Le ultime scoperte a Pompei gettano luce sulla quotidianità del tempo

Rinvenuto un pilentum con l’utilizzo di tecniche di precisione

Il pilentum (fonte: avvenire.it)

Pompei stupisce ancora e, sicuramente, continuerà a farlo, considerando i 20 ettari di terreno ancora da indagare. Qualche giorno fa è stato rinvenuto quello che secondo il parere degli archeologi è un pilentum, un carro da parata. Questo si potrebbe dire esser simile a una moderna macchina di rappresentanza. Non se ne era ancora mai rinvenuto uno in Italia, ma nelle fonti antiche molte erano le citazioni al riguardo.

Il ritrovamento è avvenuto nei pressi della villa suburbana di Civita Giuliana, una dimora 700 metri a nord di Pompei, fuori dalle mura dell’antica città, dove recentemente si stanno concentrando gli scavi. In un punto adiacente, nel 2018, erano stati ritrovati dei resti di cavalli e pochi mesi fa i anche quelli di due uomini, probabilmente un aristocratico e un servo. Il carro si trovava all’interno di un porticato a due piani della villa. A rendere eccezionale il ritrovamento, oltre la rarità, è l’ottimo stato di conservazione, che permette agli esperti di scoprire altri dettagli della quotidianità dei pompeiani del 79 d. C..

A comunicare la scoperta è stata la Sovrintendenza archeologica, attraverso la propria pagina Facebook:

“Sin dal momento della sua individuazione, lo scavo del carro si è rivelato particolarmente complesso per la fragilità dei materiali e le difficili condizioni di lavoro; si è quindi dovuto procedere con un vero e proprio microscavo condotto dalle restauratrici del Parco, specializzate nel trattamento del legno e dei metalli. Parallelamente, ogni volta che si rinveniva un vuoto, è stato colato del gesso per tentare di preservare l’impronta del materiale organico non più presente. Così si è potuto conservare il timone e il panchetto del carro, ma anche impronte di funi e cordami, restituendo così il carro nella sua complessità.”.

Il riempimento di vuoti con gesso per i calchi, è stato, dunque, sfruttato per ricostruire l’impronta di materiali organici sepolti dalla cenere dell’eruzione e non più rinvenibili, quali le funi, le tracce dei cuscini della seduta e persino di due spighe di grano.

Il lavoro di precisione sul pilentum (fonte:napolitoday.it)

Proprio quest’ultime, secondo Massimo Osanna, potrebbero far capire molto sull’uso del pilentum; dovrebbero far riferimento al culto di Cerere, dea romana del raccolto venerata a Pompei insieme a Venere. È stata, quindi, avanzata l’ipotesi che lì potesse vivere una sacerdotessa di questi culti, o che il riferimento possa essere al tema dell’eros, per fare un augurio di fertilità per una coppia di neosposi, poiché le spighe sul sedile potrebbero essere l’indizio di un matrimonio celebrato da poco o che era pronto per essere celebrato.

Contrastare l’attività dei tombaroli

Il Parco Archeologico di Pompei ha collaborato con la Procura della Repubblica di Torre Annunziata per questa campagna di scavo, avviata nel 2017, in seguito a un protocollo di intesa sottoscritto nel 2019, finalizzato al contrasto delle attività illecite nell’area. Dunque, lo scavo in corso ha un duplice intento. L’intenzione di rinvenire importanti reperti è stata accompagnata dalla cooperazione alle indagini della Procura, per bloccare le azioni di depredamento del patrimonio culturale da parte di persone – “tombaroli” – che nella zona hanno scavato diversi cunicoli per intercettare i tesori archeologici.

Il carro è scampato al furto per poco: due passaggi sotterranei erano stati scavati proprio adiacenti ai bordi del reperto, ma fortunatamente non è stato toccato.

Gli scavi, quindi, hanno permesso di verificare anche l’estensione dei cunicoli e i danni perpetrati al patrimonio. Nel mentre è stata costantemente effettuata un’attività di messa in sicurezza e restauro di quanto emergeva di volta in volta. Notevole la complessità del lavoro tecnico da effettuare, in quanto gli ambienti da indagare sono in parte al di sotto e a ridosso delle abitazioni moderne, con conseguenti difficoltà sia di tipo strutturale che logistico.

