BioNTech, potenziale vaccino per la Sclerosi Multipla

Crediti immagine: Ansa

È dell’8 Gennaio 2021 la pubblicazione, da parte di BioNTech sulla rivista Science, di un vaccino sperimentale per la cura della Sclerosi Multipla. Esso si basa sulla tecnologia del vaccino a RNA, seguendo la scia dei recenti vaccini adoperati per il Covid19.

Cos’è la Sclerosi Multipla?

È una malattia infiammatoria cronica demielinizzante che colpisce il sistema nervoso centrale. Si ha la formazioni di placche negli assoni (“i cavi” del nostro cervello), che compromettono la trasmissione nervosa. Questo comporta stanchezza, affaticabilità, disabilità, paralisi dopo molti anni e nelle forme più gravi morte, per le conseguenze dell’immobilità.

Non esistono già farmaci per questa malattia?

I farmaci attualmente in uso per la malattia non sono curativi, bensì la trattano, rendendola una patologia cronica con la quale si è costretti a convivere. Essi sono immunomodulanti e immunosoppressori, che variano dai cortisonici agli anticorpi monoclonali.

Purtroppo però, nonostante la terapia, nel lungo termine (20 anni circa) le forme progressive porteranno comunque a disabilità neurologica il malato.

Aree del cervello danneggiate dalla Sclerosi Multipla, viste in RMN. Crediti immagine: Associazione Italiana di Neuroradiologia Interventistica

In cosa consiste il “vaccino” di BioNTech?

Considerando che la malattia ha una probabile origine immunitaria, vista l’efficacia degli immunomodulanti, gli scienziati hanno pensato di “resettare” il Sistema Immunitario che attacca gli assoni.

Per fare questo, bisogna introdurre nel corpo umano gli Antigeni (le molecole bersaglio) che sono vittime dell’attacco del sistema immunitario e far sì che esso sviluppi una “Tolleranza” nei confronti di questi.

È possibile indurre la Tolleranza Immunitaria attraverso dei vaccini Non Infiammatori, per cui il sistema immunitario, anziché allarmarsi e produrre anticorpi contro una determinata molecola, la consideri “amica”, come fosse del corpo umano, e smetta di attaccarla.

C’è qualche collegamento con il Vaccino per il Covid19?

Anche se il Covid19 e la Sclerosi Multipla sono due malattie distinte e separate, i due vaccini hanno molto in comune: sono vaccini a RNA.

Un vaccino a RNA dà le istruzioni alla cellula su come deve costruire l’Antigene, ovvero la molecola che dovrà essere attaccata dal sistema immunitario. Quest’ultimo, una volta che la molecola è stata prodotta, noterà che essa è qualcosa di estraneo al corpo e costruirà gli anticorpi per combatterla.

Prima del Covid19, i vaccini a RNA non erano mai stati testati sulla popolazione umana, in quanto si usavano dei vaccini contenenti già l’antigene verso cui si voleva costruire la risposta immunitaria.

Il problema dei vaccini tradizionali è che sono molto costosi, sia in tempo che in ricerca, da produrre. Si deve infatti produrre la giusta proteina, inserirla in virus innocui per l’uomo in quanto disattivati e successivamente iniettare il Vaccino.

Quello a RNA ha come svantaggio il fatto di richiedere basse temperature di conservazione, ma è molto veloce ed economico da produrre, potendo bypassare la ricerca del virus adatto da usare come vettore e potendo invece semplicemente mettere in una particella le informazioni necessarie alla cellula per costruire l’antigene di cui abbiamo bisogno.

La spinta tecnologica data dal Covid19

Senza la necessità di un urgente vaccino contro il virus SARS-Cov2, i vaccini ad RNA avrebbero impiegato ancora anni prima di essere approvati per la sperimentazione umana. Lo stato emergenziale ha fatto sì che tutti i rallentamenti burocratici, come la ricerca di fondi, venissero bypassati.

Inoltre, dopo un’iniziale sperimentazione animale, si è passati subito a quella umana, cosa che di norma richiederebbe anni.

Fortunatamente, ad oggi non ci sono stati effetti collaterali significativi usando questo tipo di vaccino a RNA, così come usando quello a RNA della casa farmaceutica Moderna.

Questo comporta un grande impulso verso la ricerca su vaccini a RNA per altre patologie.

Infatti, essendo facili ed economici da produrre, si potranno ideare vaccini verso una quantità innumerevole di patologie. Senza l’incertezza di una lenta approvazione per la sperimentazione umana, inoltre, le case farmaceutiche saranno molto più interessate alla produzione di questo tipo di farmaci.

La BioNTech ha così sperimentato sui topi questo potenziale vaccino per la Sclerosi Multipla.

L’esperimento

In alcuni topi con Encefalite Autoimmune, l’equivalente della Sclerosi Multipla dell’uomo, l’inoculazione del vaccino ha mostrato non solo un arresto della progressione della malattia, ma perfino un miglioramento delle capacità motorie dei topi malati. Questo perché, grazie al vaccino, il loro Sistema Immunitario ha smesso di riconoscere come “nemici” gli antigeni dei neuroni, facendo così cessare l’infiammazione a carico di essi.

Il vaccino funziona.

Risultati dell’esperimento. Crediti immagine: Science

La sperimentazione continuerà sugli animali, per riprodurre questi risultati incoraggianti. Si spera, in un futuro prossimo, che possa essere testato sugli esseri umani affetti da Sclerosi Multipla, potendo così guarirli per sempre da questa patologia.

Prospettive per il futuro

Sono moltissime le patologie autoimmuni verso le quali ad oggi non esiste cura.

Ricordiamo il Lupus, l’Artrite Reumatoide, la Sindrome di Sjögren, il Diabete Mellito di tipo 1, solo per fare qualche esempio.

Purtroppo ad oggi la terapia di queste gravi malattie si basa solamente sulla cura dei sintomi, o sul tenere a bada il Sistema Immunitario mediante cortisonici o altri immunomodulanti.

Questo, però, espone ad effetti collaterali come infezioni, maggiore incidenza di tumori e squilibri ormonali e glicemici.

Foto di una paziente affetta da Lupus Eritematoso Sistemico. Crediti immagine: MDS Manuals

Se questo vaccino funzionerà, sarà possibile curare definitivamente e senza gravi effetti collaterali tutte queste malattie.

Conoscendo infatti l’antigene verso cui si instaura l’autoimmunità, si potrebbe costruire un vaccino ad hoc per instaurare la Tolleranza Immunitaria, guarendo così il malato.

Conclusioni

Il Covid19, nonostante i milioni di vittime e la crisi economica e sociale che ha causato, potrebbe averci fatto un regalo meraviglioso.

Esso infatti ha permesso di concentrare ingenti risorse economiche ed umane per lo sviluppo, con velocità senza eguali, di una cura efficace.

