Distacco della piattaforma Conger: cosa accade in Antartide

Le terre dei ghiacciai sono solo alcune delle vittime del riscaldamento globale. Tra tutte le aree colpite, l’Artico e l’Antartide, insieme alla calotta groenlandese, sono le più sofferenti. Negli ultimi 40 anni la massa di ghiaccio perso in Antartide è aumentata di sei volte, portando ad un innalzamento del livello del mare di 1, 3 cm.

Cosa sta succedendo in Antartide?

Basta osservare gli ultimi eventi per comprendere come l’Antartide stia andando alla deriva. È recente la notizia secondo cui la piattaforma Conger, lunga 8 km e situata nella parte occidentale della Wilkes Land, sia collassata. Gli scienziati stanno ancora approfondendo i motivi dell’incidente, ma tra questi segnalano sicuramente l’aumento eccezionale delle temperature. Verso marzo l’area è stato colpita da un’anomala ondata di calore, che ha innalzato le temperature fino a 47 gradi.  È da sottolineare che la piattaforma aveva mostrato dei segnali di distacco già 15 anni fa, ma non aveva mai dato segni di un collasso così veloce. La situazione è peggiorata a partire dal 2020 e, tramite i rilievi satellitari, gli studiosi avevano dimostrato come già il 4 marzo del 2022 il Conger avesse perso metà della sua naturale estensione.

Distacco del ghiaccio: di cosa si tratta?

Il fenomeno del distacco del ghiaccio, o dell’ablazione glaciale, consiste nella rottura di una parte di ghiaccio appartenente ad una piattaforma, ad un ghiacciaio, ad un iceberg o ad un crepaccio. A seconda delle dimensioni del ghiaccio collassato si distingue tra un growler (alto meno di un metro e lungo meno di 5 m), un bergy bit (alto da 1 a 5 metri e lungo da 5 a 15 m), per poi individuare distacchi ancora più grandi, come nel caso del Conger.

Il momento precedente al distacco è caratterizzato da forti boati e, inoltre, la caduta del ghiaccio può provocare onde molto alte. Le ragioni  del distacco cambiano a seconda del caso considerato. Oltre alle temperature elevate, si possono riscontrare fenomeni sismici ed eventi mareali, onde di tempesta (storm surge), collisioni tra ghiacciai, screpolature del ghiaccio. Oggi gli scienziati stanno cercando di stabilire una legge previsionale del distacco, servendosi delle variabili di temperatura, densità, spessore, carico di impurità.

Fonte: blastingnews.com

Lo sviluppo del fenomeno tra XX e XXI secolo

Nel corso degli anni si sono susseguiti diversi fenomeni di questo tipo. Tra questi, il distacco di due aree della piattaforma glaciale di Larsen, nel 1995 e nel 2002. Nel primo caso si dispersero 3250 km2 di ghiaccio. Nel 2005, invece, quasi l’intera piattaforma glaciale di Ayles  si distaccò dal margine settentrionale dell’Isola di Ellesmere, che dal 1900 ha perso circa il 90% delle sue piattaforme. Allora si persero 87,1 km² di ghiaccio. Infine, una situazione molto critica, riguarda il ghiacciaio di Jakobshavn Isbrae, dal quale ogni anno si distaccano 35 miliardi di tonnellate di ghiaccio.

Jakobshavn Isbrae, Groenlandia

Antartide: non solo la piattaforma Conger

Accanto al Conger, sono parecchi i ghiacciai che continuano a collassare, come il ghiacciaio Totten e la piattaforma di Glenzer. Gli scienziati continuano ad osservare e analizzare questi eventi, mentre la loro attenzione è rivolta anche al ghiacciaio Thwaites, la cui caduta potrebbe determinare l’innalzamento dei mari globali di oltre mezzo metro. Il suo soprannome è infatti “ghiacciaio del giorno del giudizio”.

