Cannabidiolo, possibile effetto protettivo contro il Covid

Recenti articoli hanno mostrato un possibile effetto di protezione da parte del Cannabidiolo contro il Corona Virus.
Ad un anno e mezzo dalla pandemia, grazie all’importante campagna vaccinale, la curva dei contagi sta finalmente scendendo.
Tuttavia, parallelamente allo sviluppo dei vaccini, la ricerca non si è fermata di studiare potenziali farmaci in grado di curare il Covid-19.

 

Cos’è il cannabidiolo?

In che modo combatte il Covid?

Serendipità

Conclusioni

Cos’è il cannabidiolo?

Il Cannabidiolo è uno dei metaboliti della Cannabis Sativa, pianta nota per il suo uso ricreativo, dati i suoi effetti psicotropi.

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Tuttavia, il responsabile degli effetti psicotropi, è principalmente il THC (tetraidrocannabinolo), un metabolita che, agendo sui recettori CB1 e CB2, è in grado di modulare la captazione di diversi neurotrasmettitori (come glutammato e dopamina), oltre ad agire sui recettori μ1 del sistema endorfinergico, modulando gli stimoli dolorosi.

Il Cannabidiolo (CBD) agisce invece, legandosi come agonista per i recettori della Serotonina 5-HT1a e come antagonista dei recettori GPR55 e dei recettori vanilloidi TRPV1 e TRPV2. Modula inoltre i recettori CB1, CB2 e oppioidi.

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Queste sue proprietà hanno permesso che la farmacologia si interessasse alla Cannabis Sativa dimostrando che il Cannabidiolo ha effetti rilassanti, anticonvulsivanti, antidistonici, antiossidanti, antinfiammatori, favorisce il sonno ed è distensivo contro ansia e panico. Inoltre, si è rivelata in grado di ridurre la pressione endooculare, è un promettente antipsicotico atipico ed è utile nel trattamento del dolore neuropaticoProprio per questo in diversi Paesi è stato liberalizzato l’uso della Cannabis a basso contenuto di THC (che ha l’effetto psicoattivo), ma che presentano comunque livelli normali di CBD.

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In che modo combatte il Covid?

Visto l’avanzare della ricerca sul CBD, in uno studio su Pubmed (ancora da verificare), si è notato che in una coorte di pazienti umani ,che in precedenza avevano assunto CBD, l’incidenza di infezione da SARS-CoV-2  era significativamente inferiore, fino a un ordine di grandezza, rispetto alle coppie abbinate o alla popolazione generale.
È emerso che il CBD induce l’espressione dell’interferone e aumenta la sua via di segnalazione antivirale, inibendo la replicazione del SARS-CoV-2. Questo avviene, probabilmente, grazie al suo legame con il recettore CB2, espresso quasi esclusivamente sulle cellule T del sistema immunitario, con più alta densità a livello della milza. La stimolazione dei recettori CB2 sembra infatti essere responsabile principalmente della azione anti-infiammatoria e immunomodulatrice dei cannabinoidi.

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In un altro studio, è emerso che gli estratti di C. Sativa ad alto contenuto di CBD, possano essere utilizzati per ridurre l’espressione di ACE2, enzima attraverso il quale il SARS-CoV-2 entra nelle cellule umane.

Un’ulteriore ricerca ha dimostrato l’efficacia del CBD contro le malattie dell’apparato respiratorio e le sue proprietà cardioprotettive, nefroprotettive, epatoprotettive, oltre ad una concomitante riduzione delle molecole attraverso cui il SARS-CoV-2 entra nell’organismo umano.

Crediti immagine: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33671463/#&gid=article-figures&pid=figure-3-uid-2

Questi dati suggeriscono quindi un nuovo effetto del Cannabidiolo, suggerendone una sua aggiunta (add-on) alla tradizionale terapia per i malati di Covid19.

Serendipità

La scoperta del potere protettivo del CBD nei confronti del Covid19, è avvenuta osservando una coorte di persone che si infettavano di meno assumendo il CBD (per altri motivi legati alle altre proprietà farmacologiche dello stesso).
Questa modalità di scoperta prende è nota come Serendipità.
Il termine serendipità indica l’occasione di fare felici scoperte per puro caso e anche, il trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne stava cercando un’altra. Horace Walpole, nel XVIII secolo, coniò il termine in inglese (serendipity), che rientra pertanto nel novero delle parole d’autore.

Diverse sono le scoperte avvenute “per caso”:

Conclusioni

Il nuovo effetto del CBD fa vedere come le diverse scoperte scientifiche siano tra loro concatenate.
Una scoperta apparentemente poco utile può portare a scoperte sensazionali, grazie ad una sorta di effetto domino o a volte, alla mera fortuna, portando l’umanità sempre più lontano e verso una migliore qualità di vita.

Proprio per questo gli Stati dovrebbero investire di più nella scienza, e noi cittadini in primis dovremmo chiedere maggiori fondi destinati alla ricerca, affinché scoperte di questo genere possano essere sempre più, all’ordine del giorno.

 

                                                                                                                                                                  Roberto Palazzolo

Alzheimer: approvato il primo farmaco specifico per la malattia

È di ieri, 7 Giugno 2021,  la fantastica notizia dell’approvazione, da parte dell’FDA (Food and Drug Admininistration), dell’Aducanumab (nome commerciale Aduhelm), il primo farmaco specifico contro l’Alzheimer.

Cos’è l’Alzheimer?

L’Alzheimer è una malattia neurodegenerativa che causa demenza progressiva ed inarrestabile. Essa porta, a lungo andare, ad un’auto-insufficienza, determinando dopo 4-8 anni di malattia la morte per le precarie condizioni igienico-alimentari dovute all’allettamento.

Secondo i dati del Ministero della Salute, in Italia, il numero dei pazienti con demenza è di oltre 1 milione (circa 600.000 a causa dell’Alzheimer) e 3 milioni sono le persone coinvolte nella loro assistenza, con enormi conseguenze economiche e sociali.
Ma il problema non è solo italiano. Nel 2010, in tutto il mondo 35,6 milioni di persone erano affette da demenza.
Si stima inoltre un aumento del doppio nel 2030, del triplo nel 2050, con 7,7 milioni di nuovi casi all’anno e con una sopravvivenza media, dopo la diagnosi, di 4-8-anni.

Crediti immagine: truenumbers.it

Quali sono le cause della malattia?

L’eziologia della malattia non è ancora ben compresa. Si crede contribuiscano fattori ambientali, come evidenziato dal Global Burden of Disease (nello specifico, il particolato PM 2.5), fattori genetici come i geni presenilina-1 (PSEN1), presenilina-2 (PSEN2) e proteina precursore di beta-amiloide (APP), l’elevato stress ossidativo (ROS) causato da un eccessivo stato infiammatorio.

Il meccanismo attraverso il quale la malattia causa demenza consiste nella formazione di placche nel cervello, dette placche amiloidi, ed ammassi neurofibrillari. Essi si accumulano via via nel cervello, “intasandolo” ed impedendone il corretto funzionamento, conducendo infine a morte i neuroni.

Crediti immagine: Brainer.it

Le placche di beta-amiloide e gli ammassi neurofibrillari (costituiti da proteina Tau) sono dovuti ad un errato ripiegamento delle proteine, che normalmente hanno una conformazione ad alfa elica o a foglietto beta. Non essendo ripiegate bene, a causa di tutti i fattori di cui sopra, saranno difficili da smaltire per la microglia (insieme di cellule deputate alla “pulizia” del tessuto nervoso) e si accumuleranno sempre di più.

