Sara Campanella: perché anche vivere ha un prezzo

Si chiamava Sara Campanella, aveva 22 anni, ed era tirocinante presso il Policlinico di Messina. Usciva da lezione, ignara che qualcun altro avesse già deciso come sarebbe finito il suo pomeriggio. È profondamente angosciante pensare che una ragazza della mia età non abbia più voce, che qualcun altro abbia deciso per lei. I suoi sogni, le sue paure, le sue speranze, tutto rimosso per mano della violenza che si è arrogata il diritto di scegliere al posto suo.

Questa tragedia non è solo un atto di follia individuale, ma un riflesso di una società che troppo spesso alimenta possessività e l’idea che l’amore debba essere conquistato, un mondo dove il controllo e il dominio spesso vengono scambiati per affetto. Nessuno dovrebbe mai temere che qualcun altro possa scrivere il proprio destino, eppure, troppo spesso, questa paura si tramuta in realtà.

Lui, l’assassino, si chiama Stefano Argentino, ed è il frutto di una società che fatica a distinguere l’emozione dall’ossessione, l’amore dal possesso e la gelosia, che è ormai sinonimo di qualcosa di incontrollabile. Il problema di fondo è pensare che sia proprio questa ad uccidere, mentre invece risiede chiaramente nell’incapacità di riconoscerla, di poterla gestire e di trasformarla in qualcosa di umano, senza lasciare che diventi un’arma.

Ignorare il bisogno di educare alle emozioni, di insegnare che il desiderio di controllo non è amore ma una distorsione di esso, è come voltare le spalle a un incendio credendo che si estinguerà da solo. Cresce così la paura della normalità di certi comportamenti, delle parole che minimizzano e giustificano, della società che preferisce voltarsi dall’altra parte, che si limita a condannare la violenza senza mai chiedersi davvero da dove nasca. È inutile insegnare a difendersi se prima non si insegna a non essere una minaccia.

In un mondo iperconnesso, la gelosia trova terreno fertile nel monitoraggio costante, nel bisogno morboso di sapere tutto, persino di possedere anche l’immagine digitale di una persona. Ma chi educa quindi a rispettare i confini anche online, a non scambiare la trasparenza con un diritto di controllo?

L’indifferenza e il silenzio sono complici di ogni tragedia. La morte di Sara Campanella, come quella di tante altre, è il drammatico risultato di un’educazione che troppo spesso ignora l’importanza di gestire le emozioni. Non si tratta di trasmettere conoscenze, ma di insegnare a riconoscere i propri limiti, a rispettare quelli degli altri e a gestire le emozioni in modo sano. Insegnare il valore del rispetto reciproco, dell’autocontrollo e della responsabilità, significa anche formare individui consapevoli, capaci di riconoscere i segnali di abuso, di gelosia tossica e di intervenire prima che si trasformino in violenza. Educare alla parità, alla comunicazione sana e all’empatia è fondamentale. Solo così possiamo prevenire tragiche conseguenze che nascono da fraintendimenti, insicurezze o desideri di dominio.

Sara Campanella era come me, come il ragazzo che siede di fronte a me, come chiunque legga queste parole. E oggi mi rifiuto di sentirmi fortunata per essere ancora viva, come se l’esistenza fosse un privilegio. Perché l’unico vero merito dovrebbe essere di vivere senza paura.

Asia Origlia

Buoni propositi per una relazione conclusa

– ascoltando Your Dog –

 

Cadrò nell’universo, chiuso tra le mie braccia

 

In equilibrio su una corda tentennavo

ti ho chiesto l’armonia e l’hai pizzicata

sono caduto al buio della cassa risonante,

dall’interno ti sento solo suonare

e le tue corde sono le mie sbarre.

 

Ti parlerò in milioni di sogni

salendo scale, ma sono sempre ripetitivo,

d’altronde sono solo sette le note.

Starai sempre un gradino più alto

(era solo più comodo baciarmi).

 

Forse tutta questa musica non c’era

forse il tuo cane mi ha sempre abbaiato

forse devo solo dormire per incontrarti

se mi manchi la notte

 

Sempre più lontani in spazio e tempo

anche dei sogni resta solo un ricordo.

Solo solo sto, sempre con più persone

riscopro quelle vicine eppure

 

ho inciso nei polsi le nostre iniziali

cerco solo altre e che coincidano

 

(solo)

Ma quanto lo dico?

