Differenze di genere e COVID-19: confronto della malattia tra uomo e donna

Questo lungo anno ha reso evidente la presenza di importanti differenze interindividuali nelle manifestazioni della malattia da Coronavirus: alcuni soggetti vanno incontro a una sintomatologia più grave mentre altri a una semplice sindrome simil-influenzale o addirittura rimangono asintomaticiIl concetto si applica anche alla risposta alle terapie farmacologiche: non sempre le cure funzionano.

Questo è senza dubbio motivo di angoscia sia per i pazienti che per i familiari, ma la scienza sta facendo sempre maggior chiarezza sulle basi di questo meccanismo. Una delle principali motivazioni è da ricercare nel corredo genetico ed enzimatico proprio della persona. Di fronte a tutte queste differenze viene da chiedersi: uomini e donne reagiscono in modo diverso al SARS-CoV-2?

Punti chiave

  1. Chi viene colpito di più?
  2. ACE2, di cosa si tratta
  3. Interazioni con il virus: perché le donne potrebbero essere protette?

Chi viene colpito di più?

Sembra proprio che gli uomini siano più propensi a contrarre il virus e a sviluppare delle complicanze anche gravi. Ma perché? Le ragioni potrebbero essere tra le più disparate, per esempio una maggiore (per ora) propensione al tabagismo nella popolazione maschile.

Altra spiegazione invece la si può trovare nella più pronta risposta del sistema immunitario femminile nel bloccare l’infezione. Tuttavia è stato anche ipotizzato anche un coinvolgimento di un enzima, ACE2, che regola l’attività di un sistema chiamato RAS.


ACE2: di cosa si tratta

Il RAS, o sistema renina-angiotensina-aldosterone, regola la pressione del sangue e la volemia (il volume di sangue nel nostro corpo) essendo a pieno titolo uno dei meccanismi più importanti per il mantenimento della stabilità dell’organismo. Se la pressione si abbassa e/o si riduce la volemia, il rene rilascia in circolo un enzima chiamato renina, il quale convertirà una proteina epatica, l’angiotensinogeno, in angiotensina I. L’angiotensina I potrà a sua volta essere trasformata in altri intermedi, in un processo finemente regolato. Tra i vari enzimi che prendono parte a queso processo c’è proprio ACE2.

Sistema RAS – Fonte: Journal of Clinical Pathology

È un enzima attivo ed espresso in molti tessuti, in particolare, la sua concentrazione è alta nei polmoni, nel rene, nei vasi e nel cuore. La funzione principale di ACE2 è di degradare la angiotensina II, uno degli ormoni deputati al controllo pressorio, che aumenta la forza di contrazione del cuore e la frequenza cardiaca. ACE2 lavora in opposizione a un altro enzima, detto semplicemente ACE, che al contrario favorisce la vasocostrizione. Nei polmoni inoltre, questo enzima metabolizza oltre l’angiotensina anche altre molecole ed è proprio qui a livello dell’apparato respiratorio che si gioca il suo ruolo.

È stato scoperto infatti che una concentrazione aumentata di angiotensina possa peggiorare la sintomatologia da COVID19, favorendo l’accumulo di liquidi nei polmoni.

Interazioni con il virus: perché le donne potrebbero essere protette?

Si è visto che il SARS-CoV-2 per entrare all’interno delle cellule polmonari ha bisogno di legare proprio ACE2Questo porterebbe a pensare che avere una concentrazione alta di questo enzima-recettore sia sfavorevole, in quanto predispone maggiormente all’infezione. 

Così non sembra, in quanto le donne, che grazie agli estrogeni esprimono in maggior misura ACE2, molto spesso manifestano l’infezione in maniera più lieve. Ciò accade perché l’enzima metabolizza l’angiotensina in eccesso, impedendole di provocare danni. Viceversa gli ormoni androgeni svolgono un ruolo opposto.

L’ipotesi di ACE2 come protezione nasce da quanto osservato nei neonati venuti alla luce durante la pandemia.  In Cina hanno appurato che, nella seconda parte della gravidanza, nelle donne aumenta l’espressione di ACE2.
Secondo questi studi, attraverso la circolazione feto-placentare, l’enzima potrebbe essere trasferito al feto, proteggendolo dal virus.
Ovviamente, anche quest’ultima ipotesi è ancora tutta da dimostrare, ma se così fosse si spiegherebbe perché i neonati in particolar modo non sono molto propensi a sviluppare forme gravi della malattia.

Non ci sono ancora certezze in questo campo ma saranno necessari ulteriori studi per approfondire quello che potrebbe essere un altro passo alla comprensione di questa malattia.

Maria Elisa Nasso

Covid: cortisone arma a doppio taglio, ecco i nuovi dati

Fin dall’inizio della Pandemia mondiale, numerosi sono stati i tentativi di districarsi nella cura più appropriata per la nuova patologia causata dal SARS-CoV-2. È stata impiegata una gran varietà di farmaci, ma nel tempo le evidenze hanno dimostrato una scarsa efficacia di molti degli approcci terapeutici tentati.

Particolare rilievo è stato dato ad una “vecchia”, ma sempre attuale, classe di farmaci, ovvero i cortisonici. Tali farmaci hanno ricevuto un’elevata attenzione mediatica e vengono presentati come una possibile panacea nel trattamento domiciliare precoce della malattia.

Negli ultimi mesi si sta addirittura assistendo ad un vero scontro tra alcuni medici e le autorità sanitarie. I primi grandi fautori dei cortisonici già alle prime avvisaglie di malattia, le seconde, seguendo le evidenze scientifiche disponibili, consigliano di andare cauti e ne scoraggiano un uso smodato.

Ma qual è la verità? Il cortisone va o non va utilizzato nel trattamento del Covid?

Una recente meta-analisi fatta dai ricercatori italiani, tra cui il prof. Alberto Zangrillo, ha cercato di far luce sull’argomento.

Crediti immagine: Trialsitenews.com

Vai subito al punto

1. Premessa: cosa fa il virus al nostro organismo?
2. Come si è curato il Covid finora?
3. Il cortisone quindi si può usare? La Meta-analisi
4. Perchè ad alcuni pazienti il cortisone fa bene, ad altri no?
5. Conclusioni

Premessa: cosa fa il virus al nostro organismo?

Una volta contratta l’infezione attraverso l’inalazione di droplets (piccole goccioline in cui è disperso il virus), esso penetra nei nostri organi attraverso il recettore ACE2.

Questo recettore è presente in molteplici tessuti, tra cui i polmoni. Nei polmoni, nei casi gravi si viene ad instaurare una polmonite interstiziale (sia perché il virus si riproduce, che per l’attacco del sistema immunitario), che fa sì che si “ispessiscano” i polmoni, rendendo difficili gli scambi gassosi. Questo è il motivo per cui molti pazienti necessitano di ventilazione assistita e di ossigeno.

