In Iran centinaia di bambine sono state avvelenate per far chiudere le scuole femminili

Nelle ultime settimane sono stati segnalati oltre duecento casi di studentesse di circa 10 anni, e di 14 scuole diverse, con sintomi di avvelenamento da agenti chimici, a pochi mesi dallo scoppio delle proteste in Iran legate alla morte della giovane Mahsa Amini.

Iran, bambine avvelenate per non farle andare a scuola. Fonte: Vanity Fair

Dopo un’iniziale reticenza, domenica scorsa sul caso si è espresso il viceministro dell’Istruzione iraniano Younes Panahi, secondo cui l’avvelenamento seriale di studentesse nella città religiosa di Qom e in altre città sarebbe “intenzionale”, nel tentativo di provocare la chiusura delle scuole femminili. Numerosi i genitori scesi in strada per chiedere più tutele da parte delle autorità locali e nazionali.

Qom, la città dell’Iran dove tutto è cominciato

La recente segnalazione rappresenta in realtà soltanto l’ultimo episodio di una serie di avvelenamenti “intenzionali” nei confronti di almeno 400 ragazze, con l’obiettivo di impedire l’istruzione femminile.

Il primo avvelenamento risale al 30 novembre, quando diciotto studenti della scuola tecnica Nour della città religiosa di Qom giungono in ospedale con sintomi di intossicazione grave. Da allora, più di dieci le scuole femminili nel mirino: sono almeno 194 gli avvelenamenti della scorsa settimana in una scuola femminile nella città di Borujerd, così come a Teheran e Ardebil.

Centinaia le famiglie spaventate che, vedendo da novembre figlie bambine o adolescenti rientrare da scuola con nausea, mal di testa, tosse, respiro difficile, palpitazioni, letargia, hanno messo in atto un passaparola che ha fatto chiudere le scuole per due giorni la settimana scorsa. Già il 14 febbraio, un gruppo di genitori protestava davanti al governatorato della città per chiedere spiegazioni.

Ad aggravare l’accaduto le ultime notizie sui social, secondo cui una delle studentesse di Qom avvelenate da sostanze chimiche non ancora certificate, sarebbe morta. Si chiama Fatemeh Rezaei e appare su centinaia di hashtag su Twitter. La famiglia dell’undicenne, allieva della più prestigiosa scuola religiosa della Repubblica islamica, è stata minacciata di non divulgare la notizia, poi rilanciata dagli amici della vittima.

Non è un caso che gli avvelenamenti siano cominciati proprio a Qom, città da 1,2 milioni di abitanti. Una città “santa”, sede di molte istituzioni del clero iraniano e che ha ospitato la maggior parte dei leader del paese.

Le dichiarazioni sul movente

Sebbene Panahi non abbia indicato i possibili responsabili nelle sue dichiarazioni, alcuni media locali riferiscono che le ragazze sarebbero state avvelenate proprio da movimenti di estremisti religiosi, probabilmente ispirati dalle politiche dei talebani afghani di vietare l’accesso alle scuole a bambine e ragazze.

Alla luce dei primi elementi emersi con le indagini del ministero dell’Istruzione e l’intelligence iraniana, il viceministro iraniano alla Salute ha affermato:

«Si è scoperto che alcune persone volevano che tutte le scuole, in particolare le scuole femminili, fossero chiuse», aggiungendo tuttavia che «i composti chimici usati per avvelenare gli studenti non sono prodotti chimici di guerra, gli studenti avvelenati non hanno bisogno di trattamenti aggressivi, e una grande percentuale degli agenti chimici usati sono curabili».

Anche Homayoun Sameh Najafabadi, membro del comitato parlamentare per la Salute, ha confermato in un’intervista al sito “Didbaniran” che l’avvelenamento delle studentesse nelle scuole di Qom e Borujerd è intenzionale. Le dichiarazioni giungono dopo che il ministro dell’Istruzione, Youssef Nouri, aveva definito come mere “voci” le notizie sull’avvelenamento.

Un evidente cambio di posizione da parte del regime, che appena dieci giorni fa definiva come “non confermate” le notizie degli avvelenamenti.