Ciò da un lato dimostra che, con la collaborazione internazionale e l’intenzione di spendere in ricerca, è possibile raggiungere traguardi miracolosi.

Dall’altro ci apre le porte verso una nuova tecnologia, quella dei Vaccini a RNA, che potrebbero in futuro guarire molte patologie ad oggi incurabili.

                                                                                                                                                      Roberto Palazzolo

Reazioni avverse al vaccino per il covid, qual è la verità?

Che dall’inizio del 2020 ci sia stata una vera e propria corsa alla scoperta del vaccino per il SARS-cov-2, è sotto gli occhi di tutti.
Fin dai primi mesi dell’epidemia, la nostra rubrica si è occupata di informare i lettori sugli sviluppi relativi alla ricerca.
Ci sembra giusto, a ridosso dell’imminente arrivo delle dosi anche negli ambulatori italiani, fare chiarezza nel mare di informazioni fuorvianti che, purtroppo, a volte arrivano anche da persone “di scienza”. 

Partiamo dal principio: com’è composto il materiale genetico del SARS-cov-2?

Il nuovo coronavirus è un beta-coronavirus. Una volta infettata la cellula ospite, la utilizza per sintetizzare le proprie proteine.
Le proteine, a loro volta, replicano il genoma virale, in questo caso l’RNA a singolo filamento, e si assemblano in nuove particelle di virus. Praticamente il virus sfrutta la cellula ospite come una catena di montaggio per creare nuove copie di se stesso.
Nonostante ci siano ancora molti sostenitori di questa teoria, SARS-cov-2 non si integra nel genoma cellulare e non lo modifica, poiché non possiede una proteina fondamentale chiamata trascrittasi inversa.
La trascrittasi inversa trasforma l’RNA in DNA, ma è propria soltanto di alcuni retrovirus e batteri, che nulla hanno a che vedere con il nuovo coronavirus.
Questa proteina inoltre, è assente anche nelle cellule umane.

Quanti vaccini ci sono e come sono stati realizzati 

Al momento sono tre i vaccini candidati a condurre l’occidente fuori da questo periodo buio: quello della Pfizer, quello della Moderna e quello della Astrazeneca.
Tutti quanti hanno raggiunto la fase tre della sperimentazione (su un bacino di almeno 40000 volontari a testa) e sono dunque pronti, dopo le dovute autorizzazioni, ad essere immessi sul mercato. I vaccini Pfizer e Moderna utilizzano la tecnica ad mRNA, mentre Astrazeneca è il classico vaccino a vettore, ma l’antigene comune a tutti è sempre la proteina Spike del SARS-CoV-2.
Sui primi due sono nate molte perplessità, alcune fondate, altre assolutamente fuori da qualunque logica. Cercheremo quindi di spiegare in parole semplici come funzionano.

Cos’è la tecnologia a RNA messaggero?

L’mRNA contiene le istruzioni per la sintesi di nuove proteine.
Di solito trasporta le informazioni genetiche del DNA fino al citoplasma, dove queste sono usate per assemblare le proteine.
Un processo fondamentale, a cui l’organismo è abituato.
Una volta somministrato il vaccino, le cellule ricevono l’mRNA incapsulato in particelle lipidiche e questo viene utilizzato per replicare la suddetta proteina Spike.
Da sola essa è innocua, poiché manca tutto il resto del virus, ma è abbastanza per stimolare la risposta del sistema immunitario.
Successivamente, quando il soggetto incontrerà il SARS-cov-2, avrà già gli anticorpi per combatterlo prima che causi la malattia.
Questo processo di realizzazione è più veloce, più semplice e meno costoso di quello tradizionale, e potrà aprire la strada all’utilizzo degli mRNA anche nella cura di altre malattie.

Reazioni avverse ai vaccini: attenzione agli allarmismi

Tra i tanti dubbi che la pandemia ci ha lasciato, una cosa è certa: ha inasprito ancora di più le divergenze e i dissapori all’interno della comunità scientifica.
Alcuni hanno visto la malattia da coronavirus come un modo per guadagnare popolarità attraverso dichiarazioni discutibili.
Come sempre, invitiamo i nostri lettori a fare dei controlli incrociati sulle notizie, anche se sembrano arrivare da fonti illustri.
Ogni farmaco, ogni sostanza che viene somministrata non è esente da rischi, ma bisogna saper discernere tra ciò che è verosimile e ciò che non lo è.

Infertilità femminile

Ad oggi non esiste alcuna evidenza di una correlazione tra l’infertilità femminile e il vaccino per il SARS-cov-2 . L’idea si era diffusa a partire da un articolo, oggi disponibile solo in archivio, che ipotizzava la presenza di analogie tra la proteina Spike (usata come antigene nei tre vaccini) e la sincitina umana.
La sincitina è una proteina implicata nello sviluppo della placenta.
La preoccupazione era che ci potesse essere una risposta anomala del sistema immunitario contro di essa, scatenata dal vaccino.
Il punto, però, è che queste proteine non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra a livello biochimico.
Inoltre, se ci fosse un vero legame tra infertilità e cross reazione di Spike e
sincitina, questo dovrebbe avvenire anche con la malattia da coronavirus, ma così non è.

Risposta immunitaria eccessiva e modificazioni genetiche

Una reazione da amplificazione della risposta immunitaria era già stata ipotizzata, vista la natura stessa della patologia da coronavirus. I test clinici però non hanno mostrato questo effetto.
Sempre lo stesso articolo parlava di una sostanza presente nel vaccino, il polietilen-glicole, capace di scatenare una reazione autoimmune.
Il Peg, però, è presente in moltissimi farmaci e vaccini clinicamente approvati e, in egual modo a ogni sostanza esistente, può provocare reazioni allergiche in soggetti predisposti.
Se ci fossero reazioni allergiche frequenti a questo componente, sarebbero venute alla luce molto prima del suo utilizzo nel vaccino del SARS-cov-2. 

Tiriamo le somme

Perché alcune persone subiscono degli effetti collaterali?
Alcuni, come la febbre, sono dovuti alla stimolazione del sistema immunitario.
Per quanto riguarda quelli più gravi, possono essere causati da variazioni genetiche, o da una particolare predisposizione dell’individuo.
Altri ancora hanno un meccanismo non ben chiarito.
Sappiamo anche di non poter prevedere la presenza di effetti a lungo termine, ma questo è un rischio intrinseco a ogni vaccino, a ogni farmaco, se vogliamo.

Ci sentiamo però di dire, per rassicurare i lettori, che le segnalazioni di reazioni gravi durante i trial clinici sono state ben poche.
Inoltre, queste reazioni avvengono solitamente in tempi molto brevi a partire dalla somministrazione.
Sembra dunque improbabile che si verifichino problematiche future correlate al vaccino.
Non vi è alcuna volontà delle case farmaceutiche a mettere in commercio un prodotto nocivo, che potrebbe scatenare su scala mondiale una enorme richiesta di risarcimenti.
In ultimo, dalla scoperta dei vaccini in poi, la medicina ha compiuto dei balzi in avanti inimmaginabili in termini di sicurezza ed efficacia.
Ribadiamo, come sempre, l’invito ad informarsi solo da fonti attendibili e a mantener salda, o recuperare, la fiducia nella scienza.

Maria Elisa Nasso

Professori UniMe nella top 100.000 dei ricercatori mondiali

Uno dei criteri di fondamentale importanza nella valutazione di una Università e del suo prestigio è la ricerca, le cui qualità e quantità ci parlano sicuramente dello status dello stesso Ateneo.

E se è vero che a fine anno siamo tutti soliti tirare le somme del nostro operato, UniMe può essere più che soddisfatta! Infatti è stato pubblicato un recentissimo studio bibliometrico sulla rivista Plos Biology che classifica alcuni dei docenti dell’Ateneo messinese nella top 100.000 dei ricercatori mondiali.

Fonte: twitter.com/plosbiology

Lo studio bibliometrico

La bibliometria si occupa di analizzare quantità, qualità e diffusione delle pubblicazioni all’interno delle comunità scientifiche, sfruttando scienze matematiche e statistiche. Il suddetto lavoro  si basa sulla raccolta (a maggio 2020, con gli indicatori di citazioni standardizzati all’anno 2019) di informazioni dal database di ricerca scientifica mondiale Scopus. Questo vede coinvolti ben 7 milioni di scienziati provenienti da tutto il globo, suddivisi in 22 campi scientifici e 176 sottocampi. Ad effettuarlo, il prof. John Ioannidis (della Stanford University) con Kevin Boyack e Jeroen Baas.

UniMe in classifica

L’Ateneo Peloritano, in particolare, vanta 43 tra i migliori ricercatori al mondo per l’impatto scientifico dei loro studi durante la carriera (considerando un arco di tempo che va dal 1996 al 2019) e, di questi, lo studio firmato dalla Standford University inserisce nei primi 100.000 ben 13 professori UniMe: Salvatore Cuzzocrea, Gabriele Centi, Vincenzo Ficarra, Giovanni Neri, Sebastiano Campagna, Luigi Mondello, Antonio Persico, Gabriele Bonanno, Edoardo Spina, Salvatore Benvenga, Giovanni Raimondo, Joannes Christian Bart e Guido Ferlazzo.

Una seconda classifica prevede invece l’impatto degli studi soltanto nell’ultimo anno preso in considerazione, quindi il 2019, e vede in classifica 20 tra i professori dell’ateneo nei primi 100.000 a livello globale!

La notizia non può far altro che rendere fieri i diretti interessati, noi studenti che da loro apprendiamo e l’Università tutta. Il Magnifico Rettore Prof. Salvatore Cuzzocrea ha così commentato l’importante traguardo:

Anche questo risultato è frutto di un lavoro certosino fatto da tutta la Comunità Accademica per far crescere la qualità della ricerca. Come ho già detto in passato, nel complimentarmi con tutti i colleghi per questo eccellente riscontro, questo ci deve spingere a continuare a lavorare con passione e impegno per fare crescere sempre di più il nostro Ateneo. È un impegno preciso che ho assunto quando sono stato eletto e insieme a tutta la governance stiamo lavorando per qualificare sempre di più la ricerca, la didattica e i servizi. E anche la pandemia non ci ha fatto arretrare di un millimetro. Un grazie quindi ai docenti, ai ricercatori e a tutto il personale tecnico amministrativo per quanto hanno fatto e stanno facendo.

Giovanni Alizzi

Endometriosi: nuove speranze dal mondo della ricerca

L’endometriosi è una patologia insidiosa, a eziopatogenesi non ben definita, e spesso sottodiagnosticata.
Ne soffrono in Italia almeno tre milioni di donne, alcune delle quali con una sintomatologia così grave da essere invalidante.
Tuttavia la maggioranza della popolazione è all’oscuro della sua esistenza.

Ma di cosa si tratta esattamente?

La malattia

L’endometriosi è la presenza anomala (o detta in gergo medico ectopia) di tessuto endometriale in altre sedi che non siano l’utero.
Gli organi più colpiti sono: ovaie, tube, peritoneo, vagina, intestino.

Come nell’endometrio normale, anche in quello ectopico avvengono delle modifiche causate dagli ormoni durante il ciclo mestruale, con sanguinamenti e fenomeni di irritazione e cicatrizzazione.
Questo causa dolore pelvico, spesso durante i rapporti sessuali, rigonfiamento addominale, infertilità, astenia, nonché un grave distress psicologico.
Il distress è dovuto anche a uno stigma che ancora permane nei confronti delle pazienti, ritenute da alcuni medici esagerate nel riportare il dolore, e al ritardo nella diagnosi e nella somministrazione delle cure.

Prospettive di trattamento

Solitamente il dolore cronico da endometriosi viene trattato con farmaci anti-infiammatori (preferibilmente FANS) al bisogno, o si intraprende una terapia ormonale sostitutiva.
Quest’ultima sembra avere un beneficio sia in termini di diminuzione del dolore che di aumento della fertilità nelle donne che ricercano una gravidanza.

Si può ricorrere, nei casi più gravi e refrattari, alla terapia medica e al trattamento chirurgico con rimozione delle lesioni qualora esse vengano individuate.
In situazioni estreme, anche la menopausa chirurgica può essere un’alternativa per attenuare i sintomi, nonostante non sia quasi mai presa in considerazione nelle donne fertili, anche su richiesta della paziente stessa.

Novità dal mondo della ricerca

Un recente studio, pubblicato sulla rivista scientifica Cell Reports, apre a nuovi orizzonti sul fronte della terapia per l’endometriosi, in particolare per la variante causata da una mutazione del gene ARID1A, caratterizzata da una elevata gravità e da un impatto molto negativo sulla fertilità. Come ribadito, le cause dell’endometriosi sono avvolte da mistero e la scoperta del ruolo di questo gene è stato un ulteriore passo avanti per la loro comprensione.

Cosa comporta la mutazione di ARID1A?

Essenzialmente, una mutazione di questo gene porta all’attivazione di alcuni enhancers, proteine che vanno a stimolare delle porzioni del genoma cellulare, che correlano con una disregolazione della normale funzione endometriale.
Questa disregolazione a sua volta può portare all’impianto in sede anomala del tessuto uterino, a causa dell’acquisizione da parte delle cellule di un fenotipo invasivo. Inoltre, è stata rilevata una associazione tra ARID1A e p300, una proteina che regola la trascrizione genica, la maturazione e la crescita cellulare.

