Aspiranti giornalisti, grosse novità in arrivo! Ecco la riforma per la professione

Nulla di certo, né di molto sicuro, ma la proposta di riforma per accedere all’Ordine dei Giornalisti potrebbe sconvolgere la realtà di un intero sistema.

Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti afferma chiaramente le sue intenzioni: diventare giornalista dovrà essere sempre più difficile, perché essere giornalista sarà sempre più un ruolo di responsabilità! 

I nuovi giornalisti: verso la specializzazione assoluta

Riporta la informazioni primaonline.it.

Lo scorso 14 giugno, il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha approvato unanimemente il contenuto del documento per la prossima riforma dell’ordinamento professionale con particolare attenzione all’accesso.

  • Dunque, per diventare un giornalista professionista: potrebbe essere necessario conseguire una laurea magistrale in giornalismo, alla quale si potrà ovviare con una laurea triennale, cui comunque dovrà far seguito l’accesso e l’esecuzione di corsi specialistici controllati dall’Ordine.
  • Invece, per diventare un giornalista pubblicista: potrà essere richiesta una laurea di primo livello (triennale) come prerequisito per iniziare il biennio di praticantato già necessario per l’iscrizione all’albo, da accompagnare – questa è un’altra novità – a un percorso di formazione.

Dulcis in fundo, potrebbe anche essere rivisto il criterio di esclusività professionale; si sta lavorando per rendere l’attività giornalistica “prevalente” per tutti gli appartenenti all’alveo dei professionisti, piuttosto che “esclusiva” come è al momento.

Comunque, è segnalato che in un eventuale periodo di transizione gli attuali aspiranti potranno fare riferimento alle vigenti modalità d’accesso.

Il documento sarà ora oggetto di rivalutazione da parte del Consiglio nazionale e dei presidenti e vice presidenti regionali, che potranno suggerire ulteriori modifiche. Successivamente, alla Commissione speciale Riforma spetterà il lavoro di “rifinitura” e, infine, il testo sarà messo in votazione alla prossima riunione del Consiglio prevista per la metà di luglio.

Resta, in ultimissima istanza, vincolante il parere del Parlamento, che sarà chiamato a esprimersi in coda a tutti i procedimenti interni all’Ordine.

Giornalisti
Logo dell’Ordine dei giornalisti. Fonte: Ordine dei giornalisti

I punti deboli e il punto forte della riforma

Per combattere l’evoluzione instabile dell’infodemia servono professionisti, e professionisti di altissima levatura, in grado di sguazzare con agilità tra le nuove difficoltà che viziano il discorso pubblico.

In considerazione di ciò, tutto quanto proposto nella riforma dovrebbe suonare eccellente. E sarebbe ottimo se di ogni questione si potesse parlare in termini così ridotti, ma, purtroppo, in questo caso come negli altri, è meglio guardare al contesto e alle rivoluzioni poco comprensive che si promettono di stravolgerne alcuni elementi intoccabili.

Il Foglio definisce la riforma “una mazzata esiziale al pluralismo”. Infatti, pretendendo di irrigidire in tal modo i percorsi di formazione e di pratica degli aspiranti giornalisti si rischia di minacciare seriamente la differenza culturale propria di ognuno.

Ad oggi, giustamente, giornalista può essere chi ha studiato scienze della comunicazione, come chi ha studiato scienze politiche, giurisprudenza, storia o economia. E poi: oggi, giornalista, si può ritenere logico che sia anche chi è un esperto in un campo delle scienze sanitarie, per poter scrivere e argomentare di quello, che ugualmente ad altri è un ambito di interesse della nostra vita.

Di contro, creando professionisti tutti uguali, che siano solo provetti informatori, si ridurrebbe la specificità tematica di chiunque in favore di un’ “unica specificità” (l’espressione sarebbe impropria) indirizzata verso un numero ridotto di competenze.

Inoltre, rendere l’Ordine titolare di cotanti poteri potrebbe essere deleterio per la democrazia della professione stessa. Tutta questa irreggimentazione comporterebbe il rischio di consegnare de facto la facoltà di promozione o negazione a pochi eletti che siedono al vertice: dando struttura a un sistema che pare essere più all’insegna dell’autoritarismo che della benamata democrazia.