I dettagli del pilentum

Il pilentum – come già detto – un grande carro su quattro alte ruote, è stato portato alla luce nella sua quasi integrità, con i suoi elementi in ferro, le bellissime decorazioni in bronzo e stagno, i resti lignei mineralizzati, ma anche con le impronte degli elementi organici, come corde e resti di decorazioni vegetali. Un ritrovamento eccezionale, non solo perché aggiunge nuove informazioni sulla storia di questa dimora, al racconto degli ultimi istanti di vita di chi la abitava, e, più in generale, alla conoscenza del mondo antico, ma soprattutto perché restituisce un reperto unico per il contesto italiano e per di più in ottimo stato di conservazione, capace di restituire le tracce anche degli elementi organici, i più facili ad andar presto perduti.

Nello specifico, la struttura del carro si presenta così: le ruote sostengono un leggero cassone, con una seduta per una o due persone, contornata da braccioli e schienale in metallo. Le fiancate del carro sono decorate con pannelli lignei, dipinti di rosso e nero, e lamine bronzee intagliate; sul retro vi sono medaglioni in bronzo con figurine in stagno applicate – ritraenti satiri, ninfe, amorini, a tema erotico. Analisi di archeologia botanica hanno decretato che per il carro sono stati usati almeno due tipi di legname, frassino – elastico e leggero – per la struttura e le ruote, e faggio come supporto alle decorazioni.

L’ultima grande scoperta era stata quella dell’antico fastfood

In ottimo stato di conservazione è anche il termopolio (thermopolium in latino) finito di scavare pochi mesi fa, individuato nel 2019. Questo potrebbe esser definito come una sorta di tavola calda o fastfood del tempo. Si affacciava su una piazzetta della Regio V – una delle nove zone in cui era divisa Pompei – poco distante dal “vicolo dei Balconi” e dalla “via della Casa delle Nozze d’Argento”, di fronte alla cosiddetta “Locanda dei gladiatori”.

Sulla parte frontale del bancone da lavoro, vi erano le raffigurazioni di un cane al guinzaglio, di un gallo, di due anatre germane a testa in giù – pronte per essere consumate – di nature morte e anfore. Per gli archeologi non ci sarebbero dubbi: si tratta di un menù, raffigurato sul bancone per essere sempre a disposizione degli avventori. Qui si legge anche un insulto, probabilmente inciso da un cliente e rivolto a un certo Nicia, definito come un “invertito cacatore“. Forse si tratta del padrone del negozio, un liberto di cui il nome lascia presuppore l’origine greca.

Il “menù” del termopolio (fonte: avvenire.it)

 

Dettaglio di una ninfa (fonte: napoli.repubblica.it)

Quest’ultime scoperte ci permettono di ricordare quanto importante sia la ricerca archeologica, spesso costretta ad esser effettuata in condizioni di lavoro difficilissime e con pochi strumenti, rallentando la ricostruzione del passato. E’ spesso lasciata all’ultimo posto tra gli interessi del nostro Paese, il “Bel Paese”, per far spazio ad altre esigenze irrinunciabili. L’inestimabilità del nostro patrimonio artistico-culturale, meriterebbe più possibilità, vista l’importanza che nei secoli ha avuto la nostra penisola, casa di molti popoli e culla di fiorenti movimenti culturali e artistici. il centro del mondo per moltissimo tempo.

Dal quel tragico 79 d. C. di tempo ne è passato, ma i rinvenimenti come quelli del pilentum e del termopolio ci ricordano che, in realtà, quelle persone sono molto più simili a noi di quanto ci aspetteremmo e che sono soprattutto le “piccole” cose quotidiane a definirci e lasciare traccia del nostro passaggio nel mondo.

 

Rita Bonaccurso

 

Largo San Giacomo: dalla Storia allo scavo

E’ l’estate del 2000 quando il Comune di Messina finanzia uno scavo con l’intento di svuotare dall’acqua la cripta della Cattedrale. A quest’opera di bonifica, tuttavia, si deve anche un altro merito: l’aver riportato alla luce una cripta settecentesca, edificata sui resti della Chiesa consacrata a San Giacomo Apostolo.

Le carte storiche di Messina, come la planimetria effettuata da Gianfrancesco Arena dopo il terremoto del 1783, confermano l’esistenza della struttura dietro al Duomo, e la vedono inglobata in un caseggiato alle sue spalle verso Est.

