, quel laboratorio non sarebbe stato più loro, e “l’esilio” oltre oceano si fece obbligatorio.

Oggi, 18 anni dopo, il gruppo di ricerca guidato dal Prof. Iavarone alla Columbia University a New York (Department of Neurology and Institute for Cancer Genetics) conta una equipe di circa 20 ricercatori, di cui 8 italiani. Stefano Pagnotta, Marco Russo, Luciano Garofano, Angelica Castano, Luigi Cerulo, Michele Ceccarelli, Anna Lasorella, Antonio Iavarone, sono loro gli italiani che hanno inaugurato il nuovo anno con la pubblicazione sulla rivista Nature di una scoperta che offre un potenziale del tutto nuovo per la terapia contro il cancro, e che apre strade finora inesplorate. Il 3 gennaio, infatti, l’articolo A metabolic function of FGFR3-TACC3 gene fusions in cancer annunciava, sulla rinomata rivista scientifica, l’avvenuta “identificazione della funzione di un’importante alterazione genetica che causa una consistente percentuale di diversi tipi di tumori, fra cui il glioblastoma, il più aggressivo e letale di quelli al cervello”. È difatti, il culmine di un lavoro che va avanti da anni, frutto di una serie di mattoncini impilati a poco a poco grazie anche all’utilizzo di tecniche complesse ed estremamente innovative, come l’analisi dei Big Data: lo studio delle sequenze genetiche dei tumori, catalogati dal progetto americano The Cancer Genome Atlas (Tcga) di cui Iavarone ricopre la carica di coordinatore per la sezione riguardante i tumori al cervello.

Scendendo più nei dettagli, già nel 2012 era stata descritta, dallo stesso gruppo di Iavarone, la fusione dei geni fgfr3-tacc3 (abbreviata f3-t3) nel 3% dei casi di glioblastoma umano. Il primo è un gene che codifica per la proteina “Fibroblast Growth Factor Receptor 3”, recettore di membrana che gioca un ruolo cardine nella regolazione della crescita, differenziazione e divisione cellulare fin nello sviluppo embrionale. Il secondo è un gene che codifica per la “Transforming Acid Coiled-coil Protein 3”, che ricopre un ruolo cardine nella generazione e regolazione del fuso mitotico durante la proliferazione cellulare.

I due geni risiedono sullo stesso braccio del cromosoma 4, ed è qui che avviene la loro fusione, dovuta ad una duplicazione in tandem (vedi figura).

Successivamente altri studi hanno riportato una simile frequenza di tale alterazione in altri tipi di neoplasie, indicando che f3-t3 è ormai da ritenere una tra le alterazioni che conferisce potere oncogenico in cellule di vari tessuti.

La novità è aver scoperto come la fusione FGFR3-TACC3 genera e fa crescere i tumori. Questa alterazione genica scatena un’attività abnorme dei mitocondri, organelli presenti all’interno della cellula che funzionano come centraline di produzione energetica. L’eccesso di energia alimenta l’impulso alla proliferazione incontrollata e all’invasione tipico delle cellule tumorali. Appurato il significato dell’alterazione, la strategia che si profila è ora quella di colpire non solo la fusione genica, ma anche la sua funzione, bloccando il metabolismo energetico, cruciale per la sopravvivenza delle cellule tumorali.

L’integrazione di inibitori classici e inibitori specifici per tale alterazione renderebbe la terapia oltre che più efficace, anche mirata in quei casi in cui è presente l’alterazione in questione. Sono in atto sperimentazioni cliniche con farmaci «bersaglio» all’ospedale Pitié Salpetrière di Parigi, dirette dal prof. Marc Sanson, coautore dello studio di Iavarone. I primi risultati dei test su cellule tumorali in coltura e nei topi mostrano che si può interrompere la produzione di energia e fermare la crescita tumorale.

L’Istituto neurologico Carlo Besta di Milano potrebbe partecipare alle nuove sperimentazioni. “Da tempo sono in contatto con i suoi ricercatori – dice Iavarone – per questioni burocratiche e regolamentari non è stato possibile trasferire rapidamente le nostre sperimentazioni cliniche anche in Italia, spero che dopo la pubblicazione su Nature dello studio si riesca presto a lavorare insieme”.

Iavarone, intervistato in questi giorni, ha dichiarato di sentirsi ancora italiano a tutti gli effetti, e che avrebbe voluto conseguire questo traguardo in Italia, così da contribuire al prestigio del proprio Paese. Il professore, a onor del vero, era stato chiamato, ai tempi del governo Monti, per prendere parte alla rifondazione della ricerca in Italia, ma di quel periodo ricorda solo “tante riunioni, importanti conferenze e nulla di concreto”. La sua visione non è totalmente pessimista, auspica che si realizzi il tanto chiacchierato Human Technopole, l’infrastruttura multi-disciplinare lanciata all’EXPO di Milano, che avrebbe come obbiettivo quello di rilanciare l’Italia nel settore delle biotecnologie, della medicina molecolare e genica, e della bio-informatica, e ancor di più spera nella realizzazione di uno Human Technopole del Sud, da cui proviene.

