La Signora Dalloway: un ritratto della vita e del dolore di Virginia Woolf

Una vita tra arte e tormento: le origini di Virginia Woolf

Virginia Woolf è una delle figure più iconiche e influenti della letteratura moderna.

Nata il 25 gennaio 1882, in una famiglia di intellettuali, crebbe in un ambiente stimolante ma complesso. Suo padre, Leslie Stephen, era un rinomato saggista e accademico, mentre sua madre, Julia Prinsep Stephen, era una modella per i pittori preraffaelliti. Julia si dedicò alla famiglia, ma la sua vita fu segnata dalla malattia e dalla morte prematura, avvenuta nel 1895, quando Virginia aveva solo tredici anni.

La morte della madre ebbe un impatto devastante sulla piccola. Ne soffrì profondamente e ne parlò in molte delle sue opere, considerando il loto rapporto come una delle esperienze più formative e dolorose della sua vita.

Virginia crebbe circondata da fratelli, sorelle, fratellastri e sorellastre, stringendo un legame speciale con il fratello Thoby. Insieme fondarono l’Hyde Park Gate News, un giornale casalingo prodotto tra il 1891 e il 1895.

Tuttavia, nel 1906, anche Thoby scomparve prematuramente, segnandola intimante.

Anche con la sorella Vanessa, futura pittrice, Virginia mantenne un rapporto stretto e intenso.

L’origine della malattia mentale di Virginia Woolf è intrinsecamente legata ai traumi subiti fin dalla tenera età.

Dall’età di sette anni, infatti, fu vittima di abusi incestuosi, da parte dei suoi fratellastri George e Gerald, entrambi di circa vent’anni più grandi di lei.

A partire dai dieci anni, Virginia iniziò a parlare e scrivere apertamente del dolore che aveva subito.

Le violenze continuarono fino all’età di ventiquattro anni, lasciando cicatrici indelebili sulla sua psiche.

Queste esperienze drammatiche contribuirono allo sviluppo di una grave malattia mentale, diagnosticata successivamente come disturbo bipolare. Una condizione che ebbe delle ripercussioni sulla sua vita personale e il suo straordinario percorso creativo.

Nel 1912, Virginia sposò Leonard Woolf, con cui diresse la casa editrice londinese The Hogarth Press, destinata a pubblicare alcune delle opere più significative del Novecento.

Virginia Woolf e il marito LeonardFonte: http://www.pennaecalamaro.com/wp-content/uploads/2018/01/virginia-and-leonard-woolf-768x384.jpg
Virginia Woolf e il marito Leonard
Fonte: http://www.pennaecalamaro.com/wp-content/uploads/2018/01/virginia-and-leonard-woolf-768×384.jpg

La loro abitazione  divenne un punto di incontro per il celebre Bloomsbury Group, un circolo di intellettuali che ridefinì il pensiero culturale e artistico del XX secolo.

Virginia Woolf e l’emancipazione femminile nella scrittura

Virginia Woolf fu una fervente attivista nei movimenti femministi, sostenendo con passione il suffragio femminile e l’emancipazione delle donne.

Le sue opere, fortemente influenzate da queste convinzioni, esplorano ripetutamente il tema dello status intellettuale femminile e quello del suo ruolo nella società.

Tra i suoi scritti più significativi spicca Una stanza tutta per sé (1929), opera in cui affronta con profondità il rapporto tra le donne e la scrittura.

Celebre è il passaggio in cui scrive:

Chi mai potrà misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo di donna?

Questo libro, ambientato a Cambridge, rappresenta la sua riflessione più intensa sul potenziale creativo delle donne e le difficoltà che incontrano nel realizzarlo.

La lotta interiore: la salute mentale e l’impatto creativo 

Nei suoi romanzi, Virginia Woolf riversava il suo male di vivere e la sofferenza dell’esistenza umana, trasformandoli in arte letteraria. In questo senso, scrivere diventava per lei una forma di terapia, un modo per evadere dal suo malessere interiore, per farlo emergere e tradurlo in parole, in arte.

I suoi disturbi mentali, infatti, non solo influenzarono profondamente la sua vita, ma anche la sua opera.

Il monologo interiore, da cui scaturisce il flusso di coscienza dei suoi personaggi, è una tecnica distintiva e frequentemente utilizzata dalla Woolf nei suoi romanzi, tra cui La signora Dalloway (1925), Gita al faro (1927) e Le onde (1931).

Quest’ultimo, in particolare, è il romanzo più sperimentale, dove le voci dei personaggi si intrecciano, si rincorrono, mescolandosi e confondendosi l’una con l’altra.

Un personaggio particolarmente complesso e affascinante ne La signora Dalloway è Septimus Warren Smith, un veterano della Prima Guerra Mondiale che, segnato dalla morte del suo migliore amico, avvenuta sotto i suoi occhi, è tormentato da gravi disturbi mentali.