Come veniva curato?

Fino a ieri, la terapia della malattia si è basata su un approccio farmacologico ed uno psicosociale-cognitivo.

L’approccio psicosociale-cognitivo consiste in programmi di training cognitivo, basati sulla stimolazione cognitiva e comportamentale attraverso “esercizi mentali”. Effetti positivi sono dati pure dalla musico-terapia e arte-terapia, che influiscono positivamente sull’umore dei malati.

Crediti immagine: tieniamente.it

L’approccio farmacologico consiste nell’uso di farmaci non specifici per il morbo di Alzheimer, ma in grado in generale di potenziare le rimanenti funzioni cognitive, ormai deficitarie. Si tratta di molecole come l’acetilcolina e gli inibitori dell’acetilcolina colinesterasi (che ne aumentano la concentrazione cerebrale), come la fisostigmina, la neostigmina ecc.
Altri farmaci utilizzati comprendono i glutammatergici, come la memantina.

Questi farmaci, seppur in grado di rallentare il declino della malattia, non ne modificano il decorso, purtroppo infausto.

Aducanumab, il nuovo farmaco

L’Aducanumab, (nome commerciale Aduhelm) è un anticorpo monoclonale diretto contro le placche di beta-amiloide che si accumulano nel cervello. Si somministra una volta al mese per via endovenosa.

Crediti immagine: nursetimes.org

Rappresenta una svolta epocale, in quanto prima di ieri nessun farmaco era diretto a contrastare il meccanismo patogenetico della malattia. I farmaci precedentemente usati, infatti, avevano solamente un effetto non specifico, in grado di potenziare le funzioni  cognitive rimaste, ma non influenzavano il decorso finale dell’Alzheimer.

Vista lefficacia del farmaco, valutato in 3 studi che hanno coinvolto 3482 pazienti, l’FDA ha approvato con un protocollo di approvazione accelerato, usato quando si scopre un farmaco efficace per una malattia grave e pericolosa per la vita.

I pazienti infatti, tramite studi in doppio cieco e randomizzati, hanno mostrato una significativa riduzione dose e tempo-dipendente delle placche di beta-amiloide nei pazienti che ricevevano il farmaco, rispetto a quelli che assumevano il placebo.

Per tali ragioni ieri, 7 Giugno 2021, l’FDA ha autorizzato la vendita di questo prodigioso farmaco, prodotto dalla Biogen, che ha iniziato a svilupparlo nel lontano 2003.

Prospettive future

Grazie all’Aducanumab, probabilmente la storia naturale dell’Alzheimer potrà cambiare.

La speranza è che, grazie ad esso e a successivi farmaci, si riuscirà a far diventare l’Alzheimer una malattia cronica un po’ come il diabete.
C’è da considerare, infatti, che sebbene sia il primo farmaco diretto contro il meccanismo patogenetico, adesso si ha la prova che questo tipo di farmaci, ovvero gli anticorpi monoclonali, funzionano.

Crediti immagine: infomedics.it

Questo farà sì che altre aziende farmaceutiche spenderanno in ricerca per realizzare nuovi farmaci contro questa ed altre malattie neurodegenerative caratterizzate da meccanismi simili.

Si prospetta dunque un’epoca d’oro per la medicina odierna e futura. Grazie infatti ai calcoli dei super computer è ormai facile realizzare farmaci ad hoc contro un particolare bersaglio molecolare.

L’epoca della target-therapy è iniziata da pochi anni, ma già mostra le sue incredibili potenzialità. Presto molte malattie, finora incurabili, potranno avere nuove terapie.

Crediti immagine: nuvola.corriere.it

Un sincero grazie ai ricercatori che nel silenzio, ogni giorno, lavorano per noi e che, ormai spesso, ci omaggiano di queste fantastiche notizie.

Roberto Palazzolo

Dalla Spagna a Messina per la ricerca in fisica – Intervista a David Bronte Ciriza

Il ragazzo che vedete in foto è David Bronte Ciriza, ha 24 anni ed è nato e cresciuto a Pamplona, Spagna. A 22 anni ha conseguito la laurea triennale in fisica a Madrid. In seguito al master e a una specializzazione in biofisica, ha intrapreso un percorso di dottorato di ricerca.
Dopo molte peripezie, ha scelto proprio l’Università di Messina per migliorare il suo profilo. Di recente, come riportato qui, David è stato nominato dal Biophotonics Congress per un articolo sull’impiego di tecniche di machine learning per il calcolo delle forze ottiche. Il metodo sviluppato in questi mesi permetterebbe di determinare con precisione molto maggiore, rispetto a quanto avevamo a disposizione finora, le forze impresse dalla luce. Ma facciamo spiegare meglio di cosa si tratta a David in persona.

David Bronte Ciriza

In che cosa consistono gli studi a cui stai lavorando?

Cerchiamo un modo per utilizzare la forza che la luce imprime sulla materia per manipolarla in modo preciso e meticoloso. In particolare, ci occupiamo di materia attiva, un tipo di materia caratterizzata dalla capacità di convertire l’energia presente nell’ambiente che la circonda in energia meccanica. L’esempio più lampante di materia attiva sono gli esseri umani, ma ovviamente rientrano nella categoria anche batteri e altri microrganismi. Più nello specifico, mi concentro su corpi di dimensioni che vanno da 0.5 a 5 micrometri.

Quali potrebbero essere le eventuali applicazioni pratiche derivanti dalla riuscita di questo progetto?

Domanda interessante. Come sempre accade in questi casi, gli sviluppi di una tecnologia nascente sono totalmente imprevedibili, potrebbe avere delle conseguenze rivoluzionarie o trovare impiego in settori estremamente di nicchia. I più grandi utilizzi che mi vengono in mente, in questo momento, sono in medicina e nell’ambito della risoluzione di catastrofi ambientali. In medicina possiamo usare le forze ottiche per limitare i danni che trattamenti invasivi arrecano a tessuti prossimi a quelli che necessitano di cure, colpendo gli agenti patogeni in modo più preciso e circostanziato. Per quanto riguarda le questioni ambientali, sono molte le idee sulla manipolazione della materia attiva per confinare sostanze altamente inquinanti in un’area limitata, in modo che questi non contaminino corsi d’acqua, laghi e oceani.

Quali sono state le difficoltà che hai dovuto affrontare vivendo qui a Messina, soprattutto in tempi di Covid?

Beh, di sicuro non è stato facile, soprattutto nei primi tempi. È quasi una sfida: sei lontano dalla tua famiglia e dai tuoi amici.  Inoltre, a causa delle differenze linguistiche, è complicato comunicare come vorresti con gli altri e quindi costruire una vera e propria rete sociale. Per la verità, queste sono problematiche affrontate altre volte (non è la mia prima esperienza all’estero). Devo dire che da questo punto di vista la pandemia ha complicato moltissimo le cose.

A proposito di Spagna, credi ci siano delle differenze sostanziali con l’Italia riguardo gli ambienti lavorativi?

Si, ho notato una grandissima differenza, non solo con Madrid ma anche con le università australiane. L’atmosfera qui è più rilassata e meno competitiva, l’ambiente è più raccolto e c’è molto più spazio per i rapporti umani fra colleghi. Spesso mi sembra di far parte, oltre che di un gruppo di lavoro, di una famiglia vera e propria.