Ipotesi terapeutica e speranze per il futuro

Appare dunque evidente come, se si trovasse un farmaco capace di agire su questi enhancers, si riuscirebbe a mitigare, se non del tutto curare, l’endometriosi ARID1A correlata.
Qui viene in aiuto la target therapy, cioè una terapia creata ad hoc per agire su un determinato bersaglio molecolare.
In questo particolare studio il target era P300, che una volta silenziato andava a bilanciare gli effetti della mutazione di ARID1A e della patologia.
Questo è solo il trampolino di lancio per ulteriori scoperte in campo farmacologico. Si auspica che le pazienti che soffrono di endometriosi possano ottenere al più presto il riconoscimento e le cure che meritano.

Maria Elisa Nasso

Young Investigator Award assegnato ad una ricercatrice UniMe

La giovane dottoressa Patrizia Mondello taglia un traguardo importante per la sua carriera aggiudicandosi lo “Young Investigator Award”, nella sezione “Paola Campese Award for Research in Leukemia” assegnato da ISSNAF (Italian Scientists and Scholars in North America Foundation) grazie alla sua straordinaria scoperta in ambito oncologico nella cura dei linfomi B.

Linfomi B diffusi a grandi cellule B (DLBCL)

I linfomi B diffusi a grandi cellule B rappresentano il 30% di tutti i linfomi non-Hodgkin nell’adulto. Si tratta di un tumore che spesso si manifesta in una fase già avanzata di malattia con febbre, sudorazione profusa notturna, astenia grave accompagnata da un’importante perdita di peso. Inoltre l’interessamento linfonodale può interessare tutte le stazioni superficiali e profonde. Proprio perché tra i linfomi più frequenti e ingravescenti, la scoperta della dottoressa Mondello potrebbe cambiare la prognosi di moltissimi pazienti.

La scoperta

Il premio è stato assegnato a seguito della la rivoluzionaria scoperta della dottoressa Mondello, incentrata sullo studio dei linfomi aggressivi diffusi a grandi cellule B positivi per la mutazione del gene CREBBP, e per l’identificazione di una terapia epigenetica-immunitaria mirata in grado di colpire selettivamente le cellule linfomatose e permettere il riconoscimento del tumore da parte delle cellule dell’immunità del soggetto.

La mutazione CREBBP infatti, mascherando le cellule tumorali, non consente al sistema immunitario di riconoscerle favorendone una replicazione più veloce.

ISSNAF (Italian Scientists and Scholars in North America Foundation)

La ricercatrice dell’Università degli Studi di Messina è Advanced Oncology Fellow presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York e proprio lì ha condotto le ricerche che le hanno permesso di ricevere questo importante riconoscimento da ISSNAF (Italian Scientists and Scholars in North America Foundation), la fondazione che riunisce migliaia di scienziati e accademici italiani attivi in laboratori, università e centri di ricerca in Nord America.

Fonte: issnaf.org

Un ottimo inizio per il 2021

L’importanza della ricerca della dottoressa Mondello non è passata inosservata dall’FDA (Food and Drug Administration), il quale ha già fissato l’avvio della sperimentazione clinica per Gennaio 2021. L’FDA è l’ente governativo statunitense responsabile della salute pubblica e si occupa di assicurare la sicurezza e l’efficacia dei farmaci. Grazie alla risonanza ottenuta dalla scoperta della ricercatrice, infatti, la vita di milioni di persone sparse in tutto il modo potrebbe presto cambiare.

Orgoglio espresso anche dal Ministro dell’Università e della Ricerca prof. Gaetano Manfredi:

“Orgoglioso della Ricerca italiana che eccelle all’estero”.

 

Elena Perrone

Un anticorpo monoclonale per la lotta al coronavirus

Recentemente la corsa al vaccino anti-SARS-CoV2 sembra aver ricevuto un’accelerata decisiva: in studi di fase tre, i due sieri delle case farmaceutiche americane Pfizer e Moderna sono risultati efficaci in più 90% dei casi. Ma, oltre al vaccino, ci sono altre vie che ci potranno aiutare ad uscire una volta per tutte da questa pandemia globale? La risposta è sì: il 28 ottobre è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine uno studio sull’utilizzo dell’anticorpo monoclonale LY-CoV555 (sempre di una casa farmaceutica americana, Ely Lilly). Questo riuscirebbe a ridurre l’ospedalizzazione dei malati Covid dal 70 al 90%.

Sede centrale di Eli Lilly ad Indianapolis (USA)

Prima di tutto: cos’è un anticorpo monoclonale?

Gli anticorpi o immunoglobuline sono glicoproteine prodotte normalmente dei nostri linfociti B, attivati a plasmacellule, in risposta all’incontro con antigeni patogeni. Gli anticorpi monoclonali hanno lo stesso obiettivo, ma li produciamo in laboratorio attraverso metodiche di ingegneria genetica.

Si tratta di una tecnologia nuova? No, tutt’altro. Dobbiamo la loro scoperta a Georges Koheler e Cesar Milner, che nel 1984 vinsero il Nobel per la medicina. La prima tecnica utilizzata per produrli è stata quella dell’ibridoma, che sfrutta cellule di origine murina e conta una serie di passaggi:

  1. Immunizzazione del topo attraverso l’iniezione dell’antigene verso cui vogliamo produrre gli anticorpi.
  2. Prelievo delle plasmacellule murine dalla milza.
  3. Fusione di queste cellule con cellule neoplastiche in coltura: si ottiene una cellula detta ibridoma, che produce una quantità elevata del nostro anticorpo.
  4. Quindi moltiplicazione dell’ibridoma in coltura.

Oggi esistono anticorpi monoclonali totalmente umani, così da superare completamente il rischio di immunogenicità.

Tipologie di anticorpi monoclonali in base alla composizione prevalentemente murina o umana

 

Alcuni esempi

Prima di parlare dello studio che ha dimostrato l’efficacia di LY-coV555 nei pazienti affetti da Covid-19, vediamo alcuni degli anticorpi monoclonali oggi utilizzati.

  • Omalizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro le IgE, ovvero le immunoglobuline coinvolte nelle reazioni allergiche. È indicato nel trattamento dell’asma allergico grave e dell’orticaria, quando le altre terapie non si sono dimostrate valide per il controllo della malattia.
  • Trastuzumab, anch’esso un anticorpo umanizzato, è rivolto contro il dominio extracellulare del recettore HER-2, utilizzato nei carcinomi mammari che lo iper-esprimono. Il settore oncologico è probabilmente quello in cui gli anticorpi monoclonali stanno portando le migliori innovazioni.
  • Infliximab è invece un anticorpo chimerico, il suo bersaglio è il fattore di necrosi tumorale e la FDA (Food and Drug Administration) lo ha approvato per alcune malattie autoimmuni, come il morbo di Crohn, la colite ulcerosa, la spondilite anchilosante, la psoriasi e l’artrite psoriasica.