Se Clarissa Dalloway, protagonista del romanzo, rappresenta la parte visibile e superficiale di Virginia Woolf, quella perfezionista e ben integrata nella società britannica dell’epoca, Septimus ne incarna, invece, l’aspetto maschile, oscuro e tormentato.

Le storie dei due personaggi si intrecciano durante la giornata del compleanno di Clarissa, sfiorandosi senza mai congiungersi, ma dando l’impressione di appartenere a un’unica anima, come due facce della stessa medaglia. Come la vita e la morte.

Le voci della mente: il suicidio di Virginia Woolf e il suo legame con Leonard

Il 28 marzo 1941, Virginia Woolf,  dopo aver completato il suo ultimo romanzo, Between the Acts, scivolò nuovamente in una depressione simile a quelle che l’avevano già afflitta in passato.

L’irrimediabile scoppio della Seconda Guerra Mondiale e la distruzione della sua casa a Londra aggravarono ulteriormente il suo stato d’animo, facendola sentire incapace di proseguire con il suo lavoro.

Sentendosi sopraffatta, decise di lasciare la sua dimora.  Chiuse a chiave il cancello del giardino, come se volesse allontanarsi per sempre, e si incamminò verso il fiume Ouse. Lungo il cammino, raccolse alcuni sassi, che mise in tasca. Giunta sulla riva, entrò lentamente nell’acqua, e, fissando l’orizzonte, si lasciò affogare. 

Prima di compiere il gesto estremo, scrisse una lettera commovente al marito Leonard:

Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire le voci, e non riesco a concentrarmi. Sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere.

 

Fonti:
https://180gradi.org/libri/martina-cancellieri/virginia-woolf-e-il-disturbo-bipolare-tra-clarissa-e-septimus
https://www.ilpiacerediraccontare.it/2024/03/28/ecco-perche-e-cosi-importante-virginia-woolf/

L’Inquietudine dell’Essere e le Fragilità Umane

La vita è un mistero che si svela con il passare del tempo.

Ma ci sono domande che restano senza risposta, come ombre che ci seguono.

Perché è successo? è una di queste, una pietra miliare dell’esistenza umana, che ci costringe a riflettere sulla precarietà della vita e sulle scelte che compiamo.

Ogni giorno, ovunque nel mondo, si registrano atti estremi, gesti disperati che sembrano gridare il dolore di un’anima in tormento.

Cosa porta l’uomo moderno ad attentare alla propria vita? La risposta è complessa e sfumata.

In un’epoca dominata dalla tecnologia e dalla comunicazione globale, ci troviamo spesso isolati in mezzo a una folla di volti anonimi.

Come scriveva Virginia Woolf:

Non si può trovare pace in un mondo che non si ferma mai.

La pressione sociale che ci circonda, la competizione incessante per il successo e l’apparenza, possono condurre anche le menti più forti a un punto di rottura. La fragilità, in questo contesto, non è solo una condizione individuale, ma un riflesso di una società che tende a premiare l’apparenza piuttosto che la sostanza.

Le colpe della società moderna sono molteplici: il culto del successo, il consumismo sfrenato e la superficialità delle relazioni umane.

La poetessa Alda Merini, che ha vissuto sulla propria pelle il dolore della malattia mentale, scriveva:

La vita è una malattia mortale trasmessa per via sessuale.

Queste parole ci ricordano che, in un certo senso, la vita stessa può essere vista come un peso insopportabile per coloro che si sentono abbandonati o incompresi.

Ma chi, oggi, si può definire “fragile”?

La fragilità non è solo una questione di salute mentale, ma un concetto che abbraccia la condizione umana in tutta la sua complessità. I giovani, spesso schiacciati da aspettative irrealistiche, le persone anziane, che si sentono dimenticate, e chiunque si trovi ai margini della società, sono tutti esempi di quella vulnerabilità che ci unisce.

Come diceva Rainer Maria Rilke:

La vera patria dell’uomo è l’essere amato.

Eppure, in un mondo che sembra correre sempre più veloce, è proprio l’amore e il sostegno reciproco a mancare.

È interessante notare come i picchi di fragilità siano registrati in concomitanza delle festività. Questi momenti, che dovrebbero essere di gioia e condivisione, spesso evidenziano la solitudine di chi non ha un posto in quella cornice festosa. La pressione sociale, amplificata dai social media, crea un’illusione di felicità e successo che può risultare insopportabile per chi vive una realtà ben diversa.

In questo senso, le parole di Fëdor Dostoevskij risuonano come un monito:

La bellezza salverà il mondo.

Ma è una bellezza che deve essere inclusiva, capace di abbracciare le nostre fragilità.