Crediti immagine: Frontiersin.org

Nei casi ancora più gravi il virus stimola a tal punto il sistema immunitario da causare una tempesta citochinica (le citochine sono molecole dell’infiammazione). Queste citochine fanno sì che si instauri una Sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), per via dell’ulteriore “ispessimento” dei polmoni, rendendo di fatto impossibili gli scambi gassosi.

Per ultimo, ma non per importanza, il SARS-CoV-2 riesce pure a determinare (sempre attraverso l’infiammazione) un’aumento della coagulabilità del sangue, che porta alla formazione di microtrombi che occludono i vasi. Si possono occludere sia i vasi polmonari che altri vasi del corpo, determinando infarti, ictus, embolie polmonari, petecchie.

Come si è curato il Covid fino ad ora?

La terapia per i malati Covid, varia a seconda della gravità della malattia. Nei pazienti con pochi sintomi basta un’attenta osservazione per poi intervenire in caso di peggioramento.

Nei pazienti più gravi si è utilizzata una terapia di supporto, che consiste nel mantenere quanto più normali possibili tutti i parametri vitali. Ossigenazione in caso di insufficienza respiratoria, gestione della pressione arteriosa, ecc.

Gli unici farmaci attualmente approvati sono il Remdesivir ed il Desametasone, oltre ad antiaggreganti o anticoagulanti per i soggetti con rischio cardiovascolare. In emergenza sono stati approvati anticorpi monoclonali che però necessitano ancora di ulteriori studi.

Il cortisone quindi si può usare? La Meta-analisi

Che i cortisonici (in particolare il desametasone) fossero efficaci nel trattamento della malattia, è stato dimostrato. Tuttavia, dallo studio effettuato dai ricercatori italiani e pubblicato il 28 Novembre 2020 sulla rivista scientifica Journal of Cardiothoracic and Vascular Anesthesia, è emerso che è bene usarli SOLO IN ALCUNI CASI.

Fonte: Corticosteroids for Patients With Coronavirus Disease 2019 (COVID-19) With Different Disease Severity

Analizzando infatti cinque studi (criticamente selezionati tra 1168 articoli) con un totale di 7692 pazienti, i ricercatori sono giunti alle seguenti conclusioni:

  • Nei pazienti così gravi da richiedere ossigenoterapia, l’uso di desametasone ha portato ad una riduzione della mortalità del 6%;
  • mentre nei pazienti sintomatici, ma che non richiedevano ossigeno, l’uso di desametasone ha portato ad un incremento della mortalità del 4%.

Queste percentuali sembrano basse, ma considerando i milioni di malati Covid al mondo, una più chiara applicazione della giusta terapia può salvare migliaia di vite.

Perchè ad alcuni pazienti il cortisone fa bene, ad altri no?

La domanda sorge spontanea, la spiegazione risiede nella patogenesi della malattia.

Abbiamo visto infatti che in fase iniziale l’infezione da SARS-CoV-2 si localizza a livello delle alte e basse vie aeree. Questa, nei casi migliori, andrà incontro a guarigione grazie all’azione del sistema immunitario. Nelle prime fasi dell’infezione l’utilizzo di un farmaco come il desametasone potrebbe ridurre l’attività infiammatoria di difesa del sistema immunitario. Si potrebbe rischiare infatti di rendere vano il tentativo del nostro organismo di proteggerci dall’infezione, peggiorando l’evoluzione della malattia.

Nei casi invece dove i pazienti richiedono ossigeno, si è probabilmente innescata una eccessiva risposta infiammatoria a livello polmonare, che ha ridotto la capacità di scambio gassoso dei polmoni. In questo caso il razionale dell’utilizzo del desametasone è quello di frenare un sistema immunitario troppo vivace, che ha determinato la gravità della malattia.

Sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS). Crediti immagine: Wikipedia

Conclusioni

A dispetto di quello che millantano alcuni medici, fautori di una precoce terapia con cortisone, le evidenze scientifiche dicono il contrario.

UN USO PRECOCE DI DESAMETASONE IN PAZIENTI CHE NON HANNO BISOGNO DI OSSIGENO, POTENDO ABBASSARE LA RISPOSTA IMMUNITARIA E FAVORIRE LA REPLICAZIONE VIRALE,  AUMENTA DEL 4% LA MORTALITÀ.

La medicina, come tutte le scienze, non è esatta. Prima di arrivare alla scoperta di una malattia, di una cura per essa, sono necessari migliaia di studi di migliaia di ricercatori.

Diffidate dunque da chi, usando come stendardo il proprio titolo, cerca di fare scoop usando le vostre paure. Nella scienza non esistono né cure immediate, né miracoli, ma risposte basate su evidenze che pian piano ci fanno progredire.

Chi vi propone la cura miracolosa, nel migliore dei casi sbaglia, nel peggiore è in malafede, cercando guadagni o notorietà sfruttando la paura del cittadino, che nelle parole sicure (anche se false) dell’esperto trova conforto per la sua malattia.

Perfino alcuni premi Nobel in altri ambiti hanno commesso enormi errori di giudizio. Pensiamo ad esempio a Lui Montagnier, Nobel per la scoperta dell’HIV, diventato negli ultimi anni un convinto no-vax, nonostante il resto degli scienziati del mondo sia a favore dei vaccini.

Cortisone sì – cortisone no, dopo mesi di analisi dei dati e trial clinici, finalmente abbiamo una risposta abbastanza certa.

Fidiamoci della scienza, non dei singoli. Essa è frutto del lavoro di milioni di persone di scienza, che giorno dopo giorno con molta autocritica cercano di giungere a conclusioni sempre più precise. I miracoli, non appartengono alla scienza, ma ai ciarlatani.

Roberto Palazzolo 

Vaccino Johnson&Johnson presto disponibile: dati sull’efficacia, tempistiche e prospettive future

Dopo l’approvazione in America, il vaccino del colosso statunitense si prepara a sbarcare anche in Europa, come riportato dall’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) in una nota che annuncia una riunione straordinaria per l’11 Marzo. Studiato per essere conservato anche in frigorifero e somministrato in singola dose, mantenendo comunque un’alta efficacia, potrebbe rappresentare una svolta nella campagna vaccinale. Ripercorriamo insieme le tappe della produzione e dello studio del vaccino e analizziamo le informazioni finora a disposizione sul prodotto e le indiscrezioni sui tempi reali di commercializzazione. Continua a leggere “Vaccino Johnson&Johnson presto disponibile: dati sull’efficacia, tempistiche e prospettive future”

Varianti del nuovo coronavirus: quanto dobbiamo preoccuparci?