La condanna dell’Italia

Dinnanzi ai fatti di un Paese che continua ad essere dilaniato da forti instabilità politiche, la Lega ha deciso di presentare un’interrogazione parlamentare:

«Ennesimo episodio sconcertante che non può lasciarci in silenzio […] L’accanimento terribile e violento contro le donne iraniane continua a sconvolgerci e a indignarci. Come Lega, domani presenteremo un’interrogazione al ministro degli Esteri Tajani, perché su fatti drammatici del genere urgono risposte celeri», si legge in una nota dei senatori della Lega nelle commissioni Esteri e Difesa: Marco Dreosto, Andrea Paganella e Stefania Pucciarelli.

Severe anche le considerazioni di Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa verde e deputato di Verdi e Sinistra:

«I fatti gravissimi accaduti in Iran sono una dolorosa evidenza del fatto che ci troviamo di fronte a pratiche che ricordano l’orrore di quelle di sterminio naziste. Una situazione davanti a cui il Governo, insieme all’Unione europea, deve stabilire subito cosa intende fare per garantire il rispetto dei diritti umani»

Il ruolo delle donne nelle proteste

Parte dei movimenti di opposizione al regime iraniano ha accusato le autorità del paese per gli avvelenamenti, collegandoli al ruolo di riferimento che le giovani iraniane ricoprono nel movimento di rivolta nato con la morte di Mahsa Amini. Ad oggi, sui social circolano foto e video in cui le iraniane si tagliano i capelli e bruciano il velo islamico in segno di protesta.

Fonte: Agenzia Nova

Intanto, nelle ultime ore è stata rilasciata una cittadina 24enne spagnola, Ana Baneira, detenuta dallo scorso novembre. Le circostanze dell’arresto non sono mai state precisate, ma la durata della sua detenzione ha coinciso con il culmine delle proteste in Iran.

Gaia Cautela

Morire per una ciocca di capelli. L’Iran in rivolta per la tragedia di Mahsa Amini

Tre settimane fa, è successo qualcosa che ha sconvolto il mondo: il 16 settembre, la ventiduenne iraniana Mahsa Amini è stata picchiata a morte dalla polizia morale”, perché dal velo le sfuggiva una ciocca di capelli. La giovane è morta in ospedale tre giorni dopo e da allora, a partire dalle province con forte presenza di curdi, è dilagata nel Paese una rivolta.

Proteste a Teheran e nel resto dell’Iran per la tragedia di Mahsa (fonte: zazoom.it)

 

Arrestata per una ciocca di capelli fuori dall’hijab

La questione ha velocemente trovato eco in tutti gli angoli del mondo, soprattutto perché le donne iraniane hanno dato avvio alla più grande ribellione mai vista negli ultimi cinquant’anni.

Dal 1979, l’hijab, il velo, copre la testa delle donne già dall’età di nove anni. Fu detta “rivoluzione iraniana” e voluta dal regime degli ayatollah. “Rivoluzione” è un termine carico di storia, forse una delle parole più piene di significato in tutte le lingue: fa subito pensare alla ricerca e l’ottenimento di una libertà, in ogni caso più grande di ciò che precede. Nel caso delle donne iraniane e arabe tutte, questo termine ha avuto tutt’altra valenza, per mezzo secolo ha assunto il significato del suo contrario, quello di involuzione.

Mahsa era in vacanza a Teheran con la famiglia, originaria di una provincia del nord dell’Iran, quando è stata fermata proprio a causa del suo velo, che gli è costato la vita, solo perché non indossato rigorosamente a copertura di tutti i capelli.

Il generale Hossein Rahimi, il capo della polizia di Teheran, ha respinto le accuse di maltrattamento e ha dichiarato che la giovane è stata vittima diuno sfortunato incidente“, che sia morta di infarto e non per le percosse ricevute. Così la un altro colpo è stato inferto.

Al padre di Masha, Amjad Amini, è stato negato l’accesso alle informazioni riguardo il caso della morte di sua figlia:

“Nessuno mi dice cosa le hanno fatto e non mi fanno vedere i dati sulla sua morte”.

È intervenuto nella vicenda il presidente stesso dell’Iran, Ebrahim Raisi. Aveva promesso che sulla vicenda sarebbero state fatte indagini e pure con una certa celerità, ma ancora non vi sono novità, resta tutto nella vaghezza, seppur sembrano non esservi dubbi per le persone. Per il mondo intero è tutto chiaro: Mahsa è stata uccisa per una ciocca di capelli.