“Il mio sogno -rivela infine Iavarone al Corriere- è quello di proiettare l’Italia tra i primi Paesi al mondo nel settore della ricerca dei big data, della medicina personalizzata e dell’oncologia. Un sogno, certo. Ma la vita mi ha insegnato che tutto è possibile”.

Antonio Nuccio

Inaugurazione Startup Weekend Messina: parla Giuseppe D’Arrigo

Oggi alle 15:00 si inaugura lo Startup Weekend Messina, presso il Palazzo della Cultura di Viale Boccetta: una tre giorni dedicata all’innovazione e all’imprenditoria. Lo Startup Weekend ha lo scopo di creare un ecosistema imprenditoriale facendo incontrare chi fa impresa con ragazze e ragazzi che si avvicinano a questo mondo per la prima volta. Per tutti gli studenti universitari è possibile acquistare il ticket al prezzo scontato di 25 euro, usando il codice swme17uni. I biglietti sono disponibili sul portale online“Eventbrite”.UniVersoMe (media partner dell’evento) ha intervistato per l’occasione l’organizzazione di questo evento. Diamo la parola a Giuseppe D’Arrigo.

Per chi ancora non lo avesse capito, cos’è lo Startup Weekend?

Lo Startup Weekend è un evento di taglio internazionale che, a Messina, è alla sua terza edizione. Si tratta di 54ore a base di cultura d’impresa e innovazione: imprenditori, professionisti e figure d’esperienze mettono a disposizione dei partecipanti tutte le loro competenze per trasformare delle idee di impresa in progetti concreti.
I partecipanti, raggruppati in team su base volontaria, vivono in 3 giorni quello che una startup fa in diversi mesi, ovvero convalidare l’idea d’impresa, capire come svilupperanno il proprio prodotto/servizio, come identificare e studiare i competitor e, infine, comprendete al meglio il mercato al quale si rivolgono. Alla fine di questo procedimento, in cui si impara facendo con il supporto dei mentor, le idee vengono giudicate da una giuria di imprenditori d’esperienza.
Può partecipare sia chi ha un’idea d’impresa che chi vuole capire come ragiona un moderno imprenditore.

Cosa deve fare un giovane come me per lanciare una startup? Voi potete aiutarlo?

Innanzitutto deve partecipare a Startup Weekend Messina (LOL).
Chi fa startup solitamente parte da un’idea (un prodotto o un servizio) e quindi il primo passo è mettere a fuoco cosa si vuole fare, a quale mercato ci si rivolge (es. giovani, professionisti, studenti) in termini di numeri (soldi, potenziali utenti) e parlarne in pubblico: un imprenditore deve raccogliere feedback sulla propria idea.
Eventi come swmessina consentono di rendere più veloce questo procedimento.
L’associazione Startup Messina si occupa proprio di cultura d’impresa e agisce per favore la creazione di nuove startup, attraverso percorsi di supporto e avvalendosi di un forte e diffuso network di imprese, incubatori, acceleratori su tutto il territorio, non solo di Messina e provincia, ma di buona parte del Mezzogiorno.

Come si crea una rete di innovatori? A Messina cosa ce ne faremo eventualmente? #amessinanoncenenti

Una rete di innovatori, spesso, si crea in maniera quasi casuale, grazie ad una visione condivisa: portare cambiamento e migliorare la cultura e/o le offerte del territorio.
Innovare non vuol dire solo fare impresa ma anche realizzare attività a sfondo sociale/culturale. I migliori risultati si ottengono quando c’è una commistione di questi ambiti assieme alla voglia di portare cambiamento. Una rete di questo tipo a Messina, dove #noncenenti,  porta freschezza e rinnovamento nonché consente di creare sinergie dove non ci sono. Ad esempio fra aziende e istituzioni.

Vi sentite ripagati dalla cittadinanza e dalle istituzioni per l’impegno profuso?

Ovviamente non tutti vogliono fare impresa ma abbiamo riscontrato grande interesse verso i nostri eventi: startup weekend messina (una volta l’anno) e fabbrica delle idee (una volta al mese da gennaio a giugno).
Studenti, liberi professionisti e anche imprenditori hanno dimostrato interesse verso la cultura d’impresa e le iniziative positive del territorio.
Le istituzioni sono più lente nell’accogliere queste iniziative, ovviamente, ma negli ultimi tre anni siamo riusciti ad avere supporto sia dall’Università che dal Comune di Messina che, ad esempio, quest’anno ci ha consentito di fare swmessina al Palacultura.