Conclusioni

Ciò contestato, benvenga la volontà di arricchire di competenze puramente giornalistiche i nuovi professionisti, ma anziché compiere sovvertimenti così drastici sarebbe forse più opportuno promuovere un’istruzione prettamente giornalistica di durata ridotta, al massimo semestrale, che sia comunque efficiente per stabilire quei requisiti basali imprescindibili.

Distinguere i giornalisti dai non giornalisti diventa fondamentale quando ai primi è dato il compito, e la grande responsabilità, di fare i gatekeepers, cioè di filtrare l’informazione che poi nuota, nel mare magno del web, modificandosi e traslandosi a velocità olimpionica.

Altri scrittori, commentatori del caso ed editorialisti rimangono legittimati a esprimersi, dispensando analisi e opinioni, presso blog e testate giornalistiche varie, ma non avendo le proprietà esatte che un giornalista futuro dovrà avere sarà bene che agiscano sotto il titolo di una diversa figura professionale.

Gabriele Nostro

Israele: la riforma di Netanyahu aumenta gli scontri. Tensione alle stelle a Gerusalemme

Ci troviamo a Gerusalemme, in Israele, dove da diverse settimane sono in corso delle proteste dovute a un progetto di revisione del sistema legale del paese. La riforma giudiziaria proposta dal nuovo esecutivo di Benjamin Netanyahu eliminerebbe la separazione dei poteri e indebolirebbe le basi della democrazia israeliana, concedendo un potere smodato al governo.

I manifestanti temono che questi cambiamenti abbiano un impatto notevole sulle donne, sulle minoranze, sull’economia e sull’intera popolazione.

Il primo ministro con i suoi alleati voteranno due dei progetti di legge che hanno come obiettivo modificare la composizione del comitato di selezione dei giudici. Inoltre, limiterebbero la capacità della Corte Suprema di rivedere e modificare le leggi. Infatti, per un paese che non possiede una costituzione scritta, il potere giudiziario è l’unico che può controllare il governo e salvaguardare i diritti individuali. Di conseguenza, con l’approvazione di questa riforma crescerebbe il potere del primo ministro mettendo a rischio la democrazia.

Foto dei manifestanti. Fonte : Rai News

Il 20 febbraio decine di migliaia di israeliani sono scesi in piazza in tutto il Paese, in particolare a Tel Aviv, dove hanno bloccato per circa un’ora l’autostrada di Ayalon e impedito a diversi funzionari di lasciare le loro residenze. Invece, a Gerusalemme oltre 100.000 persone si sono riunite fuori la Knesset, il Parlamento israeliano, chiedendo di ascoltare l’ appello del presidente Isaac Herzog, il quale aveva presentato una proposta di compromesso su cui negoziare, implorando la maggioranza di fermare l’iter parlamentare dell’approvazione della riforma per giungere a una proposta condivisa.

Alcuni deputati dell’opposizione sono entrati all’ interno dell’aula principale del Parlamento con grandi bandiere nazionali per sottolineare la preoccupazione del momento. Altri, a causa di schiamazzi, sono stati trascinati fuori a forza dal personale. In un corridoio alla vista del premier Netanyahu una manifestante ha urlato:

Corrotto. Cosa hai da sorridere? Vergogna! Stai demolendo la democrazia.

Ma il Premier non si è mostrato turbato ed ha continuato a a conversare con i giornalisti.

Lo sgomento dei cittadini di uno Stato ormai lacerato

Tutti i passi che stanno per avvenire nella Knesset ci trasformeranno in una pura dittatura, tutto il potere sarà con il Governo, con il capo del governo, e saremo tutti senza diritti.

Ha detto Itan Gur Aryeh, un pensionato di 74 anni.

Fonte: Euronews

Sono tante le persone che hanno partecipato, sventolando le loro bandiere simbolo dei valori che dovrebbero guidare lo Stato, mostrando coraggio e voglia di indipendenza. Lo dimostrano anche le parole del leader dell’opposizione Yair Lapid a una riunione del suo partito alla Knesset mentre i manifestanti si ammassavano all’esterno:

«Stiamo lottando per il futuro dei nostri figli, per il futuro del nostro paese. Non intendiamo arrenderci»

 

Nonostante la determinazione dei cittadini ed il grande afflusso di gente presente alle manifestazioni, per adesso non sembrano esserci risvolti positivi. Infatti, la Knesset ha approvato lunedì, nel primo dei tre turni obbligatori di votazione, le prime due disposizioni del colpo di Stato. Entrambi sono emendamenti alla Legge fondamentale sul sistema giudiziario: una permette alla coalizione di governo il controllo sul Comitato per le nomine giudiziarie; l’altro vieta alla Corte Suprema, in qualità di Alta Corte di Giustizia, di annullare le leggi fondamentali.

