Long-Covid: l’eredità del virus nei pazienti guariti dall’infezione

IN PILLOLE:

  • I pazienti guariti dal Covid-19 accusano sintomi anche molti mesi dopo la fine dell’infezione;
  • L’insieme di questi sintomi è stato definito Long-Covid o sindrome da post-Covid;
  • Nei pazienti guariti si evidenziano danni polmonari e la presenza di cellule plurinucleate (sincizi);
  • Si evidenziano danni al sistema cardiovascolare, ai reni e al sistema nervoso centrale;
  • Durante i mesi di lockdown sono aumentati i disturbi psichici presenti già in forma latente.

 

Sappiamo già che un tampone molecolare negativo sancisce la fine dell’infezione da Covid. Ma nessuna vittoria. Sono sempre più numerose le segnalazioni da parte di pazienti guariti che si rivolgono alle autorità sanitarie. Molti sintomi persistono anche a distanza di mesi dalla guarigione. Sindrome da post-Covid o Long-Covid è la definizione data a questo corteo di manifestazioni cliniche. Un Covid lungo sottolinea che le sequele accompagnano il paziente anche per molto tempo. A soffrirne 3 pazienti su 4 tra i ricoverati in UTI durante la fase acuta della malattia, come pubblicato su The Lancet.

STUDIO CINESE 

L’idea di un Covid lungo proviene da uno studio cinese effettuato a Wuhan su 1700 pazienti, ammalatisi tra gennaio e maggio. Ebbene, osservati per tutta l’estate, il 76% di essi accusava ancora almeno un sintomo fino a sei mesi dopo la fine dell’infezione. Le manifestazioni più comuni sono stanchezza e debolezza muscolare, disturbi del sonno, ansia e depressione. I pazienti usciti dalla terapia intensiva sono poi stati sottoposti a spirometria, ecografie e TAC del torace. Questi hanno mostrato una riduzione della capacità respiratoria e un calo della funzione renale.

TUTTO QUI?

La variabilità e l’intensità dei sintomi accusati non sempre correlano con la gravità dell’infezione iniziale. Esiste già una sindrome post terapia intensiva. Secondo questa, pazienti che sono stati in pericolo di vita accusano una diminuzione della salute mentale e delle funzioni fisiche anche dopo un anno. Tuttavia, sintomi come spossatezza, perdita del gusto e dell’olfatto, problemi della memoria e confusione mentale vengono riferiti da pazienti Covid che erano stati critici durante la fase acuta, tanto quanto da soggetti giovani e sani con infezione iniziale non grave. La causa ancora non è nota. Potrebbe essere riconducibile ad una risposta immunitario-infiammatoria impazzita, oppure un’attività virale ancora in corso.

POLMONI

I polmoni sono tra i principali bersagli del Sars-CoV-2. Una volta guarita l’infezione, il più delle volte resta una fibrosi polmonare, cioè un irrigidimento del tessuto polmonare. L’effetto? Una riduzione degli scambi gassosi che avvengono fisiologicamente negli alveoli polmonari. Quanto detto spiegherebbe sintomi come stanchezza, fiato corto, difficoltà respiratoria.

Una ricerca pubblicata sulla rivista Lancet eBioMedicine e condotta fra Italia e Gran Bretagna ha portato all’evidenza alcune cellule anomale nei polmoni di soggetti post-Covid. Utilizzando la proteina Spike, il virus spinge le cellule infettate a fondersi con quelle vicine così da formare dei sincizi (elementi cellulari plurinucleati). Lo studio ipotizza che la persistenza dei sincizi contribuisca al danno polmonare. In più, nel 90% dei casi le autopsie hanno mostrato la presenza di trombi nei vasi polmonari, secondaria ad un’anomala attivazione della coagulazione. Farmaci che impediscono la formazione di aggregati cellulari sinciziali potrebbero rappresentare il prossimo obiettivo in terapia.

CUORE

I virus respiratori (influenza compresa) aumentano il rischio di eventi cardio e cerebrovascolari. Oggi si è scoperto che il nuovo Coronavirus determina un rapido aumento della risposta infiammatoria che può interessare cuore e vasi. Ciò potrebbe spiegare l’insorgenza di vasculiti e miocarditi, cause di aritmie spesso fatali. In vari pazienti si registra un aumento della troponina (marcatore di danno miocardico). Questo dato fa presagire l’arrivo di un danno ischemico. Non solo: questa risposta infiammatoria eccessiva altera le vie di attivazione della coagulazione e causa fenomeni tromboembolici. 