Altro esempio è il Tocilizumab: questo agisce da immunosoppressore bloccando l’azione di una delle citochine chiave della risposta infiammatoria, ovvero l’interleuchina 6 (IL-6). È il gold standard nell’artrite reumatoide e, nel mese di aprile ad inizio della pandemia, era stato utilizzato con discreti risultati anche per il trattamento di alcuni pazienti affetti da Covid-19.

Il trial sull’anticorpo monoclonale LY-CoV555

LY-CoV555 ha un meccanismo d’azione molto semplice da spiegare, si tratta di un potente anticorpo anti-spike. Lega ad alta affinità il dominio della spike di SARS-CoV-2 che gli permette di penetrare nelle nostre cellule e lo neutralizza.

https://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-8285333/Antibody-prevents-COVID-19-virus-infecting-human-cells.html

Il trial della Ely Lilly ha coinvolto 452 pazienti provenienti da 41 centri degli Stati Uniti, tutti testati positivi al nuovo coronavirus e presentanti sintomi lievi o moderati. La popolazione in studio è stata suddivisa in due bracci: uno riceveva un’infusione endovenosa di LY-CoV555, mentre l’altro un placebo. Nel primo braccio possono essere distinti anche tre sottogruppi in base alla dose di farmaco ricevuta, rispettivamente 700 mg, 2800 mg e 7000 mg.

L’outcome primario dello studio era quello di calcolare la variazione della clearance virale all’undicesimo giorno rispetto al giorno dell’infusione. Entrambi i gruppi hanno mostrato un miglioramento, con una diminuzione media di -3,81 nell’intera popolazione dal valore basale. Coloro che avevano ricevuto il farmaco hanno mostrato un maggior decremento del gruppo “placebo”. In questo il sottogruppo ottimale è risultato essere quello con il dosaggio intermedio di LY-CoV555, ovvero 2800 mg.

Quali effetti su ricovero e sintomi? E quali effetti indesiderati?

Per quanto riguarda l’ospedalizzazione, al 29esimo giorno soltanto l’1,6% dei pazienti trattati era ancora in ospedale e di questi la maggioranza aveva un’età superiore a 65 anni ed un BMI superiore a 35, considerati comunque fattori di rischio aggiuntivi. Nel gruppo placebo il tasso di ospedalizzazione alla stessa data era invece del 6,3%.

Ulteriore risultato positivo riguarda i sintomi. Questi sono stati valutati clinicamente mediante uno score: ognuno stimato da 0 (nessun sintomo) a 3 (sintomi severi). Il punteggio totale raggiungibile era di 24 ed i principali sintomi considerati erano: tosse, perdita del respiro, febbre, fatica, mal di gola, mal di testa e perdita dell’appetito. LY-CoV555, a qualsiasi dosaggio, ha dimostrato di ridurre la durata del periodo sintomatico, come evidente nel grafico seguente.

Nel trial non si sono verificati effetti avversi gravi nei pazienti del gruppo “farmaco”, mentre per quanto riguarda gli effetti avversi non considerati gravi questi si sono manifestati nel 22,3%. Il più frequente riportato era la nausea (3,9%), seguita da diarrea (3,2%) e vertigini (3,2%).

Lo studio non ha coinvolto gravi ammalati e solo uno degli arruolati, appartenete al gruppo “placebo”, è finito in terapia intensiva. Altro punto a svantaggio di questa terapia è il costo degli anticorpi monoclonali e, come detto dalla virologa Ilaria Capua in una recente intervista, “è illusorio pensare che questa cura possa arrivare a tutte le persone in pochi mesi”Nel frattempo rispettiamo le regole, utilizzando le mascherine e mantenendo il distanziamento sociale.

Antonio Mandolfo

 

 

Bibliografia

https://www.infomedics.it/servizi/biotecnologie/la-storia.html

https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2029849

http://www.informazionisuifarmaci.it/omalizumab

Acqua sulla Luna, la scoperta della NASA

Ieri, 26 ottobre, in questo catastrofico 2020 una fantastica notizia ha acceso gli animi degli astrofili: la NASA ha annunciato che  “è stata scoperta dell’acqua sulla Luna.

I risultati della scoperta sono stati pubblicati sulla rivista Nature. (1) (2) 

Crediti immagine: NASA   

In realtà, già da tempo si era a conoscenza di depositi di acqua sulla superficie lunare, soprattutto ai poliInfatti, a livello di essi, la luce solare sfiora appena i crateri, i quali, restando sempre bui all’interno, permettono la conservazione di masse di ghiaccio che altrimenti, esposte alla luce del Sole, evaporerebbero. 

Perché allora c’è tanto entusiasmo per l’annuncio fatto ieri dalla NASA? 

Perché l’acqua, stavolta, è stata trovata (con molta sorpresa, visto che dovrebbe evaporare) non ai poli, mnella zona equatoriale della Luna, esposta ai raggi solari, regione di gran lunga più accessibile rispetto ai freddi poli. Inoltre, la sua presenza pare essere molto più abbondante delle precedenti previsioni, il che apre a diversi scenari interessanti. 

In particolare, l’acqua è stata trovata in corrispondenza dell’antico cratere (in quanto particolarmente eroso) Claviussituato nell’emisfero sud della superficie lunare visibile. 

Come abbiamo fatto per tutto questo tempo a non vederla? 

Il fatto che l’acqua ci sia, non significa che sia facilmente visibile. Situata all’interno del cratere Clavius, uno dei più grandi crateri lunari dopo i mari, con i suoi 231 km di diametro, è stata trovata in quantità pari a 340g/m³ di regolite. Una quantità che può sembrare irrisoria, se consideriamo che il deserto contiene quantità di acqua centinaia di volte superiori. 

Cratere Clavius – Crediti immagine: wikipedia

Come fa l’acqua sulla Luna a non evaporare? 

Si presume che essa sia o intrappolata in microsfere di regolite (il materiale roccioso di cui è composta la superficie della Luna ndr), oppure sia sottoforma di sali idratati contenuti nella struttura chimica della regolite stessa. In questo modo, viene schermata dai raggi solari, non potendo quindi evaporare e disperdersi nello spazio. 

La scoperta 

È avvenuta grazie all’uso di una particolare tecnologia. 

Finora, infatti, avevamo osservato la superficie lunare con dei telescopi incapaci di distinguere lo spettro emesso dall’acqua da quello emesso dall’ossidrile, in quanto molecole molto simili (H2O è la formula dell’acqua, -OH quella dell’ossidrile). 

Stavolta, però, gli scienziati hanno usato un particolare Telescopio, chiamato SOFIA (Stratospheric Observatory for Infrared Astronomy), dotato di un sensore capace di osservare gli infrarossi con una precisione tale da poter distinguere le molecole di acqua da quelle di ossidrile o anche di idrogeno semplice. 

Crediti immagine: NASA

Ogni molecola, infatti, emette un proprio spettro luminoso caratteristico, che con i giusti strumenti è captabile. 

La particolarità di questo telescopio, oltre alla sua precisione per l’Infrarosso, è quella di essere il più grande telescopio ad essere installato su un aereo. Esso, infatti, è montato su un Boeing 747 SP, per sovrastare nuvole ed inquinamento atmosferico che renderebbero altrimenti impossibili certe osservazioni. 

Crediti immagine: NASA

Grazie a questo telescopio mobile, gli scienziati hanno accertato inequivocabilmente la presenza di acqua sulla superficie visibile della Luna. 

Ma come ha fatto quest’acqua ad arrivare sulla Luna? 

Sono due le principali teorie riguardo la presenza di acqua sulla Luna: 

  • La prima riguarda dei micrometeoriti contenenti acqua che, impattando contro la superficie lunare, avrebbero intrappolato l’acqua in microsfere createsi in seguito alla fusione della roccia dovuta all’impatto. 
  • La seconda teoria, invece, prevede due fasi: nella prima fase il vento solare avrebbe portato idrogeno che, combinandosi con l’ossigeno presente sulla Luna, avrebbe prodotto l’ossidrile, il quale poi, nella seconda fase, a seguito dell’impatto di meteoritisi sarebbe trasformato in acqua grazie al forte calore sviluppato. 

Entrambe le teorie vedono dunque come protagonisti i meteoriti, in quanto l’acqua è stata trovata appunto nel cratere, generato dall’impatto di questi sulla superficie lunare. 

Che implicazioni ha una simile scoperta? 

Innanzitutto, è la dimostrazione di come ciò che pensiamo di conoscere possa ancora stupirci, se indagato a fondo con nuove conoscenze. 

Una scoperta del genere proietta a scenari innovativi per le future missioni spaziali, in particolare per le missioni lunari. 

Sappiamo, infatti, che nel 2024 la NASA tenterà di riportare l’umanità sulla Luna con la missione Artemis III. 

Crediti immagine: www.nasa.org

Per affrontare un viaggio del genere, gli astronauti dovranno portare svariate scorte di cibo e acqua per sopravvivere. Questo significa avere un carico in più da vincere contro la forza di gravità.

Nel momento in cui fosse possibile estrarre acqua dal suolo lunare, questo problema sarebbe risolto, permettendo un considerevole risparmio di peso, destinabile ad esempio agli alimenti. Questo consentirebbe non solo di programmare missioni spaziali più lunghe, ma addirittura di poter pensare ad una base lunare in pianta stabile. 

Scetticismo

Ovviamente è ancora tutto da vedere. Già da tempo gli scienziati progettano di stabilire una base lunare, rifornendosi di acqua grazie ai giacimenti ai poli lunari.  

Il problema è che, nonostante ci siano considerevoli quantità di acqua ai poli, essa si trova a notevoli profondità all’interno dei crateri lunari, fino a 4km, essendo quindi molto impegnativa da raggiungere. 

Inoltre, essendo i crateri bui e mancando la Luna di atmosfera, la superficie lunare non illuminata dal Sole raggiunge temperature molto basse, che richiederebbero un plus di energia per non far congelare l’equipaggio o la strumentazione. 

Per questo motivo, per le prossime missioni spaziali, si valuterà la possibilità di estrarre la poca acqua presente nella superficie illuminata della Luna. 

Gli scienziati devono ancora capire se l’acqua sia contenuta in microsfere di regolite, oppure sia parte integrante della struttura chimica dei sali che compongono la roccia lunare (possiamo portare l’esempio del solfato di rame pentaidrato). 

Nel primo caso, basterebbe estrarla fisicamente, mentre nel secondo caso il processo richiederebbe qualche reazione chimica. 

Si ipotizza, inoltre, che Clavius sia solamente il primo di tanti altri crateri contenenti acqua nella loro struttura. 

Crediti immagina: ESA/Piere Carril

Un futuro roseo per l’esplorazione spaziale

Se gli esperimenti delle prossime missioni lunari andranno a buon fine, l’umanità potrà fare a meno di portare l’acqua dalla Terra ed avere così basi lunari stabili, con tutto il progresso tecnico-scientifico che ne consegue. 

L’esplorazione spaziale ci ha infatti già fornito innumerevoli innovazioni tecnologiche. Basti pensare al GPS, alla TV satellitare, ai termoscanner che oggi usiamo per misurare la temperatura. Per non parlare dei benefici in medicina: leghe al titanio per gli interventi ortopedici, algoritmi del telescopio Hubble usati per una migliore risoluzione delle mammografie per la diagnosi di tumore della mammella, e molto altro ancora.

Purtroppo, per quanto riguarda la possibilità di vita aliena sulla Luna, essa appare ugualmente improbabile nonostante questa scoperta, vista l’esigua quantità d’acqua per volume di regolite (340g/m³) ed il particolare immagazzinamento di essa nella roccia lunare. 

In ogni caso c’è da festeggiare, l’uomo a breve tornerà sicuramente sulla Luna per studiarla e siamo un passo più vicini al sogno che fin dalla notte dei tempi affascina l’uomo: vivere sulla Lunapotendo toccarla con un dito. 

Roberto Palazzolo 

(1) https://www.nature.com/articles/s41550-020-01222-x

(2) https://www.nature.com/articles/s41550-020-1198-9

CRISPR Cas9 è Nobel per la Chimica 2020, cos’è?

l Nobel per la Chimica quest’anno è stato “vinto a parimerito” dalla chimica americana Jennifer A. Doudna e dalla biochimica francese Emmanuelle Charpentier, per lo sviluppo di CRISPR Cas9, una tecnica di editing genomico.

In cosa consiste questa scoperta? 

CRISPR cas9 è un metodo per “tagliare e cucire” il DNA nei punti che si desidera.  

Ha già aiutato molti scienziati nello studio e nella cura di molte patologie, negli OGM e nella ricerca di base. 

In molte malattie infatti, ci sono dei geni che sono difettosi o mancanti, oppure come nel caso dei tumori, mutati. 

Tramite questo ingegnoso sistema è possibile andare a tagliare via il gene difettoso e sostituirlo con una copia sana dello stesso, guarendo in una sola volta e definitivamente una determinata patologia. 

 

 

Ma non esistevano già tecniche di editing genomico?  

Sì, ma non erano sicure. 

L’editing genomico è una particolare tecnica di ingegneria genetica in cui si cancella, aggiunge o modifica, una porzione del DNA di un organismo vivente. 

Sin dagli anni 2000, mappato il DNA, si è pensato che una volta capito quale fosse il gene difettoso in una determinata patologia, sarebbe bastato correggerlo per far guarire il malato dalla patologia stessa: nacque così la Terapia Genica. 

 pensò all’inizio di utilizzare le proprietà di alcuni virus con trascrittasi inversa, capaci di inserirsi nel DNA della cellula infettata e vivere in essa per sempre, come ad esempio fa il virus dell’HIV. Questa tecnica tuttavia presentava degli svantaggi: 

Non si riusciva a controllare dove il pezzo di DNA da voler aggiungere fosse inserito. Questo comportava che se da un lato si potesse curare una patologia genetica, dall’altro se ne sarebbe potuta procurare una nuova, visto che inserendo a casaccio del DNA, esso poteva essere letto scorrettamente o poteva far “sfalsare” il resto del DNA, che venendo letto male, avrebbe comportato la nascita di altre patologie genetiche. 

 

Sarebbe come inserire una frase a caso in un libro, il lettore sarebbe confuso e potrebbe travisare il significato dell’intero paragrafo 

 ZFN e TALENs

Successivamente, sempre prima di CRISPR cas9, vennero utilizzate le tecniche ZFN (Zinc Finger Nucleases) e TALENs (Transcription activator-like effector nucleases). In queste due tecniche, venivano usate delle nucleasi, ovvero specifici enzimi che tagliano il DNA, per tagliare e successivamente inserire il DNA voluto all’interno del genoma dell’organismo. 

Le “dita di zinco” sono delle particolari proteine che abbiamo tutti nelle nostre cellule, che consentono di legare il DNA in specifici punti, si è pensato quindi di modificare queste proteine per realizzare appunto la tecnica ZFN. 

Crediti  immaginenature.com 

 

Mentre per la TALEN ci si è ispirati a delle proteine dette TALprovenienti dalle piante che le usano per difendersi da batteri o altri microorganismi, capaci anch’esse di legare il DNA in specifici punti e quindi tagliarlo. (1)

Crediti immagine: researchgate.net 

Qual era il problema di queste due tecniche?  

Che usavano delle proteine (strutture fatte da amminoacidi) per legare il DNA, che è  fatto di nucleotidi. Questo comportava una certa imprecisione, visto che per quanto specifiche, sequenze di DNA simili a quelle che si volevano modificare potevano essere presenti in altre parti del DNA, andando quindi a ricadere nell’errore di modificare parti non volute del genoma, con tutte le possibili patologie che ne potrebbero derivare nel caso della cura di malattie, o di inefficienza parlando di OGM. 

La svolta di CRISPR Ca9 

Nel 2011, Emanuelle Charpentier, studiando un batterio patogeno per l’uomo, lo Streptococcus Pyogenes, si accorse che questo batterio aveva un’arma per difendersi dai Batteriofagi (virus che attaccano i batteri). 

L’arma in questione era CRISPR. Letteralmente Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeatstraducibile con “brevi ripetizioni palindrome raggruppate e separate a intervalli regolari” 

In pratica il batterio che era stato attaccato da un virus, ne memorizzava il DNA o RNA, inserendolo poi nel suo Genoma, per far sì che ad una eventuale reinfezione, trascrivendo l’RNA da quelle sequenze che aveva memorizzato tramite CRISPR, poteva produrre delle sequenze di RNA complementari a quelle del virus, bloccandolo e avendo così una sorta di “immunità” ad esso (questo meccanismo è conosciuto come “RNA interference)  (2)

Crediti immagine: researchgate.net 

Non era nuovo questo meccanismo, in quanto fu notato per la prima volta nel 1993 dal biologo marino Francisco Mojica, in una serie di batteri. 

Dove sta quel plus che ha fatto vincere il Nobel alle due scienziate? 

Una scoperta quasi per caso: 

L’intuizione della scienziata Charpentier, sta nel fatto di aver notato che questo meccanismo di difesa non usava proteine, ma RNA e DNA come strumenti principali per riconoscere il DNA, per cui aveva una precisione molto maggiore rispetto a qualunque tecnica di editing genomico fino ad allora conosciuta.  

Così nello stesso anno, ha pensato insieme alla scienziata Jennifer Doudnadi iniziare a lavorare alla riproduzione in laboratorio del sistema CRISPR unito alla proteina (sempre batterica) Cas9, che è una endonucleasi, ovvero un enzima capace di tagliare il DNA. 

Cas9, associata a CRISPR e altre proteine come transcrittasi e transattivasi, sarebbe stata in grado di tagliare uno specifico punto indicato dalla sequenza nucleotidica voluta, per poi inserire, sempre con la stessa precisione, un eventuale pezzo di DNA nel punto desiderato. 

Dal 2012 la tecnica si è sparsa per il mondo ed è stata utilizzata per una miriade di esperimenti, dagli OGM, ai biocarburanti alla cura di tante patologie. 

Il Nobel 

Oggi, a distanza di soli 8 anni (un Nobel può richiedere decine di anni per essere assegnato, ma la loro scoperta è talmente importante da aver impiegato pochissimo tempo per essere riconosciuta), le scienziate Charpentier e Doudna ricevono il più ambito dei riconoscimenti scientifici. 

Questa scoperta mostra come oltre allo studio, che alla lunga paga, una buona intuizione ed una vivace creatività sono le armi migliori di uno scienziato. 

Dalla semplice osservazione del sistema immunitario di un batterio, le scienziate sono riuscite a ricavare un potentissimo strumento che aiuterà l’umanità negli anni a venire, in innumerevoli campi tecnico-scientifici. 

Grande plauso quindi a queste grandi scienziate, che possano continuare a migliorare il mondo grazie ad una delle più preziose e nobili attività umane, la ricerca scientifica, e che questo meritatissimo premio possa essere d’ispirazione per le generazioni odierne e future! 

(1) https://upbiotech.wordpress.com/2019/05/27/lediting-genomico-prima-di-crispr-cas/

(2) https://elifesciences.org/articles/13450

 

Roberto Palazzolo

Patologie incurabili, sequenziato per la prima volta un intero cromosoma umano, compresi i telomeri

Progresso tecnologico e speranze future per le patologie incurabili. 

Un team di scienziati statunitensi e britannici ha prodotto la sequenza di DNA senza interruzioni, dall’inizio alla fine, di un cromosoma X umano 

Un telomero è l’estremità di un cromosoma che protegge l’interno del cromosoma stesso dai danni durante la divisione cellulare. Crediti immagine: Darryl Leya, NHGRI 

 

Luglio 2020, una bellissima scoperta scientifica è passata un po’ in sordina. 