  1. Le varianti
    1. La variante inglese
    2. La variante brasiliana
    3. La variante sudafricana
  2. Perché è importante tenerle sotto controllo?
  3. E i vaccini?
  4. Quanto dobbiamo preoccuparci?

I virus mutano.
Questa è una realtà con cui la comunità scientifica è stata costretta a confrontarsi sin dagli albori della loro scoperta.
Ma mai come adesso quelle piccole variazioni nella sequenza genetica fanno tremare le ginocchia.
Quando il vaccino è stato annunciato, il mondo è entrato in una nuova fase, fatta di speranze e desiderio di scrollarsi di dosso questa interminabile pandemia.
L’ombra delle varianti di SARS-CoV-2 però si è presto abbattuta sulle campagne vaccinali, smorzando l’allegria generale e seminando incertezza.
Molti si sono chiesti, a giusta ragione: quanto dobbiamo preoccuparci?

Le varianti

Ad oggi le varianti saltate agli onori della cronaca sono tre. Cercheremo di riassumerne brevemente le caratteristiche:

  • La variante inglese, B.1.1.7, con un numero inusuale di mutazioni, in particolare nel dominio che lega il recettore (RBD) della proteina spike in posizione 501.
    Si diffonde molto più velocemente delle altre, ma non c’è alcuna evidenza (supportata da uno studio) della sua maggior letalità. Questa variante è stata scoperta a settembre 2020 ed ha già infettato un cospicuo numero di individui.
  • La variante brasiliana chiamata P.1, scoperta in due viaggiatori all’aeroporto di Haneda in Giappone. Ha un set di mutazioni che potrebbero inficiare il suo riconoscimento da parte degli anticorpi.
  • La variante sudafricana chiamata B 1.351, scoperta intorno a ottobre, ha alcune mutazioni in comune con quella inglese pur essendo insorta indipendentemente.

Queste varianti di coronavirus si diffondono molto più velocemente rispetto alle altre e si teme possano provocare una impennata dei casi, così come successo in Gran Bretagna nelle prime settimane di gennaio.
Ripetiamo, non è tuttavia chiaro se queste varianti siano correlate a una maggiore mortalità o morbilità.

Perché è importante tenerle sotto controllo?

Le conseguenze dell’insorgenza di nuove varianti sono ben intuibili, prima tra tutte una maggior rapidità di penetrazione all’interno della popolazione generale.
Maggior penetranza significa nuovi casi e più si allarga il bacino di pazienti, più probabilità ci sono che aumenti la pressione sugli ospedali.
Un’altra, giusta, preoccupazione degli scienziati è che il virus mutato riesca ad evadere la risposta anticorpale dell’organismo, montata in seguito al vaccino o ad una precedente infezione.
La prudenza non è mai troppa, vista la natura a volte aggressiva della malattia.

E i vaccini?

Chiaramente non ci sono ancora trial clinici che possano verificare l’efficacia al 100% degli attuali vaccini sulle nuove varianti.
Le case farmaceutiche stanno cercando di capire se queste mutazioni, a volte minime, a volte più corpose, come nel caso della variante inglese, possano inficiare l’immunizzazione di massa.
Moderna in particolare è fiduciosa sull’efficacia del proprio vaccino sia nei confronti di B.1.1.7 che di B 1.351, mentre Pfizer ha per ora rilasciato dati solo riguardo B.1.1.7.

Quanto dobbiamo preoccuparci?

Tendere l’orecchio alle notizie che arrivano dalla comunità internazionale non è mai sbagliato, ma farsi prendere dal panico è controproducente.
Come già affermato, le mutazioni attuali del SARS-CoV-2 sono troppo esigue per mettere davvero a repentaglio la funzionalità di questi nuovi vaccini.
Nel caso peggiore, avendo già alle spalle un anno di studi e conoscendo l’intera sequenza genetica sia del ceppo originario che delle varianti, non dovrebbe essere un problema sintetizzare, se necessario, dei nuovi vaccini.
Tutto questo avviene già per il virus dell’influenza stagionale, che ogni anno protegge contro i ceppi più frequenti e virulenti, sempre diversi tra loro.
Importante sarà certamente la ripresa, il prima possibile, della campagna di vaccinazione di massa, una volta risolti i problemi con le case farmaceutiche, ma lasciamo questa discussione ad altre sedi.

 

Maria Elisa Nasso

Reazioni avverse al vaccino per il covid, qual è la verità?

Che dall’inizio del 2020 ci sia stata una vera e propria corsa alla scoperta del vaccino per il SARS-cov-2, è sotto gli occhi di tutti.
Fin dai primi mesi dell’epidemia, la nostra rubrica si è occupata di informare i lettori sugli sviluppi relativi alla ricerca.
Ci sembra giusto, a ridosso dell’imminente arrivo delle dosi anche negli ambulatori italiani, fare chiarezza nel mare di informazioni fuorvianti che, purtroppo, a volte arrivano anche da persone “di scienza”. 

Partiamo dal principio: com’è composto il materiale genetico del SARS-cov-2?

Il nuovo coronavirus è un beta-coronavirus. Una volta infettata la cellula ospite, la utilizza per sintetizzare le proprie proteine.
Le proteine, a loro volta, replicano il genoma virale, in questo caso l’RNA a singolo filamento, e si assemblano in nuove particelle di virus. Praticamente il virus sfrutta la cellula ospite come una catena di montaggio per creare nuove copie di se stesso.
Nonostante ci siano ancora molti sostenitori di questa teoria, SARS-cov-2 non si integra nel genoma cellulare e non lo modifica, poiché non possiede una proteina fondamentale chiamata trascrittasi inversa.
La trascrittasi inversa trasforma l’RNA in DNA, ma è propria soltanto di alcuni retrovirus e batteri, che nulla hanno a che vedere con il nuovo coronavirus.
Questa proteina inoltre, è assente anche nelle cellule umane.

Quanti vaccini ci sono e come sono stati realizzati 

Al momento sono tre i vaccini candidati a condurre l’occidente fuori da questo periodo buio: quello della Pfizer, quello della Moderna e quello della Astrazeneca.
Tutti quanti hanno raggiunto la fase tre della sperimentazione (su un bacino di almeno 40000 volontari a testa) e sono dunque pronti, dopo le dovute autorizzazioni, ad essere immessi sul mercato. I vaccini Pfizer e Moderna utilizzano la tecnica ad mRNA, mentre Astrazeneca è il classico vaccino a vettore, ma l’antigene comune a tutti è sempre la proteina Spike del SARS-CoV-2.
Sui primi due sono nate molte perplessità, alcune fondate, altre assolutamente fuori da qualunque logica. Cercheremo quindi di spiegare in parole semplici come funzionano.