Gli studi condotti

Gli studi condotti hanno dimostrato che tra il 1979 e il 1990 l’Antartide ha perso circa 40 miliardi di tonnellate di massa di ghiaccio all’anno. La perdita è peggiorata sempre di più: tra il 2009 e il 2017 è risultata pari a circa 252 miliardi di tonnellate all’anno. Si è osservato come l’area più colpita sia la Wilkes Land, proprio il luogo in cui si trovava la piattaforma Conger.

Ghiacciaio Thwaites, Antartide

Consapevolezza tra scenari spaventosi

Al momento è difficile immaginare uno scenario positivo per l’Antartide, così come è difficile immaginarla privata dei suoi ghiacciai. Gli eventi che portano al loro collasso sono  peculiari, ma è semplice intuire che se non controllati  potrebbero portare a distacchi ancora più intensi, con conseguenze  per l’intero pianeta. Comprendere cosa accade in territori lontanissimi da noi significa sapere cosa sta accadendo e cosa potrebbe accadere a livello globale.

In questo caso non esiste alcuna distanza.

Giada Gangemi

Bibliografia:

Sopravvivere al freddo dell’Artico: una questione genetica

Gli uomini hanno colonizzato il pianeta in maniera efficiente, tanto da occupare gli ambienti più rigidi dal punto di vista climatico. Il National Snow and Ice Data Center dell’Università di Boulder in Colorado (Usa) afferma che circa 4 milioni di persone vivono al di sopra del Circolo Polare Artico. Il 10% di loro fa parte di una popolazione indigena.
Come fanno, dunque, gli individui che abitano al Polo Nord a sopravvivere alle bassissime temperature di questi territori? Quando necessario, l’uomo, per tentare di mitigare gli effetti avversi sulla sua salute, riesce ad adeguarsi fisiologicamente alle esposizioni croniche al freddo. Una parte di questo adattamento include cambiamenti genetici, ma anche risposte morfologiche e fisiologiche.

  1. Origini: l’Homo di Denisova e l’Homo di Neanderthal
  2. L’enigma dei Fuegini ed il grasso bruno
  3. Quali sono i geni associati al freddo?
  4. Adattamenti metabolici
  5. Come si è modificato il corpo?
  6. Effetti sulla salute
  7. Conseguenze del riscaldamento globale

Origini: l’Homo di Denisova e l’Homo di Neanderthal

 

https://ilbolive.unipd.it

Gli incroci dell’Homo Sapiens con l’Homo di Denisova in Siberia e di Neanderthal in Europa, avvenuti decine di migliaia di anni fa, sono correlati alla comparsa di alcune modificazioni genetiche.
Il genoma dell’Homo di Denisova, specie umana scoperta nel 2008, secondo uno studio condotto dall’Università di Copenhagen, presenta delle somiglianze con quello delle popolazioni siberiane, in particolare degli Inuit. Essi, infatti, possiedono due geni, TBX15 e WARS2, che consentono al corpo di generare calore bruciando grasso bruno.
L’Homo di Neanderthal, invece, oltre a disporre di un corpo tozzo e arti corti e muscolosi, possedeva un naso del 29% più largo rispetto all’Homo Sapiens, che gli permetteva non solo di scambiare volumi d’aria maggiori, ma anche di riscaldare ed umidificare meglio l’aria che respirava, assicurandogli la sopravvivenza in zone fredde e secche.

L’enigma dei Fuegini ed il grasso bruno

Recentemente, Lucio Gnessi e Giorgio Manzi dell’Università La Sapienza di Roma, hanno studiato i reperti ossei dei Fuegini, popolazione della Terra del Fuoco estinta circa un secolo fa, identificando due varianti genetiche mai descritte.
La ricerca dimostra come i Fuegini, grazie ai loro geni, fossero capaci di accumulare più grasso bruno rispetto al normale durante tutta la loro vita. Il grasso bruno viene bruciato al fine di produrre calore in risposta ad un calo della temperatura. Coloro che vivono in zone temperate, al contrario dei Fuegini, ne possiedono molto poco e non sempre in forma attiva, cioè in grado di produrre calore. Solo nei neonati è sempre presente in grande quantità. Il neonato, al momento della nascita, affronta uno shock termico del tutto improvviso, in quanto la temperatura ambientale è notevolmente più bassa rispetto a quella intrauterina. Il corpo del neonato reagisce allo stimolo freddo mettendo subito in atto dei meccanismi di produzione di calore, in cui interviene in primo luogo proprio il grasso bruno.