La morte della ventiduenne Mahsa fa scoppiare proteste che potrebbero cambiare per sempre il volto dell’Iran (fonte: lacrocequotidiano.it)

Le proteste dopo la morte di Mahsa e la risonanza in tutto il mondo

Nella sua inspiegabile tragedia Mahsa è divenuta il simbolo di una nuova lotta importantissima per un progresso sociale. Le piazze hanno iniziato ad infiammarsi, seguite soprattutto dalle università. Molte donne stanno scendendo in strada e, in segno di protesta contro il regime, si tagliano i capelli o bruciano hijab. Molti uomini le affiancano.

Attraverso i social media soprattutto arrivano testimonianze di ciò che sta accadendo: chi protesta viene investito dalla repressione delle forze dell’ordine iraniane, che si armano di gas lacrimogeni e violenza. Gli arresti sono in continua crescita e, purtroppo, alcune fonti segnalano la morte di varie persone.

Le donne che si ribellano rischiano la vita, ma continuare a lasciare da parte la libertà individuale non è un prezzo che vogliono ancora pagare.

Internet aiuta a raccontare, affinché sempre più persone possano sapere – così come le stesse iraniane supplicano di fare – e perché ciò che finora è stato normalità, possa esser descritto per quello che realmente è: una violazione dell’inalienabile libertà personale. Anche persone note stanno veicolando la propria popolarità perché un cambiamento reale possa avvenire. In Iran,

In Italia, l’attrice Claudia Gerini, nella giornata di ieri, si è filmata mentre si tagliava una ciocca di capelli, poi messa in una busta indirizzata all’ambasciata iraniana in Italia, a Roma: un gesto forte e chiaro, che molte altre attrici, anche non italiane, stanno compiendo per sottolineare l’importanza di far qualcosa e per farsi sentire più vicine alle donne iraniane.

L’obiettivo è quello di smuovere le coscienze della classe politica iraniana, di coloro che mantengono vivo un regime poco rispettoso dei diritti delle persone.

 

Un’italiana arrestata a Teheran

Alcune fonti segnalano dati terribili: molte persone sarebbero morte per la repressione delle proteste e ancora di più sono state arrestate.

Inoltre, è giunta la notizia dell’arresto di una ragazza italiana, in viaggio in Iran, la romana Alessia Piperno. Non si avevano notizie dallo scorso 28 settembre, data dell’arresto. Lei una viaggiatrice per lavoro, ormai da sette anni, con un amore grande per il mondo e le diverse culture. La trentenne travel blogger potrebbe trovarsi nel carcere di Evin, noto per essere il luogo riservato agli oppositori politici della repubblica islamica iraniana.

Alessia Piperno, travel blogger italiana arrestata in Iran (fonte: zazoom.it)

Alessia è riuscita, dopo giorni di silenzio, è riuscita ad avere una telefonata con la famiglia. Ha raccontato di essere stata fermata dalla polizia a Teheran, ma i motivi dell’arresto rimangono ancora sconosciuti.

Amnesty International ha ricordato quelli sono i capi d’accusa che il governo iraniano solitamente imputa ai prigionieri politici, per volere degli ayatollah, gli stessi che nel ’79 introdussero proprio l’obbligo dell’hijab:

“L’Iran ha detto di aver fermato nove stranieri che avrebbero preso parte alle manifestazioni. Se questa fosse l’accusa anche per Alessia sarebbe del tutto ingiustificata – le parole di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italian – ma i possibili capi d’accusa rischiano di passare dalla ‘minaccia contro la sicurezza nazionale’ alla ‘propaganda’ fino allo ‘spionaggio’.”.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio è a lavoro per cercare di risolvere la complicatissima situazione. Ha già avuto un colloquio telefonico con il suo omonimo iraniano, Hossein Amir-Abdollahian. Attraverso una nota ne sono stati resi noti i punti affrontati. Sembrerebbe, però, che il nome della giovane italiana non sarebbe stato fatto inizialmente. Il ministro Iraniano avrebbe parlato solo della situazione generale, dei disordini registrati dopo la morte di Mahsa Amini. Sarebbe stato, secondo fonti attendibili, il ministro Di Maio a sollevare la questione dell’arresto di Alessia.