Ma questo non sembra fermare la volontà degli israeliani che sottolineano: «Siamo qui per lottare per la democrazia. Senza democrazia non c’è stato di Israele. E combatteremo fino alla fine».

È chiaro che questa situazione abbia gettato in profonda crisi la popolazione, al punto da far insorgere in alcuni ministri il timore di una guerra civile. Difatti, si pensa che le proteste aumenteranno di vigore nei prossimi giorni, in quanto si sono già uniti gli oppositori della colonizzazione israeliana in Cisgiordania e i movimenti di difesa dei diritti della comunità LGBTQ+, preoccupati dalla presenza nel governo di ministri apertamente omofobi.

Donna tiene in mano un manifesto contro il governo israeliano
Donna con manifesto contro il Premier Netanyahu. Fonte: Ansa

Le dichiarazioni dell’ONU su Israele

Sempre in questi giorni, il Consiglio di sicurezza ONU afferma che gli insediamenti di Israele in Cisgiordania “ostacolano” la pace. La risposta dell’ufficio del premier israeliano Benyamin Netanyahu non si è fatta attendere:

È unilaterale, nega il diritto degli ebrei di vivere nella loro patria storica e ignora gli attentati palestinesi a Gerusalemme. Quella dichiarazione non doveva essere pronunciata e gli Usa avrebbero dovuto non aderire.

Fonti diplomatiche hanno spiegato che Washington è riuscita a convincere sia Israele che i palestinesi ad accettare un congelamento di sei mesi di qualsiasi azione unilaterale.  Ciò comporterebbe un impegno a non espandere gli insediamenti almeno fino ad agosto da parte degli israeliani e da parte palestinese a non perseguire azioni contro Israele presso le Nazioni Unite e altri organismi internazionali.

Continuano i raid aerei in Cisgiordania

Malgrado la dichiarazione non vincolante in cui si esprime “preoccupazione e costernazione”, gli scontri non tendono a diminuire. Infatti, proprio stamattina giunge la notizia di un bombardamento su alcuni edifici di Gaza City da parte dell’ esercito israeliano, pare in risposta a sei razzi che si sospetta siano stati lanciati proprio da quelle strutture. I sei attacchi sarebbero dovuti, probabilmente, all’uccisione di undici palestinesi (tra i quali anziani di oltre 70 anni e un ragazzo di 16 anni), da parte dei militari israeliani nella città di Nablus e cento feriti.

E se per Israele le incursioni hanno lo scopo di contrastare futuri attacchi, per i palestinesi diventano un’ulteriore dimostrazione dell’occupazione per un conflitto che sembra non finire mai.

Serena Previti

Diritti sulla sessualità e riproduttività. In Spagna arrivano la “Ley Trans” e la legge sull’aborto

Lo scorso 16 febbraio per la Spagna è stata una “giornata storica”. Finalmente, dopo interminabili  battaglie, il Parlamento spagnolo ha approvato due importanti normative a tutela degli diritti e delle libertà, per le persone Lgbtq+ e le donne. “La Ley Trans es ley”, questa la frase pronunciata con orgoglio da Irene Montero, ministra delle Pari opportunità e rappresentate del partito spagnolo Unidos Podemos, di fronte al Congresso dei deputati a Madrid.

Autodeterminazione di genere per chi ha più di 16 anni, riforma sull’aborto e congedo mestruale retribuito per le donne: queste le normative promosse dall’attuale governo spagnolo di centrosinistra. Un grande passo in avanti per il paese, ma le critiche e le forti opposizioni non sono mancate. Vediamo nel dettaglio cosa è stato approvato e quali sono invece le direzioni intraprese da molti altri paesi.

La “Ley Trans”, per l’autodeterminazione di genere, è stata un trionfo

Con poco più di 191 voti a favore, 60 contrari e 91 astensioni, la normativa per l’uguaglianza reale ed effettiva delle persone trans e per la garanzia dei diritti delle persone Lgbtq+ è stata approvata.