Quali sono i geni associati al freddo?

Quarant’anni fa, il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza, osservò che il 60% dei geni “antifreddo” posseduti dalle popolazioni indigene di tutto il mondo erano legati all’ambiente in cui vivevano.
Quelli connessi alle basse temperature sono circa 20.
Uno dei più importanti, ad esempio, è il TRPM8, il quale codifica un “sensore della temperatura” che permette di far percepire il freddo. Nelle popolazioni che vivono nell’estremo Nord, è molto frequente la presenza di una determinata variante di TPRM8 che rende meno sensibili al freddo: la possiede l’88% della popolazione in Finlandia; soltanto l’1% in Nigeria.

Un’altra modificazione significativa riguarda una particolare mutazione del gene ACTN3, il cui compito è quello di promuovere un aumento del tono muscolare. Sebbene sia posseduta da circa un miliardo e mezzo di individui, è più diffusa tra coloro che risiedono in aree fredde. I ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma hanno, infatti, scoperto che chi è in possesso di questa mutazione presenta una temperatura interna più alta rispetto alla normalità anche in condizioni critiche.

https://link.springer.com

Adattamenti metabolici

In media, il metabolismo basale delle popolazioni dell’Artico è del 19% più alto rispetto a quello di chi abita in zone temperate, ma può superare addirittura il 50%.
Proprio per questo, sono stati individuati geni associati al consumo di energia e al metabolismo.
Alcuni ricercatori dell’Università di Cambridge (Uk), che hanno condotto uno studio su popolazioni siberiane, hanno dichiarato:

«Ci sono segni inequivocabili di una selezione che ha favorito un più elevato metabolismo basale in grado di aumentare la capacità di riscaldarsi, e bassi livelli di grassi nel sangue, per la presenza del metabolismo energetico accelerato».

Inoltre, Matteo Fumagalli dell’University College di Londra, ha notato come gli Inuit, pur mangiando enormi quantità di grassi, non presentano un rischio insolito di sviluppare colesterolo alto o malattie cardiovascolari. Ciò è dovuto ad un’altra mutazione genetica.

«Pensavamo che la protezione cardiovascolare fosse dovuta alla preponderanza di grassi omega-3 nella dieta. Nel 100% degli Inuit, invece, è presente una mutazione genetica che ne modifica il metabolismo lipidico rendendo possibile consumare quantità spropositate di grassi, che, pur essendo buoni come quelli del pesce, non darebbero risultati altrettanto positivi se consumati dagli europei, dato che solo il 2% di loro possiede questo tipo di adattamento metabolico. Tutto ciò ha, però, portato con sé anche un cambiamento morfologico evidente, riducendo l’altezza di un paio di centimetri», afferma Matteo Fumagalli.

http://www.anagen.net

Come si è modificato il corpo?

La bassa statura è una peculiarità tipica di tutti i popoli dell’Artico. Possedere un corpo massiccio, infatti, garantisce che il calore venga preservato più efficacemente. Essi presentano, inoltre, un naso alto e stretto ed occhi sottili e allungati, che servono a preservare meglio le mucose, ed un pannicolo adiposo più spesso, che rappresenta uno strato di tessuto connettivo adiposo localizzato al di sotto della cute, che fa sì che i tratti del viso risultino più arrotondati.
In alcuni casi, solo alcune parti del corpo possono adattarsi alle basse temperature.