In ogni caso, la Farnesina, per la liberazione della nostra connazionale, come reso pubblico tramite una nota, sta facendo leva su “legami secolari” che uniscono il nostro Paese all’Iran. Il lavoro per la diplomazia è molto difficile. La vicenda è delicatissima, una problematica potrebbe avere conseguenze gravissime.

Intanto le donne iraniane continuano a combattere per la propria libertà e anche quella di tutti noi indirettamente, poiché la libertà è un concetto universale o almeno dovrebbe esserlo. Forse, finalmente, stanno per esser spezzate alcune delle catene imposte dall’uomo conservatore che spesso confonde la tutela della libertà individuale con il mancato rispetto della moralità.

 

Rita Bonaccurso

…l’Università di Messina è stata già chiusa in precedenza?

La città di Messina, nella sua lunga e gloriosa storia, spesso ha dovuto affrontare momenti difficili come quello che noi tutti stiamo vivendo in questi giorni nebulosi.

Tra le drastiche misure per fronteggiare la minaccia del contagio, quasi una settimana fa il Governo ha disposto, tra le altre, la sospensione delle attività di tutti gli atenei presenti sul territorio nazionale. Non è la prima volta che l’ateneo peloritano ha subito un provvedimento del genere, anche se con le dovute e numerose differenze: l’Italia ancora non esisteva e la città mamertina era sotto la dominazione spagnola.

Ma, proprio in questo periodo, ci è venuto in mente questo collegamento storico: è il momento di salire sulla macchina del tempo e immergersi in uno dei capitoli più celebri e drammatici della storia della nostra città.

La citta di Messina nel Seicento – Fonte:lacooltura.com

 

Il legame tra Università e città

Il nostro viaggio inizia il 2 dicembre 1599 , quando l’Università di Messina conferì la prima laurea a Giovan Battista Castelli, divenuto in seguito un noto giudice.

Nonostante la fondazione dell’ateneo risalga al 1548, soltanto dopo una lunga disputa con l’Università di Catania, davanti al tribunale della Sacra Rota è stata ottenuta la possibilità di conferire i titoli di studio.

Da allora, l’Università messinese è cresciuta, sia in prestigio sia in numero di matricole, grazie anche alla posizione strategica della città dello Stretto. Infatti, Messina era una meta più appetibile, in confronto alla città etnea, per gli studenti forestieri, provenienti dalla Calabria e da Malta.

Tra l’Università e le élite cittadine intercorreva un profondo legame, sancito dalla possibilità riservata a queste ultime di scegliere i docenti, il Rettore (che a quei tempi era uno studente, come accadeva negli altri atenei italiani), i riformatori e altri uffici interni.

Lo Studium Urbis (antica denominazione dell’Università) aveva un ruolo centrale, poiché garantiva la formazione delle élites culturali e politiche cittadine. In particolare, gli studiosi di diritto erano chiamati in causa dal Senato cittadino per la difesa nelle varie sedi dei numerosi privilegi della città, fondamenta del progetto di ascesa di politica di Messina.

L’antico portale dello Studium, attualmente collocato nel cortile della nuova sede dell’ateneo – Fonte:messinaora.it

 

Il progetto di ascesa politica ed autonomia

Negli anni Venti del Seicento prese corpo tra le élite cittadine l’obbiettivo di far diventare Messina la capitale di diritto della Sicilia orientale, visto che di fatto già lo era. La proposta fu quella di dividere in due viceregni il territorio siciliano, fino a quel momento unificato sotto un unico viceregno, con Palermo capitale.

L’azzardo politico fu supportato dalla scissione della provincia gesuitica siciliana in due parti (1628), una delle quali facente capo a Messina. Questa mossa da parte della Societas Iesu (Compagnia di Gesù, volgarmente gesuiti) fu il frutto di una collaborazione tra il Senato e i gesuiti messinesi, che ottennero la gestione della facoltà di Teologia.

L’offerta di quasi due milioni di scudi arrivò nel 1629, ma fu controbilanciata dalle offerte congiunte della città di Palermo e del Parlamento siciliano. L’ambizioso progetto di “Messina capitale” dunque naufragò, anche a causa della retromarcia del preposto generale dei gesuiti, che nel 1633 riunificò la provincia, provocando inoltre nuovi scontri in merito alla gestione dello Studium.