La legge riconosce qualcosa di semplice, che se sei trans hai diritto ad affittare un appartamento o a divertirti in un luogo pubblico senza essere discriminato. Permetterà alle persone di non avere paura di dire chi sono!

Queste le parole della ministra Montero, che ha festeggiato avvolta nella bandiera simbolo (bianca, rosa e azzurra) della comunità, insieme ad un cospicuo gruppo di storici attivisti. Tra i tanti, Uge Sangil, donna trans e presidente della Federazione Statale Lgtbi+ spagnola, che ha scritto in un tweet:

La legge permetterà di chiedere gratuitamente, a chiunque abbia compiuto 16 anni, la modifica del proprio sesso all’anagrafe senza autorizzazioni giudiziarie o certificati medici-psicologici che attestino la disforia di genere o i due anni di trattamento ormonale in precedenza invece richiesti. Questa diritto oltremodo è estendibile ai giovani tra i 14 e i 15 anni, solo se però presentano l’approvazione di almeno un genitore. Mentre tra i 12 e i 14 anni, c’è bisogno dell’autorizzazione del giudice. La normativa proibisce oltretutto terapie di conversione e mette in atto misure contro l’omofobia nei diversi ambiti della società.

La legge non comporta nessun pericolo per i minori e non va contro le lotte dei femminismi

Ma alcuni movimenti femministi, come il Contra el Borrado de las Mujeres e il Movimiento Feminista de Madrid, non la pensano allo stesso modo di Uge Sangil. Questi ritengono che il consentire ad ogni uomo di registrarsi all’anagrafe come donna, senza nessuna prova medica di transizione, porterà a rendere la legge sulla “violenza di genere” come “carta straccia”. Il partito di estrema destra Vox, invece, ha parlato di un “allarmante” aumento dei casi di omosessualità e transessualità. La Montero sostiene che qui si tratti proprio di “Lgbtifobia”.

Riforma sull’aborto e congedo mestruale

A Madrid però non si è parlato solo di transessualità, ma anche di salute sessuale-riproduttiva e d’interruzione volontaria di gravidanza. Infatti, è stata approvata una riforma della legge sull’aborto. Grazie a quest’ultima le ragazze dai 16 anni in su avranno la possibilità di abortire, senza il necessario consenso dei genitori o dei tutori legali. Modificando quindi la misura voluta dai conservatori nel 2015, i quali davano questa opportunità solo dai 18 anni in su. La legge introduce un registro degli obiettori di coscienza ed elimina l’obbligo dei tre giorni di riflessione dal momento della decisione.

 

La ministra delle Pari opportunità Irene Montero
La ministra delle Pari opportunità Irene Montero, Fonte: ELLE

All’interno della stessa legge è stato introdotto un ulteriore incentivo, che fa della Spagna il primo paese europeo ad averlo concesso. Il congedo retribuito alle donne per il ciclo mestruale invalidante, insieme alla distribuzione di forniture gratuite di prodotti per l’igiene femminile nelle scuole, nei carceri e nei centri per le donne. Il congedo prevede un permesso retribuito di tre giorni al mese, bisognerà semplicemente presentare un certificato medico. Sarà lo Stato a farsi carico dei giorni di malattia. Come dichiara la ministra Montero “il cammino non finisce qui”.

Ma a che punto sono gli stessi diritti nel mondo?

In Europa sono ancora pochi i paesi che consentono l’autodeterminazione di genere. La Danimarca è stato il primo paese europeo a concederlo nel 2014. La Scozia ha abbassato l’età minima dai 18 anni ai 16, per poter chiedere il cambiamento legale. Riforme simili le possiamo riscontrare in Finlandia, Belgio, Portogallo, Norvegia e Svizzera. Non molto possiamo invece dire per tali diritti in Italia, che per il cambio di genere prevede attualmente la rettificazione chirurgica.

Sul versante extra-europeo la situazione non è migliore. Secondo quanto riporta il The Washington Post ,in Arkansas (Stato al sud degli Stati Uniti) è stato imposto un divieto che blocca le cure di genere per i minori, il denominato Malpractice Bill. Quest’ultimo pone ai medici il divieto di fornire terapie ormonali di conferma di genere o bloccanti della pubertà a chiunque sotto i 18 anni. Nessun intervento chirurgico può essere effettuato nello stesso Stato. Dalle parole del senatore repubblicano Gary Stubblefield:

L’idea che gli adolescenti, per non parlare dei bambini piccoli, siano in grado di prendere decisioni così sconvolgenti è assurda. Una società che permette loro di fare questo, è una società profondamente rotta.

In materia di congedo mestruale, nel mondo ci sono aziende e istituzioni che lo permettono, ma sono pochi i paesi che lo riconoscono istituzionalmente. Tra questi è previsto in Scozia, in Corea del Sud, a Taiwan o in Zambia (dove le donne non mandano nemmeno un preavviso o un certificato medico). In Italia, nonostante il dibattito sia aperto dal 2016 siamo ancora indietro, solo l’Università di Padova distribuisce gratuitamente prodotti per l’igiene femminile. Mentre per l’aborto sono oggi circa 24 i paesi che ancora lo vietano del tutto, soprattutto nelle aree del continente Africano. Secondo i dati del Guttmacher Institute nel mondo si stimano all’incirca 25 milioni di aborti clandestini, che purtroppo provocano la morte di molte donne ogni anno.

Parlare in tema di salute sessuale, riproduttività, uguaglianza di genere non è semplice. Le disparità sono molte ancora oggi ed evidenti. Di certo il mondo sta cambiando e continuerà a farlo. Ci saranno attivisti che lotteranno, oppositori che protesteranno. Sarebbe però significativo che in tutto questo nessuno venga mai privato della propri diritti di libertà e dignità.

Marta Ferrato

Perché la von der Leyen propone di abolire il Regolamento di Dublino

 

“Salvare vite in mare non è un optional” “C’è una differenza fondamentale di come le destre guardano all’essere umano. Ci sono loro, che si confrontano con l’odio, e ci siamo noi. Ma l’odio non ha mai portato buoni consigli”

Queste le parole pronunciate dal presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, durante l’assemblea plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo il 16 settembre, in risposta alle contestazioni sollevate da Jorg Meuthen, leader del movimento tedesco xenofobo Alternativa” per la Germania. Proseguendo con l’annuncio dell’abolizione del Regolamento di Dublino, tramite l’introduzione di un nuovo sistema di governance europea, il quale avrà una struttura comune per l’asilo ed i rimpatri basato sul principio di solidarietà, principio cardine del benessere europeo.

La Convenzione di Dublino, sottoscritta nel 1990 da 12 stati dell’Unione Europea ed entrata in vigore il 1° settembre 1997 sotto forma di regolamento – vincolante, quindi, per tutti gli stati membri – stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato competente ad esaminare la richiesta di un cittadino di un paese terzo od apolide richiedente asilo e ad ospitarlo in attesa che la richiesta venga valutata dalle autorità competenti.

La ratio di tale regolamento era quella di adottare una politica comune di asilo andando ad evitare eventuali conflitti di competenza e responsabilità nel caso in cui un soggetto avesse effettuato domanda in diversi paesi. Questo si basava originariamente su due criteri per la determinazione dello stato responsabile della gestione della domanda:

  1. Criterio soggettivo degli stabili legami: lo Stato dove abitano legalmente i parenti stretti del soggetto o dal quale ha già ricevuto un permesso di soggiorno
  2. Criterio oggettivo del primo ingresso: in assenza di legami accertati, lo Stato che si fa carico della domanda e dell’accoglienza è il primo dove il richiedente asilo mette piede

Quest’ultimo però nel corso del tempo, sia per esigenze sociali, sia per esigenze economiche venne nettamente preferito al primo.

Problematiche Regolamento

Il regolamento tuttavia non fu esente da critiche, soprattutto dai paesi più vicini al Mediterraneo – ed in primis proprio l’Italia – i quali si facevano e fanno tutt’ora carico del numero affluente di sbarchi, spesso irregolari, oltrefrontiera e dell’accoglienza dei migranti presso i centri di accoglienza, costretti spesso a vivere in condizioni disumane. Possiamo dunque sottolineare tre effettive problematiche:

  • eccessivo onere a carico dei paesi di sbarco
  • sistema di ripartizione inefficiente
  • violazione dei diritti umani dei migranti

Riforme Regolamento

Le norme di Dublino non sembrano idonee alla realtà attuale dei fatti, ai recenti ed incontrollabili flussi migratori, anche perché furono pensate per un periodo storico, ove neppure l’Unione Europea esisteva ancora, in previsione di una sostanziale complicità e standard comuni in tutti i paesi dell’Unione. Tutto ciò ha portato l’esigenza di innovare il sistema mediante le riforme, seppur lievi, del 2003 e del 2013.