Cos’è la tecnologia a RNA messaggero?

L’mRNA contiene le istruzioni per la sintesi di nuove proteine.
Di solito trasporta le informazioni genetiche del DNA fino al citoplasma, dove queste sono usate per assemblare le proteine.
Un processo fondamentale, a cui l’organismo è abituato.
Una volta somministrato il vaccino, le cellule ricevono l’mRNA incapsulato in particelle lipidiche e questo viene utilizzato per replicare la suddetta proteina Spike.
Da sola essa è innocua, poiché manca tutto il resto del virus, ma è abbastanza per stimolare la risposta del sistema immunitario.
Successivamente, quando il soggetto incontrerà il SARS-cov-2, avrà già gli anticorpi per combatterlo prima che causi la malattia.
Questo processo di realizzazione è più veloce, più semplice e meno costoso di quello tradizionale, e potrà aprire la strada all’utilizzo degli mRNA anche nella cura di altre malattie.

Reazioni avverse ai vaccini: attenzione agli allarmismi

Tra i tanti dubbi che la pandemia ci ha lasciato, una cosa è certa: ha inasprito ancora di più le divergenze e i dissapori all’interno della comunità scientifica.
Alcuni hanno visto la malattia da coronavirus come un modo per guadagnare popolarità attraverso dichiarazioni discutibili.
Come sempre, invitiamo i nostri lettori a fare dei controlli incrociati sulle notizie, anche se sembrano arrivare da fonti illustri.
Ogni farmaco, ogni sostanza che viene somministrata non è esente da rischi, ma bisogna saper discernere tra ciò che è verosimile e ciò che non lo è.

Infertilità femminile

Ad oggi non esiste alcuna evidenza di una correlazione tra l’infertilità femminile e il vaccino per il SARS-cov-2 . L’idea si era diffusa a partire da un articolo, oggi disponibile solo in archivio, che ipotizzava la presenza di analogie tra la proteina Spike (usata come antigene nei tre vaccini) e la sincitina umana.
La sincitina è una proteina implicata nello sviluppo della placenta.
La preoccupazione era che ci potesse essere una risposta anomala del sistema immunitario contro di essa, scatenata dal vaccino.
Il punto, però, è che queste proteine non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra a livello biochimico.
Inoltre, se ci fosse un vero legame tra infertilità e cross reazione di Spike e
sincitina, questo dovrebbe avvenire anche con la malattia da coronavirus, ma così non è.

Risposta immunitaria eccessiva e modificazioni genetiche

Una reazione da amplificazione della risposta immunitaria era già stata ipotizzata, vista la natura stessa della patologia da coronavirus. I test clinici però non hanno mostrato questo effetto.
Sempre lo stesso articolo parlava di una sostanza presente nel vaccino, il polietilen-glicole, capace di scatenare una reazione autoimmune.
Il Peg, però, è presente in moltissimi farmaci e vaccini clinicamente approvati e, in egual modo a ogni sostanza esistente, può provocare reazioni allergiche in soggetti predisposti.
Se ci fossero reazioni allergiche frequenti a questo componente, sarebbero venute alla luce molto prima del suo utilizzo nel vaccino del SARS-cov-2. 

Tiriamo le somme

Perché alcune persone subiscono degli effetti collaterali?
Alcuni, come la febbre, sono dovuti alla stimolazione del sistema immunitario.
Per quanto riguarda quelli più gravi, possono essere causati da variazioni genetiche, o da una particolare predisposizione dell’individuo.
Altri ancora hanno un meccanismo non ben chiarito.
Sappiamo anche di non poter prevedere la presenza di effetti a lungo termine, ma questo è un rischio intrinseco a ogni vaccino, a ogni farmaco, se vogliamo.

Ci sentiamo però di dire, per rassicurare i lettori, che le segnalazioni di reazioni gravi durante i trial clinici sono state ben poche.
Inoltre, queste reazioni avvengono solitamente in tempi molto brevi a partire dalla somministrazione.
Sembra dunque improbabile che si verifichino problematiche future correlate al vaccino.
Non vi è alcuna volontà delle case farmaceutiche a mettere in commercio un prodotto nocivo, che potrebbe scatenare su scala mondiale una enorme richiesta di risarcimenti.
In ultimo, dalla scoperta dei vaccini in poi, la medicina ha compiuto dei balzi in avanti inimmaginabili in termini di sicurezza ed efficacia.
Ribadiamo, come sempre, l’invito ad informarsi solo da fonti attendibili e a mantener salda, o recuperare, la fiducia nella scienza.

Maria Elisa Nasso

Vaccini COVID-19: non solo Pfizer, ma necessari tempo e cautela

Immagine tratta da Società Italiana di Farmacologia

Una soluzione semplice ad un fenomeno così complesso, come la pandemia da SARS-nCOV-2, farebbe gola a molti. Il vaccino, talvolta figlio di un profondo scetticismo, ma fondamentale strumento della sanità pubblica moderna, potrebbe permettere di dimenticare un virus che non conosce confini o classi sociali. Ciò garantirebbe un pieno e completo ritorno alla normalità. Ma il vaccino non è affatto una soluzione semplice, al contrario di come si potrebbe pensare: infatti, dietro ogni formulazione farmaceutica, ci sono anni di tentativi e ricerca scientifica. Nonostante gli annunci positivi che si susseguono non si tratterà probabilmente neanche di una soluzione immediata, con buona pace di chi pensava di impostare un conto alla rovescia.

Ad ogni modo, mai come in questo periodo, l’attività di ricerca scientifica e farmaceutica sta convergendo verso lo stesso obiettivo: ovvero il trattamento e la prevenzione dell’infezione da parte del Coronavirus. Sono infatti in corso oltre 3000 studi per il trattamento e la gestione della malattia. Per quanto riguarda la prevenzione si contano undici vaccini in fase finale di sperimentazione e cerca 150 in fase di valutazione preclinica. Stupiscono in particolare gli sforzi che si stanno compiendo per rendere i percorsi di approvazione più rapidi, a fronte dei circa dieci anni normalmente richiesti affinché un farmaco venga messo in commercio.

Sviluppo di un farmaco: come si sta tentando di accelerare il percorso di approvazione

NEJM – Accelerating Development of SARS-CoV-2 Vaccines

Normalmente, come rappresentato nell’immagine, lo sviluppo, la sperimentazione, l’approvazione e la produzione in larga scala di un farmaco richiedono tempi difficilmente compatibili con una pandemia che può sconvolgere la società in tempi, invece, molto brevi. Lo sviluppo preclinico, ovvero quello che si fa in laboratorio, può richiedere, da solo, anni. A ciò si aggiunge lo studio del farmaco sull’uomo (che si articola in tre diverse fasi), l’approvazione da parte degli enti regolatori (FDA in America, EMA in Europa) e la produzione e distribuzione commerciale. Tutto ciò può richiedere normalmente anche più di dieci anni.