L’ingerenza di Palermo evidenzia il conflitto in atto in quel periodo tra le due città e più in generale tra la Sicilia occidentale del grano e la Sicilia orientale della seta. Il susseguirsi di altri eventi di scontro mutò anche il rapporto tra Messina e Madrid, sempre più incrinato. Nel frattempo, in città si costituirono due schieramenti contrapposti: i Merli, filogovernativi, e i Malvizzi, sostenitori del Senato, di cui facevano dichiaratamente parte alcuni esponenti dell’Università.

Le tensioni tra le due parti mutarono nel 1674 in una guerra civile, sfociata nella celebre rivolta antispagnola.

Il palazzo del Senato messinese – Fonte:tempostretto.it

 

La rivolta antispagnola

Seguendo l’antica legge del cacciare un invasore chiamandone un altro, i ribelli invocarono l’aiuto della Francia di Re Luigi XIV, che accettò strategicamente. Infatti, il conflitto garantiva l’apertura di un nuovo fronte della guerra d’Olanda, nella quale il regno francese fronteggiava proprio la Spagna.

Dopo che il generale della marina francese Louis de Vivonne  entrò trionfante nella città peloritana (1675), in seguito alla debacle della flotta spagnola a Stromboli, i messinesi non si trovarono di fronte ad una situazione migliore, a causa delle ristrettezze dovute al blocco navale e alla carestia.

Dopo quasi quattro anni di conflitto, Francia e Spagna posero fine alla Guerra d’Olanda attraverso il trattato di Nimega.

La pace fu siglata all’insaputa dei messinesi, nonostante diversi ambasciatori tentarono di trattare in precedenza con il Re Sole per ottenere impegni precisi.

Il ritorno degli Asburgo (ovviamente ramo spagnolo), previsto da una postilla del trattato, non tardò ad arrivare ed ebbe conseguenze drammatiche per la città di Messina, dichiarata ciudad muerta civilmente (città morta civilmente).

Fuga di famiglie nobiliari messinesi dopo la rivolta antispagnola – Fonte:antoniocattino.blogspot.com

 

La “vendetta” degli Asburgo

La vendetta spagnola fu spietata e si concretizzò nell’eliminazione delle istituzioni protagoniste dell’ambizioso progetto autonomistico: il palazzo del Senato fu raso al suolo e le Accademie cittadine furono chiuse.

La città fu privata della millenaria Zecca e della sua memoria storica attraverso la confisca dell’Archivio cittadino.

Lo Studium fu chiuso a causa del suo ruolo centrale nell’aggregazione e formazione delle élite politiche e culturali, responsabili della rivolta. La sede dell’ateneo fu utilizzata per ospitare i forni militari e l’orto botanico, fondato da Pietro Castelli, che divenne luogo di pascolo per i cavalli delle truppe reali.

Si dovrà attendere il 1838 per parlare nuovamente di Università a Messina.

“Messina restituita alla Spagna” di Luca Giordano – Fonte:tempostretto.it

 

In conclusione…

In seguito alla repressione la città non si sarebbe ripresa facilmente e non sarebbe mai tornata ai fasti e agli splendori dei secoli precedenti.

Tentammo di conquistar la Luna e forse avevamo gli strumenti per farlo, ma la Dea Fortuna o chi per lei ha deciso di non baciarci, condannandoci all’oblio.

Che possa questo periodo di stasi essere anche un momento di studio e di (ri)scoperta della meravigliosa storia della nostra città, che necessita sempre più di (ri)costruire una memoria civica collettiva.

 

Mario Antonio Spiritosanto

 

 

Bibliografia:

Bottari Salvatore e Chiara Luigi, La Lunga rincorsa. Messina dalla rivolta antispagnola al terremoto del 1908;

Novarese Daniela, Istituzioni politiche e studi di diritto fra cinque e seicento. Il Messanense Studium Generale tra politica gesuitica e istanze egemoniche cittadine;

Ribot Luis, La rivolta antispagnola di Messina. Cause e antecedenti (1591-1674);

https://www.unime.it/it/ateneo/presentazione/storia-dellateneo

https://universome.unime.it/2017/10/25/origini-universita-primato-mondiale/