Quanto è importante una manifestazione del genere per la città di Messina e per le startup messinesi ?

Manifestazioni come swmessina sono molto importanti:
a) creano sinergie, contatti e scambi di competenze. Aspetto essenziale sia per chi vuole fare imprese che per chi fa, piú semplicemente, il dipendente o studia. Attraverso contatti e sinergie si creano sempre nuove possibilitá (iniziative, progetti sociali/culturali, occasioni lavorative)
b) fa capire che anche a Messina si possono portare, con successo, format internazionali e approcci che si vedono quotidianamente anche altrove
c) è un modo per mettersi in gioco e capire meglio le proprie potenzialità. 

Alessio Gugliotta

L’UniVerso che cercavo dentro ME

 

Che fatica, amici miei. Scrivere questo articolo è una cosa difficilissima. Sarò sincera con voi: solo il dovermi mettere davanti a questa pagina di Word è stato un parto. È da almeno 2 mesi che so che lo devo fare, che non volevo ridurmi all’ultimo, che rimando ‘’a domani’’.

Oggi non posso. Oggi è l’ultimo giorno a mia disposizione in quanto ‘’domani’’ è il tempo durante il quale voi mi state leggendo. L’articolo è pubblicato. Fine.

Fine.

Sapete, tra tutti i corsi universitari il mio è davvero particolare. Non sono 3, non sono 5, sono 6 anni. Sei anni sono tantissimi. È così strano pensare che tra 4 giorni il traguardo sarà stato raggiunto. The End.

Non giriamo troppo intorno, quindi. Sono qua per porvi i miei saluti, il mio arrivederci.

Questo progetto è entrato nella mia vita nel 2015. Non dimenticherò facilmente la prima volta in quello che è diventato il nostro ufficio. Non mi dimenticherò facilmente quel colloquio: ero l’unica ragazza, in mezzo ad un branco di ragazzi! Non solo: ero l’unica ragazza che scriveva per gioco, per distrazione, sicuramente non per mestiere.

Eppure, dopo quel primo “che ci faccio qui?”, tutto ha iniziato ad andare in maniera assolutamente naturale. Fin dalla prima riunione c’è stata passione ma anche tanto divertimento. Immaginateci: noi 8, in un’aula X, che non sapevamo assolutamente cosa stavamo facendo. Man mano, però, in quella confusione, sono uscite fuori le prime idee, le prime bozze di scalette e poi le scalette vere e proprie, i primi format, le prime categorie.

E poi, lui: il nome. UniVersoMe. Non potrò mai dimenticare quando Gugliotta lo ha scritto sulla lavagna, spiegandoci il gioco di parole, il significato che c’era dietro.

Io, Alessio, Paolo, Bonjo, Daniele, Valerio e Salvo lo abbiamo approvato fin dal primo momento. Università verso Me. Me, Messina. Me, cioè io. Me stesso. E sicuramente, questo universo, non solo è arrivato fin da me, ma è diventato parte di me, ha preso una parte di me.

Questo nostro progetto è stato il motivo per cui, lo dirò sempre, non ho più fatto la domanda di trasferimento. È stato il motivo per cui ho deciso di dare una seconda possibilità a questa università e a questa città, scoprendo che ci sono tantissimi ragazzi che si spaccano il culo (scusate il francesismo) per questa nostra Messina, completamente abbandonata a sé stessa.

Sono cresciuta, insieme ad UniVersoMe: ho imparato la diplomazia, il sacrificio, i compressi, il gioco di squadra. Ho imparato a contenere meglio la rabbia quando sei frustata, perché le cose vanno male, perché la gente non recepisce… Chissà per quale motivo.

UniVersoMe è un percorso che consiglio ad ognuno di voi: è una palestra per il futuro, per i futuri speakers, per i futuri giornalisti, per chi vuole trovare degli amici che lo saranno per sempre. Certo, un po’ di censura bisogna metterla in conto, ma ne vale la pena. E, anche quando verrete criticati, perché la verità fa male e non tutti la accettano, potrete dire che Voi, la Voce dell’Università, avete portato a galla i problemi che ci sono, per aiutare l’università stessa. Non vi crederanno? Non fa niente. L’importante è credere nei propri ideali.

Ed è quello che ho fatto io. Ho creduto e portato avanti i miei ideali fino alla fine, sono stata, anche io, la voce (sgarbata e acida, direi) dell’università. Ed oggi, con questo punto finale, non posso fare altro che esserne fiera.

Arrivederci, UniVersoMe.

Grazie per ogni singolo articolo scritto, corretto, pubblicato; per ogni editoriale con cui ho potuto esprimere la mia scrittura, per le mie amate rubriche di Tempo Libero, Abbatti lo Stereotipo, Recensioni e Scienze&Ricerca.

Ciao, a tutti i miei colleghi, compagni, amici.

