Il rumore dei tuoi passi: un libro che rapisce

Dicono che ogni libro contribuisce a renderci persone migliori, a cambiare una parte di noi, a cambiare il modo di intendere e vivere la vita. Dicono che ci sono libri che rimangono per sempre dentro di te. Questo è quello che mi è successo leggendo Il rumore dei tuoi passi di Valentina D’Urbano uscito nel 2012.

Casualmente un giorno ho letto questo libro, non mio tra l’altro, solo perché mi stavo annoiando a dir la verità. Ma è bastata la prima pagina per catapultarmi nel mondo di Beatrice e Alfredo, o come tutti li chiamavano, i “gemelli”. I due però non hanno il sangue in comune, ma bensì qualcosa di più importante: l’amicizia, l’amore, l’odio e la morte.

La storia viene raccontata dal punto di vista di Beatrice, ma per non farci mancare niente Valentina D’Urbano ha scritto anche un secondo libro intitolato “Alfredo” che racconta la stessa storia ma dal punto di vista di Alfredo.

Il luogo in cui si svolge questa storia, che non si può assolutamente solo definire d’amore, non è ben specificato. Da chi ci vive viene chiamato “fortezza”, ma non è altro che un quartiere pieno di case fatiscenti occupate abusivamente da nullatenenti che si sono ritrovati senza lavoro e speranze per il futuro. Beatrice è una di questi, che, nella povertà, è comunque fortunata ad avere dei genitori che la amano e cercano di occuparsi al meglio di lei. Alfredo invece non ha la stessa fortuna. Orfano di madre, si ritrova a vivere con un padre che non fa altro che maltrattare moralmente e fisicamente lui e i suoi fratelli. Ma è proprio in questa triste situazione che i due si incontrano sin da piccoli legando il loro destino in modo indissolubile.

La particolarità di questo racconto è il passaggio continuo tra passato e presente. La storia non è scontata, non mancano i colpi di scena e, le emozioni che provano i protagonisti, vengono trasmesse attraverso le parole forti e dettagliate della scrittrice che riesce ad arrivare fino alla parte più profonda dei nostri sentimenti e della nostra sensibilità. Ammetto infatti di aver pianto leggendo questo libro.

Quindi se volete fuggire per un attimo dalla realtà, se volete provare emozioni forti e se volete conoscere una storia diversa da ciò che siamo abituati, leggete questo libro e perdetevi nella sua bellezza. Vi sorprenderà.

 

Sara Cavallaro

Meglio soffrire che mettere in un ripostiglio il cuore, Susanna Cascini.

Quando una storia finisce è inevitabile sentirsi un varco dentro, i ricordi scavano nel presente e nel passato alla ricerca di una colpa, di un segnale, ci sforziamo di mettere tutto in una scatola immaginaria e di posarla via, la verità è che ci sentiremo meglio soltanto soffrendo.
È proprio questo che ho capito già dal titolo. Triste verità.

«Non era una sprovveduta, aveva già lasciato qualcuno ed era già stata lasciata a sua volta, quindi sapeva come funzionava e conosceva le regole: non chiamarlo, non cercarlo, non seguirlo (!), non inviargli messaggi, bloccarlo su ogni social network, non giocarsi la dignità. Conosceva le regole, ma le stavano strette, perché stavolta, in quella storia, ci aveva creduto talmente tanto da sentirsi quasi adatta a un futuro felice.»

La trama è molto semplice: si tratta di un amore andato a male, ormai finito da un pezzo, quando, un giorno, Tommaso la guarda mentre è seduta a leggere e lei lo prega di non piangere, e nell’aria galleggia la consapevolezza che ora è davvero finita. Anna cade in una profonda depressione, il mondo intero si schianta su di lei. Comincia a scrivere un diario di monologhi contando i giorni dalla fine, dalla separazione.

«E sembrava, dalla velocità con cui era sparito, che non avesse mai realmente avuto l’intenzione di restare, come se fin dall’inizio avesse saputo che prima o poi se ne sarebbe andato, come se fosse sempre stato di passaggio.»