RENE

Anche i reni in ottima salute possono essere preda del virus. A dimostrarlo l’evidenza di insufficienza renale acuta in vari pazienti Covid. Le cause? L’infezione causa una micro-coagulazione del sangue già in vari organi e questa è la base dei vari danni ischemici. Inoltre, pare che l’enzima ACE2, cui il virus si lega mediante la proteina Spike e che è abbondantemente espresso nel rene, veicolerebbe il virus all’interno delle cellule. D’altronde, non è neppure esclusa una tossicità legata ai farmaci usati nel trattamento di pazienti Covid.

CERVELLO

E non finisce qui. Spesso i pazienti si presentano al PS deliranti o letargici. Accanto all’anosmia, sono descritte altre manifestazioni neurologiche associate, come la sindrome di Guillan Barrè, la nevralgia del trigemino, o forme di encefalopatia emorragica necrotizzante. Da qui l’ipotesi di un possibile danno cerebrale. Uno studio pubblicato sulla rivista Neurology ha dimostrato che in pazienti affetti da infezione grave, moderata e lieve si registra un aumento di due marcatori di danno neuronale. Ad aumentare sono la proteina GFAP (proteina acida fibrillare gliale) normalmente contenuta negli astrociti (cellule di supporto ai neuroni) e la NFl (proteina delle catene leggere del neurofilamento). In condizioni fisiologiche, esse sono contenute all’interno delle cellule nervose: se queste ultime vengono danneggiate, allora le proteine si riversano in circolo e aumentano nel sangue.

Le cause? Il cervello di certo soffre dell’ipossia dovuta all’insufficienza respiratoria causata dal virus. Inoltre, disturbi della coagulazione causano ictus ischemici ed emorragici. Ancora, l’eccessiva risposta infiammatoria sistemica attiva una risposta immunitaria. Non si esclude neppure che il virus infetti direttamente il cervello e le meningi.

SALUTE MENTALE

Quel che è certo è che i danni si contano anche su chi non ha mai contratto il virus. Si stima che siano almeno 300.000 in Italia i nuovi casi di disturbi d’ansia legati alla paura del contagio. Sale anche il numero dei suicidi e di esacerbazioni di disturbi psichici già pre-esistenti o latenti, conseguenze dei vari mesi di lockdown.

 

Elena Allegra

Covid-19, quali mascherine per la Fase 2: chirurgiche, FFP2 e “Fai da te”

Indossare delle mascherine può aiutare a proteggere se stessi e gli altri dal contagio da SARS-CoV-2? Quali tipi di mascherine possono essere utili, come vanno indossate, rimosse e sanificate qualora le si voglia riutilizzare?

Il nuovo Coronavirus (denominato SARS-CoV-2) è un virus respiratorio che si diffonde fondamentalmente attraverso il contatto stretto con una persona infetta. I coronavirus hanno dimensioni di 100-150 nanometri di diametro (600 volte più piccoli di un capello), motivo per il quale tra le principali vie di trasmissione bisogna annoverare le goccioline (droplets) delle secrezioni di naso e bocca che vengono emanate durante la normale respirazione, quando si parla, e in grandi quantità in caso di tosse e starnuti (In particolare, lo starnuto può spingere queste goccioline ad una distanza di 4 metri). In casi rari il contagio può avvenire attraverso contaminazione fecale e normalmente le malattie respiratorie non si trasmettono attraverso gli alimenti, rispettando le corrette pratiche igieniche ed evitando il contatto fra alimenti crudi e cotti.

Tra le norme emanate dal Ministero della Salute, per far fronte all’epidemia da SARS-CoV-2 , vi è l’uso delle mascherine, queste ultime si dividono in due categorie:

  1. Mascherine chirurgiche, progettate per proteggere il paziente dalla contaminazione da parte degli operatori sanitari;
  2. FFP1, FFP2 e FFP3 (o N95, N99 e N100 nella normativa americana), progettate per proteggere gli operatori dalla contaminazione esterna e per questo denominate Dpi (Dispositivi di protezione individuale). 