Hai trovato dei tuoi coetanei fra i colleghi di lavoro o sono tutti più grandi di te?

Questa è una differenza sostanziale rispetto alle altre esperienze che ho fatto. Finora ho sempre lavorato con ragazzi della mia età, qui a Messina invece sto avendo a che fare con professionisti già totalmente affermati e non con degli studenti. Questa circostanza la vedo come un’incredibile opportunità di crescita, sia personale che professionale. La loro esperienza non solo mi incentiva a darmi da fare ma mi permette anche di imparare in maniera attiva da loro. D’altro canto, è doveroso ammettere che la presenza di miei coetanei sul posto di lavoro avrebbe sicuramente favorito il mio inserimento nei gruppi sociali di riferimento.

Ci sono mai state delle discussioni spiacevoli a lavoro?

Innanzitutto, c’è da dire che mi sento davvero molto fortunato. I miei colleghi sono assolutamente gentili e amichevoli, a partire dalla ragazza alla reception fino agli addetti alle pulizie. Ci sono state, nei primissimi giorni, delle incomprensioni dovute soprattutto a fraintendimenti linguistici, che anzi hanno assunto dei connotati estremamente divertenti!

 

Nel corso della sua permanenza a Messina, David, fra le tante conferenze internazionali, ne ha tenuta una sul machine learning al Liceo Archimede. Vorrei proporre la frase di apertura di quell’evento: “ciao comari e compari siciliani, fino a qualche anno fa ero un ragazzo come voi, incerto sul mio futuro, con una mezza idea di voler diventare un fisico...”. Una frase da poco, senza troppe pretese, studiata per rompere il ghiaccio coi ragazzi. Tuttavia, queste poche parole possono racchiudere l’essenza del viaggio che tutti noi, per un motivo o per un altro, siamo chiamati ad affrontare.

Gianluca Randò

Carcinoma vescicale: il paradosso del virus nel trattamento del tumore

Il carcinoma vescicale rappresenta la quinta causa di morte negli uomini di età superiore ai 75 anni. Più colpito è il sesso maschile, con un rapporto uomo-donna di 3:1. Negli ultimi anni questo divario sembra essersi ridotto per via della maggiore propensione delle donne al tabagismo (tendenza all’abuso di tabacco). 

Indice dei contenuti

  1. Fattori di rischio
  2. Come riconoscerlo tempestivamente
  3. Diagnosi tempestive e differenza nel trattamento
  4. Quali novità ci da oggi la scienza?
  5. Lo studio condotto
  6. Prospettive

Fattori di rischio

Tra i principali fattori di rischio ricorrono il fumo di sigaretta seguito da agenti chimici industriali, quali coloranti derivati dall’anilina, gomme o colla. Una pregressa radioterapia in sede sottodiaframmatica (es. nel trattamento di un carcinoma prostatico), infezioni croniche del tratto urinario, infezione da Schistosoma haematobium o da Bilharzia responsabili dell’istotipo squamoso (più raro).
Il 95% dei carcinomi vescicali è rappresentato dal carcinoma a cellule transazionali, un tumore di origine epiteliale le cui cellule richiamano gli elementi tipici di rivestimento della mucosa vescicale, le cellule uroteliali o transazionali.

 

Tumore della vescica: rischio di recidiva e progressione
https://www.urologo-genova.it/articoli/immagini/160301b.jpg

Come riconoscerlo tempestivamente?

Segni e sintomi non sono sempre evidenti. Il paziente può lamentare ematuria (presenza di sangue nelle urine), pollachiuria (minzione frequente), disuria (minzione fastidiosa o insoddisfacente), stranguria (minzione dolorosa). Sono sintomi del tutto aspecifici, che potrebbero orientare erroneamente verso altre patologie del tratto genito-urinario. E’ questo il motivo principale per cui si auspica una diagnosi precoce mediante esame delle urine standard coadiuvato dall’esame citologico. Quest’ultimo si rivela fondamentale nell’identificazione delle cellule di sfaldamento (eventualmente neoplastiche) provenienti dall’intero tratto urinario.

Diagnosi tempestive e differenza nel trattamento 

Nelle forme superficiali, non muscolo-invasive, la TURB (resezione endoscopica transureterale) ha una valenza non solo diagnostica, ma anche terapeutica, consentendo così l’asportazione della lesione superficiale. Le forme con grading G2-G3, dunque con una più elevata attività proliferativa, maggiore probabilità di recidiva locale e interessamento a distanza, richiedono oltre la TURB, l’istillazione endovescicale di chemioterapici. Il trattamento più efficace si è ottenuto con l’immunoterapia endovescicale, mediante l’installazione del bacillo di Calmette-Guerin attenuato (agente eziologico della tubercolosi), che induce una risposta infiammatoria distruggendo così il tumore.

Trattare il cancro della vescica | Roche Focus Persona
 https://roche-focus-persona.ch/sites/default/files/styles/content_full/public/media/media_images/cancro-della-vescica-diagnosi-e-terapia-cistoscopia-della-vescica-focus-persona.jpg?itok=0IIR91fN

Quali novità ci da oggi la scienza?

La “novità” più recente è stata ipotizzata da alcuni ricercatori inglesi dell’Università del Surrey. Partendo dal presupposto che il carcinoma vescicale è una neoplasia antigenicamente silente (non in grado di stimolare e attivare il sistema immunitario), i ricercatori hanno ipotizzato di sfruttare le capacità immunostimolanti del virus Coxsackie CVA21 per rendere il tumore immunologicamente “caldo”, nonché attaccabile dal sistema immunitario. Il virus, attivando geni che codificano per proteine infiammatorie ed immunitarie, fa si che la neoplasia sia meno proliferante, con conseguente eliminazione da parte del sistema immunitario.

Lo studio condotto

Il virus è stato introdotto nella vescica di 15 pazienti una settimana prima che i tumori (non muscolo-invasivi) venissero rimossi chirurgicamente. Tra questi, sei pazienti hanno ricevuto solo il virus, mentre i restanti nove hanno ricevuto anche una dose di mitomicina C . La mitomicina C aveva il fine di aumentare l’espressione della molecola ICAM-1 (una molecola di adesione che lega e attrae il virus potenziando la tua attività di distruzione delle cellule tumorali). In seguito all’intervento, i campioni bioptici hanno mostrato che il virus attaccava solo le cellule tumorali nella vescica, lasciando intatte le cellule sane. In un soggetto su quindici il tumore è scomparso e non rinvenuto durante l’intervento chirurgico. Inoltre, nei pazienti trattati, il virus è stato rilevato nelle urine (testate a giorni alterni). Questo dimostra che continua ad infettare nuove cellule tumorali vescicali dopo aver lisato le cellule infettate precedentemente.

 

Curare il tumore alla vescica con un raffreddore - Wired

https://images.wired.it/wp-content/uploads/2019/07/05183903/virus.jpg

Prospettive

I risultati sono a dir poco soddisfacenti. Si auspica che in un futuro prossimo questa nuova linea terapeutica possa diventare il trattamento di scelta nelle forme di carcinoma vescicale non muscolo-invasive. Tutto ciò limiterebbe l’istillazione endocavitaria di chemioterapici, che non sono certo scevri da importati effetti collaterali. Questo a fronte dell’impiego del virus Coxsackie CVA21 che non ha dato né effetti avversi, né tossicità significative in alcun paziente.