Nella prima parte Anna deve fare i conti con i ricordi, con il dover andare avanti mentre spera che lui ritorni dicendo che era tutto uno scherzo. Però i giorni passano e nulla cambia, Tommaso è lontano e Anna comincia a chiedersi se il problema fosse lei con il suo modi essere.

Un libro che, tra una pagina e l’altra, fa pensare “è così che mi sento adesso”,che ti spinge a reagire con forza, a imparare, insieme ad Anna, a sanare le ultime ferite e fare a meno di lui. È facile immedesimarsi tra le righe di Susanna Cascini, tra le fragilità che fanno un po’ parte di tutti. La paura di non essere stati abbastanza, perfetti, o entrambe le cose. Semplicemente non essere. Non a tutti è concesso di tornare indietro per recuperare la storia quando l’amore finisce.

«Non è scritto da nessuna parte che qualcosa, solo perché è tanto bello, debba durare per sempre. Finisce tutto, finiscono anche le cose belle. L’importante è che ci siano state. Diamo per scontato che d’amore ce ne sia per tutti, ma non è così. L’amore è un miracolo. L’amore, quando arriva, non ci può dire quanto resterà. Siamo noi che pensiamo che sia “fino all’infinito e oltre” o “fino all’eternità”, ma l’amore, in realtà, come viene poi se ne va.»

Consigliato a chi, prima o poi, si troverà a guardarsi dentro per capire cosa è accaduto, a chi continua a provarci nonostante l’immensa paura di non farcela.

Serena Votano

 

“Fai bei sogni” di Massimo Gramellini

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“ Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere: completamente vivi.”

Il pensiero della morte è uno di quei fardelli che ci portiamo dietro per tutta la vita. Si cerca sempre di relegarla nel più profondo dei nostri cassetti del cuore, si prova a nasconderla sotto una pila di avvenimenti ed emozioni vissute. Più volte tentiamo di esorcizzarla purificandoci con una serie di riti di fede. Ma lei è sempre lì, pronta a venir fuori dalla sua prigione dell’anima, per segnare alcuni dei momenti più tragici e difficili della nostra vita lasciando cicatrici che difficilmente vanno via.

La storia di Massimo, narrata in prima persona in questo romanzo autobiografico, inizia proprio alla fine di quella della sua amata madre. È la mattina del 31 Dicembre 1969  e i suoi sogni da bambino innocente di nove anni sono interrotti bruscamente dall’urlo del padre che è appena venuto a conoscenza della morte della moglie, la mamma del fanciullo che osserva sgomento la scena dalla porta della sua cameretta, ancora intontito dalla quantità di informazioni, miste ai postumi della dormita, che gli stanno pervenendo.

Questo avvenimento segnerà un repentino cambiamento nella vita del giovane torinese, che alternerà momenti di solitudine e moderata autocommiserazione, a momenti di tenui gioie donategli dai brevi amori giovanili, dalla scrittura e dalla sua squadra del cuore, il Torino.

La storia è narrata in maniera lineare, attraverso un lungo flashback che si interrompe negli ultimi capitoli, con forti spunti ironici che accompagnano tutte le fasi della vita del protagonista: dagli anni delle scuole medie passati a difendersi dai bulli e a rinnegare la morte della madre, al periodo Universitario, in cui il demone della sua infanzia, che lo scrittore denomina Belfagor, lo priva di emozioni,  passioni e sentimenti per evitargli ulteriori delusioni che la vita potrebbe propinargli; fino ai primi anni da giornalista e inviato vissuti nel limbo tra amore e frustrazione, gioie e delusioni.

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“Camminavo sulle punte e le guardavo di continuo, perché non ero capace di alzare gli occhi al cielo. Avevo le mie ragioni. Il cielo mi faceva paura. E anche la terra.”

Il rapporto con il padre sarà un nodo cruciale nella storia, caratterizzato da pallidi momenti di vicinanza e brusche liti che porteranno più volte lo scrittore a sferrare decise staffilate nei confronti dell’autoritario genitore. Il tutto si risolverà nelle pagine finali in cui Massimo, ormai grande, riceverà una busta sigillata da quarant’anni nella quale si nasconde il più sconcertante dei segreti che lascerà ogni lettore stupefatto.