Un team di scienziati ha sequenziato interamente un cromosoma umano. 

Ma cosa significa? Non avevamo già sequenziato l’intero genoma umano? 

Sì e no. 

Nel 2000 grazie al “Progetto genoma umano” sono stati sequenziati e mappati tutti i geni (ovvero la parte di DNA che viene “letta” e quindi trasformata in proteina) del nostro DNA 

Tuttavia una parte del genoma, l’eterocromatina, a causa della sua compattezza” è stata impossibile da sequenziare 

In parole povere è come se fossimo riusciti a tradurre un libro senza però riuscire a tradurne la copertina, ma sappiamo tutti che in un libro anche la copertina ha la sua importanza. 

Ma come hanno fatto gli scienziati a sequenziale i Telomeri ed il Centromero, impresa ritenuta prima impossibile? 

Usando una particolare tecnologia con nanopori, sono riusciti ad evitare che le lunghe ripetizioni di nucleotidi che si susseguono in queste particolari regioni del DNA, facessero saltare la DNA polimerasi o peggio rompessero il filamento ottenuto.
La tecnologia a nanopori ha inoltre permesso di identificare sequenze con metilazioni, riuscendo così anche a vedere i cambiamenti epigenetici avvenuti nel cromosoma. 
Per quanto riguarda il centromero i ricercatori sono riusciti ad identificare le varianti della sequenza di ripetizioni, e usando dei marcatori hanno allineato le lunghe stringhe di DNA ottenute per poi unirle, coprendo l’intera lunghezza del centromero. 
Infine, usando software avanzati sono stati in grado di garantire una maggiore precisione per avere una maggiore accuratezza nella sequenza delle basi sequenziate. (1) Continua a leggere “Patologie incurabili, sequenziato per la prima volta un intero cromosoma umano, compresi i telomeri”

Accordo vaccino Oxford-Pomezia: 400 milioni di dosi per la popolazione europea entro fine anno

In attesa dei risultati finali della sperimentazione, ormai alle soglie della fase II-III, l’Italia, insieme a Francia, Germania e Olanda, ha firmato un accordo con AstraZeneca che distribuirà il candidato vaccino elaborato dalla collaborazione Oxford-Pomezia.

L’annuncio è arrivato dalla pagina Facebook del ministro della Salute, Roberto Speranza che ha espresso molto entusiasmo per la potenziale cura, che in tempistiche così ridotte sembrava impossibile.

Il contratto con AstraZeneca, multinazionale svedese del settore farmacologico, prevede l’approvvigionamento di circa 400 milioni di dosi di vaccino da destinare a tutta la popolazione europea.

La soluzione vaccinica potenziale nasce dagli studi dell’Università di Oxford , che coinvolgerà nella fase di sviluppo e produzione anche importanti realtà italiane.

Il vaccino sviluppato dallo Jenner Institute-Università di Oxford consiste in un adenovirus (il virus del raffreddore degli scimpanzé) svuotato del suo patrimonio genetico, quindi privato della capacità di infettare, e riempito della proteina Spike sintetizzata, cioè prodotta chimicamente in laboratorio. La Spike è indispensabile per il Sars-CoV-2 in quanto gli permette di entrare nella cellula umana. Il vaccino ha la funzione di stimolare nell’organismo attaccato dal Sars-CoV-2 la produzione di anticorpi contro la proteina e di prevenire la malattia. (fonte Corriere.it) 

L’impegno prevede che il percorso di sperimentazione, già in stato avanzato, si concluda in autunno con la distribuzione della prima tranche di dosi entro la fine del 2020.

Arriva dunque un primo promettente passo avanti per l’Italia e per l’Europa nella corsa al vaccino, unica risposta definitiva al Covid-19.

“All’Italia, che è stata la prima in Europa a conoscere da vicino questo virus, oggi è stato riconosciuto di essere tra i primi Paesi a dare una risposta adeguata. Dimostriamo che vogliamo essere in prima linea nella ricerca di un vaccino  e nelle terapie che allo stato attuale risultano essere più promettenti”, così ha commentato con la consueta pacatezza il Premier Conte.

Il candidato vaccino in questione, sperimentato sui macachi e già inoculato a volontari tra cui alcuni ricercatori, sarà testato in Brasile, oltre che in Inghilterra.

Il composto, al quale sta lavorando l’Università di Oxford in collaborazione con l’azienda Advent Irbm di Pomezia, coinvolge 5000 volontari sani nel Regno Unito, già selezionati, ed altrettanti nel paese sudamericano.

Allo Jenner Institute della Oxford University sono in corso i test al momento più avanzati in Europa.
Secondo il protocollo, la seconda e terza fase di sperimentazione prevedono la somministrazione ad un campione molto più ampio, per un totale di circa 10.000 volontari sani.

Dell’importanza di sviluppare uno o più vaccini per prevenire Covid-19 si sta parlando ormai da mesi; sarebbe sicuramente importante averne la disponibilità nel caso in cui dovesse arrivare la temuta seconda ondata.

I primi a ricevere il vaccino saranno i lavoratori della sanità e le persone a rischio, per età o perché colpite da certe patologie, e le forze dell’ordine.

Lo afferma il consulente del ministero della Salute Walter Ricciardi che in una intervista a Repubblica traccia la strategia per immunizzare il paese dopo l’annuncio dell’accordo con AstraZeneca per la produzione del vaccino.

La campagna di vaccinazione, infatti, verrà organizzata dal ministero della Salute e sarà gratuita, un po’ come succede con il vaccino antiinfluenzale che viene offerto alla categorie a rischio (over 65 e malati cronici).

Gli occhi preoccupati del mondo, e non solo, da mesi sono puntati su Oxford e sulla azienda AstraZeneca che nelle settimane scorse ha annunciato una capacità di produzione di 1 miliardo di dosi nel 2021 e che avrebbe avviato le prime consegne a Settembre, periodo nel quale sono attesi i risultati finali della fase III.

I primi a stipulare un accordo erano stati i britannici con la prelazione di 30 milioni di dosi; la compagnia aveva reso noto che stava lavorando ad accordi in parallelo con altri governi europei, per assicurare una ampia ed equa fornitura del vaccino nel mondo in risposta all’emergenza pandemica.

La società riconosce che il vaccino potrebbe anche non funzionare, ma che ha sicuramente contribuito nel progresso rapido del programma clinico e dell’avanzamento scientifico nella lotta al Covid-19.

L’Azienda ha fatto sapere che starebbe incrementando ulteriormente la sua capacità produttiva e che è aperta alla collaborazione con altre aziende al fine di rispettare l’impegno di sostenere l’accesso al vaccino senza alcun profitto durante la pandemia.

Grandi speranze scientifiche che nei prossimi mesi si potrebbero tradurre in importante realtà.

Antonio Mulone