MASCHERINE CHIRURGICHE

Le mascherine chirurgiche presentano due o tre strati di “tessuto non tessuto” (Tnt) costituito da fibre di poliestere o polipropilene:

  1. Lo strato che entra in contatto con l’esterno presenta un materiale di tipo spun bond (un tessuto non tessuto usato nel settore automobilistico e industriale) che, con l’effettuazione di un trattamento idrofobo, ha la funzione di conferire resistenza meccanica alla mascherina e proprietà idrofoba.
  2. Lo strato intermedio è costituito da Tnt prodotto con tecnologia melt blown e costituito da microfibre di diametro 1-3 micron, motivo per il quale svolge la funzione filtrante.
  3. Un eventuale terzo strato, tipicamente in spun bond, è a contatto con il volto e protegge la cute dallo strato filtrante.

Le mascherine chirurgiche sono contraddistinte da una capacità filtrante quasi totale verso l’esterno, superiore al 95% per i batteri, mentre hanno una ridotta capacità filtrante verso l’interno, ovvero verso chi le indossa (circa il 20%) non solo per l’aderenza al volto non particolarmente elevata ma anche per la mancata capacità di trattenere particelle fini o molto fini. Pertanto, se ben indossate, sono molto efficaci nell’impedire a chi le indossa di contagiare altre persone, ma non garantiscono una protezione elevata nei confronti dei virus che provengono dall’esterno.

MASCHERINE FFP1, FFP2 e FFP3

«Sono dispositivi di protezione individuale pensati per un uso industriale per proteggere da polveri, fumi e nebbie» spiega Pierpaolo Zani, General Manager di Bls, azienda italiana specializzata nella produzione di prodotti per la protezione respiratoria. I filtranti facciali vengono impiegati anche in ambito sanitario, nei reparti di malattie infettive per la loro elevatissima capacità di filtraggio dell’aria. Sono realizzati con tessuti-non-tessuti con proprietà e funzionalità differente:

  1. Lo strato esterno della mascherina protegge dalle particelle di dimensioni più grandi;
  2. Lo strato intermedio è solitamente in tessuto melt blown e filtra le particelle più piccole;
  3. Lo strato interno, a contatto con il volto, ha la doppia funzione di mantenere la forma della maschera e di proteggere la maschera dall’umidità prodotta con il respiro, tosse o starnuti.

La loro elevata capacità filtrante è associata agli strati filtranti che agiscono meccanicamente (come un setaccio) per particelle fino a 10 micron di diametro. Sotto queste dimensioni, l’effetto più importante è quello elettrostatico: la fibre cariche elettrostaticamente attirano e catturano le particelle. Tutte aderiscono bene al viso, e tutte sono disponibili in versione con e senza valvola.

 

DA COSA CI PROTEGGONO LE FFP1?

Le maschere respiratorie della classe di protezione FFP1 sono adatte per ambienti di lavoro nei quali non si prevedono polveri e aerosol tossici o fibrogeni. Queste filtrano almeno l’80% delle particelle che si trovano nell’aria fino a dimensioni di 0,6 μm e possono essere utilizzate quando il valore limite di esposizione occupazionale non viene superato di oltre 4 volte. Vengono particolarmente utilizzate nel settore edile o nell’industria alimentare.

DA COSA CI PROTEGGONO LE FFP2?

Le maschere respiratorie della classe di protezione FFP2 sono adatte per ambienti di lavoro nei quali l’aria respirabile contiene sostanze dannose per la salute e in grado di causare alterazioni genetiche. Queste devono catturare almeno il 94% delle particelle che si trovano nell’aria fino a dimensioni di 0,6 μm e possono essere utilizzate quando il valore limite di esposizione occupazionale raggiunge al massimo una concentrazione 10 volte superiore. Le maschere respiratorie della classe di protezione FFP2 vengono utilizzate nell’industria metallurgica o nell’industria mineraria in cui i lavoratori entrano in contatto con aerosol, nebbie e fumi.

DA COSA CI PROTEGGONO LE FFP3?

Le maschere respiratorie della classe di protezione FFP3 offrono la massima protezione possibile dall’inquinamento dell’aria respirabile. Con una perdita totale del 5% max. e una protezione necessaria pari almeno al 99% dalle particelle con dimensioni fino a 0,6 μm, sono inoltre in grado di filtrare particelle tossiche, cancerogene e radioattive. Queste maschere respiratorie possono essere utilizzate in ambienti di lavoro nei quali il valore limite di esposizione occupazionale viene superato fino a 30 volte il valore specifico del settore (industria chimica).

Le mascherine si possono utilizzare più di una volta?

Le mascherine chirurgiche sono monouso e non ci sono procedure, scientificamente validate, per la loro «disinfezione» in quanto  disinfettanti o vapori di aria calda potrebbero danneggiarne il tessuto, con successiva perdita dell’ azione di barriera. Considerando la scarsa disponibilità di mascherine chirurgiche, in assenza di una nuova mascherina, si può lasciare la mascherina già utilizzata all’aria aperta per almeno 12 ore prima di riutilizzarla o almeno 4 giorni (per spegnere un’eventuale traccia del virus), facendo attenzione a non toccare la parte interna della mascherina. In caso di riutilizzo bisogna ulteriormente mantenere le distanze di sicurezza con la consapevolezza di una riduzione dell’efficacia della capacità di barriera.

I filtranti facciali FFP1, FFP 2 e FFP 3 possono essere riutilizzati se non vi è usura del materiale. I trattamenti possibili di rigenerazione sono tre:

  1. Esposizione ad alta temperatura (superiore a 60°) in ambiente umido (come indicato dall’istituto statunitense NIOSH per il SARS-CoV-2);
  2. Esposizioni ai raggi ultravioletti;
  3. Trattamento con soluzioni idroalcoliche al 60/70%. Esso è il trattamento più efficace ai fini del mantenimento delle proprietà meccaniche, inclusa la forma.
    Tuttavia, sulla validità di questi metodi non vi è accordo scientifico.

Le mascherine “fai da te” sono davvero utili?

In uno studio, condotto dal Departments of Civil and Environmental Engineering and Marine and Environmental Sciences Northeastern University of Boston, sono state valutate 10 mascherine di stoffa realizzate con tessuti di provenienza locale di diversi design, e 3 mascherine di tipo chirurgico. Le mascherine chirurgiche standard, se indossate con un filo metallico di regolazione sul naso, hanno avuto un’efficienza media del 75%. Le mascherine di stoffa hanno avuto tassi di efficienza filtrante inferiori (tra il 38% e il 96%) rispetto alle mascherine chirurgiche (3M considerate come punto di riferimento e livello base). Nessun modello ha avuto risultati pari a quelli dei respiratori N95 e in genere le mascherine di tessuto fornivano la metà della protezione rispetto alle maschere chirurgiche standard. I ricercatori hanno provato a “migliorare” le mascherine di stoffa sovrapponendo uno strato di calza di nylon per ridurre la perdita di aderenza attorno ai bordi del volto e migliorare l’efficienza filtrante delle particelle. Lo stesso studio ha dimostrato che l’aggiunta della calza in nylon ha migliorato l’efficienza da 15 a 50 punti percentuali.

Caterina Andaloro

Bibliografia:

https://www.uvex-safety.it/it/know-how/norme-e-direttive/respiratori-filtranti/significato-delle-classi-di-protezione-ffp/

http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus?gclid=Cj0KCQjwy6T1BRDXARIsAIqCTXoNTiwj7C120buZEM-vTSvDR5bhw5kWW8boFOmZQlNEWTFW-6-QHXEaAonJEALw_wcB

https://www.suva.ch/it-CH/materiale/Sched-tematiche-factsheet/i-dpi-delle-vie-respiratorie

 

Terapia COVID-19: trattamenti attuali e novità promettenti con immunoterapia

L’infezione da SARS-CoV-2 mercoledì è stata dichiarata dall’OMS una pandemia. Il Sistema Sanitario Nazionale italiano potrebbe non reggere al crescere esponenziale dei numeri, si paventa soprattutto l’assenza di un numero di posti in terapia intensiva sufficienti a contrastare una pandemia.

Come agisce il SARS-CoV-2?

Nella nostra storia recente ci sono state tre epidemie correlate ad infezioni da parte di coronavirus:

  • SARS-CoV (Severe-Acute-Respiratory-Syndrome), 2002-03; 
  • MERS-CoV (Middle-East-Respiratory-Syndrome), 2012;
  • SARS-CoV-2, oggi. 

L’analogia nel nome con la prima epidemia, scoppiata ad Hong-Kong nel 2002, non è un caso perché anche SARS-CoV-2, come SARS-CoV, ha come primum movens dell’infezione il legame tra gli spikes dell’involucro glicoproteico ed il recettore enzimatico di membrana ACE2, mentre il MERS-CoV segue un’altra via.

ACE2 è un enzima che fa parte del sistema più importante di regolazione della pressione arteriosa, ovvero il sistema RAAS (Renina-Angiotensina-Aldosterone). ACE2 ed il suo omologo ACE hanno funzioni fisiologiche opposte: ACE2 ha azione vasodilatatrice ed antipertensiva, mentre ACE induce vasocostrizione operando sui recettori AT1.

Il RAAS può essere la chiave per il trattamento della COVID-19?

Purtroppo si tratta solo di ipotesi. Quando il virus penetra nelle nostre cellule, legandosi ad ACE2, porta con sé lo stesso recettore, comportando una down-regolazione della sua espressione e conseguentemente una riduzione dei suoi effetti vasodilatatori. Questa dis-regolazione del sistema RAAS sarebbe quindi, secondo diversi studiosi, uno dei fattori di rischio maggiori per l’aggravamento dei pazienti affetti da COVID-19.

A tal proposito una categoria di farmaci antipertensivi potrebbe migliorare il decorso della polmonite: gli inibitori selettivi del recettore AT1sartani. Questi hanno mostrato di aumentare l’espressione a livello cardiaco del recettore ACE2 dopo infarto del miocardio. L’effetto terapeutico è quello vasodilatatore, dato sia dal blocco diretto dei recettori AT1 sia dall’induzione dell’espressione di ACE2. La vasodilatazione a livello del circolo polmonare garantirebbe quindi un miglior rapporto ventilazione-perfusione e una diminuzione del rischio di insufficienza respiratoria. 

Prima di poter utilizzare i sartani, dovrebbero però essere eseguiti trial clinici per verificare il loro ruolo di “fattore protettivo”. Bisogna valutare l’incidenza della malattia nei pazienti che già ne facevano uso ed i loro reali effetti positivi sul decorso clinico.

Fonte: ANSA

Allora quali sono i farmaci che realmente vengono utilizzati oggi?

Nell’attesa di un vaccino, che non si renderà disponibile sicuramente prima di luglio, le principali armi per il trattamento della polmonite causata da SARS-Cov-2 a nostra disposizione sono i farmaci antivirali associati, in caso di necessità, all’ossigenoterapia. Fra gli antivirali quelli di prima linea sono non virus specifici, i più utilizzati sono i seguenti:

  • Ribavarina = analogo della guanosina contenente la base azota modificata, agisce inibendo la sintesi dei nucleosidi e utilizzata comunemente per il trattamento dell’epatite C, durante l’epidemia di SARS nel 2002-03 usata in alcuni casi ad Hong-Kong; 
  • Lopinavir e Ritonavir = entrambi degli inibitori delle proteasi virali, attivi contro il virus dell’HIV, operano impedendo che le poliproteine tradotte dal genoma virale vengano clivate a formare proteine funzionalmente utili all’attività del virus;
  • Remdesevir = analogo nucleotidico sviluppato per il trattamento del virus Ebola, per cui è stata successivamente dimostrata un’attività contro altri virus a RNA a singolo filamento come i coronavirus. La sua combinazione con l’interferone-beta (INFb) si è dimostrata adatta al trattamento della COVID-19. Per l’OMS è il miglior candidato per contrastare SARS-CoV-2 ed è il farmaco usato allo Spallanzani per i turisti cinesi trovati positivi a gennaio (i primi due casi in Italia).

Esistono anche degli antivirali coronavirus-specifici come gli inibitori della proteasi dei coronavirus; in questo gruppo rientrano la cinanserina, un vecchio farmaco conosciuto per la sua azione di antagonismo del recettore della serotonina, e i flavonoidi, dei composti di derivazione naturale con molte funzioni tra le quali quella antivirale ed antiossidante. Entrambi agiscono bloccando l’azione della proteasi chimotripsina-simile dei coronavirus e si sono dimostrati efficaci in passato nelle pandemie di SARS-CoV e MERS-CoV.