A causa della falda acquifera affiorante, non è stato possibile approfondire gli studi sullo scavo, ma si ipotizza l’edificazione dell’opera normanna intorno alla seconda metà dell’ XI e XII secolo; a sostegno di questa ipotesi, troviamo alcuni particolari stilistici, quali i pilastri che separano la navata, la tecnica di costruzione delle mura e la pavimentazione povera, aspetti che la avvicinano molto ad altre opere di periodo normanno, come la Chiesa di Santa Maria della Valle, comunemente conosciuta come “ ‘a Badiazza”.

Nel corso della sua storia, la Chiesa subì numerosi restauri dovuti anche ai frequenti straripamenti del torrente San Giacomo, scorrente in quella zona della città fino al 1548, anno in cui gli Spagnoli eressero una nuova cinta di mura. Tra il XV e il XVIII secolo, possono essere collocate le numerose sepolture rinvenute sotto i pavimenti: secondo i dati fornitici da Gallo, solo nel 1753 verrà costruita una vera e propria cripta per i defunti, identificabile in quella rinvenuta nel 2000.

 

Di questa cripta, grazie agli scavi odierni, è possibile distinguere chiaramente alcune parti restanti, fra cui dei particolari sedili forati: sono i cosiddetti colatoi. Per capire la loro funzione, dobbiamo rifarci all’usanza, diffusissima in Sicilia e in tutto il Meridione in generale, in particolare lungo il XVIII sec., della scheletrizzazione naturale dei cadaveri. Questa pratica antica, che oggi non potremmo fare a meno di definire decisamente macabra, bene si inquadra nel solco delle tradizioni tipicamente meridionali legate al culto dei defunti, come ad esempio la mummificazione, anch’essa praticatissima in Sicilia (si pensi al cimitero dei Cappuccini di Palermo o alle, più vicine, mummie di Savoca).

Nel caso della scheletrizzazione, però, i cadaveri venivano rivestiti con i loro abiti migliori e lasciati, in posizione seduta (grazie all’aiuto dei fori che tutt’ora è possibile vedere), a decomporsi naturalmente nelle apposite nicchie, finchè non ne rimanevano solo le ossa, che venivano a quel punto raccolte e messe in appositi ossari. Questo rituale, che agli occhi del lettore moderno potrà sembrare persino ripugnante, era all’epoca ammantato di un preciso significato religioso, legato al tema della caducità delle cose terrene, tanto che in alcuni luoghi era previsto che dei membri del clero, o anche i parenti stessi del defunto, si recassero periodicamente a visitare i colatoi per pregare e meditare sulla morte; come si può intuire, si trattava di una usanza tutt’altro che salutare, tanto che in vari modi nel corso degli anni le autorità provarono, spesso invano, a scardinarla. 

 

 

 

La primitiva Chiesa medievale era completamente sotto terra, proprio per questo se ne perse la memoria. Tuttavia, al suo interno, era contenuto qualcosa che ne conferma l’esistenza: un antichissimo marmo, oggi custodito nel Museo Regionale di Messina, che si pensa rappresenti l’apoteosi di un eroe o il mito di Icaro.

Sappiamo con certezza che, nella prima metà dell’Ottocento, la chiesa era ancora aperta al culto. Solo dopo, la sede parrocchiale fu trasferita nella chiesa della Madonna dell’Indirizzo e poi nella chiesa Santa Caterina Valverde. L’antica chiesa non esisteva più dal 1902, al suo posto si trovava la casa del Cav. Ruggero Anzà.

Con il terremoto del 1908 la Chiesa della Madonna dell’Indirizzo e la Chiesa di Santa Caterina furono distrutte. Vent’anni dopo, oltre il Torrente Zaera, fu edificata una chiesa in nome di San Giacomo Apostolo, la prima in muratura aperta al culto. Il nuovo complesso parrocchiale, in stile neoromanico, sorge sul primo comparto dell’isolato 54, delimitato dalle vie Reggio Calabria, Buganza, Napoli e Lombardia ed occupa un superficie di mq 1345 circa. Tra i tanti restauri, l’ultimo venne effettuato negli anni 1977-1978.

Fino a poco tempo fa godere dello spettacolo che questo scavo offre, era praticamente impossibile a causa di una distesa di verde dalla crescita incontrollata e di montagne di spazzatura. Oggi, fortunatamente, grazie ai volontari di “PuliAMO Messina” con l’affiancamento della Soprintendenza ai beni culturali e della direttrice dell’Orto Botanico, è stato restituito al monumento il proprio valore storico-culturale.

Erika Santoddì

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco