Tutte le nuove terapie sperimentali approvate in Italia contro la COVID-19

Innumerevoli titoli sensazionalistici si sono susseguiti, su giornali e riviste non strettamente scientifiche, durante questa emergenza: dalle possibili panacee per tutti i mali alle cure più bizzarre, spesso risulta difficile orientarsi con cognizione di causa in questo labirinto di informazioni.

Oggi parliamo di tutte le novità in campo terapeutico e cerchiamo di comprendere quali potrebbero essere i farmaci più promettenti.

Sarilumab e siltuximab

Come ormai abbiamo imparato, la COVID-19 ha qualcosa in comune con l’artrite reumatoide (AR), patologia infiammatoria che colpisce le articolazioni. Già la scienza ha preso in prestito da questa malattia un farmaco, il tocilizumab, che già ha mostrato qualche risultato interessante, alcuni ancora non pubblicati, sopratutto nei pazienti gravi.

Se per il sarilumab ancora siamo agli albori, cosa ha spinto l’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) ad approvare studi a riguardo?

Entrambi (come potete notare anche dalla somiglianza dei nomi) sono anticorpi monoclonali: altro non sono che proteine prodotte in laboratorio, le quali legano specifiche molecole responsabili delle patologie delle quali stiamo parlando, in questo caso il recettore dell’interleuchina 6 (IL-6). Quest’ultima è una citochina (proteina prodotta in corso di infiammazione) che è molto rappresentata in pazienti affetti sia da AR che da COVID-19: per agire, l’IL-6 deve legare a sua volta il suo recettore, in modo tale da innescare processi che portano al proseguire dell’infiammazione e del danno a tessuti.

Immagine che mostra come il Kevzara (nome commerciale del sarilumab) lega il recettore dell’IL-6 (m IL-6R e sIL-6R) impedendo l’azione della stessa – Fonte:kevzarahcp.com

Questo aumento ingente delle citochine si verificherebbe soprattutto nei pazienti più gravi, che ad oggi devono pertanto affidarsi a farmaci in sperimentazione.

Attualmente sono in corso due studi: uno pilota su un piccolo numero di pazienti e senza confronto con altre terapie, e uno molto più ampio (AMMURAVID) nel quale saranno confrontati ben 7 diversi protocolli terapeutici. Tra questi spunta anche il siltuximab, che agisce direttamente contro l’IL-6.

L’ormai assodata intuizione sulla correlazione alto grado di infiammazione-gravità della COVID19 fa ben sperare: oltre – chiaramente – al meccanismo comune con l’ormai noto Tocilizumab.

Baricitinib

Altro farmaco in prestito dall’artrite reumatoide. Senza scendere troppo nei dettagli, questa volta il meccanismo è un po’ diverso: innanzitutto il farmaco è somministrabile anche per bocca (i precedenti sono utilizzati endovena); inoltre, agisce dopo che il legame molecola-recettore è già avvenuto, bloccando questa volta piccole proteine (JAK), sempre coinvolte nella sintesi delle citochine infiammatorie.

Il vantaggio potrebbe risiedere nella maggiore maneggevolezza; inoltre, se i precedenti si focalizzano solo su IL-6 e il suo recettore, le proteine JAK si trovano coinvolte in molti altri meccanismi che causano infiammazione, nonché (come abbiamo imparato) il peggioramento del paziente. Una sorta di effetto multiplo che potrebbe risultare più efficace.

Vari meccanismi d’azione del Baricitinib (ed altre molecole simili) – Fonte: Lancet

Ma c’è di più. Secondo uno studio pubblicato su Lancet, questo farmaco agirebbe anche su un altro fronte: l’ingresso del virus nella cellula. Come è ormai noto, la porta di ingresso del virus è il recettore ACE2: l’entrata del virus è tuttavia possibile solo se interviene anche un’altra proteina (AAK1) la cui funzione è inibita dal baricitinib.

Insomma, un’intuizione non da poco che, se si dimostrerà efficace, agirà su più fronti rispetto ad altri farmaci attualmente in possesso. Non a caso, l’Aifa ha autorizzato due studi, dei quali uno è il già citato AMMURAVID.

Selinexor

Questa volta cambiamo tipologia di farmaco: il selinexor è stato recentemente approvato negli USA nella terapia di casi molto resistenti di mieloma multiplo, tumore di interesse ematologico (ovvero che coinvolge cellule sanguigne, nello specifico le plasmacellule). L’approvazione è stata addirittura accelerata, in quanto questi pazienti non rispondono ad altre terapie e il farmaco si è dimostrato abbastanza efficace.

Ma cosa hanno in comune un’infezione virale ed un tumore?

Sembrerebbe strano tentare di utilizzare lo stesso farmaco, ma il selinexor induce la morte cellulare (apoptosi) delle cellule tumorali, così come potrebbe indurla nelle cellule infettate dal virus. Qualche cenno al meccanismo: anche qui abbiamo una doppia azione, mediata dall’inibizione di un processo chiamato “esportazione nucleare“; questa è svolta, tra le altre proteine, dall’esportina 1. 

Schematica descrizione dell’azione  antitumorale del selinexor: in questo caso, le proteine “bloccate” sono quelle che promuovono la crescita e sopravvivenza delle cellule tumorali

Quanto le proteine implicate nell’infiammazione, tanto quelle virali hanno bisogno dell’esportina 1 per svolgere la loro funzione correttamente. Da questo dato, è stato impostato uno studio che coinvolge 40 centri a livello internazionale.

Piccola nota sull’AMMURAVID: tutti i farmaci testati saranno associati alla terapia standard (idrossiclorochina) e confrontati non solo tra loro, ma anche con l’uso della sola idrossiclorochina stessa. Per questo motivo, lo studio promosso dalla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, potrebbe fornire informazioni molto interessanti per focalizzare la ricerca sulle cure realmente migliori rispetto ad altre, selezionando il farmaco più efficace.

Nell’attesa che questi studi dimostrino – come ci auguriamo – l’efficacia di nuove terapie, una cosa è certa: la scienza non si ferma, nemmeno di fronte ad un virus e ad una malattia totalmente nuovi.

Quello che possiamo fare attualmente, essendo il vaccino un’opzione più tardiva, è affinare al meglio la strategia terapeutica, grazie a due elementi fondamentali: l’intuito e le conferme inequivocabili dei dati scientifici.

Emanuele Chiara

 

Bibliografia:

https://www.aifa.gov.it/sperimentazioni-cliniche-covid-19

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1002/jmv.25964

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7137985/

L’astronauta J. N. Williams, in esclusiva per UniversoMe

©Giulia Greco – Jeffrey N. Williams – Unime, 31 Ottobre 2019 

Lo scorso 31 Ottobre, presso l’Aula Magna del rettorato, si è svolta la Cerimonia di Conferimento del Dottorato honoris causa in Fisica al Colonnello Jeffrey N. Williams, uno degli astronauti più importanti della NASA. L’astronauta ha partecipato a diverse missioni spaziali, trascorrendo in totale ben 534 giorni nello spazio, durante i quali ha compiuto cinque spacewalks per un totale di circa 32 ore. Il Colonnello ha lavorato allo sviluppo dei programmi della Stazione Spaziale Internazionale, contribuendo inoltre all’upgrade della cabina di pilotaggio dello Space Shuttle.

Noi di UniVersoMe siamo riusciti a porgli qualche domanda.

Cosa significa per lei ricevere il Dottorato honoris causa in Fisica presso la nostra Università?

Beh, è senz’altro un onore per me ricevere questo Dottorato proprio in questo Ateneo, che è uno dei nostri partner con cui collaboriamo.

Lei è stato fino al 2017 l’astronauta americano che ha trascorso più tempo nello spazio. Qual è il momento più bello che ha vissuto nello spazio, e quale quello peggiore?

Non credo di aver avuto un momento peggiore, ho avuto però tanti momenti bellissimi. Ho avuto la fortuna e l’onore di poter contribuire all’assemblaggio della Stazione Spaziale Internazionale e di vederla realizzata. E’ un incredibile risultato di collaborazione internazionale ed un punto di riferimento per la ricerca spaziale. Il primo modulo è stato assemblato nel 1998 e continuerà ad orbitare attorno alla Terra per tanti altri anni.

©Giulia Greco – Jeffrey N. Williams – Unime, 31 Ottobre 2019 

Il tempo che ha passato nello spazio l’ha cambiata? O comunque, ha influenzato qualche sua convinzione?

Certamente ha ampliato la mia visione della vita. Vedo il mondo in maniera diversa, le persone in modo diverso. Quando si cresce nella propria comunità si ha una visione limitata delle cose, e certamente un’esperienza del genere ti cambia. Per questo voglio condividere con tutti ciò che ho vissuto, come con voi oggi.

Nel suo libro “The work of his hand” afferma che lo spazio mostra la prodigiosa creazione di Dio. Crede che vi sia un conflitto tra fede e scienza? Come la fede può stare al passo con la continua rivoluzione scientifica? 

Non credo ci sia un conflitto tra scienza e fede, specialmente tra la scienza e la Bibbia. Dipende dall’approccio che abbiamo: se credi in Dio, e credi che si manifesti attraverso la natura e puoi studiare la natura attraverso la scienza ed attraverso la Sua parola, che riconosce la scienza, allora non c’è conflitto; se invece fai scienza partendo dal presupposto che non esiste un Dio, quindi devi spiegare l’esistenza di tutto senza una fede, devi affidarti al caso, ed è qui che nasce il conflitto.

©Giulia Greco – Jeffrey N. Williams – Unime, 31 Ottobre 2019 

Se potesse incontrare il Jeffrey N. Williams appena ventenne, quali consigli vorrebbe dargli? 

Gli consiglierei di continuare a lavorare duro, ad essere una persona di carattere, di studiare, di sviluppare e seguire i propri interessi e le proprie passioni così da essere pronti alle occasioni che si apriranno.

Oggi, specialmente in Italia, è difficile per i giovani scienziati essere valorizzati, portare avanti le proprie ricerche e pensare in grande. Cosa consiglia a tutti a tutti loro?

A volte pensiamo che aspirare a qualcosa di grande sia al di là delle nostre potenzialità. Ma il progresso, soprattutto nell’ambito scientifico, si è compiuto a piccoli passi. Quindi direi loro di cogliere le opportunità e responsabilità che gli sono offerte e non pensare subito e solo al grande obbiettivo che si ha. Così ti ritroverai ad un certo punto a guardarti indietro, e vedrai quanta strada e quanto contributo sei riuscito a dare senza accorgertene.

 

Antonio Nuccio

È possibile diagnosticare un tumore con un prelievo di sangue?

Una delle maggiori problematiche della medicina moderna è la diagnosi precoce dei tumori maligni: identificarli in uno stadio iniziale corrisponde a dare ottime chance di guarigione al paziente. I metodi oggi a disposizione per ottenere tale scopo sono essenzialmente 2 ed entrambi presentano grossi limiti:

  1. Metodiche di imaging: ecografia, radiografia, TC (ex TAC), risonanza magnetica e altre, che ci permettono di visualizzare strutture all’interno del corpo umano. Tuttavia, neoplasie molto piccole sfuggono costantemente a queste metodiche, nonostante un tumore sia considerato tale già quando composto da poche cellule.
  2. Dosaggio di marcatori tumorali: sostanze che se rilevate su un campione di sangue in quantità elevate indicano la presenza di un tumore. Esempio noto è il PSA (Antigene Prostatico Specifico) per il cancro della prostata. Tuttavia questi markers mancano spesso sia di specificità (ovvero si riscontrano elevati anche in patologie benigne) sia di sensibilità (anche se è presente una neoplasia sono a livelli normali).

Moderna TC

Inoltre, per evitare indagini inutili e costose, l’utilizzo di entrambi deve essere mirato a quei soggetti che seppur sani presentano dei fattori di rischio (condizioni ambientali o ereditarie/familiari) che aumentano la possibilità di sviluppare un cancro.

In altre parole: sarebbe impensabile sottoporre annualmente tutta la popolazione a TC total-body nel tentativo di evidenziare una neoplasia, considerando anche che questa metodica usa radiazioni ionizzanti e quindi è potenzialmente dannosa se usata indiscriminatamente.

Ma veniamo al dunque: è possibile identificare tumori con tecniche non invasive per il paziente e allo stesso tempo efficaci?

Da qualche anno ormai si sta puntando sulla cosiddetta biopsia liquida. Questa tecnica non è altro che un prelievo di sangue, adeguatamente processato in laboratorio. Permette di rilevare molecole rilasciate dal tumore (ccDNA, DNA circolare circolante) e in alcuni casi cellule neoplastiche.

Comporta per il paziente un disagio minimo (per coloro i quali hanno timore del prelievo ancora la scienza non offre molte alternative), se confrontata alla biopsia classica. Questa consiste nel prelevare mediante un ago un campione di tumore, presenta rischio di complicanze e certamente chiunque preferirebbe fare un prelievo sanguigno piuttosto che vedere un ago abbastanza lungo bucare la propria pelle.

Se fino ad ora vi è sembrata una metodica promettente, è inutile sottolineare che -come tutte le cose belle- presenta notevoli difficoltà (soprattutto tecniche). Pertanto ad oggi più che per la diagnosi è usata per monitorare i pazienti con una neoplasia già nota, evitando l’esecuzione di più biopsie invasive.

Ma come è possibile isolare componenti del tumore in mezzo a tutte le altre cellule del sangue?

E se in quel campione specifico non fossero presenti?

A questi problemi ha provato a dare delle risposte il team di ricerca italiano dell’Università degli studi di Catanzaro, guidato dalla dottoressa Malara, in uno studio pubblicato su Nature (sezione oncologia di precisione) nel novembre 2018. Lo studio si concentra non sulla rilevazione di cellule o ccDNA, ma ha un approccio totalmente nuovo: la valutazione delle modificazioni del secretoma. Sicuramente ognuno di voi avrà sentito parlare di genoma, l’insieme di tutti geni presenti nel nostro DNA. Il secretoma non è altro che l’insieme di tutte le proteine secrete, ovvero immesse nei liquidi al di fuori delle cellule, dalle cellule stesse. In particolare, in caso di neoplasia è stato riscontrato un aumento della protonazione, ovvero della quantità di protoni legati a tali proteine.

Questa variazione è spiegata dalla predilezione delle cellule neoplastiche per la glicolisi , via metabolica che ha come risultato:

  1. La produzione di sostanze che rilasciano protoni che quindi si legheranno alle proteine secrete.
  2. La produzione di sostanze che alterano la struttura delle proteine, facilitando il legame ai protoni

In breve: cellula tumorale → glicolisi esclusiva → più protoni → proteine secrete maggiormente protonate. La tecnica prevede una biopsia liquida (5 ml di sangue), la successiva eliminazione delle cellule del sangue (globuli rossi e bianchi, piastrine) e la coltura del materiale rimanente per 14 giorni.

Dalle cellule rimanenti, che nel tempo si moltiplicano, si estrae il campione per l’analisi del secretoma: questo verrà analizzato da un dispositivo all’avanguardia facente parte delle nanotecnologie. È stato inoltre confrontato il campione così ottenuto con campioni estratti direttamente dal tessuto tumorale: le componenti sono risultate essenzialmente identiche, convalidando l’ipotesi che anche da piccole quantità di sangue si possa risalire alla presenza di una neoplasia.

Nei 36 soggetti sottoposti allo studio, alcuni dei quali con neoplasia maligna nota ma non trattata e altri sani, è stata ritrovata una corrispondenza del 100% tra aumento protonazione e cancro.

Non solo: di due pazienti con valori intermedi di protonazione ,uno ha poi effettivamente sviluppato un melanoma (tumore maligno della cute).

Tra gli svantaggi di questa tecnica ci sono la laboriosità ed il costo. Inoltre un risultato positivo indica soltanto la presenza di un tumore, ma non il tipo e la localizzazione. Tuttavia, studiando il singolo soggetto è possibile valutare il rischio personale cancerogenico ed eventualmente approfondire con altre tecniche diagnostiche.

Questa interessante metodica può rappresentare un punto di svolta nella diagnosi precoce di cancro.

In fondo basta solo un po’ di sangue!

Emanuele Chiara

I batteri che salvano il pianeta

Nell’immaginario collettivo i batteri sono indissolubilmente legati alle infezioni e quindi al concetto di malattia. In pochi sanno che in realtà solo una minima parte dei microrganismi appartenenti a questo regno sono dannosi per l’uomo.

Ma cosa c’entrano i batteri con la salvaguardia dell’ambiente?

Da diversi anni sono ormai note le grandi potenzialità di questi microrganismi, che si sono rivelati un ausilio fondamentale in diverse branche della scienza: dalla medicina alla biologia, dalla ricerca fino alle applicazioni pratiche innumerevoli.

Recentemente due diversi studi hanno dimostrato come alcune specie di batteri siano in grado di aiutarci nella risoluzione di due problematiche che da anni affliggono l’ecosistema terrestre: l’inquinamento causato dalla plastica e il riscaldamento globale.

Il problema ambientale inerente alla plastica è ormai noto a tutti: gli oggetti in plastica impiegano un tempo più o meno lungo a degradarsi nell’ambiente, causando danni consistenti a tutti gli ecosistemi.

Risale al 2016 la scoperta da parte di Shosuke Yoshida del Kyoto Institute of Technology del batterio Ideonella sakaiensis 201-F6, pubblicata sulla rivista Nature. Questo microrganismo produce due enzimi in particolare: PETase e MHETase, in grado di digerire il PET (polietilene tereftalato).

Questa molecola fa parte della categoria dei materiali plastici ed è usato in particolare per la produzione di bottiglie; si stima che una bottiglia di dimensioni medie impieghi circa 450 anni a degradarsi grazie a fenomeni naturali spontanei. Provate a moltiplicare questo tempo per la quantità enorme di bottiglie di plastica che produciamo ogni giorno: soltanto una parte di esse sarà riciclata, senza contare tutte quelle che sono state inadeguatamente smaltite in passato.

Tuttavia, servirebbe una quantità notevolmente elevata di batteri per degradare anche una sola bottiglia in PET. Far proliferare una mole così grande di batteri sarebbe un approccio svantaggioso in quanto troppo dispendioso.

Come possono dunque aiutarci questi microrganismi?

A questa domanda hanno provato a dare una risposta i ricercatori dell’Università di Greifswald e del Centro Helmholtz di Berlino; il loro studio si inserisce in un quadro più ampio di lavori britannici e statunitensi volti a identificare la struttura tridimensionale degli enzimi PETase e MHETase (figura in basso).

Conoscere la struttura 3D di queste due proteine è fondamentale, in quanto permette di capire esattamente come esse svolgano la loro funzione e di riprodurle in laboratorio con tecniche di biologia molecolare in quantità virtualmente illimitate.

Come se non bastasse, la conoscenza dettagliata delle reazioni biochimiche, che permettono la degradazione del PET, renderà possibile modificare la struttura degli enzimi per renderli ancora più efficienti.

Le implicazioni per il futuro sono estremamente interessanti: una volta “migliorati” in laboratorio, PETase e MHETase potranno essere impiegati per smaltire grandi quantità di PET nei suoi costituenti elementari (glicole etilenico e acido tereftalico). Questi, a loro volta, potranno essere riutilizzati per la sintesi di nuove molecole di PET in un ciclo virtualmente chiuso, senza danni per l’ambiente e più efficiente degli attuali sistemi di riciclaggio.

Il secondo argomento che affronteremo richiede un breve ripasso dei meccanismi alla base del riscaldamento globale.

L’effetto serra è un fenomeno naturale essenziale per lo sviluppo della vita sulla terra: i cosiddetti gas serra non sono altro che sostanze presenti nell’atmosfera che intrappolano parte delle radiazioni solari mantenendole all’interno dell’atmosfera stessa. In poche parole, questi gas permettono alle radiazioni di entrare nell’atmosfera, ma non di uscirne. Questo non è altro che un meccanismo di regolazione della temperatura della superficie terrestre.

Infatti, le radiazioni solari trasportano energia (dunque calore) attraversando i vari strati atmosferici per essere poi riflessi sulla superficie terrestre, come una pallina lanciata contro il muro che torna indietro.

Se non fossero presenti i gas serra, i raggi solari e la loro energia tornerebbero nuovamente nello spazio dopo aver “colpito” la superficie terrestre: la temperatura del globo sarebbe così bassa da non permettere lo sviluppo della vita.

Tuttavia, se la concentrazione di gas serra aumenta eccessivamente si osserva il fenomeno inverso: la temperatura della superficie terrestre si innalza, con tutte le conseguenze dannose che ne derivano. Esempi di gas serra sono il vapore acqueo (H2O), l’anidride carbonica (CO2), il protossido di azoto (N2O) e il metano (CH4). Questi gas sono sia di origine naturale, sia antropica, termine che indica la loro produzione in una serie di processi dei quali è responsabile l’uomo.

Ma come fa un organismo piccolo come un batterio a ridurre l’effetto serra?

Semplicemente metabolizzando i gas sopracitati, ovvero sottraendoli dall’ambiente per trasformarli in sostanze innocue.

Lo studio pubblicato da Boran Kartal e colleghi del Max-Planck Institut su Nature si focalizza sul batterio Kuenenia stuttgartiensis. Questo microrganismo è in grado di fare reagire il monossido di azoto (NO) con l’ammoniaca producendo azoto (N2), normale costituente dell’atmosfera.

Il NO ha un potenziale dannoso: viene convertito a protossido di azoto (N2O), annoverato tra i gas serra.

Le principali fonti di NO di origine umana sono vari processi di combustione, come quelli dovuti al funzionamento di motori dei mezzi di trasporto (sia diesel che benzina e GPL) e alla produzione di calore ed elettricità.

Un’idea interessante potrebbe essere l’impiego di questi batteri negli impianti di trattamento delle acque reflue, che permetterebbe di sottrarre gran parte del NO prodotto da processi industriali.

Se degli organismi così piccoli possono fare così tanto per il pianeta, possiamo noi umani essere da meno?

A giudicare dagli ultimi dati sul riscaldamento globale e sulla plastica negli oceani, sembrerebbe di sì.

Emanuele Chiara

 

Bibliografia:

Structure of the plastic-degrading Ideonella sakaiensis MHETase bound to a substrate, Uwe T. Bornscheuer et al.

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09326-3)

Nitric oxide-dependent anaerobic ammonium oxidation, Boran Kartal et al. 

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09268-w)

Solo 6/100 maschi tra gli esseri umani più longevi. Perché le donne vivono più degli uomini?

Jeanne Calment (21 febbraio 1875/ 4 agosto 1997) è il nome della donna più longeva di sempre, che, con i suoi 122 anni, è risultata l’unica fino ad oggi ad avere la possibilità – 1 su 3 milioni – di vivere per un tempo ≥ 110 anni, avvalendosi così della nomina di supercentenaria. Pensate che questa signora è passata dalla prima trasmissione radio, all’invenzione dell’automobile, della TV e del computer, del cinema e del giradischi; ha vissuto la Prima e la Seconda Guerra Mondiale e gli anni della conquista dello spazio; è sopravvissuta a 22 presidenti francesi (nasce e muore ad Arles) ed a ben 10 Papi.

Ma perché esiste questa differenza tra i due sessi?

Si potrebbe pensare che il tutto si basi su tempistiche differenti di invecchiamento, ma le donne non vivono più degli uomini perché invecchiano più lentamente, piuttosto perché risultano essere più “resistenti” durante le varie età. Paradossalmente però, pur avendo una minore mortalità, hanno un maggiore tasso di malattia (soprattutto cronica), di visite mediche e di ospedalizzazione rispetto gli uomini. Questo quanto si legge nei lavori del professor Steven N. Austad, preside del Dipartimento di Biologia presso l’Università di Alabama a Birmingham, ed esperto di “invecchiamento”.

 

Allora in che modo le donne sono più “resistenti” degli uomini?

Di certezze ce ne sono poche, ma le ipotesi sono diverse ed avvincenti.

Una di queste è che le donne abbiano un sistema immunitario molto più robusto degli uomini. Questa opzione è confermata da numerose ricerche condotte dall’Università della Pennsylvania finalizzate alla dimostrazione che le donne sono meno soggette, o affrontano meglio rispetto alla controparte maschile, l’influenza, grazie alla “robustezza” del loro sistema immunitario. Robustezza che però si traduce in una maggiore suscettibilità (statisticamente dimostrata) delle donne nel manifestare malattie autoimmuni, patologie caratterizzate da una risposta anomala del sistema immunitario nei confronti di parti dell’organismo stesso.  Ma in che modo il sistema immunitario garantisca una più longeva sopravvivenza al gentil sesso, non si sa ancora.

Una seconda ipotesi, sicuramente più famosa, è basata sull’azione protettiva degli estrogeni, gli ormoni femminili che sembrerebbero giocare un ruolo difensivo soprattutto nei confronti di patologie quali ad esempio l’infarto e l’aterosclerosi. È nota a tutti l’incidenza maggiore nell’uomo di malattie cardiovascolari rispetto alle donne in età fertile. Questa differenza diminuisce notevolmente, finendo per far avvicinare i due valori, con la menopausa, periodo in cui la concentrazione di questi ormoni diminuisce in maniera drastica. Gli estrogeni, infatti, influenzano la biodisponibilità di ossido nitrico (NO), mediatore endogeno con effetti vasodilatatori, riducono le possibilità di formazione di coaguli e diminuiscono le LDL (il cosiddetto “colesterolo cattivo”) in circolo, riducendo così la possibilità di sviluppare l’aterosclerosi.

Gli estrogeni sono inoltre impegnati nella risposta allo stress ossidativo da accumulo di radicali liberi (molecole reattive potenzialmente pericolose), causa più che nota del normale invecchiamento in entrambi i sessi. L’estrogeno, una volta legato il suo recettore, attiva NF-kB, un fattore trascrizionale che aumenta la sintesi di enzimi con funzione antiossidante. Risulta chiaro come le donne, avendo più estrogeni e di conseguenza più enzimi anti-radicalici, contrastino meglio lo stress ossidativo.

Altra ipotesi è la cosiddetta “teoria del sesso eterogametico”: la mancanza del secondo cromosoma X causerebbe nell’uomo (XY) una serie di svantaggi dovuti alla perdita di più di 1000 geni assenti nell’Y, ma presenti nell’ X. Quindi qualsiasi allele (forma alternativa di uno stesso gene) mutato sul cromosoma X maschile non ha un corrispettivo compensatorio sul cromosoma Y, mentre la donna (XX) gode di questa opportunità. Se ciò non bastasse, ci sono evidenze che dimostrano che nel sangue periferico, più si è avanti con l’età, maggiore è il numero di cellule che tendono ad avere o il cromosoma X paterno o X materno, piuttosto che un’inattivazione random, dunque una sorta di scelta consapevole dell’allele “migliore”. Inoltre, il 17% dei geni inattivati nel cromosoma X non lo sono completamente e questo potrebbe essere un ulteriore vantaggio nella sopravvivenza a lungo termine.

Jose Viña e Consuelo Borrás, professori dell’Università di Valencia, hanno introdotto il concetto di “longevity associated genes” cioè di “geni associati alla longevità”, basandosi su studi condotti sui topi di laboratorio (Wistar rats). Questi geni, se iperespressi, correlano con una vita più duratura. Parliamo di geni antiossidanti, che codificano per gli enzimi impegnati nella risposta all’accumulo dei radicali liberi, e di geni che codificano per le proteine p53, nota come “guardiano del genoma”, e p16. Queste ultime sono impegnate nel controllo della replicazione cellulare, in particolare permettono alle cellule “sane” di procedere nel ciclo replicativo, mentre mandano in fase di quiescenza o, nei casi estremi, in apoptosi (morte programmata) le cellule irreparabilmente “alterate”.

 

Nel loro studio viene citata anche la telomerasi, un’enzima che evita che ad ogni replicazione del DNA, i cromosomi diventino sempre più corti con il rischio che venga danneggiata l’informazione genica e la cellula muoia o si trasformi. Quando questa è iperespressa però, aumenta la probabilità che la cellula da sana, diventi cancerogena, perché l’enzima la “immortalizza”, quindi parlare di “gene associato alla longevità” non sembra il caso. Eppure se la telomerasi si trova notevolmente espressa in cellule aventi una proteina p53 funzionante, si ha un aumento dell’aspettativa di vita del 50%. Questo soprattutto nelle femmine di Wistar rats, infatti l’enzima presenta un sito responsivo agli estrogeni e quindi la sua concentrazione aumenta di conseguenza. La telomerasi avrebbe anche un ruolo antiossidante, perché viene ad essere regolata dal glutatione (peptide con proprietà antiossidanti), i cui livelli nelle femmine di Wistar rats, sono più elevati che nei maschi.

Queste sono solo alcune delle teorie che provano a spiegare la differenza tra i due sessi in termini di longevità. Osservando i dati registrati durante carestie ed epidemie, periodi di estrema difficoltà che hanno segnato la storia mondiale, le donne sono sopravvissute dai 6 mesi fino ai 4 anni in più rispetto agli uomini. Ma come si evince dall’immagine introduttiva all’articolo, non sono solo motivi prettamente “genetici”, spesso gli uomini tendono a mettersi in situazioni pericolose senza valutarne il reale rischio.

Nella corsa per l’immortalità, insomma, le donne sono in vantaggio rispetto agli uomini. Nessuno sa se nei prossimi decenni le cose potranno inaspettatamente ribaltarsi, ma fino a quel momento cari uomini, meglio non fare arrabbiare le donne, dovrete sopportarle per tutta la vita!

 

Claudia Di Mento

l’Italia è un museo a cielo aperto. Ma i musei in Italia?

Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea – Roma ©GiuliaGreco, 2017

Ogni volta che organizzo l’itinerario di un viaggio, una delle prime ricerche che faccio su internet  riguarda i musei che posso visitare nella meta da me scelta. Fino ad adesso ho avuto modo di visitare buona parte dell’Europa ed alcune città oltre oceano, ed ognuna di esse aveva un’attrattiva culturale ed artistica che meritava di essere visitata.

Ciò che mi ha sempre stupito e rincuorato, è stata la veloce possibilità di controllare immediatamente i siti web dei rispettivi musei, con le relative informazioni generali necessarie. Anche l’impostazione del sito è sempre piacevole da guardare, come la soddisfacente facilità di poter prenotare preventivamente il biglietto. E poi vogliamo mettere l’assoggettazione capitalista che i negozi dei musei esercitano? Vuoi o non vuoi qualcosa la devi comprare!! Accidenti… Peccato che tutte le volte in cui mi ritrovo a visitare una città italiana, ed ogni città ha un museo, tutta questa situazione idilliaca scompare miseramente.

Pergamon Museum – Berlino ©GiuliaGreco, 2018

Secondo un recente studio di Oxford Economics l’Italia è uno dei Paesi con il più alto numero di musei in base al numero di abitanti – più precisamente uno ogni 12 mila abitanti – disponendo, ad esempio una quantità di aree archeologiche, monumenti e musei triplicati rispetto alla Francia ma solo il museo del Louvre di Parigi incassa quanto tutti i nostri musei. Nel nostro Bel Paese abbiamo 4976 musei, lo sapevate?

La ricerca di Oltre Manica ha analizzato le strutture ed il loro rapporto con la tecnologia che caratterizza il 21esimo secolo: solo 57% dei nostri musei dispone di un sito internet o di account social. Rispettivamente un museo su due non ha un indirizzo web, e solo 1 su 4 redige una newsletter. Ancora più “divertente” è la situazione con le biglietterie online: solo uno su cinque ne ha una.

 

Museo di Roma in Trastevere – Roma ©GiuliaGreco, 2017

Ovviamente le circostanze diventano critiche riguardo l’internazionalizzazione e la comunicazione in lingua inglese: solo il 40% ha personale che parla in inglese e solo il 54% di quelli che detiene un sito web con traduzioni in lingua straniera. Ora, io capisco la nostra reticenza nella conservazione di una nostra cultura “elitaria” e di “nicchia” ma, signori miei, è tempo di imparare! Un po’ di furbizia!

In Italia l’80% dei musei non ha un negozio, e appena quattro sono attrezzati con un ristorante. Soltanto al Castello di Schonbrunn , a Vienna, tra caffè e ristoranti si contano 8 strutture (una ha perfino due stelle Michelin)  e British Museum e Louvre incassano ogni anno circa 22 milioni di euro con i servizi aggiuntivi, mentre al Metropolitan di New York il commercial trading vale oltre 50 milioni di dollari.

Metropolitan Museum of Modern Art – New York ©GiuliaGreco, 2018

Conseguentemente, il sistema museale italiano si regge su una contraddizione di fondo: è il più ricco del mondo per quantità di collezioni e per presenza sul territorio, ma il meno efficiente dal punto di vista del funzionamento e delle tante occasioni sprecate.

Intorno agli anni  ’50  e  ’60, si è sviluppata la cosiddetta “didattica dell’arte” che consiste nell’insieme degli strumenti e metodologie finalizzati al trasmettere un valore educativo fruibile per tutti, rendendo le opere esposte comprensibili ai più. La formulazione di nuovi programmi che coinvolgessero maggiormente la popolazione, ha potenziato la strategia museale rendendo le principali gallerie vere e proprie chicche del nostro patrimonio. Solo che… solo che, il problema odierno è che tutti i più importanti musei dispongono, sì, di validi dipartimenti di educazione, però le condizioni precarie e la mancanza di fondi non danno l’opportunità di offrire servizi ottimali.

MuME – Messina ©GiuliaGreco 2017

Considerati tutti questi dati, ci rendiamo conto che riassumiamo il detto “pane a chi non ha i denti”. Sarà che siamo pigri, che lasciamo che facciano gli altri al posto nostro, e chi porta avanti la “baracca” si spezza la schiena con risultati minimi. A tal proposito vi consiglio la lettura di un vecchio articolo di UVM riguardo il MuME (Museo Interdisciplinare Regionale di Messina -https://universome.unime.it/2017/06/19/museo-messina-litalia-fatta-adesso-bisogna-gli-italiani/), quante opere abbiamo ancora nascoste, quanta cultura dovrebbe essere conosciuta per creare una coscienza collettiva più ricca e consapevole? E soprattutto, puntando sui musei: quanti posti di lavoro riusciremmo a creare? Secondo la ricerca dell’Università di Oxford circa 250.000…

 

 

Giulia Greco

E se fosse possibile costruire il mantello dell’invisibilità di Harry Potter?

 

Se cercate la parola ”invisibilità” su Google, vi renderete subito conto di come l’idea di molti (soprattutto dei più giovani) riguardo l’argomento sia legata alla possibilità di realizzare il famoso “mantello” in grado di rendere qualsiasi cosa invisibile. Troverete inoltre tra i primi risultati un video realizzato in Cina nel quale un uomo scompare dopo avere indossato proprio un mantello, poi del tutto smentito in quanto falso (realizzato al computer).

Quanto c’è di scientifico nel concetto di invisibilità? Esiste concretamente al giorno d’oggi tale possibilità?

Numerosi ricercatori stanno e hanno tentato di realizzare tali dispositivi, principalmente con l’impiego dei cosiddetti metamateriali, ovvero materiali creati in laboratorio con proprietà del tutto sorprendenti.  Ma quali sono le problematiche principali riscontrate negli anni riguardo tale possibile tecnologia? Innanzitutto la difficoltà di rendere un oggetto invisibile a tutte le lunghezze d’onda (ovvero a tutti i “colori”) della luce naturale (a ogni colore corrisponde una diversa lunghezza d’onda, figura sotto).

Inoltre, restano irrisolte le questioni legate all’ombra e alla direzione della sorgente. In poche parole, anche se oggi è possibile rendere ad esempio una penna invisibile alla luce blu proveniente da una sola direzione, queste condizione non si verificano praticamente mai nella vita quotidiana. Infatti, la luce “bianca” solare contiene tutti i “colori” ovvero tutte le lunghezze d’onda dello spettro e viene da ogni direzione.

Capite bene che simili tecnologie non servirebbero praticamente a nulla!

Un esperimento molto vicino alla soluzione del problema è stato fatto nel 2018 presso l’Institut National de la Recherche Scientifique—Énergie, Matériaux et Télécommunications (INRS-EMT) di Montreal, in Canada. La ricerca è stata poi pubblicata su Optica, tra le più importanti riviste di ottica e fotonica.

Immagine riassuntiva: in basso, si osserva come un dispositivo tra oggetto (in verde) e fascio luminoso “annulli” la luce in ingresso. Un secondo dispositivo, posto dietro l’oggetto, la ricompone successivamente, dando l’idea di continuità dell’immagine e mascherando l’oggetto. Tuttavia, gli stessi ricercatori ammettono che sono ben lontani dalla creazione del famoso mantello.

Quali potrebbero essere, quindi, le nuove prospettive offerte dalla scienza?

Le risposte sulla questione invisibilità potrebbero arrivare da un campo nato da pochissimi anni: i quasicristalli. La scoperta di questi nuovi materiali è valsa a Dan Shechtman il premio Nobel per la chimica nel 2011. Curiosamente, nonostante la loro esistenza fosse stata teorizzata già nel 1982, Shechtman guadagnò oltre il Nobel anche aspre critiche e derisioni dalla comunità scientifica, che non credeva all’esistenza di tali materiali.

Ma quali sono le caratteristiche dei quasicristalli  che potrebbero risolvere il nostro “problema” invisibilità? Perché gli scienziati del settore erano così scettici a riguardo?

Modello atomico di un quasicristallo di argento e alluminio.

Per capirlo meglio dobbiamo prima definire i comuni cristalli: essi hanno una struttura ordinata e periodica, ovvero formata dalla stessa “unità fondamentale” ripetuta più volte ordinatamente. Esempio: un cubo con ai vertici determinati atomi si ripeterà per tutta la struttura con gli stessi atomi. In altre parole in qualsiasi punto guardi il cristallo avrà la stessa composizione, come nella figura sotto. Totalmente diversi sono invece i cosiddetti materiali amorfi (letteralmente “senza forma”) che non hanno una struttura ordinata.

Il termine “quasicristallo” nasce dall’esigenza di definire un materiale che è ordinato come i cristalli, ma non periodico: esiste la possibilità di trovare nella sua struttura dei punti che differiscono, senza che venga persa la simmetricità (altra caratteristica fondamentale dei cristalli). Anzi, ed è questo il punto cruciale, hanno una simmetria particolarissima detta pentagonale, ritenuta prima della loro scoperta impossibile.

È tale simmetria a conferire ai quasicristalli “proprietà fisiche sorprendenti”, a detta del geologo e ricercatore italiano dell’università di Firenze Luca Bindi, tra i massimi esperti nel settore. Lo stesso Bindi ha scoperto nel 2009 i quasicristalli di origine naturale studiando alcuni meteoriti (scoperta pubblicata da Science e inserita tra le migliori 100 del 2009 dal Washington Post) . Infatti, gli unici quasicristalli naturali che conosciamo provengono dallo spazio e si sono formati in seguito a collisioni ad altissima energia. Molto comuni sono invece i quasicristalli artificiali creati in laboratorio, che contengono perlopiù alluminio.

Sapete quali applicazioni hanno attualmente?

Rivestimento di alcune comuni padelle, lame di strumenti chirurgici e… rendere invisibili alcuni jet militari ai radar. Di fatto un radar è una sorgente di onde elettromagnetiche (onde radio/microonde) esattamente come il sole è fonte di luce (anche essa un’onda elettromagnetica). La differenza? Quella che definiamo luce è composta da onde con lunghezze d’onda e frequenze visibili dal nostro occhio e diverse dalle onde radio/microonde emesse dai radar.

Potrebbe dunque essere questo il materiale tanto ricercato per ottenere l’invisibilità?

Non c’è ancora una risposta certa: ad oggi ci sono soltanto 50-60 persone in tutto il mondo che si occupano di quasicristalli. Cosa ci permette di essere fiduciosi? Lo stesso Bindi ammette: “se c’è qualcosa che caratterizza la ricerca scientifica in questo settore sono le continue sorprese”. E come dargli torto? Un materiale che a detta di molti non sarebbe mai potuto esistere, può essere non solo creato in laboratorio, ma anche trovato in natura in meteoriti provenienti dallo spazio. Ha anche poi aggiunto il ricercatore italiano, in un’intervista rilasciata recentemente a Wired Italia, che a breve verrà annunciata la scoperta di un altro nuovo materiale: i quasi-quasicristalli.

Morale della favola: riguardo l’invisibilità non ci resta altro che farci sorprendere, ancora una volta, dai progressi della ricerca scientifica.

 

 

Emanuele Chiara

UniMe: Federica Migliardo riceve il premio Sapio

La professoressa Federica Migliardo del Dipartimento di Scienze Chimiche, Biologiche, Farmaceutiche e Ambientali dell’Università degli Studi di Messina è una delle tre eccellenze italiane che ha ricevuto il premio Sapio nell’ambito dell’innovazione e della ricerca.

“La ricerca scientifica è un fattore fondamentale per lo sviluppo del Paese”. Queste le parole introduttive di Alberto Dossi, presidente del Gruppo Sapio, azienda monzese che ha presentato la XVI edizione del Premio Sapio (qui il link ufficiale www.premiosapio.it), riconoscimento tributato ai tre migliori ricercatori e innovatori italiani. La cerimonia di consegna si è svolta nella Sala Zuccari del Palazzo Giustiniani del Senato della Repubblica a Roma. Tra i premiati anche Federica Migliardo, professore associato del Dipartimento di Scienze Chimiche, Biologiche, Farmaceutiche e Ambientali dell’ateneo messinese, ma che svolge anche attività di ricerca in collaborazione con altri prestigiosi atenei, quali l’Université Paris-Sud, dove è attualmente visiting scientist. La docente messinese è inoltre membro di diversi comitati internazionali e nazionali, quali il Research Panel e l’E-Focus di Euraxess e la Commissione Nazionale per l’Etica della Ricerca e la Bioetica del CNR e collabora con importanti organizzazioni internazionali, tra cui l’UNESCO.

 
Gli altri due premiati sono stati Irma Airoldi, ricercatrice del Laboratorio Cellule staminali post natali e terapie cellulari dell’Istituto Giannina Gaslini di Genova e Luca Ravagnan, Amministratore Delegato di Wise srl.
 
La professoressa Migliardo ha inoltre partecipato all’evento “Stem in the City”, che si è tenuto al Teatro La Scala di Milano nel ruolo di relatrice ed al Festival delle Scienze di Roma, svoltosi all’Auditorium Parco della Musica a Roma, dove ha curato la tavola rotonda sulle questioni di genere nella scienza a cui hanno partecipato anche altri docenti provenienti da tutto il mondo. Anche TgLeonardo e National Geographic, tra gli altri, si sono interessati al prestigioso traguardo ottenuto dalla docente messinese e le hanno dedicato delle interviste.
 
                                                                                                                                                               Ivan Brancati
 
 

Ettore Castronovo: una vita donata alla ricerca

Ettore Castronovo, radiologo e scienziato messinese, è conosciuto per le sue ricerche sull’impiego dei raggi x nella lotta ai tumori.

Primogenito di tre fratelli, nasce a Gesso il 21 gennaio del 1894. Frequenta la facoltà di medicina presso l’università di Roma, ma abbandona gli studi per partire come volontario nella fanteria allo scoppio della prima guerra mondiale.
Nel 1917 completa gli studi di medicina a Padova e dopo essere stato nominato ufficiale medico, parte con le truppe italiane in Francia.
L’anno successivo inizia la sua attività come radiologo presso l’ospedale militare di Messina. La sua permanenza nella città dello Stretto non dura molto, infatti tre anni dopo torna a Padova per lavorare come assistente universitario.
L’anno successivo si stabilisce definitivamente a Messina, dove inizia ad occuparsi di ricerca nel campo della radioterapia oncologica. Dirige per cinque anni il servizio radiologico dell’ospedale Puglisi Allegra ed istituisce il primo laboratorio di Radiodiagnostica e Radioterapia dei tumori della città.
Nel giugno del 1927 ottiene l’incarico della direzione dell’Istituto di Radiologia dell’Università di Messina e nonostante i gravosi impegni accademici, prosegue senza sosta la sua attività di ricerca presso l’ospedale Piemonte. È per lui il periodo più fruttuoso come ricercatore, diviene conosciuto a livello internazionale per le sue pubblicazioni su delle innovative applicazioni della radioterapia nella cura del cancro, campo che a quel tempo era poco sviluppato.

Grazie al grande contributo da lui dato nella ricerca in campo radiologico ed oncologico, dal 1946 al 1950 diviene vicepresidente della Società Italiana di Radiologia Medica e nel 1947 viene nominato presidente della Lega Italiana per la Lotta ai Tumori. In questa prospettiva il professore Castronovo diviene promotore di importanti innovazioni per la realtà oncologica siciliana. Il suo sogno, in occasione della costruzione del Policlinico di Messina è di trasformare l’Ospedale Piemonte in un Istituto oncologico di riferimento per tutta la Sicilia che si occupi sia della cura degli ammalati che della ricerca scientifica.

Nel 1948 a causa della reiterata esposizione alle radiazioni subisce l’amputazione di due dita della mano sinistra. Nonostante l’accaduto, nei successivi 6 anni continua a lavorare senza sosta sia nell’ambito della ricerca che in quello accademico. Le successive esposizioni riducono le sue mani a due monconi piagate :le stesse mani che sono scolpite sulla tomba del professore nel cimitero monumentale di Messina . Due mani di marmo bianco che squarciano un blocco di granito nero, simbolo del lavoro instancabile nella lotta contro il cancro di un uomo straordinario.

Il professore Castronovo si spegne nel 1954 a causa dello stesso male contro il quale aveva lottato per tutta la vita. Il suo operato rimane fonte di ispirazione per tutti i medici messinesi.

Renata Cuzzola

Dopo Dolly: Zhong Zhong e Hua Hua, un nuovo successo per la clonazione animale

L’Istituto di neuroscienze dell’Accademia cinese delle scienze a Shanghai ha recentemente reso pubblica la riuscita di un esperimento che ha portato alla clonazione di due primati, le scimmie Zhong Zhong e Hua Hua, con la stessa tecnica che vide la creazione della pecora Dolly. Una notizia meravigliosa dunque nell’ambito della ricerca biomedica, in quanto l’esperimento è finalizzato ad una “produzione in serie” di altri primati, in modo da ridurre il numero di cavie animali utilizzate per gli esperimenti  nei laboratori.

Le due scimmie su cui è stata effettuata la clonazione

 

I precedenti 

Il più noto precedente di clonazione animale è certamente quello della pecora Dolly che venne creata il 5 Luglio 1996 al Roslin Institute, a pochi chilometri da Edimburgo. Sebbene non fu il primo animale ad essere clonato con successo, fu il primo esperimento riuscito di clonazione mammifera effettuata utilizzando una cellula somatica adulta. La prima scimmia ad essere clonata fu invece Tetra, esemplare femmina di macaco reshus nata a Portland nell’ottobre del 1999, all’Università per le scienze della salute dell’Oregon, ottenuta però con la scissione dell’embrione, tecnica molto simile al processo naturale che porta alla nascita di gemelli identici.

 

L’esperimento 

La riuscita dell’esperimento su Zhong Zhong e Hua Hua è significativa perché dimostra che anche sui primati è possibile attuare la tecnica utilizzata in passato per la pecora Dolly. Numerosi erano stati i tentativi fino ad ora, ma tutti fallimentari ed anche Zhong Zhong e Hua Hua sono le uniche scimmie nate vive su 6 gravidanze, a conferma della difficoltà e dell’importanza del progetto. «Abbiamo provato diversi metodi – racconta Qiang Sun, direttore del Nonhuman Primate Research Facility dell’Accademia cinese delle scienze – solo uno ha funzionato. Ci sono stati tanti fallimenti prima di trovare la strada per clonare con successo una scimmia».

Nel metodo utilizzato, la cellula viene privata del nucleo, sostituito da quello prelevato da una cellula di un altro animale. L’ovulo è poi fecondato artificialmente e l’embrione in fase iniziale di sviluppo viene impiantato nell’utero di una madre surrogata, che darà alla luce una perfetta copia dell’animale che ha fornito il nucleo. I precedenti tentativi sulle scimmie erano falliti perché i nuclei delle loro cellule differenziate contengono geni che impediscono lo sviluppo dell’embrione. I ricercatori cinesi sono riusciti ad attivarli utilizzando interruttori molecolari ad hoc.

Tra gli importanti sviluppi vi è la riproduzione di “copie genetiche” animali identiche tra loro, che semplificherà la possibilità di fare su di esse esperimenti accurati. «Sarà importante per la ricerca avere a disposizione animali geneticamente identici più vicini all’uomo, come ora accade per esempio con i topi– afferma Carlo Alberto Redi, genetista dell’Università di Pavia e Accademico dei Lincei- ciò permetterà di eliminare variabili inevitabili negli animali riprodotti naturalmente. È anche una buona notizia in prospettiva per la preservazione di razze animali in via di estinzione, ma la cosa più importante a mio avviso è un’altra ancora, e cioè il fatto che se i ricercatori cinesi sono riusciti a ottenere questo risultato significa che sono riusciti a identificare i meccanismi che consentono di “accendere” o “spegnere” determinati geni per fare in modo che una cellula somatica, come i fibroblasti che hanno utilizzato loro, possa essere messa in condizione di “tornare” a uno stato tale da potere essere indirizzata a uno sviluppo diverso. L’importanza di questo aspetto è straordinario, perché l‘epigenetica, cioè quanto interviene sul Dna per condizionarne il comportamento è qualcosa che riguarda tutti noi, e condiziona lo sviluppo di molte malattie. Capire in che modo l’ambiente interviene sul Dna e come lo modifica in modo tale da farci ammalare, è quanto ci interessa di più oggi. Così agiscono il fumo per i tumori, o gli zuccheri eccessivi eccetera. Unico limite che mi sembra di ravvisare da quanto è stato comunicato finora è che il risultato è stato ottenuto su fibroblasti fetale, quindi con una differenziazione probabilmente non ancora completa, ma ciò non toglie che sia un risultato importante».

 

Le critiche

Non tutti però hanno commentato positivamente la riuscita dell’esperimento. È il caso del Vaticano e dell’Ente Nazionale Protezione Animali, che hanno espresso critiche e perplessità a riguardo.

«Al contrario della ipotesi di clonazione umana, sulla quale la Chiesa non può che esprimere la sua condanna più forte e totale, sulla clonazione animale il magistero ecclesiastico non ha finora espresso una condanna esplicita, ufficiale, lasciando il tema alla valutazione responsabile degli scienziati– dichiara il cardinale Elio Sgreccia, teologo e storico portavoce della Santa Sede sui temi della bioetica- non c’è dubbio che il passaggio dalla prima pecora Dolly ad altri animali e ora persino alla scimmia, ovvero a un primate così vicino all’uomo, rappresenta un autentico attentato al futuro dell’intera umanità. C’è il fortissimo rischio che la clonazione della scimmia possa essere considerato come il penultimo passo, prima di arrivare alla clonazione dell’uomo, evento che la Chiesa non potrà mai approvare».

Per quanto riguarda l’Enpa l’avvenimento costituirebbe un passo indietro anche per la ricerca.  Non solo la clonazione animale è eticamente inaccettabile, secondo l’ente, ma è anche  evidente l’impossibilità di traferire all’uomo tutti i risultati della sperimentazione animale, il che renderebbe questo tipo di clonazione poco utile.

 

Ivan Brancati