A Micalizzi, la nostra carotina autistica, il nostro primo referente generale, l’amico con cui ho passato un anno intero a piangere sui malloppi che ci trascinavamo in biblioteca quando andavamo a “studiare”.

A Giorgino, Bonjo, Pragma, Valerio, Barba; i miei ragazzi, la squadra migliore che potessi desiderare. Ognuno di loro, in un modo diverso ma assolutamente perfetto, mi hanno fatta sentire a casa, protetta e coccolata (questa unica piccola donnina) e, soprattutto, mai inferiore a loro. Loro sono stati la mia spalla su cui piangere, il mio mandare a fanculo le persone e rimetterle in riga senza contestare, gli amici che tutt’ora sono con me, che tra 4 giorni saranno con me in uno dei giorni più importanti.

A Gugliotta, il nuovo referente, che si ammazza giorno e notte per aumentare il livello (e che c’è Super Mario Bros?) della piattaforma nelle sue varie componenti, accettando il cambiamento a cui essa può e deve andare incontro ma senza mai mancare di rispetto a nessuno dei membri che ne fanno parte o agli ideali su cui è stata fondata. Lo fa per quanto il tempo, ed io ne so qualcosa, sia poco. Perché UniVersoMe è anche questo: tanto tempo da ‘’perdere’’, con il piacere di ‘’perderlo’’.

Noi 8: il consiglio fondatore. Questi sette stronzi qua sopra citati, credetemi, non ho parole per ringraziarli abbastanza per ciò che ho provato e che non dimenticherò mai. Per aver creato, insieme, chissà per quale assurdo motivo, un qualcosa per cui, qualsiasi sarà la sua storia, andrò per sempre fiera.

Ai nuovi ragazzi, il nuovo consiglio: Jessica, Arianna, Gianpaolo, Vincenzo e a chi prenderà il mio posto. È stato un piacere vedere come quella passione, che era stampata sulla faccia di noi “vecchi” (nerd), esiste anche nel cuore (e sulla faccia) di qualcun altro. E con certezza posso dire, non solo di aver trovato anche in loro degli amici ed una squadra, che faranno un ottimo lavoro, riuscendo ad arrivare sempre più alto.

A Claudio, referente radio, con cui, come cane e gatto, mi sono acchiappata svariate volte in scontri creativi (a dir poco) ma sicuramente costruttivi. Che dire, lui ha già lasciato il posto ai giovani, ma senza noi due, possiamo dirlo senza alcuna modestia, Radio UniVersoMe non sarebbe stata il canale di successo quale è.

A Giulia, referente grafica, che, vabbè, è diventata una sorella con cui condivido il sonno, i sogni, lo sport ed i nostri mondi un po’ sbilenchi ma così strapieni di… Oddio, di cose troppo complicate ma assolutamente stupende. Attraverso i suoi occhi, guarda dentro l’obiettivo della macchina fotografica e fa vedere il mondo come mai riuscireste a rappresentarvelo. Con la professionalità che poche persone hanno, io la ringrazio perché ha conquistato la mia stima ed il mio rispetto fino, addirittura, una parte del mio cuore.

A tutti i ragazzi della Radio (che ho già salutato un mesetto fa durante la mia ultima puntata), a tutti i ragazzi della Redazione, a chi si occupa dei Social con una puntualità disarmante, a chi arriva e se ne va, a chi arriva e rimane. Grazie a tutti.

E grazie a voi: che nel vostro piccolo mi avete letta ed ascoltata. Grazie se vi ho fatto ridere, se vi ho fatto commuovere, se vi ho fatto incazzare, se mi sono fatta odiare o apprezzare. Grazie perché siete voi le persone per cui abbiamo lavorato ogni giorno e siete il più grande premio che potessimo mai desiderare.

Grazie, perché ho il cuore pieno di emozione.

Elena Anna Andronico

Vaccini tumore-specifici, uno spiraglio di luce

Piccoli passi possibili: sono quelli che, progressivamente, l’immuno-terapia oncologia sembra capace di compiere nella lotta al tumore.

Si può facilmente consultare sulla rivista “Nature”,  l’esito positivo di una terapia sperimentale sviluppata in due distinti laboratori di ricerca, uno a Boston – Massachusetts, l’altro a Meinz – Germania. I due diversi team guidati rispettivamente da Catherine Wu ed Ugur Sahin, sono stati in grado di elaborare un vaccino anti tumorale specifico per i loro pazienti, tutti affetti da melanoma (= in questo caso le cellule malate sono quelle della pelle).