Cosa potrebbe fare il mondo culturale, divenuto ormai globale, per aiutare i soggetti più fragili? La risposta risiede nella consapevolezza e nell’educazione.

La cultura deve tornare a essere un luogo di incontro, di dialogo e di sostegno. Le storie raccontate nei libri, nei film, nelle arti visive devono riflettere la diversità delle esperienze umane, abbattendo le barriere che isolano e dividono.

Come scriveva Paulo Coelho:

Non smettere di credere nei tuoi sogni. I sogni sono la nostra vera realtà.

Dobbiamo imparare a sognare insieme, a costruire una comunità in cui la fragilità non sia stigmatizzata, ma accolta e valorizzata.

La vita è un viaggio ricco di sfide e di domande senza risposta. La fragilità è parte integrante di questa esperienza e riconoscerla è il primo passo verso un mondo più umano e solidale. Dobbiamo imparare a guardare oltre le apparenze, a costruire relazioni autentiche e a sostenere chi, in questo cammino, si trova in difficoltà. Solo così potremo sperare di rispondere, almeno in parte, a quella domanda inquietante, Perché è successo?, e, nel contempo, rendere il nostro mondo un luogo più accogliente per tutti.

Studiare medicina: sogno o incubo? La depressione tra gli studenti

Fin dai tempi antichi lo studio della medicina ha sempre affascinato l’uomo.
Chi riusciva a comprendere il complesso meccanismo del corpo umano era osannato e paragonato quasi a un dio, intoccabile e indiscusso.
Oggi la figura del medico, pur ridimensionata, è ancora importante dal punto di vista sociale.
Non stupisce, dunque, che siano in molti covare il desiderio di poter vestire un giorno il camice bianco.
Sia per un riscatto sociale che la professione sembra poter dare, sia per una effettiva passione per queste materie così affascinanti.
A volte però il sogno di una vita può trasformarsi in un vero e proprio incubo. Orari massacranti, privazioni, rinunce ai propri hobby per non restare indietro con gli esami e lo stress accumulato dallo studio per superare i test di ingresso creano un cocktail esplosivo. Tutto ciò nuoce alla salute mentale di molti ragazzi e anche i più appassionati possono ritrovarsi in un limbo: bloccati tra l’amore per ciò che studiano è l’ansia per una meta che sembra non arrivare mai.

Cosa dicono gli esperti

Uno studio che ha coinvolto varie università americane mostra risultati allarmanti.
L’obiettivo era stimare la percentuale di studenti che manifestavano una sindrome depressiva o intenzioni di suicidio tramite questionari e interviste.
Gli studiosi hanno preso in considerazione studenti di medicina provenienti da ben 43 Paesi diversi.
Il 27,2% di questi studenti presentava sintomi depressivi, che sono rimasti invariati durante il periodo degli studi (quindi sia durante i primi anni che negli anni successivi, quelli in cui si studiano materie prettamente cliniche e, magari, più stimolanti).
Per quanto riguarda invece il pensiero ricorrente al suicidio, si attestava all’11 % con 24 Paesi partecipanti.
Inoltre fu dimostrato che chi presentava depressione durante gli anni dell’università tendeva a portare dietro questi segni anche una volta conseguita la laurea, con gravi ripercussioni sulla produttività lavorativa.

La pressione sociale

I giovani si trovano dunque stretti in una morsa: da una parte le aspettative della famiglia e della società, dall’altra il senso di inadeguatezza nei confronti dei colleghi.
La competizione gioca un ruolo fondamentale, e lo studente può arrivare anche a compiere gesti estremi, sotto il peso delle materie accumulate.
Molto spesso si sentono infatti notizie di ragazzi che si tolgono la vita perché non riescono ad affrontare le difficoltà universitarie.


In questo mondo che è sempre di corsa, alcuni non trovano spazio per dedicarsi alla salute mentale, che viene trascurata a lungo.
Altre motivazioni a questa alta prevalenza della depressione negli studenti di medicina potrebbero essere i frequenti contatti con la malattia e la morte, che raramente lasciano indifferente chi è alle prime armi.

Una possibile soluzione

È importante riconoscere al più presto le avvisaglie della depressione e intervenire con delle sedute di psicoterapia, mirate a individuarne la causa.
Anche la sensibilizzazione dei giovani sull’approccio a questa patologia potrebbe essere un ottimo punto di inizio per sradicare il problema.
Tuttavia il primo ostacolo da abbattere è senza dubbio il pregiudizio.
I taboo che ancora girano intorno a chi soffre di questa malattia pregiudicano l’adesione a qualunque tipo di trattamento, con risvolti a volte tragici.
Si spera quindi che un giorno tali barriere possano essere abbattute, per migliorare la permanenza dei giovani all’università.

Maria Elisa Nasso