Il picco di migrazione si ebbe nel 2015 e ciò portò al progetto di riforma da parte della Commissione Juncker, in seno al Parlamento Europeo; nel 2017 vi fu, poi, l’approvazione di una proposta cui obiettivo principale era la sostituzione del “criterio del primo ingresso” con un meccanismo obbligatorio di ripartizione dei richiedenti asilo tra i 27 paesi dell’Unione, con conseguente maggiore condivisione dell’accoglienza.

Il numero massimo di soggetti da ospitare sarebbe stato stabilito da una quota rapportata al PIL e alla popolazione. Vi erano norme a tutela dei centri accoglienza quali la possibilità di indicare una preferenza in merito allo stato in cui essere ospitato.

La riforma venne approvata dal Parlamento Europeo ed accolta dalla Commissione Europea, di cui scrisse il testo base, tuttavia si bloccò in sede di Consiglio dell’Unione Europea, a causa dell’opposizione dei paesi dell’Est, da sempre contrari all’accoglienza migranti.

Nel 2018 vi fu un vano tentativo di riforma da parte della Bulgaria a cui però posero veto proprio i paesi di frontiera a causa delle perplessità in merito ai tempi di entrata in vigore.

La Nuova Proposta

La Commissione presenterà il 23 settembre di quest’anno una nuova proposta che sarà valutata dai governi nazionali nelle settimane successive. Tuttavia, non sono ben chiare le modalità in cui opererà tale riforma, poiché la presidente von der Leyen è apparsa molto vaga durante il suo discorso. L’unico elemento desumibile è la forte centralità della solidarietà obbligatoria, tramite un sistema più “umano” che comporti doveri ed obblighi in capo a tutti gli stati. Tuttavia, al par del tentativo di riforma 2017, il pericolo maggiore rimane il potenziale muro formato dall’opposizione dei paesi dell’Est, quali Ungheria e Polonia, ed i ricchi paesi, quali i Paesi Bassi, ove non sembra esservi stato alcun mutamento né di idee né tantomeno di governo

Per questo motivo la Commissione potrebbe optare per un compromesso:

chi non accoglie la sua quota di migranti, si occuperà degli oneri relativi ai rimpatri di chi non ha il diritto all’asilo (o un permesso di soggiorno regolare).

                                                                                                                                     Manuel de Vita

Di cosa parla la riforma costituzionale?

La riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum il prossimo 4 Dicembre, con cui verrà deciso se approvare o respingere la legge Boschi (approvata il 12 aprile), è la più vasta e complessa mai intrapresa nella storia della Repubblica Italiana: prevede la modifica di più di 40 articoli, tanti quanti ne sono stati modificati nel corso degli ultimi 70 anni. La riforma è stata approvata in doppia lettura da camera e senato e ora dovrà passare al vaglio dei cittadini. Il referendum costituzionale è previsto dall’articolo 138 della costituzione italiana e deve essere indetto entro tre mesi dall’approvazione da parte del parlamento delle leggi di revisione costituzionale. Per essere valido non c’è bisogno di raggiungere il quorum. A differenza del referendum abrogativo, in questo caso non è necessario che vada a votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto.