Gli studiosi hanno quindi sfruttato il razionale che sta alla base del comune vaccino – ovvero una soluzione contenente materiale biologico inattivo, o comunque, incapace di scatenare un’infezione violenta, assieme anche ad altre molecole coadiuvanti-  al fine di stimolare nel sistema immunitario una risposta anti-tumorale specifica. Come? Sfruttando l’evidenza per cui alcune componenti del nostro sistema immunitario (immaginatevelo come un qualcosa di molto più potente della stessa US. Army) sono in grado di riconoscere specifici antigeni presenti sulle nostre cellule, attivarsi (a determinate condizioni, sulle quali si gioca tutta l’attività dei ricercatori, fondamentalmente) e mandare in lisi le stesse.  Infatti, grazie alle ultime, assai versatili, tecnologie sviluppate negli ultimi anni, i ricercatori sono riusciti a sequenziare i geni codificanti per proteine nel tumore di ciascun paziente. Dopodiché sono stati attenti nello scegliere quelle proteine mutate che più verosimilmente avrebbero potuto determinare una risposta del sistema immunitario, utilizzandole, così, per preparare la base dei vaccini specifici.

Entrambi i gruppi di ricerca hanno quindi potuto concludere i loro lavori riportando l’esito positivo riscontrato nel trattamento del melanoma con questo mezzo assolutamente innovativo.

I risultati di queste ricerche, pertanto, dimostrano che “l’immunoterapia dei tumori sta facendo passi da gigante”, commenta Michele Maio, direttore del Centro di Immuno-oncologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Siena.  Anche Cornelius J.M. Melief, parte del dipartimento di Immuno-ematologia dell’Università di Leiden, conclude la sua presentazione al lavoro della Wu e Shain affermando: “Entrambe le ricerche confermano il potenziale di questo tipo d’approccio terapeutico al tumore, nonostante non si possa ancora parlare di validità assoluta, considerato il numero esiguo di pazienti coinvolti; il passo successivo sarà proprio continuare a provare con un maggior numero di partecipanti, in modo da poter stabilire con esattezza l’efficacia di questo trattamento terapeutico contro tutti quei tipi di cancro che producono abbastanza mutazioni da poter fornire sufficienti antigeni tumorali, necessari in questo tipo di approccio.

Ivana Bringheli

 

Malasanità, Errore Umano o Presunzione?

‘’Bimbo muore per otite’’

‘’Omeopatia uccide: bambino di 7 anni muore per otite’’

 

‘’Medico ammette: è stata colpa mia’’

‘’Muore a palermo per un intervento banale’’

Questi sono solo alcuni dei titoli che hanno invaso le testate giornalistiche e i media di tutta Italia. I due pazienti italiani non sono accomunati da niente, se non dalla stessa giornata che, purtroppo, segna la fine prematura della loro vita. E nemmeno i medici presi in causa hanno niente in comune se non, per il resto della loro vita, la domanda: ‘’potevo fare meglio?’’

Filippo Chiariello, 38 anni, era entrato in sala operatoria già timoroso. I familiari raccontano che in particolare aveva paura degli aghi. Il paziente era arrivato all’ospedale di Villa Sofia (Palermo) in emergenza, con dolori lancinanti allo stomaco. Dopo essersi sottoposto alla TC, il verdetto: calcoli alla colecisti, necessita un intervento in laparoscopia.

Il chirurgo ha alle spalle una carriera ventennale, nessuna ombra sul suo percorso, sa che questo tipo di intervento, senza complicanze, non dura più di 45 minuti. L’intervento inizia alle 17,30, introdotto il primo strumento chirurgico, il Trocar, viene erroneamente recisa l’aorta addominale e contemporaneamente perforato l’intestino. L’intervento viene convertito in un’operazione standard con il taglio chirurgico, il paziente ha però perso tantissimo sangue.

In tutta la città non è reperibile sangue del suo gruppo. Il paziente va in arresto cardiaco per tre volte, l’ultima volta per 40 minuti, c’è danno cerebrale. Sono passate più di otto ore. La mattina dopo alle 10.45 i medici dichiarano la morte cerebrale.

Francesco, 7 anni, ricoverato dal 24 maggio nella rianimazione dell’Ospedale Salesi (Ancona) a causa di un’otite curata con l’omeopatia invece che con gli antibiotici. Seguito da tre anni da un medico omeopata, a lui la madre e il padre si sono rivolti quando circa 15 giorni fa il figlio si è ammalato di otite bilaterale. Il bambino però peggiora, è sempre più debole, con la febbre che va e viene.

Fino alla notte del 23 maggio quando perde conoscenza. I genitori si precipitano all’ospedale di Urbino, dove una TC ha rivelato gravi danni al cervello. Viene tentato un intervento chirurgico per la rimozione dell’ascesso cerebrale, insieme a terapia antibiotica d’urto, ma le condizioni cliniche del bimbo non lasciano più speranze. Prima il coma, poi la morte cerebrale.

Sul piatto della bilancia, come già detto, ci sono due casi diversi, due medicine diverse.  Medicina tradizionale e medicina omeopatica.