Immunoterapia: il Tocilizumab

Altra opzione terapeutica valida è l’immunoterapia: è di sabato scorso la notizia del suo primo utilizzo in Italia, a Napoli su due pazienti con polmonite severa. L’immunofarmaco in questione è il Tocilizumab, normalmente utilizzato nell’artrite reumatoide e gold standard nella cura della sindrome da rilascio citochimica nel trattamento con cellule CAR-T. Il Tocilizumab è un anticorpo monoclonale che agisce bloccando l’interleuchina 6, una delle principali citochine con attività proinfiammatoria; si tratta di un uso off-label, frutto della collaborazione tra oncologi ed infettivologi.  Gli effetti positivi si sono mostrati già nelle prime 24 ore così che da giovedì si è valutata la possibilità di estubare i due pazienti. Ora si valuta di estenderne l’utilizzo a più di 250 soggetti in condizioni critiche. L’inconveniente principale è rappresentato dal prezzo elevato, ma la nota casa farmaceutica Roche si è offerta di fornirlo gratuitamente in questo periodo di emergenza. 

Il nostro sistema immunitario si è dimostrato spesso la chiave giusta da inserire per un successo terapeutico e tutti noi speriamo lo sia anche questa volta.

Antonio Mandolfo

Bibliografia:

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1002/ddr.21656

http://apjai-journal.org/wp-content/uploads/2020/03/5_AP-200220-0773.pdf

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1002/jmv.25707

https://napoli.repubblica.it/cronaca/2020/03/08/news/napoli_coronavirus_farmaco_usato_su_due_casi-250676409/?ref=fbpr

Coronavirus: per l’OMS è pandemia. Cosa cambia per l’Italia

A causa dell’elevata diffusione del Coronavirus SARS-CoV-2, l’OMS (Organizzazione Mondiale Della Sanità) ha annunciato lo stato di pandemia. Ecco qual è il significato e quali sono le differenze tra focolaio, epidemia e pandemia.

CHE COS’E’ UN FOCOLAIO?

Quando una condizione patologica su base infettiva comporta un certo numero di contagi all’interno di una comunità, di una regione o di una stagione circoscritta, si parla di focolaio. Un tipico esempio è fornito dai focolai di Brucellosi (zoonosi associata ai batteri appartenenti al genere Brucella) in alcune città siciliane. In questi casi vengono effettuate indagini epidemiologiche, vengono tracciate mappe sugli spostamenti delle persone colpite, come è accaduto nei giorni scorsi nel Nord Italia.

CHE COS’E’ UN’EPIDEMIA?

Quando una patologia infettiva è caratterizzata da una manifestazione frequente, localizzata e di durata limitata nel tempo si parla di epidemia. E’ questo il caso dell’influenza, riscontrata stagionalmente, in cui non vi è un vero e proprio focolaio ma una trasmissione diffusa, contrastata da programmi di prevenzione (vaccinazioni). 

CHE COS’E’ UNA PANDEMIA?

Quando una patologia infettiva si propaga in molti Paesi o continenti, minacciando gran parte della popolazione mondiale si parla di pandemia (dal greco “pan-demos” ovvero “tutto il popolo”). La classificazione in 6 classi che descriveva progressivamente le varie fasi del processo infettivo (periodo intrapandemico con fase 1 e fase 2, periodo di allerta pandemica con fase 3, 4 e 5 e periodo pandemico con fase 6), precedentemente utilizzate per analizzare la diffusione della patologia infettiva, non sono più prese in considerazione. Una revisione effettuata nel febbraio 2009 sulla definizione e dichiarazione di pandemia, definisce le condizioni che oggi l’OMS deve riconoscere affinché si possa parlare di una vera e propria pandemia. Esse sono:

  1. La comparsa di un nuovo agente patogeno;
  2. La capacità di tale agente di colpire gli esseri umani;
  3. La capacità di tale agente si diffondersi rapidamente per contagio.