Riforma del Senato La riforma prevede una forte riduzione dei poteri del Senato e un cambio nel metodo di elezione dei senatori, e avrà come conseguenza principale la fine del bicameralismo perfetto, cioè la forma parlamentare in cui le due Camere hanno sostanzialmente uguali poteri e uguali funzioni. Sulla maggior parte delle leggi sarà soltanto la Camera a dover decidere eliminando la cosiddetta “navetta”, cioè il passaggio della stessa legge tra Camera e Senato che oggi capita avvenga anche più di una volta, visto che le due camere devono approvare leggi che abbiano esattamente lo stesso testo. Il nuovo Senato non darà la fiducia al governo, che quindi per insediarsi e operare avrà bisogno soltanto del voto della Camera. Il Senato manterrà la sua “competenza legislativa”, cioè la possibilità di approvare, abrogare o modificare leggi, soltanto in un numero limitato di ambiti: riforme costituzionali, disposizioni sulla tutela delle minoranze linguistiche, referendum, enti locali e politiche europee. In tutti gli altri, la Camera legifererà in maniera autonoma: per approvare una legge, quindi, non ci sarà più bisogno di un voto favorevole da parte di entrambi i rami del Parlamento ma basterà il voto della Camera. Il Senato potrà chiedere modifiche dopo l’approvazione della legge, ma la Camera non sarà obbligata ad accettarne gli emendamenti. Insieme alle competenze, cambierà anche la composizione del Senato, che passerà da 315 a 100 membri. I senatori non saranno più eletti direttamente come avviene oggi, ma saranno scelti dalle assemblee regionali tra i consiglieri che le compongono e tra i sindaci della regione. In tutto il Senato sarà composto da 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e cinque senatori nominati dal presidente della Repubblica che resteranno in carica per sette anni, non percepiranno stipendio, ma avranno le stesse tutele dei deputati. I dettagli su come saranno eletti i senatori provenienti dalle regioni non sono specificati nel ddl Boschi: servirà una legge che determini esattamente come avverrà la loro elezione.

Titolo V La seconda parte più importante della riforma riguarda la riduzione dell’autonomia degli enti locali a favore dello stato centrale. Questa riduzione si otterrà con la modifica del Titolo V della seconda parte della Costituzione, che contiene le norme fondamentali che regolano le autonomie locali. Il Titolo V era già stato modificato con la riforma Costituzionale del 2001, quando alle regioni fu garantita autonomia in campo finanziario (con cui poter decidere liberamente come spendere i loro soldi) e organizzativo (con cui poter decidere quanti consiglieri e quanti assessori avere e quanto pagarli). Con il ddl Boschi, molte di quelle competenze torneranno in maniera esclusiva allo Stato, mentre le competenze concorrenti (cioè condivise tra Stato e regioni) scompariranno completamente. La competenza principale che rimane alle regioni sarà la sanità. Nella riforma sono anche contenute clausole che permettono allo stato centrale di occuparsi di questioni esclusivamente regionali, nel caso lo richiede la tutela dell’interesse nazionale. La riforma porterà anche all’abolizione definitiva delle province, che negli ultimi anni sono già state progressivamente svuotate delle loro principali funzioni.

Elezioni del presidente della Repubblica e abolizione del CNEL e referendum La riforma prevede anche una serie di cambiamenti di portata meno rilevante, ma comunque importanti. Il presidente della Repubblica sarà eletto dalle due camere riunite in seduta comune, senza la partecipazione dei 58 delegati regionali come invece avviene oggi. Sarà necessaria la maggioranza dei due terzi fino al quarto scrutinio, poi basteranno i tre quinti. Solo al nono scrutinio basterà la maggioranza assoluta (attualmente è necessario ottenere i due terzi dei voti fino al terzo scrutinio; dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta: Napolitano e Mattarella sono stati eletti così). Il ddl Boschi prevede anche l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, un organo previsto dalla Costituzione (all’articolo 99). Il CNEL è un “organo consultivo”, con la facoltà di promuovere disegni di. È composto da 64 consiglieri, in parte nominati dal Presidente della Repubblica e dal presidente del Consiglio (dieci persone), in parte dai rappresentanti delle categorie produttive (48 membri) e in parte dai rappresentanti di associazioni e volontariato (6 membri). Con l’abolizione delle province, del CNEL, e la riduzione dei senatori, è prevista una riduzione dei costi, ma non sono state fornite stime esatte sull’ammontare di questi risparmi, si calcola che possano essere nell’ordine di poche centinaia di milioni di euro, su un bilancio pubblico di circa 800 miliardi di euro.

Referendum e leggi d’iniziativa popolare La riforma lascia aperta la possibilità di introdurre referendum propositivi, cioè per proporre nuove leggi (oggi invece i referendum possono solo confermare o abrogare leggi già approvate). Il quorum che rende valido il risultato di un referendum abrogativo resta sempre del 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto, ma se i cittadini che propongono la consultazione sono 800mila, invece che 500mila, il quorum sarà ridotto: basterà che vada a votare il 50 per cento più uno dei votanti alle ultime elezioni politiche, non il 50 per cento più uno degli aventi diritto. Per proporre leggi d’iniziativa popolare non saranno più sufficienti 50000 firme, ma ne serviranno 150000.