Ci sono due medici. Uno che ha errato usando la medicina tradizionale, l’altro che ha errato usato la medicina omeopatica. Da questo punto in poi, il dibattito che si è susseguito in questi giorni è inarrestabile.

C’è chi si è schierato a spada tratta contro l’omeopatia, chi ha portato avanti le proprie idee a favore di essa. Chi non si è esposto, chi ha dato ragione ad un medico piuttosto che all’altro, chi ha urlato a gran voce la parola ‘’Malasanità’’.

La letteratura medica è un oceano infinito, che ogni giorno progredisce e si accresce. Nel campo medico non c’è qualcosa di completamente giusto o di completamente sbagliato. Non tutto funziona nello stesso modo per tutti, le stesse patologie non si presentano nello stesso identico modo in ogni essere umano.

Senza perder tempo, quindi, nell’analizzare quanto possa essere sbagliata o giusta una medicina piuttosto che un’altra, una corrente di pensiero piuttosto che un’altra, la vera domanda che bisogna porsi è: dove sta la presunzione e dove sta l’errore umano? A chi bisogna urlare malasanità e a chi no?

Questi due medici, rispettivamente, stanno iniziando un lungo percorso medico legale dove, alla fine, saranno o non saranno più medici.

La presunzione. La presunzione, nell’ambito medico, è un’arma a doppio taglio: può salvare un paziente oppure, insieme all’ego, può essere una trappola mortale. Una cosa è sicura: nessun medico può rischiare la vita di un altro essere umano. Lo giuriamo all’inizio della nostra carriera: ‘’Giuro, di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica”.

Da un lato, abbiamo un medico che, pur di difendere ad ogni costo le sue idee, il suo ego, il suo onore, ha ecceduto di presunzione e ha sbagliato. Le dinamiche interne non le possiamo sapere. Sappiamo, fin dal primo giorno, che le persone si fidano del camice bianco. Si fidano di quello che il camice bianco dice e consiglia.

I genitori, così tanto giudicati, hanno l’unica colpa di essersi fidati. Ma non di un pazzo medico che usa l’omeopatia, non si parla di questo perché, in alcuni casi, l’omeopatia è una medicina, per l’appunto, riconosciuta e con dei buoni range di applicazione. No. Di essersi fidati di un medico che, senza poterlo prevedere, ha messo se stesso prima di tutto, cercando di dimostrare, a chi o a cosa?, che il suo modus operandi andava bene. Un medico la cui presunzione chissà se e come verrà punita.

E poi c’è l’altro medico. Quel medico, quel chirurgo esperto, che, lui stesso dichiara, è uscito con la testa china, con le braccia basse, sconfitto, ed ha chiesto scusa ai parenti della vittima, sussurrando 3 parole: ‘’è colpa mia’’.

Parenti che, secondo le più grandi testate giornalistiche, hanno giurato fuoco e fiamme. Fuoco e fiamme contro un essere umano che, praticando il suo lavoro, quel lavoro che conosce così bene, ha errato. E, in questo campo, si sa, l’errore umano non è ammesso. Mai.

Che fine farà questo medico che ha ammesso di aver compiuto un errore? Potrà ancora fare il medico? Verrà punito più o meno dell’altro? Non essendo in una corte di giustizia, non è compito nostro rispondere. Rimane però il fatto che il suo errore, se ci si ferma a riflettere, non è del tutto suo.

Introdurre un Trocar, lo strumento che serve per gli interventi di laparoscopia, può portare questo tipo di conseguenze. I testi parlano chiaro: può capitare. E poi: ha funzionato correttamente lo strumento? O si è bloccata la leva cui è attaccato il bisturi? L’errore è umano o è dato da uno strumento difettoso?

E soprattutto: merita davvero tutto questo odio un medico che, fino alla fine, ha combattuto per il suo paziente, rispetto ad un medico che è rimasto seduto sulla sua sedia in collegamento telefonico con i suoi pazienti?

Quel che è certo è che da ora in poi questi due episodi si risolveranno nelle aule di tribunale. Un bambino, un padre di famiglia, coniugi, genitori e figli. Tutte vittime. La morte porta dolore, il dolore porta a riflettere, ma alla fine, esige silenzio.

Elena Anna Andronico

Alessio Gugliotta

Intelligenza artificiale ed androidi, cosa è fondamentale considerare.

E’ successo venti anni fa, più o meno in questo periodo: la prima “vittoria” del computer sull’uomo. Nel cuore di Manhattan il super computer Deep Blue progettato da IBM batteva in sole 19 mosse il più grande giocatore di scacchi, Garry Kasparov, chiudendo in modo sorprendente l’ultima di sei partite in un torneo combattutissimo, giocato proprio per dare alla macchina la possibilità di rivincita dopo la sconfitta subita appena un anno prima. Per non ripetere gli stessi errori al tavolo di gioco, i programmatori dell’azienda avevano potenziato il “cervellone” di Deep Blue rendendolo capace di analizzare 200 milioni di mosse al secondo.