Alessandra Nastasi

Per approfondire:

https://lamedicinainunoscatto.it/2019/07/coxsackie-virus-come-alleato-nel-trattamento-del-cancro-alla-vescica/

Cani anti-COVID “sfidano” i tamponi: ecco cosa dice la scienza

I VOC come rilevatori biologici

Da oltre un anno la pandemia da COVID-19 continua a diffondersi. L’identificazione in tempo reale di individui affetti da SARS-CoV-2 è fondamentale per interrompere le catene di contagio. I test di rilevazione attuali dipendono dalla raccolta di campioni attraverso tamponi oro-faringei. Inoltre, la disponibilità di test antigenici è limitata e in diverse regioni è aggravata dalla carenza di reagenti, tempi di elaborazione prolungati, risultati ritardati o falsi negativi e falsi positivi.
Un approccio alternativo ai test rapidi consiste nello sfruttare i composti organici volatili (VOC) associati al virus. I VOC  comprendono diversi composti chimici che, nel loro insieme, hanno comportamenti fisici e chimici differenti. Essi sono accomunati dal fatto che presentano un’alta volatilità e causano impronte olfattive specifiche che possono essere rilevate, con un alto tasso di precisione, da cani addestrati per il rilevamento di profumi.

I cani da rilevamento e gli esperimenti condotti

I ricercatori stanno studiando come i cani da rilevamento riescano a percepire una forma di odore univoca nei campioni di saliva, urine e sudore di pazienti positivi a SARS-CoV-2. Sono stati condotti ad oggi diversi esperimenti.

L’esperimento condotto sulla saliva di pazienti ospedalizzati

Otto cani da rilevamento sono stati addestrati per 1 settimana. Il fine era di rilevare la saliva, secrezioni tracheobronchiali e urine di pazienti ospedalizzati infetti da SARS-CoV-2. Il virus è stato inattivato in tutti i campioni di addestramento con detergente o trattamento termico. I cani hanno discriminato con successo tra campioni positivi e negativi di saliva, con sensibilità diagnostica media dell’82,63% (indipendentemente dal protocollo di inattivazione).
Durante la presentazione di 1012 campioni randomizzati, ovvero campioni scelti casualmente, privi di errori sistematici, i cani hanno raggiunto un tasso di rilevamento medio complessivo del 94%.

Ruota del profumo utilizzata in questo studio. Fonte immagine: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC8046346/figure/pone.0250158.g001/
Sensibilità (barre rosso scuro) e specificità (barre arancioni) della risposta del singolo cane a miscele di campioni di urina trattati termicamente e positivi al SARS-CoV-2. Con sensibilità si intende  la capacità di identificare correttamente i soggetti ammalati. Con ”specificità” si intende la capacità di svelare e/o quantificare una determinata sostanza in presenza di altre aventi proprietà molto simili. Fonte immagine: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC8046346/figure/pone.0250158.g001/

L’esperimento condotto sul sudore di pazienti ospedalizzati

Lo studio condotto in due siti (Parigi in Francia e Beirut in Libano) ha coinvolto sei cani da rilevamento addestrati per 1-3 settimane. Per lo studio sono stati scelti 177 individui di cui 95 sintomatici COVID-19 positivi e 82 asintomatici COVID-19 negativi. È stato raccolto un campione di sudore ascellare per individuo. Una volta addestrato, il cane doveva distinguere il campione positivo COVID-19 posizionato in modo casuale dietro uno dei tre o quattro coni olfattivi (gli altri coni contenevano almeno un campione negativo COVID-19).  Lo studio condotto era randomizzato e in doppio cieco. Ciò significa che il cane e il suo conduttore non conoscevano la posizione del campione positivo per COVID. La percentuale di successo per cane variava dal 76% al 100%.

Apparecchiature di prova. Fonte immagine: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7728218/figure/pone.0243122.g005/

L’esperimento condotto su viaggiatori all’aeroporto di Helsinki

L’esperimento è stato successivamente condotto presso l’aeroporto di Helsinki (Finlandia), in collaborazione con l’Università di Helsinki, così da avere una più ampia scala di soggetti da sottoporre a screening. I viaggiatori dovevano asciugare il sudore prodotto dal collo mediante un apposito panno successivamente riposto dietro una parete scura. Il cane in poche decine di secondi era in grado di discriminare un campione positivo sintomatico o asintomatico da uno non positivo. I cani infatti sembrano riconoscere la malattia in una fase ancora più precoce rispetto ai tamponi analizzati con la tecnica della PCR, per i quali sono necessarie 18 milioni di molecole rispetto alle 10-100 molecole che il cane sfrutta.

Fonte immagine: https://it.mashable.com/4345/cani-anti-covid-aeroporti-helsinki

Olfatto magico? Come fanno?

L’olfatto canino è già usato negli aeroporti, dogane e stazioni per rilevare la presenza di esplosivi e droghe. Inoltre individua casi di diabete, alcuni tipi di cancro, attacchi di panico ed epilessia. Il sistema olfattivo dei cani è particolarmente sviluppato: la loro mucosa olfattiva supera i 150 cm2 e il loro cervello olfattivo possiede un numero di neuroni 40 volte superiore a quello degli esseri umani.
Studi recenti, pubblicati su Experimental Biology, dimostrano come i cani siano in grado di selezionare con una precisione del 97% campioni di sangue appartenenti a persone malate di carcinoma polmonare. Inoltre, i ricercatori delle Università di Lund, in Svezia, e dell’Università Eötvös Loránd di Budapest, hanno individuato nei cani la capacità di percepire le radiazioni termiche provenienti da corpi caldi, come già noto in serpenti o pipistrelli.

Fonte immagine: https://www.bedandpet.it/discriminazione-olfattiva/

La possibilità di screening di massa non intrusivi

Gli studi sopra esposti hanno quindi dimostrato che la sensibilità, la specificità e le percentuali di successo riportate, sono paragonabili o migliori della RT-PCR standard. Questo significa che i cani da rilevamento degli odori potrebbero a breve essere impiegati per schermare e identificare in modo non intrusivo le persone infette dal virus COVID-19 in ospedali, scuole, università, aeroporti, stazioni, concerti ed eventi sportivi. L’uso di cani per lo screening richiede però un adeguato addestramento con un gran numero di nuovi campioni SARS-CoV-2 positivi e negativi confermati.

Francesca Umina

Per approfondire:

Giornata delle Malattie Neuromuscolari 2021: novità incoraggianti dalla terapia genica ai farmaci sperimentali

Il 13 marzo 2021, in occasione della Giornata delle Malattie Neuromuscolari 2021, associazioni laiche e scientifiche (AIM e ASNP) hanno portato avanti un progetto volto ad aggiornare un pubblico di ampio respiro, in primis i pazienti e le loro famiglie, ma anche medici e psicologi che si occupano della loro gestione.

I punti salienti:

L’evento live ha visto protagonisti molteplici esperti in materia, che hanno fatto luce su quelle che sono patologie, ereditarie o acquisite, interessanti il motoneurone, il muscolo, la giunzione neuromuscolare o il nervo periferico. Si tratta di forme estremamente eterogenee: alcune di queste sono malattie del motoneurone (come la SLA), altre forme distrofiche e forme infiammatorie.
Comportano disturbi del movimento, paralisi, difficoltà nello svolgere attività fisiologiche come deglutire, camminare correre.
Sebbene siano forme rare, sono da attenzionare in quanto compromettono notevolmente la qualità della vita del soggetto, considerando per di più che le fasce più colpite sono bambini e giovani adulti.