In seguito agli ultimi dati riguardanti l’infezione da Coronavirus SARS-CoV-2 (118mila casi segnalati  a livello globale in 114 paesi), il Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità , Tedros Adhanom Ghebreyesus, ieri ha dichiarato: “Abbiamo valutato che il Covid-19 può essere definito come una pandemia. Non abbiamo mai visto una pandemia di un Coronavirus, questa è la prima, ma non abbiamo mai visto nemmeno una pandemia che può, allo stesso tempo, essere controllata”. Walter Ricciardi dell’OMS, anche Consigliere per il Coordinamento con le istituzioni sanitarie internazionali del ministro della Salute italiano Roberto Speranza, ha dichiarato: “Con la dichiarazione dello stato pandemico l’OMS può mandare i suoi operatori in loco, come fanno i caschi blu dell’ONU e chiedere ai singoli Paesi di adottare misure di mitigamento, come il fermo di alcune attività o dei trasporti anche via terra“. Ha sottolineato l’esperto: “Il non rispetto delle disposizioni equivarrebbe alla mancata applicazione di norme internazionali, che implica l’applicazione di sanzioni“.

COSA CAMBIERA’ PER L’ITALIA?

Lo stato di pandemia rappresenta una nuova dura prova per la penisola italiana (interamente dichiarata “zona protetta”), al fine di contrastare la diffusione del virus sono state attuate delle misure ancora più restrittive, queste ultime riguardano la sospensione su tutto il territorio nazionale delle attività commerciali al dettaglio (fatta eccezione per i beni di prima necessità), delle attività dei servizi di ristorazione e delle attività inerenti i servizi alla persona. Al fine di contenere l’emergenza sanitaria, come specificato dall’esperto Ricciardi, il Ministro delle Infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro della Salute può disporre la programmazione con riduzione e soppressione dei servizi automobilistici interregionali e di trasporto ferroviario, areo e marittimo.

LE PANDEMIE DEL VENTESIMO SECOLO

Date le nuove direttive dell’OMS, possiamo affermare di vivere una nuova pagina di storia, una nuova pandemia del ventunesimo secolo, ma quali sono state le pandemie dello scorso secolo? E cosa possiamo apprendere da esse?

Nel ventesimo secolo hanno letteralmente scritto la storia della Medicina tre pandemie influenzali:

LA SPAGNOLA: è associata al Virus Influenzale A (sottotipo antigenico H1N1), nel 1918  un terzo della popolazione mondiale fu colpito dall’infezione, contraddistinta da una letalità maggiore del 2,5%, tale virus riemerse nel 1977 causando un’epidemia negli Stati Uniti. Dal 1995, a partire da materiale autoptico conservato, furono isolati e sequenziati frammenti di RNA virale del virus della pandemia del 1918, così come fu descritta la completa sequenza genomica di un virus e quella parziale di altri 4. Tramite questi studi emerse che il virus è l’antenato dei ceppi suini A/H1N1 e A/H3N2.

-L’ASIATICA: è associata al Virus Influenzale A (sottotipo antigenico H2N2), gli studi si basarono sui test di fissazione del complemento e sul test dell’emagglutinina virale e furono confermati dalla neuraminidasi. Il sottotipo del virus dell’Asiatica del 1957, che fu  identificato come un virus A/H2N2, scomparve dopo 11 anni.

L’INFLUENZA HONG KONG: è associata al Virus Influenzale A (sottotipo antigenico H3N2), tale virus differisce dall’antecedente (H2N2) per l’antigene emagglutinina ma aveva lo stesso antigene neuraminidasi.

LO STATO DI PANDEMIA SI PUO’ DEFINIRE UNA SCONFITTA?

Ghebreyesus ha dichiaro: Pandemia non è una parola da usare con leggerezza o negligenza, è una parola che, se usata in modo improprio, può causare paura irragionevole o accettazione ingiustificata che la lotta sia finita, portando a sofferenze e morte inutili”. L’esperto ha voluto, pertanto, sottolineare il costante impegno dell’OMS ai fini del contenimento di questa patologia che sta destando preoccupazione in tutto il mondo.

Caterina Andaloro

BIBLIOGRAFIA:

https://www.bag.admin.ch/bag/it/home/krankheiten/ausbrueche-epidemien-pandemien.html

https://www.epicentro.iss.it/passi/storiePandemia