Da allora, la cosiddetta intelligenza artificiale ha fatto passi da gigante, non solo nei giochi da tavolo: aziende come Google, Facebook, Amazon, Uber ed anche diverse case automobilistiche stanno investendo molte risorse e denaro per produrre software intelligenti ed abili nello svolgere compiti particolari. Non so se ricordate quanto fosse sgrammaticato il traduttore di Google fino a qualche anno fa, adesso non è perfetto, però, quantomeno, riesce a fornire una traduzione più o meno corretta.

Ma cos’è questa intelligenza artificiale e da dove è spuntata fuori?

Non è facile dare una definizione univoca di Intelligenza artificiale, perché nemmeno i cosiddetti addetti ai lavori riescono ad accordarsi a riguardo. In modo abbastanza prudente partirei col dire che per intelligenza, comunemente parlando, intendiamo l’insieme di capacità psichiche e mentali che permettono ad una persona di pensare, di comprendere azioni e fatti riuscendo a spiegarli tramite l’elaborazione di modelli astratti a partire dalla realtà. Questi processi, inevitabilmente, portano alla capacità di ottenere un qualche risultato, più o meno efficiente a seconda dei casi.

Ora, la prospettiva di riuscire, un giorno, a creare una macchina che potesse imitare il comportamento umano è emersa in diversi periodi storici, incrociando la mitologia, l’alchimia, l’invenzione degli automi e la fantascienza. E’ stato, però, il britannico Alan Turing nella metà del secolo scorso ad elencare i requisiti per definire “intelligente” una macchina. Nel suo “Macchine calcolatrici ed intelligenza” elaborò il test che oggi porta il suo nome, attraverso il quale un’intelligenza artificiale si rivelerebbe tale solo se riuscisse a convincere chi la sta utilizzando di avere a che fare con un persona e non con una macchina. Risulta evidente che da un test del genere l’osservatore può trarre una valutazione solo parziale; infatti un computer (come Deep Blue che ha battuto Kasparov) può essere considerato intelligente, ma al tempo stesso non avere le capacità di imitare in tutto e per tutto un essere umano ed il suo modo personalissimo di pensare.

Questa è un po’ la sfida (probabilmente “hybris”) della neo-robotica, di alcuni ingegneri cibernetici che nel mondo, lavorano per la realizzazione di robot che assomiglino sempre più a noi umani. Non solo li stanno dotando dei nostri sensi – comandi vocali, touch screen, naso e palato elettronici- ma pensano anche a realizzare degli inserti biologici. Sinapsi umane innestate nei loro hardware, tessuti epidermici creati in laboratorio con le staminali ( pratica già diffusa) con cui rivestire i nuovi robot che potranno essere chiamati a buon diritto (e certo!) androidi, cioè robot umanoidi. Una volta arrivati a questo punto, credo che il salto antropologico più inquietante sarà convincersi che gli androidi possano essere veramente delle persone.

Ma Boezio insegna che persona è “sostanza individuale di natura razionale”. Riescono a svolgere calcoli complicatissimi, a stoccare il campione mondiale di scacchi, ad eseguire azioni con possibilità di errore quasi infinitesimale. Non saranno forse meglio di noi?

In realtà i robot elaborano, non pensano. Ed elaborano perché è stato l’uomo prima a programmarli. Siri, software di assistenza e riconoscimento vocale di Apple, risponde alle tue domande su traffico, meteo, indicazioni stradali e altro ancora. Ma Siri pesca nel suo database l’informazione più corretta. Non può, per esempio, non risponderti e se non lo fa significa che qualche circuito è saltato, non certo per sua propria sponte! E’ una macchina e non può che obbedire alle leggi fisiche del determinismo meccanico che possono, però, essere manipolate dall’uomo. Quindi, per quanto si possa progredire e migliorare nella realizzazione di robot che mimino le capacità umane, essi non saranno altro che una copia di atti in cui brilla la scintilla dell’intelligenza umana. Inoltre, in quanto macchine, non potranno mai avere un’anima razionale perché l’anima è immateriale e, dunque, non può essere fabbricata artificialmente in laboratorio ed infusa in un robot.

Come al solito, si tratta di non assolutizzare mai le conquiste della ricerca e dei progressi tecnologici, perché altrimenti, quella che potrebbe essere un’opportunità per rendere più abitabile questa terra, potrebbe rivelarsi un disastroso tentativo di auto-affermazione da parte dell’uomo, l’ennesimo mito di Prometeo che, puntualmente, si ripete nella storia.