Fonte: https://www.corriere.it/salute/neuroscienze/18_marzo_02/centri-malattie-neuromuscolari-49184256-1e3f-11e8-af9a-2daa4c2d1bbb.shtml

Tutto ha inizio da una corretta diagnosi

Il Professor Carmelo Rodolico ed a seguire la Professoressa Olimpia Musumeci (UOC di Neurologia e Malattie Neuromuscolari) illustrano come eseguire una attenta procedura diagnostica.
Di fondamentale importanza è l’anamnesi, personale e familiare, al fine di individuare altri casi tra parenti prossimi nell’ipotesi di una forma congenita. Altro fattore importante è l’età, in quanto l’orientamento diagnostico sarà diverso a seconda del momento di insorgenza. Saranno poi necessarie determinazioni di laboratorio (CK sieriche e LDH), analisi genetiche nelle forme ereditarie, studi biochimici nelle forme metaboliche e mitocondriali ed elettromiografia. La biopsia muscolare, una volta considerata il gold standard, oggi riveste un ruolo di primo piano nelle malattie da accumulo, infiammatorie e nelle forme genetiche. Infatti, uno stesso gene può essere responsabile di quadri clinici differenti, così come forme cliniche differenti sono associate a mutazioni di geni diversi.
Oggi, l’affinamento della diagnosi è stato possibile grazie a metodiche di sequenziamento dell’esoma che consentono di sequenziare le regioni codificanti del genoma e di identificare tutti i potenziali “geni malattia”. Il limite è la grande mole di dati che si ottiene, pertanto sarà necessaria una scrupolosa cernita per trovare quelle varianti realmente significative.

Nuove speranze dalle terapie innovative e sperimentali

Le novità più recenti riguardo la SMA

L’intervento della Professoressa Messina ha apportato novità circa i risultati delle recenti terapie innovative e sperimentali in ambito di SMA (atrofia muscolare spinale, patologia neuromuscolare caratterizzata da progressiva morte dei motoneuroni).
Un primo studio ha comparato una coorte di 12 pazienti, trattati con terapia genica, con due studi di storia naturale. Ha mostrato un aumento della sopravvivenza accompagnato da un miglioramento funzionale. “Il dato fondamentale – riporta la Prof. Messina – è che due pazienti erano capaci di stare in piedi e camminare autonomamente, mentre solo tre pazienti hanno sviluppato effetti collaterali”. Nel follow-up a 5 anni si è continuato a registrare un aumento della sopravvivenza rispetto all’andamento più aggressivo osservato negli studi di storia naturale.

Altro approccio recente è il Nusinersen, oligonucleotide antisenso che agisce sullo splicing alternativo, determinando una produzione di proteina matura e stabile. Il problema è che va somministrato per via intratecale, cioè all’interno del liquor cefalorachidiano (il fluido presente nel sistema nervoso centrale). Il farmaco è in commercio per tutti i tipi di SMA indipendentemente dall’età. Il primo studio sulla SMA di tipo 1, pubblicato sul “New England Journal of Medicine“, mostrava una migliore sopravvivenza dei bambini trattati. Inoltre il 22% acquisiva il controllo motorio completo del capo, il 18% di sedere autonomamente e l’1% di stare in piedi.

Ultimo approccio innovativo è il Risdiplam. Anch’esso agisce sullo splicing promuovendo la sintesi di una proteina totalmente funzionante. Il farmaco è uno sciroppo e attualmente è previsto un uso compassionevole nelle SMA 1 e 2. In uno studio il 29% dei bambini con SMA 1 era in grado di stare seduto autonomamente per 5 secondi, cosa normalmente impossibile, ed il 95% ha registrato un miglioramento nella capacità di deglutire. Risultati sovrapponibili si sono ottenuti in tutte le fasce di età, non solo nei più piccoli.
Naturalmente, più progredisce la malattia, minori saranno le possibilità di risposta ottimale al trattamento.

Fonte: https://www.stateofmind.it/2018/05/malattie-neuromuscolari-benessere/

L’evoluzione nelle neuropatie disimmuni e genetiche

Altri progressi si hanno in ambito di neuropatie disimmuni, legate ad un’aggressione del sistema immunitario contro antigeni del nervo periferico. La Prof. Mazzeo ha illustrato alcune terapie innovative. “Una terapia ormai consolidata è con immunoglobuline per via endovenosa, anche se, negli ultimi anni, una svolta è stata affiancata dalla somministrazione sottocutanea, che naturalmente garantisce una maggiore adesione del paziente”. Una nuova molecola è l’Efgartigimod, il quale mostra affinità e competitività per il frammento Fc delle immunoglobuline ed è pertanto in grado di ridurre i livelli sierici di IgG (responsabili del danno ai nervi).

Nell’ambito delle neuropatie genetiche, su base ereditaria, una delle più frequenti è la malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT), caratterizzata da debolezza e atrofia dei muscoli che appaiono come “smagriti”. Recentemente è in corso l’utilizzo del BXT3003, una composizione di sorbitolo, baclofene e naltrexone. Studi animali hanno mostrato che la somministrazione di questo composto determina un miglioramento del danno delle fibre nervose in termini di aumento di calibro e dei processi di mielinizzazione.

Le nuove prospettive nella terapia dell’amiloidosi

Altri sviluppi terapeutici si sono avuti in ambito di amiloidosi, patologia caratterizzata da depositi di proteine anomale (come la transtiretina mutata). La forma che interessa il SNP, oltre alla neuropatia somatica, coinvolge il sistema nervoso autonomico. Ne conseguono pertanto disturbi della sfera sessuale, dell’alvo, per poi dare a breve termine un interessamento di organi nobili.
La conoscenza delle alterazioni molecolari alla base ha permesso di identificare nuove molecole che si sono rivelate efficaci nel trattamento. Tra queste il Tafamidis, stabilizzante della transtiretina che impedisce la formazione di fibrille di amiloide.
Terapie estremamente innovative sono quelle di gene silencing. L’Inotersen è un oligonucleotide antisenso, che agisce sull’RNA mutato e wildtype della proteina, determinando una riduzione dei livelli sierici di transtiretina. Altra molecola che permette di raggiungere lo stesso obiettivo è il Patisiran, che agisce con un meccanismo di RNAi (RNA d’interferenza). Lo studio APOLLO, pubblicato sul “New England Journal of Medicine“, ha dimostrato un netto miglioramento dei pazienti che assumevano il farmaco.

Ecco che, a dispetto della grande eterogeneità delle patologie, la Medicina non si arrende! Ciò che dai più è ritenuto “irrisorio”, in realtà sono piccoli grandi tasselli ritrovati nell’estrema complessità della fisiopatologia umana.

Alessandra Nastasi

Fonti:
Webinar “Giornata delle Malattie Neuromuscolari” 2021
https://www.giornatamalattieneuromuscolari.it/

Vaccino Pfizer-BioNTech: nuove evidenze di efficacia contro le varianti del SARS-CoV-2

In sintesi:

Nel contesto dell’attuale pandemia, sta crescendo progressivamente il timore per le varianti del SARS-CoV-2 diffuse a livello mondiale in quanto, analogamente ad altri virus, il SARS-CoV-2 è contraddistinto dalla tendenza alla mutazione. Tra le varianti che hanno destato maggiore preoccupazione bisogna particolarmente annoverare:

  • La variante Inglese: denominata SARS-CoV-2 VOC 202012/01, linea B.1.1.7;
  • La variante Brasiliana: linea P.1;
  • La variante Sudafricana: denominata 501Y.V2, linea 1.351.