Come gestire quindi la pandemia da Coronavirus? Le parole chiave sono idee collaudate, sovrapposizione e anticipazione. Riguardo al vaccino, infatti, tutte le formulazioni si basano su un’idea di base già nota che permette di ridurre la durata della fase preclinica, come vedremo successivamente.

Lo sviluppo clinico, che vien effettuato sull’essere umano, è anch’esso più breve. A ciò si sovrappone, in caso di risultati incoraggianti, un inizio anticipato della produzione in larga scala che permetterà una distribuzione immediata dopo l’approvazione da parte degli enti regolatori. Questi ultimi, una volta conclusi gli studi, possono impiegare anche svariati mesi per approvare definitivamente la commercializzazione: è lecito attendersi che nel caso della pandemia COVID-19 anche tale fase risulterà molto più rapida.

Analizziamo le tappe che hanno condotto alcuni dei vaccini più promettenti ad essere molto vicini all’approvazione e alla successiva commercializzazione.

Moderna: un vaccino ad RNA per sconfiggere il Coronavirus

Uno dei vaccini giunti ad una fase molto avanzata di sperimentazione è quello di Moderna, azienda biotecnologica statunitense. Impegnata dal 2010 nello sviluppo di farmaci e successivamente, dal 2014, nella progettazione di vaccini. L’azienda basa la sua ricerca su particolari molecole. chiamate RNA messaggeri, che entrano all’interno delle singole cellule, rendendole capaci di esprimere delle proteine virali. Il sistema immunitario del paziente riconosce queste proteine , immunizzandosi anche nei confronti del virus.

La tecnologia utilizzata, in studio già da molti anni, ha permesso di ridurre la durata delle fasi precliniche. Dal prototipo prodotto a Febbraio, già a Luglio i primi risultati hanno evidenziato l’effetto positivo del vaccino nel controllare l’infezione in 24 esemplari di macaco rhesus, un primate non umano. Anche i primi risultati su esseri umani sani (fase 1) sono ottimistici, con una risposta immunitaria ottenuta in tutti i partecipanti ed effetti collaterali definiti come moderati o lievi (dolore nel sito di inoculo, mialgie, spossatezza, febbre). Non sono stati segnalati gravi effetti collaterali.

Ad Ottobre è stato completato il reclutamento di 30000 partecipanti per la terza e ultima fase di sperimentazione, i cui risultati preliminari sono attesi in un periodo prossimo. L’approvazione potrebbe avvenire entro la fine del 2020, con una campagna vaccinale che si svolgerebbe nel corso del 2021.

Ad ogni modo l’azienda non ha mai, in passato, ottenuto risultati importanti con la tecnologia ad RNA: il vaccino rappresenterebbe, infatti, il primo successo di Moderna. Le premesse ci sono tutte, attendiamo la conferma da parte dei dati preliminari.

Pfizer & BioNTech: altro vaccino a RNA dai risultati preliminari incoraggianti

Il progetto condiviso tra Pfizer, multinazionale farmaceutica, e BioNTech, azienda biotecnologica tedesca, si concretizza nel mese di Maggio. Nella prima fase clinica vengono messe alla prova due formulazioni contenti RNA messaggeri, sfruttando la stessa strategia biologica di Moderna. I primi risultati hanno identificato nella versione BNT162b2 del vaccino il principale candidato per le fasi successive della sperimentazione. Nel mese di Luglio è stato annunciata l’inizio della fase 3 dello studio clinico che prevedeva il reclutamento di 30.000 partecipanti, successivamente ampliati a 43.000. In seguito alla somministrazione di due dosi di vaccino, si sarebbe dovuto attendere che un numero statisticamente sufficiente di partecipanti si infettasse casualmente col virus per valutarne l’efficacia.

Nel mese di Settembre Pfizer annuncia che dei risultati preliminari significativi si sarebbero avuto entro il mese di Ottobre. L'(ex) presidente Trump sfrutta la notizia affermando che un vaccino sarebbe stato approvato entro il mese di Novembre. Affermazione presto smentita da uno dei responsabili dello studio.

Qualche giorno fa, l’8 Novembre, l’azienda pubblica un’analisi dei primi 94 casi di infezione, di cui soltanto nove su soggetti vaccinati, e 83 su non vaccinati. Questo porta l’efficacia di protezione al 90%, con un numero di casi significativo per presentare i risultati agli enti regolatori per un’iniziale valutazione. Gli effetti collaterali segnalati sono stati soltanto moderati o lievi (mal di testa, dolore al sito di inoculazione, mialgie, o febbre), senza nessun effetto collaterale grave.

Gi enti regolatori, in un periodo di tempo variabile ma auspicabilmente breve, valuteranno in maniera indipendente l’efficacia e il profilo di sicurezza del vaccino. Nel frattempo lo studio proseguirà (fino al 2022) per ottenere dati statisticamente significativi, cosa che potrebbe accadere in breve tempo (servono poco più di 150 infezioni). Il vaccino dovrebbe raggiungere la popolazione nel corso del 2021. L’accordo iniziale prevede una fornitura iniziale di 200 milioni di dosi per l’Unione Europea, 100 milioni per gli Stati Uniti e 120 milioni per il Giappone.

Sfortunatamente i vaccini ad mRNA tendono ad essere instabili, infatti dovrà essere conservato a -70 °C fino al momento prima dell’inoculazione. Questo potrebbe determinare dei problemi logistici, ma si stanno già cercando di costruire delle “catene del freddo” che possano garantire la distribuzione.

AstraZeneca e Università di Oxford: un virus ingegnerizzato che protegge dal Coronavirus

La scienza alla base di questo vaccino, come abbiamo visto già per altri, non è frutto di una scoperta recente ma risale a due decenni fa. Negli anni 2000 gli scienziati della Merck (altra multinazionale farmaceutica) lavoravano ad un vaccino basato su un virus di scimpanzé (nello specifico, un adenovirus). Il progetto fu abbandonato e ripreso proprio ad Oxford, dove fu brevettato allo scopo di sviluppare vaccini in futuro.

Dopo l’isolamento del Coronavirus gli scienziati dell’Università lavorarono fin da subito ottenendo un risultato chiamato ChAdOx1, candidato agli studi clinici. La strategia biologica prevede di rendere innocuo l’adenovirus e modificarlo aggiungendo dei “frammenti” di SARS-CoV-2 che stimolano il sistema immunitario del paziente a produrre una risposta antivirale.