«Gli indiani dello Yukon sono esposti al freddo in modo discontinuo. Durante la caccia, solamente le estremità si rivelano utili a contrastare il freddo, permettendo così il mantenimento di una temperatura corporea più elevata», chiarisce Tiina Maria Makinen dell’Università di Oulu in Finlandia.

Effetti sulla salute

Se da un lato questi adattamenti conferiscono notevoli benefici alle popolazioni dell’Artico, dall’altro presentano un rischio più elevato di sviluppare determinate malattie. In particolare, la variante del gene TRPM8 predispone maggiormente allo sviluppo di emicrania e, secondo alcuni, persino di aneurismi cerebrali. Dall’analisi del genetista Konstantinos Voskarides dell’Università di Cipro, inoltre, emerge che tutte queste variazioni sono correlate all’insorgenza di tumori.

«L’incidenza di certi tipi di tumori, specialmente al polmone, al seno e al colon retto, è decisamente maggiore tra le popolazioni dell’Artico. L’esistenza di metodi che consentono all’organismo di sopportare le basse temperature ha, verosimilmente, aumentato il rischio di insorgenza di tumori. Essi non hanno comunque influito sui processi di selezione naturale, in quanto, solitamente, questi individui si ammalano da adulti, dopo aver avuto figli», spiega Voskarides.

Conseguenze del riscaldamento globale

In conclusione, se si considera che queste popolazioni si sono evolute per secoli in modo da sopravvivere in ambienti così rigidi, difficilmente riusciranno ad adeguarsi tanto velocemente ad un cambiamento climatico drastico come quello degli ultimi anni. L’Arctic Council afferma, infatti, che i Poli si stanno riscaldando molto più rapidamente rispetto al resto del mondo. Ciò farà sì che tutti i popoli stanziati in queste zone perderanno il proprio habitat, dovranno modificare la loro alimentazione e, in casi estremi, saranno costretti a migrare.

https://phys.org

Erica D’Arrigo

Per approfondire:

https://www.focus.it/scienza/scienze/perche-inuit-sopportano-freddo

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/20515840/

https://www.uniroma1.it/it/notizia/due-mutazioni-genetiche-alla-base-della-straordinaria-resistenza-al-freddo-dei-fuegini-gli

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4861193/

I batteri che salvano il pianeta

Nell’immaginario collettivo i batteri sono indissolubilmente legati alle infezioni e quindi al concetto di malattia. In pochi sanno che in realtà solo una minima parte dei microrganismi appartenenti a questo regno sono dannosi per l’uomo.

Ma cosa c’entrano i batteri con la salvaguardia dell’ambiente?

Da diversi anni sono ormai note le grandi potenzialità di questi microrganismi, che si sono rivelati un ausilio fondamentale in diverse branche della scienza: dalla medicina alla biologia, dalla ricerca fino alle applicazioni pratiche innumerevoli.

Recentemente due diversi studi hanno dimostrato come alcune specie di batteri siano in grado di aiutarci nella risoluzione di due problematiche che da anni affliggono l’ecosistema terrestre: l’inquinamento causato dalla plastica e il riscaldamento globale.

Il problema ambientale inerente alla plastica è ormai noto a tutti: gli oggetti in plastica impiegano un tempo più o meno lungo a degradarsi nell’ambiente, causando danni consistenti a tutti gli ecosistemi.

Risale al 2016 la scoperta da parte di Shosuke Yoshida del Kyoto Institute of Technology del batterio Ideonella sakaiensis 201-F6, pubblicata sulla rivista Nature. Questo microrganismo produce due enzimi in particolare: PETase e MHETase, in grado di digerire il PET (polietilene tereftalato).

Questa molecola fa parte della categoria dei materiali plastici ed è usato in particolare per la produzione di bottiglie; si stima che una bottiglia di dimensioni medie impieghi circa 450 anni a degradarsi grazie a fenomeni naturali spontanei. Provate a moltiplicare questo tempo per la quantità enorme di bottiglie di plastica che produciamo ogni giorno: soltanto una parte di esse sarà riciclata, senza contare tutte quelle che sono state inadeguatamente smaltite in passato.

Tuttavia, servirebbe una quantità notevolmente elevata di batteri per degradare anche una sola bottiglia in PET. Far proliferare una mole così grande di batteri sarebbe un approccio svantaggioso in quanto troppo dispendioso.

Come possono dunque aiutarci questi microrganismi?

A questa domanda hanno provato a dare una risposta i ricercatori dell’Università di Greifswald e del Centro Helmholtz di Berlino; il loro studio si inserisce in un quadro più ampio di lavori britannici e statunitensi volti a identificare la struttura tridimensionale degli enzimi PETase e MHETase (figura in basso).

Conoscere la struttura 3D di queste due proteine è fondamentale, in quanto permette di capire esattamente come esse svolgano la loro funzione e di riprodurle in laboratorio con tecniche di biologia molecolare in quantità virtualmente illimitate.

Come se non bastasse, la conoscenza dettagliata delle reazioni biochimiche, che permettono la degradazione del PET, renderà possibile modificare la struttura degli enzimi per renderli ancora più efficienti.

Le implicazioni per il futuro sono estremamente interessanti: una volta “migliorati” in laboratorio, PETase e MHETase potranno essere impiegati per smaltire grandi quantità di PET nei suoi costituenti elementari (glicole etilenico e acido tereftalico). Questi, a loro volta, potranno essere riutilizzati per la sintesi di nuove molecole di PET in un ciclo virtualmente chiuso, senza danni per l’ambiente e più efficiente degli attuali sistemi di riciclaggio.

Il secondo argomento che affronteremo richiede un breve ripasso dei meccanismi alla base del riscaldamento globale.

L’effetto serra è un fenomeno naturale essenziale per lo sviluppo della vita sulla terra: i cosiddetti gas serra non sono altro che sostanze presenti nell’atmosfera che intrappolano parte delle radiazioni solari mantenendole all’interno dell’atmosfera stessa. In poche parole, questi gas permettono alle radiazioni di entrare nell’atmosfera, ma non di uscirne. Questo non è altro che un meccanismo di regolazione della temperatura della superficie terrestre.

Infatti, le radiazioni solari trasportano energia (dunque calore) attraversando i vari strati atmosferici per essere poi riflessi sulla superficie terrestre, come una pallina lanciata contro il muro che torna indietro.

Se non fossero presenti i gas serra, i raggi solari e la loro energia tornerebbero nuovamente nello spazio dopo aver “colpito” la superficie terrestre: la temperatura del globo sarebbe così bassa da non permettere lo sviluppo della vita.

Tuttavia, se la concentrazione di gas serra aumenta eccessivamente si osserva il fenomeno inverso: la temperatura della superficie terrestre si innalza, con tutte le conseguenze dannose che ne derivano. Esempi di gas serra sono il vapore acqueo (H2O), l’anidride carbonica (CO2), il protossido di azoto (N2O) e il metano (CH4). Questi gas sono sia di origine naturale, sia antropica, termine che indica la loro produzione in una serie di processi dei quali è responsabile l’uomo.

Ma come fa un organismo piccolo come un batterio a ridurre l’effetto serra?

Semplicemente metabolizzando i gas sopracitati, ovvero sottraendoli dall’ambiente per trasformarli in sostanze innocue.

Lo studio pubblicato da Boran Kartal e colleghi del Max-Planck Institut su Nature si focalizza sul batterio Kuenenia stuttgartiensis. Questo microrganismo è in grado di fare reagire il monossido di azoto (NO) con l’ammoniaca producendo azoto (N2), normale costituente dell’atmosfera.

Il NO ha un potenziale dannoso: viene convertito a protossido di azoto (N2O), annoverato tra i gas serra.

Le principali fonti di NO di origine umana sono vari processi di combustione, come quelli dovuti al funzionamento di motori dei mezzi di trasporto (sia diesel che benzina e GPL) e alla produzione di calore ed elettricità.

Un’idea interessante potrebbe essere l’impiego di questi batteri negli impianti di trattamento delle acque reflue, che permetterebbe di sottrarre gran parte del NO prodotto da processi industriali.

Se degli organismi così piccoli possono fare così tanto per il pianeta, possiamo noi umani essere da meno?

A giudicare dagli ultimi dati sul riscaldamento globale e sulla plastica negli oceani, sembrerebbe di sì.

Emanuele Chiara

 

Bibliografia:

Structure of the plastic-degrading Ideonella sakaiensis MHETase bound to a substrate, Uwe T. Bornscheuer et al.

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09326-3)

Nitric oxide-dependent anaerobic ammonium oxidation, Boran Kartal et al. 

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09268-w)

La Terra chiede aiuto

Uno studio dell’autorevole “Lancet” dice che per impedire il collasso del pianeta dovremo cambiare radicalmente dieta e sistemi di produzione alimentari, riducendo drasticamente i consumi di carne.

Salvare il pianeta si può.

Il consumo globale di frutta, verdura, noci e legumi dovrà raddoppiare, mentre il consumo di prodotti alimentari come la carne rossa e lo zucchero dovrà essere ridotto di oltre il 50 per cento.

Ad affermarlo è uno dei più corposi studi scientifici mai realizzati e pubblicato dalla commissione Eat-Lancet su cibo, pianeta e salute.

La commissione, che riunisce 37 esperti provenienti da 16 paesi con competenze in materia di salute, nutrizione e sostenibilità ambientale, ha pubblicato la “Planetary Health Diet”, ovvero una dieta che, se applicata, porterebbe a ridurre le emissioni di gas serra a livelli compatibili con l’accordo di Parigi e a migliorare la salute dei 10 miliardi di persone che popoleranno il pianeta nel 2050.

Il rapporto per la prima volta fornisce i target scientifici da perseguire per giungere ad un sistema di produzione alimentare sostenibile e ad una dieta sana per noi e per il nostro pianeta.

In questo senso lo studio fornisce quello che dovrebbe essere il regime alimentare giornaliero: il 35 per cento delle calorie dovrebbe provenire da cereali e tuberi; per quanto riguarda le fonti proteiche, queste dovrebbero essere principalmente vegetali, riscoprendo per esempio il consumo dei legumi.

“Questo rapporto non fa altro che confermare ciò che avevamo già indicato con l’Oms.

Questa commissione ha rianalizzato i dati disponibili sul rapporto tra dieta e salute e conferma che una dieta a base di carboidrati, legumi, grassi insaturi è associata ad una minore mortalità, causata da malattie cardiovascolari e tumori”, afferma il dottor Francesco Branca, direttore del dipartimento della nutrizione per la salute e lo sviluppo dell’Oms.

“Anzi si conferma che, se questa dieta venisse adottata a livello globale, si potrebbero salvare oltre 10 milioni di vite l’anno”.

Una dieta equilibrata, molto simile a quella dei nostri nonni e genitori e praticata oggi in paesi come India, Indonesia o Centro America.

“La novità di questo rapporto è indubbiamente il legame tra questo schema alimentare e l’impatto sull’ambiente. Le attuali tendenze di consumo non sono più sostenibili. Bisogna cambiarle”, continua Branca.

“Solo con un cambiamento dei nostri stili di vita potremmo affrontare il cambiamento climatico e le sfide ad esso legate”.

Lo studio non evoca un vegetarianesimo estremo.

Piuttosto “richiama all’importanza di un riequilibrio dei consumi animali.

Lo scopo di questo rapporto è proprio di aprire un dibattito pubblico su questioni fondamentali”, conclude Branca.

L’uomo ha oggi il dovere di ascoltare le grida della “Terra”.

Se così non facciamo correremo il rischio di rimanere senza casa.

La natura, madre della vita, merita rispetto.

Antonio Mulone