Tutte e tre le varianti sono caratterizzate da una mutazione della proteina “Spike”, glicoproteina che determina la specificità del virus per le cellule epiteliali del tratto respiratorio.

Fonte: CNR

Cos’è e come funziona la proteina Spike dei Coronavirus?

La proteina Spike (S) è localizzata sulla superficie del virus, formando delle protuberanze caratteristiche (il nome “Coronavirus” deriva proprio dalla presenza delle protuberanze, che fanno sembrare il virus una corona). Essa si suddivide in due parti:

  • S1, che contiene una regione con lo scopo di legarsi alla cellula bersaglio attraverso l’interazione con il recettore ACE2;
  • S2, che in una seconda fase consente l’ingresso del virus nella cellula.

Quindi, una molecola che fosse capace di impedire l’interazione tra la proteina Spike e il recettore ACE2 sarebbe potenzialmente in grado di prevenire l’infezione da coronavirus e, di conseguenza, la malattia. A questo scopo tutti i vaccini attualmente in studio sono stati sperimentati per indurre una risposta che blocchi la proteina Spike.

Fonte: News Medical

Come funziona il vaccino Pfizer-BioNTech?

Il vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) contiene molecole di RNA messaggero (mRNA) che presentano al loro interno le indicazioni per costruire le proteine Spike del virus SARS-CoV-2. Nel vaccino, le molecole di mRNA sono inserite in una microscopica vescicola lipidica, una “bollicina” che protegge l’mRNA per evitare che deperisca in fretta e che venga distrutto dalle difese del sistema immunitario (in quanto componente estranea all’organismo), così che possa entrare nelle cellule.

Una volta iniettato, l’mRNA viene assorbito nel citoplasma delle cellule e avvia la sintesi delle proteine Spike. La loro presenza stimola così la produzione, da parte del sistema immunitario, di anticorpi specifici. Con il vaccino, dunque, non si introduce nelle cellule il virus vero e proprio (e quindi il vaccino non può in alcun modo provocare COVID-19 nella persona vaccinata), ma solo l’informazione genetica fondamentale per costruire copie della proteina Spike.

La vaccinazione, inoltre, attiva le cellule T che preparano il sistema immunitario a rispondere a ulteriori esposizioni al virus SARS-CoV-2. Se in futuro la persona vaccinata dovesse entrare in contatto con il virus, il suo sistema immunitario ne avrà memoria, lo riconoscerà e si attiverà per combatterlo, bloccando le proteine Spike e impedendone l’ingresso all’interno delle cellule.

Fonte: Tgcom24

Una volta compiuta la propria missione, l’mRNA del vaccino non resta nell’organismo ma si degrada naturalmente pochi giorni dopo la vaccinazione. Non c’è pertanto alcun rischio che entri nel nucleo delle cellule e ne modifichi il DNA.

Il vaccino ci protegge anche dalle varianti del virus?

Uno studio clinico, randomizzato e controllato con placebo, pubblicato il 31 Dicembre 2020 sul “The New England Journal of Medicine”, ha coinvolto circa 44.000 partecipanti, dimostrando che l’immunizzazione del vaccino BNT162b2 ha un’efficacia del 95% contro la malattia da SARS-CoV-2 (COVID-19).

Per analizzare gli effetti sulla neutralizzazione virale indotti dal BNT162b2, uno studio pubblicato l’8 Marzo 2021, sempre sul NEJM, ha analizzato le mutazioni S di ciascuna delle tre nuove varianti. Sono stati prodotti tre virus ricombinanti, rappresentanti queste tre linee virali, e altri due in cui sono stati prodotti altri sottoinsiemi di mutazioni.

In sintesi:

  • Il primo virus ricombinante aveva le mutazioni del gene S del lignaggio B.1.1.7 (B.1.1.7-spike, corrispondente alla variante inglese);
  • Il secondo aveva le mutazioni riscontrate nel gene S del lignaggio P.1 (P.1-spike, corrispondente alla variante brasiliana);
  • Il terzo aveva le mutazioni riscontrate nel gene S nel lignaggio B.1.351 (B.1.351-spike, corrispondente alla variante sudafricana);
  • Il quarto e il quinto presentavano una serie di mutazioni del lignaggio B.1.351 in diversa combinazione.

Successivamente, è stato eseguito il test di neutralizzazione (sulla base del parametro PRNT50, riduzione della placca del 50%), utilizzando 20 campioni di siero ottenuti da 15 partecipanti allo studio dopo la somministrazione della seconda dose del vaccino (avvenuta 3 settimane dopo la prima). Nei campioni è stata rilevata una neutralizzazione efficiente nei confronti delle varianti, con titoli superiori a 1:40.

Fonte: https://www.nejm.org/doi/pdf/10.1056/NEJMc2102017?articleTools=true

La neutralizzazione è risultata molto robusta contro le linee B.1.1.7-spike e P.1-spike, un po’ meno ma comunque molto valida contro la linea B.1.351-spike. I risultati dello studio suggeriscono inoltre che l’immunità delle cellule T esplica un ruolo chiave nella protezione, in quanto l’immunizzazione da BNT162b2 stimola la risposta dei linfociti T CD8+ che riconoscono più varianti.

Cosa ha dimostrato lo studio?

I risultati dimostrano che il vaccino Pfizer-BioNTech è efficace contro le principali varianti diffuse nel mondo. Tuttavia, trattandosi di esperimenti in vitro su virus ricombinanti, i ricercatori affermano che i risultati dovranno essere confermati da evidenze “reali” sull’efficacia del vaccino, provenienti da tutte le aree geografiche in cui esso viene impiegato.

I più recenti studi scientifici, come quello preso in esame, hanno inoltre l’importante obiettivo di ridurre la sfiducia nei confronti della vaccinazione, che si sta sempre più diffondendo. Il vaccino resta, ad oggi, insieme alle norme anti-Covid in atto, l’arma più efficace per sconfiggere questo “nemico”, che ha rivoluzionato le nostre vite. Dobbiamo quindi porre attenzione sul valore dei dati scientifici, accurati e ampliamente valutati dalla comunità scientifica.

Caterina Andaloro

Bibliografia:
https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMc2102017?query=featured_home&fbclid=IwAR3Kzrfmv269hjWWau6m0bxF0tE_dzJCdEE_gQmRVL6FoYKAo6pBQpdzVdI
https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2034577
https://www.sicardiologia.it/publicFiles/AIFA%20FAQ-Vaccinazione_anti_COVID-19_con_vaccino_Pfizer.pdf

I torrenti di Messina: da elementi costitutivi della città a discariche a cielo aperto

Poco più di un mese fa lo Stretto di Messina è stato oggetto di un servizio del Tg1. Sarebbe stato bello vedere un reportage sulla bellezza del nostro tratto di mare, o magari sui suoi mostri ed eroi leggendari, oppure sulla pesca del pescespada. Purtroppo niente di tutto ciò. La notiza riguardava un triste primato, per il quale lo Stretto di Messina è la più grande discarica sottomarina al mondo.