L’università realizza trova la soluzione per lo sviluppo commerciale attraverso un accordo con l’azienda AstraZeneca. Nel mese di Maggio vengono pubblicati i risultati iniziali relativi alla somministrazione del vaccino su scimmie macaco rhesus che dimostrano l’efficacia nel prevenire la polmonite da SARS-CoV-2.

I dati su essere umano non tardano ad arrivare: nel mese di Luglio 2020 vengono pubblicati i risultati dello studio di fase 1/2 su 1077 partecipanti di cui la metà hanno ricevuto il vaccino. C’è la conferma di una risposta antivirale con lo sviluppo di anticorpi (molecole che legano il virus riducendone le capacità infettive) e anche di una risposta cellulare del sistema immunitario.

I risultati sono positivi anche per le persone più anziane, inclusi gli over 70. Questo dettaglio è di fondamentale importanza in quanto la risposta immunitaria è generalmente più facile da ottenere in soggetti giovani.

Lo studio di fase 3 è in corso in varie parti del mondo, con 30.000 partecipanti. Nel mese di Settembre l’azienda ha interrotto tutti i test relativi al vaccino per approfondire un potenziale effetto collaterale insorto in uno dei partecipanti. In studi clinici così estesi non è raro avere delle battute di arresto per effetti avversi. Tuttavia un comitato di scienziati indipendenti ha analizzato l’evento ed è emerso che il volontario aveva ricevuto il placebo. Nel mese di Ottobre tutti gli studi sono ripresi e in attesa dei primi risultati entro il mese di Dicembre.

Già a Giugno l’Italia, insieme a Francia, Germania e Olanda, ha firmato un accordo con AstraZeneca che garantirà 400 milioni di dosi da fornire gratuitamente ai cittadini.

Johnson & Johnson: l’unico vaccino in fase avanzata che prevede una sola dose

Anche la Johnson & Johnson, azienda farmaceutica statunitense, sfrutta un sistema simile a quello di AstraZeneca. Si tratta infatti di un adenovirus ingegnerizzato, il cui sviluppo iniziò già una decade fa da parte dei ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston.

Gli studi iniziali con singola dose su scimmie dimostrano l’immunogenicità del vaccino che garantisce una protezione quasi completa nei confronti dell’infezione polmonare da SARS-CoV-2.

I primi risultati nell’uomo sembrerebbero essere altrettanto promettenti, con una risposta immunitaria potenzialmente efficace già dopo due settimane dalla singola dose.

Nel mese di Luglio inizia la fase 3, che prevede 60.000 partecipanti. Il trial è stato momentaneamente sospeso nel mese di Ottobre e poi successivamente ripreso. L’Unione Europea ha recentemente siglato un accordo per assicurare fino a 400 milioni di dosi di vaccino disponibili.

Una volta approvato il vaccino non otterremo “tutto e subito”

Approvare e commercializzare il vaccino non significherà comunque raggiungere e immunizzare tutta la popolazione in tempi brevi. I problemi sono vari: ci sono, per esempio, limiti logistici relativi alla capacità delle stesse aziende di produrre una sufficiente quantità di dosi in breve tempo. Anche la distribuzione potrebbe essere difficoltosa: basti pensare, come detto prima, alle formulazioni che devono essere mantenute a basse temperature per garantirne la stabilità.

Ci sono anche limiti di natura politica ed economica: non tutti gli stati avranno la capacità di assicurarsi il vaccino in tempi brevi. Inoltre, data per scontata l’efficacia, potrebbero crearsi delle zone nel pianeta in cui la popolazione non avrà la possibilità di essere vaccinata (Paesi più poveri o remoti) che potrebbero fungere da “incubatori naturali” del virus. L’iniziale fase di distribuzione sarà comunque probabilmente dedicata a soggetti fragili e agli addetti ai lavori. Ciò potrà garantire una riduzione della mortalità e dei ricoveri, e contenere il fenomeno dei contagi in ambito ospedaliero e sanitario.

Sarà da valutare anche la durata dell’immunizzazione. Il virus ha infatti un comportamento subdolo e sembrerebbe avere la capacità di reinfettare soggetti che hanno contratto la malattia precedentemente. La scienza dietro ai vaccini ha come obiettivo quello di garantire un’immunizzazione più duratura che possa proteggere almeno per tutta la stagione invernale. I soggetti che hanno ricevuto le dosi nelle prime fasi cliniche sono costantemente monitorati per ottenere dati temporali sull’immunità acquisita.

Altro limite potrebbe essere dettato anche dall’aderenza della popolazione alla campagna vaccinale. A Giugno l’Università Cattolica pubblica uno studio in cui si stima che il 41% della popolazione si dichiara poco o per niente propensa a ricevere una futura vaccinazione. Saranno necessarie campagne di sensibilizzazione al fine di ottenere percentuali di copertura sufficienti a limitare la circolazione del virus.

Sebbene la ricerca medica e farmaceutica sia riuscita a raggiungere traguardi impensabili in periodi di tempo così brevi ad oggi non è comunque possibile fornire date o scadenze certe. Il vaccino rischia di essere strumentalizzato economicamente e politicamente, ma una cosa è certa: soltanto una distribuzione equa che raggiunga l’intera popolazione lo renderà efficace. Nel frattempo, senza farsi troppe illusioni, seguiamo l’evoluzione del fenomeno che ci riserverà sicuramente delle sorprese positive.

Antonino Micari

Sars-Cov-2 nelle acque reflue di Milano e Torino da Dicembre 2019: studio in fase di pubblicazione

Secondo le varie fonti scientifiche i primi casi di Covid-19 si sono verificati in Cina tra ottobre e novembre 2019, per poi aumentare esponenzialmente intorno agli inizi di gennaio e diffondersi nel resto del mondo.
Ma è proprio questo il nodo cruciale: quando esattamente è iniziato il contagio negli altri Paesi?
Si sarebbe potuto evitare?
Il sospetto che il nuovo coronavirus fosse arrivato nel nostro Paese prima del famoso “paziente zero” ha più volte sfiorato le menti dei ricercatori, ma all’atto pratico ancora nessuno è riuscito a venire a capo di questo enigma.
Una risposta potrebbe arrivare dallo studio della presenza del virus nelle acque reflue di alcune delle città più colpite.

Lo studio

Tra i primi a effettuare queste analisi sono stati i ricercatori spagnoli, con il prelievo e lo studio delle acque reflue di due impianti di trattamento di Barcellona.
I risultati dimostravano la presenza di materiale genetico del Sars-Cov-2 già in campioni risalenti al 12 marzo 2019. Se la scoperta si rivelasse attendibile, potrebbe essere molto utile per tracciare il percorso che il virus ha seguito nella sua diffusione.
Questo vorrebbe inoltre dire che molti contagiati avrebbero potuto avere i sintomi della Covid-19 ma essere scambiati per semplice influenza.
Casi passati in sordina ma che adesso potrebbero pesare come macigni.