“Est modus in rebus; sunt certi denique fines quos ultra citraque nequit consistere rectum”

Orazio (68-5 a.C.), Satire I, 1, vv. 106-107 –

[Esiste una misura in tutte le cose; ci sono, cioè, dei confini ben precisi oltre i quali, mai, dovrebbe spingersi il giusto.]

Ivana Bringheli

Può una chiamata provocare un tumore?

Recentemente un dipendente di Telecom si è ammalato di neurinoma, un tipo di tumore benigno a carico del sistema nervoso. Purtroppo una volta sottopostosi all’asportazione del nervo acustico, è diventato sordo. La persona in questione ha visto riconosciuto il danno professionale e ottenuto un risarcimento, in quanto il tribunale di Ivrea ha ritenuto plausibile il collegamento tra l’uso intenso del cellulare per lavoro e l’insorgere del tumore. Pochi giorni dopo il tribunale di Firenze è arrivata a simile conclusione per un altro lavoratore. In passato c’è stata un’altra sentenza simile risalente al 2009 a Brescia.

Innanzitutto c’è da dire che una sentenza di tribunale non è un riconoscimento scientifico: dopo queste sentenze non abbiamo nessun elemento in più per valutare se esista o meno una correlazione tra l’uso dei cellulari e i tumori. I giudici decidono con criteri differenti da quelli scientifici, la domanda a cui devono rispondere è se la persona danneggiata dal tumore abbia o meno diritto ad un indennizzo, o all’invalidità professionale, cosa che dipende solo parzialmente dalle nostre conoscenze sul legame causale.

Il principale lavoro di rassegna sull’argomento è quello svolto dall’IARC, che, nel 2013, ha classificato le esposizioni alle onde radio dei telefoni cellulari come “possibili cancerogeni” (categoria 2b). L’articolo analizza in dettaglio tutti gli studi disponibili, sia epidemiologici sia su animali che in vitro, trovando una debole evidenza relativa a due tipi di tumori, il glioma e, appunto, il neurinoma acustico.

Su quasi un centinaio di studi analizzati dall’IARC, metà dei quali scartati per scarsa qualità, solo pochissimi mostrano un aumento dell’incidenza di tumori. Questi sono stati svolti indipendentemente e il gruppo di ricercatori ha ottenuto gli stessi risultati solo in alcuni dei lavori. Gli studi in vitro non mostrano in generale effetti, se non a potenze molto elevate, in grado di produrre un riscaldamento apprezzabile dei tessuti.

C’è da aggiungere che non esiste alcun effetto fisico noto che possa giustificare un’azione delle onde radio, alle frequenze alle quali siamo più esposti, sui tessuti viventi e sul DNA, che dovrebbe essere alla base dei risultati osservati nei pochi studi che ne evidenziano.

Per tutte queste ragioni l’IARC ha ritenuto che gli studi in vitro o su animali non forniscano evidenze utilizzabili per valutare la cancerogenicità delle onde radio, e si è focalizzata sugli studi epidemiologici. Di questi, i soli che hanno mostrato alcuni effetti, sono relativi al neurinoma e al glioma.

In sintesi il centro di ricerca ha constatato che esiste una possibilità che il cellulare causi un neurinoma (o un glioma), ma è improbabile che questa possibilità sia reale. Nelle conclusioni si sottolinea inoltre che la decisione sulla classificazione come “possibile” (ma non “probabile”) cancerogeno è stata presa a maggioranza, con una consistente minoranza che optava per una classificazione in categoria 3, “cancerogenicità non valutabile”. Questi ricercatori sottolineavano come tutti gli studi di popolazione mostrano che tutti i tumori considerati, inclusi i neurinomi, non sono assolutamente aumentati nel tempo, nonostante la rapida diffusione dell’uso dei cellulari.

Va sottolineato come la valutazione dell’IARC si riferisca solo al collegamento tra uso intenso del cellulare e alcuni tumori cerebrali, in pratica solo il glioma e il neurinoma. Sono esclusi gli effetti dovuti a wireless, wifi, ripetitori, bluetooth, e anche l’uso normale del cellulare, e tutti i tumori differenti da quelli esplicitamente indicati. Ovviamente questo non ci deve in alcun modo far arrivare a conclusione che tali onde causino tumori cerebrali.

In generale non vi è alcuna  conoscenza sui possibili effetti, al nostro organismo, causati da questa enorme mole di nuove tecnologie. Queste si stanno diffondendo molto velocemente e sempre di più le utilizziamo quotidianamente. Unico modo per poter evitare un’eccessiva esposizione è la presa di alcuni accorgimenti: utilizzare il cellulare attraverso gli auricolari e utilizzarlo in ambienti in cui il segnale sia alto, così da minimizzare le onde rilasciate dallo strumento. Infine non fa di certo male smettere di utilizzarlo in continuazione: a pranzo, al cinema, durante una passeggiata, al bar, al mare…ogni tanto cercate di dimenticarlo.

Francesco Calò