La ricerca è stata condotta dall’Università di Barcellona, in collaborazione con il Joint Research Centre (JCR) della Commissione Europea e altri enti, soprattutto italiani. Attraverso dei robot sottomarini è stato scoperto un enorme deposito di rifiuti -tra cui persino un’automobile-, con una densità superiore al milione di oggetti per chilometro quadrato. La presenza soprattutto di metalli e plastiche è pericolosissimo per la tenuta del sistema ecologico dello Stretto.

L’inquinamento sui fondali dello Stretto di Messina – Fonte: ansa.it

I rifiuti provengono principalmente dai torrenti

Ma da dove proviene tutta questa mole di rifiuti? Sicuramente molti oggetti sono stati gettati direttamente in mare, ma la maggior parte proviene dalle discariche abusive presenti nei numerosi torrenti della città. Infatti, con le grandi piogge, i corsi d’acqua, normalmente secchi, si riempiono e trascinano tutti i detriti, trasportandoli direttamente a mare.

Il problema dell’inquinamento dei torrenti è uno dei principali della nostra città e da anni si susseguono tentativi da parte delle istituzioni per arginarlo. Per verificare i risultati degli interventi svolti siamo andati alla foce di quattro dei numerosi torrenti cittadini. Prima di riportare la nostra esperienza, però, vogliamo viaggiare nel tempo per raccontare, a grande linee, la storia del rapporto tra la città di Messina e i suoi torrenti.

I torrenti nella storia della città di Messina

I torrenti sono stati elementi costitutitivi della città di Messina sin dai primi insedimaneti preistorici; infatti il primo villaggio, vasto e diffuso, sorgeva tra gli attuali torrenti Gazzi e Annunziata. Nel corso dei secoli l’insediamento urbano si è trasformato, ma con il costante ruolo di confine svolto dalle principali fiumare (o ciumare, in dialetto).

I torrenti, inoltre, erano corsi d’acqua fondamentali per la cittadinanza. Il principale era sicuramente il Camaro, raffigurato nella Fontana di Orione insieme ai prestigiosi fiumi Ebro, Tevere e Nilo. Essendo il più vicino al porto, si tentò di deviare il suo corso in diversi rami, tra cui quello corrispondente alla via Santa Marta, un tempo chiamata “a ciumaredda“.

Un altro corso d’acqua d’importanza storica è il torrente Portalegni, chiamato così perché era utilizzato per portare la legna dalle colline a valle. L’antico corso del Portalegni attraversava Piazza Duomo e sfociava nel Porto – nello spazio antistante la Chiesa dei Catalani-; per evitarne l’insabiamento si è provveduto a deviare il corso dove attualmente sorge la via Tommaso Cannizzaro.

Il torrente Boccetta, ancora scoperto – Fonte: normanno.com

I torrenti nella Messina di oggi

Al giorno d’oggi la maggior parte dei torrenti del centro città è stata coperta, sepolta sotto il manto stradale; i più importanti sono diventati assi viari degli svincoli autostradali.

Il problema principale relativo ai torrenti non è tanto legato alle tonnellate di veicoli che li perocorrono, ma al loro utilizzo come discariche abusive da parte di cittadini incivili.

Per arginare questa triste piaga poco più di un anno fa il sindaco Cateno De Luca ha annunciato lo stanziamento di 7,5 milioni per i lavori di messa in sicurezza – fondamentali per una città a grande rischio idrogeologico come la nostra – e di puliza dei 72 torrenti presenti nel nostro comune.

Gli interventi sono iniziati il 26 agosto con la pulizia della foce del torrente Annunziata, a cura della Protezione Civile comunale. L’8 settembre si è conclusa l’opera di messa in sicurezza e di igienizzazione del torrente Giostra. Attualmente i lavori stanno proseguendo, spinte anche da messaggi di denuncia, come quella del consigliere Libero Gioveni sulla “bomba ecologica” del torrente San Filippo.

Il sindaco Cateno De Luca durante i lavori di riqualificazione del torrente Giostra – Fonte: normanno.com

Pochi giorni fa siamo andati a verificare lo stato di salute dei torrenti di Giostra e dell’Annunziata e le condizioni delle foci del torrente San Filippo e del limitrofo torrente Zafferia. La differenza è netta. Nelle prime due fiumare la sporcizia non manca – segno che non bastano gli interventi istituzionali per arginare l’inciviltà di alcuni soggetti – ma non è paragonabile a ciò che abbiamo riscontrato nei due torrenti della zona sud, delle vere e proprie discariche a cielo aperto.

Torrente Giostra

San Filippo

Torrente Zafferia

Un punto di non ritorno

Siamo arrivati ad un punto di non ritorno. Da cittadini siamo rimasti impietriti di fronte allo scempio che abbiamo riscontrato, anche perché l’inquinamento è a pochi passi dalle abitazioni, a pochi passi da dove si stanno svolgendo le vaccinazioni contro il Covid-19, a pochi passi da tutti noi.

Gli interventi per salvare il nostro territorio e il nostro mare devono essere permanenti, ma questo non basta. Il vaccino più potente contro l’inquinamento è la creazione di cultura cittadina, forgiata dalla memoria di un passato glorioso e permeata da una solidarietà collettiva.

Non c’è più tempo da perdere.

Foto di Carlotta Faraci

Mario Antonio Spiritosanto

 

Fonti:

ilfattoquotidiano.it

normanno.com/cultura/cera-una-volta-messina-viaggio-nel-passato-tra-i-torrenti-della-citta-dello-stretto

normanno.com/attualita/pulizia-torrenti-messina

normanno.com/attualita/messina-al-via-la-pulizia-dei-torrenti-interventi-previsti-assessorato-alla-protezione-civile

normanno.com/attualita/messina-il-torrente-san-filippo-invaso-dai-rifiuti-cronache-da-una-bomba-ecologica

normanno.com/attualita/lavori-in-corso-sui-torrenti-di-messina-ma-ce-chi-continua-a-gettarvi-rifiuti

youtube.com

 

 

Covid: cortisone arma a doppio taglio, ecco i nuovi dati

Fin dall’inizio della Pandemia mondiale, numerosi sono stati i tentativi di districarsi nella cura più appropriata per la nuova patologia causata dal SARS-CoV-2. È stata impiegata una gran varietà di farmaci, ma nel tempo le evidenze hanno dimostrato una scarsa efficacia di molti degli approcci terapeutici tentati.

Particolare rilievo è stato dato ad una “vecchia”, ma sempre attuale, classe di farmaci, ovvero i cortisonici. Tali farmaci hanno ricevuto un’elevata attenzione mediatica e vengono presentati come una possibile panacea nel trattamento domiciliare precoce della malattia.

Negli ultimi mesi si sta addirittura assistendo ad un vero scontro tra alcuni medici e le autorità sanitarie. I primi grandi fautori dei cortisonici già alle prime avvisaglie di malattia, le seconde, seguendo le evidenze scientifiche disponibili, consigliano di andare cauti e ne scoraggiano un uso smodato.

Ma qual è la verità? Il cortisone va o non va utilizzato nel trattamento del Covid?

Una recente meta-analisi fatta dai ricercatori italiani, tra cui il prof. Alberto Zangrillo, ha cercato di far luce sull’argomento.