Veniamo a noi

Secondo uno studio in fase di pubblicazione, nelle acque reflue di Milano e Torino sono state ritrovate tracce del virus a dicembre 2019.
Lo studio ha previsto l’analisi di alcuni campioni prelevati tra dicembre 2019 e gennaio 2020 e altri di controllo, prelevati in un periodo antecedente al presunto inizio della pandemia.
I risultati, hanno evidenziato presenza di RNA di SARS-Cov-2 nei campioni prelevati nelle suddette città, così come a Bologna.
Nelle stesse città sono stati trovati campioni positivi prelevati nei mesi seguenti, mentre i campioni di ottobre e novembre 2019, come pure tutti i campioni di controllo, hanno dato esito negativi.

Le dichiarazioni dei ricercatori

“Dal 2007 con il mio gruppo portiamo avanti attività di ricerca in virologia ambientale e raccogliamo e analizziamo campioni di acque reflue prelevati all’ingresso di impianti di depurazione” spiega Giuseppina La Rosa del Reparto di Qualità dell’Acqua e Salute del Dipartimento di Ambiente e Salute dell’Istituto Superiore di Sanità, che ha condotto lo studio in collaborazione con Elisabetta Suffredini del Dipartimento di Sicurezza Alimentare, Nutrizione e Sanità pubblica veterinaria. “Lo studio – prosegue La Rosa –  ha preso in esame 40 campioni di acqua reflua raccolti da ottobre 2019 a febbraio 2020, e 24 campioni di controllo per i quali la data di prelievo (settembre 2018 – giugno 2019) consentiva di escludere con certezza la presenza del virus. I risultati, confermati nei due diversi laboratori con due differenti metodiche, hanno evidenziato presenza di RNA di SARS-Cov-2 nei campioni prelevati a Milano e Torino il 18/12/2019 e a Bologna il 29/01/2020

Questo cosa comporta?

Ovviamente il ritrovamento del virus non implica che le catene di trasmissione principali che hanno portato all’epidemia nel nostro Paese si siano originate proprio da questi primi casi.
Adesso non è ancora il momento delle certezze, tuttavia, una rete di sorveglianza sul territorio può rivelarsi preziosa e questo studio che è stato condotto ha posto le basi per mettere in atto degli interventi di controllo dell’epidemia.
Come afferma Luca Lucentini, direttore del Reparto Qualità dell’Acqua e Salute “Passando dalla ricerca alla sorveglianza sarà indispensabile arrivare ad una standardizzazione dei metodi e dei campionamenti poiché sulla positività dei campioni incidono molte variabili quali per esempio il periodo di campionamento, eventuali precipitazioni metereologiche, l’emissione di reflui da attività industriali che possono influire sui risultati di attività ad oggi condotte da diversi gruppi”.
Attendiamo dunque fiduciosi nuovi sviluppi nel campo della ricerca, poiché il tempo al momento è l’unico che potrà dirci in che direzione andrà questa seconda parte del 2020.

Maria Elisa Nasso

Covid-19: cosa accade nelle terapie intensive

In questi giorni di quarantena che sembrano interminabili, scanditi da bollettini della protezione civile e dai telegiornali, si sono diffuse molte immagini provenienti dai reparti in cui si trovano i pazienti affetti da SARS-CoV-2.
I soggetti più gravi, che non riescono a ventilare autonomamente, vengono trasferiti in dei settori speciali chiamati terapie intensive.
Ma cosa sono questi reparti?
Come si evince dal nome si tratta luoghi in cui vengono ricoverati coloro che necessitano di attenzioni e cure speciali come per esempio il supporto delle funzioni vitali.


Di cosa dispone un reparto di terapia intensiva?

Solitamente ogni posto letto è dotato di un ventilatore meccanico autonomo, un defibrillatore, un impianto di aspirazione e un infusore, tutto il necessario per far fronte a qualsiasi emergenza.
Si è parlato tanto ultimamente della mancanza di spazio in questi reparti e la ragione sta proprio nella complessità delle apparecchiature richieste e nella difficoltà nel reperirle in tempi brevi.
Le terapie intensive italiane, infatti, non erano state progettate per sostenere un’epidemia di così vasta portata.

Vite sospese

Molti si chiedono come sia la permanenza in ospedale per i pazienti che hanno contratto il nuovo coronavirus. Molti sono intubati e sedati e dalle foto che ogni tanto trapelano, condivise sui social, spesso li si vede riversi a pancia in giù.
Questa posizione apparentemente innaturale ha generato delle domande nella popolazione del web e anche, a volte, paura per qualcosa che non capita di vedere spesso.
Ma perché i pazienti vengono pronati?

La pronazione

C’è un motivo per cui la pronazione è preferita rispetto alla supinazione nel trattamento dei pazienti con insufficienza respiratoria.
Uno studio del 1976 ha dimostrato un miglioramento nella ventilazione nei pazienti che vengono pronati, con un incremento della sopravvivenza del 10-17%.
La ragione del miglioramento è da ricercarsi nel reclutamento di aree polmonari prima non ventilate o dallo spostamento della perfusione dalle aree non ventilare a quelle ventilate.
Adesso, sorge spontanea un’altra domanda: perché il nuovo coronavirus ha costretto al ricovero di così tante persone in terapia intensiva?

La polmonite interstiziale

Il Covid-19 è un virus dalle manifestazioni multiformi: la presentazione clinica può variare da asintomatica a un lieve raffreddore fino a una polmonite interstiziale con grave insufficienza respiratoria. È proprio quest’ultima la ragione della pericolosità del patogeno, unita alla sua elevata contagiosità.
La gravità del quadro clinico nei pazienti appare subito evidente se si dà uno sguardo agli esami radiologici: 

  • nelle prime fasi si evidenziano delle opacità dette “a vetro smerigliato”, bilaterali, per aumento dello spessore del tessuto polmonare, e un ispessimento dei setti alveolari.
  • successivamente, queste opacità si estendono a tutto il polmone, arrivando nel tempo a consolidarsi grazie all’azione del virus stesso.

Questa situazione può prendere due strade, quella della risoluzione e quindi della guarigione o, purtroppo, quella della Sindrome da Distress Respiratorio Acuto.

Altre indagini strumentali

Molto utile si sta rivelando la TC del torace, considerata l’esame di scelta per lo studio del Covid-19, soprattutto nelle fasi iniziali, che mostrano sempre quelle aree di consolidamento e opacità disposte prevalentemente nei lobi inferiori e posteriori.
Tuttavia, questi sono reperti aspecifici, ritrovabili in altri quadri patologici.