Con questo libro, Massimo Gramellini, ci apre le porte più remote della sua anima e ci permette di toccare con mano le ferite che gli sono state inferte, ma anche di vivere i numerosi successi che la  vita gli ha riservato, tutto in maniera semplice e ironica, ma allo stesso tempo profonda e diretta al cuore.

È una lettura consigliata per tutti coloro che, nonostante la scomparsa di un qualcosa o un qualcuno a loro caro, hanno il coraggio di andare avanti e di combattere i propri demoni interiori, proprio come Massimo con Belfagor. Ma è anche un libro per tutti coloro che hanno perso la speranza nella vita, affinché possano riprendere a guardare il cielo tenendo i piedi ben saldi a terra.

Giorgio Muzzupappa

Il vecchio e il mare – Hemingway

“Ma l’uomo non è fatto per la sconfitta” disse. “L’uomo può essere ucciso, ma non sconfitto.”

Queste poche parole racchiudono egregiamente il significato di fondo de Il vecchio e il mare, edito nel 1952 ,che gli valse prima il Pulitzer e poi il Nobel.
Il testamento letterario e morale di Hemingway, ambientato in quella Cuba tanto amata dall’autore, che gli rese omaggio dandogli quell’aura “incontaminata” che tuttora permane sull’isola.

Santiago è un vecchio pescatore che da 84 giorni non riesce più nel suo intento di pescare, abbandonato dal suo aiutante Manolin, costretto dai genitori a cercare un’ imbarcazione più “remunerativa”, ma, nonostante tutto vicino al vecchio mentore considerato prima che un maestro, un amico.

Spintosi in pieno mare, il vecchio riesce ad abboccare un marlin “lungo cinque metri e mezzo dal muso alla coda”, che lo trascina sempre più a largo, fino in mezzo all’oceano, per tre giorni e tre notti durante i quali Santiago lotta con tutte le forze rimastegli per non farsi sfuggire un’occasione di riscatto morale quale la preda.

Tutta l’epica di Hemingway confluisce splendidamente in questa semplice, ma non banale, storia. Il vecchio è solo, intorno a lui non c’è altro che il mare, ma, a differenza di un’ altro romanzo “marittimo” quale Moby Dick, Santiago non è spinto dalla ferocia e dalla vendetta, lotta contro il marlin per il primario bisogno di vivere, senza prescindere il pieno rispetto nei confronti della bestia, ritenuta nobile e fiera:

« A quanta gente farà da cibo, pensò. Ma sono degni di mangiarlo? No, no di certo. Non c’è nessuno degno di mangiarlo, con questo suo nobile contegno e questa sua grande dignità. Non capisco queste cose, pensò. Ma è una fortuna che non dobbiamo cercar di uccidere il sole o la luna o le stelle. Basta già vivere sul mare e uccidere i nostri veri fratelli.»

Il pescatore considera la bestia un suo simile, la lotta tra i due è ad armi pari, il pesce sfrutta tutta la sua forza mista ad astuzia “quasi umana” nel cercare di debilitare le vecchie e callose mani del pescatore, sanguinanti nel cercar di non far muovere la lenza, e quindi poter perdere la pescata tanto ricercata; numerosi sono i soliloqui di Santiago facenti da sfondo alla vicenda trattanti la pesca (assieme la boxe, attività prediletta dell’autore), l’esistenza , il confronto e l’immedesimazione con la natura (tema caro all’autore), e la speranza, incarnata nell’allievo Manolin, più volte citato dal vecchio durante questi.

A conti fatti il romanzo risulta come il racconto dell’ eterna lotta tra uomo e natura, una lotta qui ad armi pari dove sopratutto emerge il rispetto, il coraggio e la tenacia dell’uomo che sì potrebbe finir ucciso da questa lotta, ma mai sconfitto.

Pietro Scibilia