Crediti immagine: Trialsitenews.com

Vai subito al punto

1. Premessa: cosa fa il virus al nostro organismo?
2. Come si è curato il Covid finora?
3. Il cortisone quindi si può usare? La Meta-analisi
4. Perchè ad alcuni pazienti il cortisone fa bene, ad altri no?
5. Conclusioni

Premessa: cosa fa il virus al nostro organismo?

Una volta contratta l’infezione attraverso l’inalazione di droplets (piccole goccioline in cui è disperso il virus), esso penetra nei nostri organi attraverso il recettore ACE2.

Questo recettore è presente in molteplici tessuti, tra cui i polmoni. Nei polmoni, nei casi gravi si viene ad instaurare una polmonite interstiziale (sia perché il virus si riproduce, che per l’attacco del sistema immunitario), che fa sì che si “ispessiscano” i polmoni, rendendo difficili gli scambi gassosi. Questo è il motivo per cui molti pazienti necessitano di ventilazione assistita e di ossigeno.

Crediti immagine: Frontiersin.org

Nei casi ancora più gravi il virus stimola a tal punto il sistema immunitario da causare una tempesta citochinica (le citochine sono molecole dell’infiammazione). Queste citochine fanno sì che si instauri una Sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), per via dell’ulteriore “ispessimento” dei polmoni, rendendo di fatto impossibili gli scambi gassosi.

Per ultimo, ma non per importanza, il SARS-CoV-2 riesce pure a determinare (sempre attraverso l’infiammazione) un’aumento della coagulabilità del sangue, che porta alla formazione di microtrombi che occludono i vasi. Si possono occludere sia i vasi polmonari che altri vasi del corpo, determinando infarti, ictus, embolie polmonari, petecchie.

Come si è curato il Covid fino ad ora?

La terapia per i malati Covid, varia a seconda della gravità della malattia. Nei pazienti con pochi sintomi basta un’attenta osservazione per poi intervenire in caso di peggioramento.

Nei pazienti più gravi si è utilizzata una terapia di supporto, che consiste nel mantenere quanto più normali possibili tutti i parametri vitali. Ossigenazione in caso di insufficienza respiratoria, gestione della pressione arteriosa, ecc.

Gli unici farmaci attualmente approvati sono il Remdesivir ed il Desametasone, oltre ad antiaggreganti o anticoagulanti per i soggetti con rischio cardiovascolare. In emergenza sono stati approvati anticorpi monoclonali che però necessitano ancora di ulteriori studi.

Il cortisone quindi si può usare? La Meta-analisi

Che i cortisonici (in particolare il desametasone) fossero efficaci nel trattamento della malattia, è stato dimostrato. Tuttavia, dallo studio effettuato dai ricercatori italiani e pubblicato il 28 Novembre 2020 sulla rivista scientifica Journal of Cardiothoracic and Vascular Anesthesia, è emerso che è bene usarli SOLO IN ALCUNI CASI.

Fonte: Corticosteroids for Patients With Coronavirus Disease 2019 (COVID-19) With Different Disease Severity

Analizzando infatti cinque studi (criticamente selezionati tra 1168 articoli) con un totale di 7692 pazienti, i ricercatori sono giunti alle seguenti conclusioni:

  • Nei pazienti così gravi da richiedere ossigenoterapia, l’uso di desametasone ha portato ad una riduzione della mortalità del 6%;
  • mentre nei pazienti sintomatici, ma che non richiedevano ossigeno, l’uso di desametasone ha portato ad un incremento della mortalità del 4%.

Queste percentuali sembrano basse, ma considerando i milioni di malati Covid al mondo, una più chiara applicazione della giusta terapia può salvare migliaia di vite.

Perchè ad alcuni pazienti il cortisone fa bene, ad altri no?

La domanda sorge spontanea, la spiegazione risiede nella patogenesi della malattia.

Abbiamo visto infatti che in fase iniziale l’infezione da SARS-CoV-2 si localizza a livello delle alte e basse vie aeree. Questa, nei casi migliori, andrà incontro a guarigione grazie all’azione del sistema immunitario. Nelle prime fasi dell’infezione l’utilizzo di un farmaco come il desametasone potrebbe ridurre l’attività infiammatoria di difesa del sistema immunitario. Si potrebbe rischiare infatti di rendere vano il tentativo del nostro organismo di proteggerci dall’infezione, peggiorando l’evoluzione della malattia.

Nei casi invece dove i pazienti richiedono ossigeno, si è probabilmente innescata una eccessiva risposta infiammatoria a livello polmonare, che ha ridotto la capacità di scambio gassoso dei polmoni. In questo caso il razionale dell’utilizzo del desametasone è quello di frenare un sistema immunitario troppo vivace, che ha determinato la gravità della malattia.

Sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS). Crediti immagine: Wikipedia

Conclusioni

A dispetto di quello che millantano alcuni medici, fautori di una precoce terapia con cortisone, le evidenze scientifiche dicono il contrario.

UN USO PRECOCE DI DESAMETASONE IN PAZIENTI CHE NON HANNO BISOGNO DI OSSIGENO, POTENDO ABBASSARE LA RISPOSTA IMMUNITARIA E FAVORIRE LA REPLICAZIONE VIRALE,  AUMENTA DEL 4% LA MORTALITÀ.

La medicina, come tutte le scienze, non è esatta. Prima di arrivare alla scoperta di una malattia, di una cura per essa, sono necessari migliaia di studi di migliaia di ricercatori.

Diffidate dunque da chi, usando come stendardo il proprio titolo, cerca di fare scoop usando le vostre paure. Nella scienza non esistono né cure immediate, né miracoli, ma risposte basate su evidenze che pian piano ci fanno progredire.

Chi vi propone la cura miracolosa, nel migliore dei casi sbaglia, nel peggiore è in malafede, cercando guadagni o notorietà sfruttando la paura del cittadino, che nelle parole sicure (anche se false) dell’esperto trova conforto per la sua malattia.

Perfino alcuni premi Nobel in altri ambiti hanno commesso enormi errori di giudizio. Pensiamo ad esempio a Lui Montagnier, Nobel per la scoperta dell’HIV, diventato negli ultimi anni un convinto no-vax, nonostante il resto degli scienziati del mondo sia a favore dei vaccini.

Cortisone sì – cortisone no, dopo mesi di analisi dei dati e trial clinici, finalmente abbiamo una risposta abbastanza certa.

Fidiamoci della scienza, non dei singoli. Essa è frutto del lavoro di milioni di persone di scienza, che giorno dopo giorno con molta autocritica cercano di giungere a conclusioni sempre più precise. I miracoli, non appartengono alla scienza, ma ai ciarlatani.

Roberto Palazzolo 

Mese della consapevolezza dell’endometriosi: le nuove speranze dal mondo della ricerca

Solo in Italia, secondo il Ministero della Salute, le donne affette da endometriosi sono almeno tre milioni, ovvero tra il 10 e il 15% tra quelle in età fertile, e nel 30-40% dei casi la patologia è causa di sub-fertilità o infertilità. Eppure, la maggioranza della popolazione è all’oscuro della sua esistenza. Una limitata consapevolezza della patologia è infatti causa del grave ritardo diagnostico. La diagnosi arriva spesso dopo un percorso lungo e dispendioso, il più delle volte vissuto con gravi ripercussioni psicologiche. Al contrario, una pronta diagnosi e un trattamento tempestivo possono migliorare sensibilmente la condizione e prevenire l’infertilità.

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