L’ecografia invece, è strettamente riservata all’utilizzo da parte dei medici che lavorano in terapia intensiva perché prevede un contatto molto stretto tra operatore e paziente, oltre a richiedere una certa esperienza.

Si può prevedere l’andamento della malattia?

Purtroppo ad oggi, pur con le conoscenze che abbiamo acquisito in tempi da record, non è possibile sapere se un paziente andrà incontro a insufficienza respiratoria o meno.
L’unico parametro affidabile sembra essere la storia clinica pregressa della persona e le sue eventuali patologie, ma ogni giorno la ricerca fa un piccolo passo verso la risoluzione di questo enigma che è il SARS-CoV-2.
Si spera quindi che presto le terapie intensive diventino un luogo di speranza e di vita e non di morte.

 

 

Maria Elisa Nasso

Covid-19: il rischio per bambini e donne in gravidanza

In uno scenario mondiale in cui la pandemia di COVID-19 desta preoccupazioni e miete nuove vittime sono molte le questioni lasciate irrisolte. Tra queste, la convinzione speranzosa che la SARS-CoV2 non colpisca i pazienti di età pediatrica. Ma, è proprio così? 

La malattia da COVID-19 (o malattia respiratoria acuta da SARS-CoV2) è una condizione patologia su base infettiva eziologicamente associata al virus SARS-Cov2, che comporta da un punto di vista clinico:

  1. Un quadro asintomatico;
  2. Un quadro sintomatico con febbre, tosse secca, astenia, mialgie, congestione nasale, vomito, diarrea. Nei casi più severi: polmonite, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale.

La COVID-19, che ha reso l’Italia il Paese con il maggior numero di contagi dopo la Cina, colpisce meno frequentemente i pazienti di età pediatrica. Tale caratteristica accomuna il SARS-CoV2 con il SARS-CoV (responsabile della SARS, nel contesto della quale non furono registrati morti tra bambini ed adulti di età posta al di sotto dei 24 anni). Il più grande studio cinese nell’ambito di COVID-19, pubblicato su JAMA l’11 febbraio, riportava determinate cifre significative: dei 44.672 casi confermati all’identificazione del genoma virale sul tampone, solo meno dell’1% era associato a pazienti di età al di sotto dei 10 anni. Attualmente in Italia tra i contagiati:

  • meno dello 0,5% presenta un’età compresa tra 0 e 9 anni;
  • meno dell’1% presenta un’età compresa tra 10 e 19 anni.

Il minor numero di contagi in età pediatrica può essere associato:

  1. A fattori esterni: la popolazione di età pediatrica, rapportata alla popolazione adulta, è meno esposta a luoghi che potrebbero favorire la rapida diffusione del virus quali treni, aerei, stazioni, aeroporti;
  2. A fattori intrinseci al sistema immunitario. Secondo studi recenti la popolazione pediatrica presenta una resistenza intrinseca al SARS-CoV2 per una maggior espressione della risposta immunitaria innata e per una minor espressione dei recettori indicati con l’acronimo di ACE2 (Angiotensin-converting enzyme 2),  evenienza che deriva da uno studio condotto nel 2006 sui topi. Il SARS-CoV2 lega tale recettore per invadere sia gli elementi cellulari polmonari che altri distretti (cuore, mucosa del cavo orale, mucosa del distretto gastrointestinale, distretto epatobiliare).

I bambini rappresentano vettori per la trasmissione dell’infezione?

I pazienti di età pediatrica possono comunque infettarsi, risultando dei vettori per la trasmissione dell’infezione, motivo per il quale uno dei provvedimenti, precocemente messo in atto dal governo cinese e successivamente italiano, comprende la chiusura delle scuole. I pazienti di età pediatrica possono di fatto ammalarsi, anche se meno frequentemente rispetto ai pazienti di età adulta, presentando nella maggior parte dei casi sintomi lievi e/o moderati. 

La COVID-19 si manifesta con gli stessi sintomi nei pazienti adulti e pediatrici?

Secondo i dati raccolti dal Children Hospital di Wuhan, l’infezione sintomatica da COVID-19, comprende:

  1. Tosse (65% dei casi);
  2. Febbre (60% dei casi);
  3. Diarrea (15% dei casi);
  4. Scolo mucoso in retrofaringe (15% dei casi);
  5. Rantoli (15% dei casi);
  6. Distress respiratorio (5% dei casi);
  7.  Linfopenia  (35% dei casi);
  8. La TC del torace mostra immagini simili a quelle rilevabili in età adulta: aree di addensamento a livello subpleurico, con caratteristiche a vetro smerigliato, oppure aree di addensamento caratterizzate da alone infiammatorio circostante; la quasi totalità dei casi presenta, tuttavia, un quadro radiologico lieve.

COVID-19 e gravidanza: che rischio corre il feto?

Nelle scorse settimane un neonato londinese è risultato positivo al virus dopo essere nato da madre con polmonite COVID-19. Sono noti anche altri casi in Cina, tra cui Xiao Xiao, la neonata guarita spontaneamente dopo soli 17 giorni di vita.
Uno studio recentemente pubblicato su The Lancet ha esaminato nove donne incinte tra i 26 e i 40 anni con polmonite da SARS-CoV-2; sono stati analizzati:
–  Campioni di liquido amniotico;
– Sangue cordonale;
– Latte materno;
Successivamente sono stati eseguiti tamponi faringei sui neonati, tutti risultati negativi, concludendo che non c’è evidenza di infezione intrauterina attraverso la placenta, o tramite latte materno. Bisogna aggiungere, tuttavia, che le nove donne hanno subito un parto cesareo al terzo trimestre e che la limitata casistica non ha consentito di effettuare ulteriori studi.
Ad oggi, un’eventuale infezione neonatale da SARS-CoV-2 potrebbe essere acquisita per via respiratoria dalla madre nel post partum, basti pensare alla vicinanza tra il viso della madre e quello del bimbo durante l’allattamento.
Caterina Andaloro
Bibliografia
1.Epidemia COVID-19. Istituto superiore di sanità, Roma.
integrata-COVID-19_09-marzo-2020.pdf [accesso in data 11/03/2020]
2. Lee P-I et al., Are children less susceptible to COVID-19? Journal of Microbiology,
Immunology and Infection. 2020. https://doi.org/10.1016/j.jmii.2020.02.011.
3. Xia W et al. Clinical and CT features in pediatric patients with COVID‐19 infection:
Different points from adults. Pediatric Pulmonology. 2020;1–6.
4. General Office of the National Health Commission of China. Diagnosis and
Treatment Protocol for 2019‐nCoV. 5th ed. Beijing, China: National Health
Commission of China;