Senza di te?

 

Pessimi propositi

terribili, 2025

 

 

Alessio Perdichizzi

Gli anni di Cristo: avere trent’anni secondo Mobrici

Un album che racconta emozioni, dubbi e difficoltà dell’avere trent’anni, e che pur essendo vario rimane fedele all’autenticità di Mobrici. Voto: 5/5

 

Due anni dopo l’esordio da solista con l’album Anche le scimmie cadono dagli alberi, Mobrici torna sulla scena musicale con Gli anni di Cristo, il suo nuovo progetto discografico uscito il 31 marzo scorso. Composto da undici tracce e anticipato da tre singoli, l’album è stato realizzato assieme al produttore Federico Nardelli (Maciste Dischi).

Ex frontman del gruppo musicale ormai sciolto Canova, Matteo Mobrici, dà alla luce un disco scritto interamente a cavallo dei suoi 33 anni, come suggerisce il titolo. Si tratta di un album che racchiude le esperienze di vita trascorse dall’autore nell’ultimo anno, nelle quali un’intera generazione può riconoscersi. Mobrici si fa, infatti, portavoce di tutti i suoi coetanei e non solo, esprimendo quegli interrogativi, quei dubbi, e quelle consapevolezze che tanto caratterizzano un’età critica come quella dei trent’anni.

Ricco di numerosi spunti di riflessione differenti sulla crescita e sul cambiamento, l’album è vario anche a livello sonoro, cambiando stato d’animo da una canzone all’altra, passando dal romanticismo, alla malinconia, alla spensieratezza.

Gli anni della maturità

Avere figli oggi o non averne mai nessuno?

E’ questa la domanda che si pone il cantautore in Figli del futurocanzone che con un ritmo allegro e coinvolgente affronta il tema delicato della genitorialità.

A trent’anni spesso succede di guardarsi intorno e vedere i propri amici e conoscenti mettere su famiglia. In un’epoca piena di instabilità, economica ed ambientale, ci si chiede se valga davvero la pena di mettere al mondo un figlio che erediterà un futuro ricco di incertezze. Mobrici in questo brano non riesce a trovare una risposta a questo quesito, e lascia trarre a noi le conclusioni, che lo ascoltiamo e ci balliamo su.

Luna è invece una canzone che nasce da un episodio realmente vissuto dall’artista:

L’anno scorso alla fine di un concerto ho incontrato una ragazza prima di tornare in albergo. Quando succede così ti aspetti che ti chiedano una fotografia o che ti facciano dei complimenti. Questa ragazza invece aveva degli occhi quasi commossi e mi aveva fermato solamente per dirmi che non ce la faceva più, che era stanca della vita che faceva. Subito dopo mi ha chiesto un abbraccio e se n’è andata. Fonte

E’ una traccia in cui in tanti possiamo immedesimarci: il sentirsi inadeguati e l’essere infelici della propria vita sono sentimenti comuni a molti, riassunti ad esempio nella frase “La festa è finita abbasso la vita”, un piccolo omaggio a Rino Gaetano e la sua Gianna. Il doversi confrontare con la propria vita è un tema affrontato anche in Revolver, canzone che prende il titolo dall’omonimo album dei Beatles, e che ricorda molto i brani dei Canova per le sonorità. E’ un brano dal testo significativo, in cui si chiede alla vita stessa di permetterci di poter vivere liberamente:

Vita mia, vuoi tu lasciarmi vivеre, vivere
O forsе sei proprio tu a farmi morire, morire?

Le canzoni d’amore di Mobrici: tra malinconia…

Dalle ballad delicate ai brani più movimentati da cantare a squarciagola, all’interno del disco non mancano le canzoni romantiche da dedicare, assieme a quelle che cantano di amori passati.

La traccia d’inizio è Sexe, un brano dal ritmo elettronico, dal testo diretto che entra in testa sin dal primo ascolto, così come Kaseirkeller, che con un testo ironico e a tratti cinico, racconta di una storia finita male. Anche questa volta il titolo è un riferimento ai Beatles, e più precisamente ad un locale di Amburgo dove il gruppo si esibiva prima di diventare famoso.

Ma tra le canzoni di questo genere la più incisiva è Luci del Colosseo, singolo uscito a Novembre 2022, che racconta di una storia d’amore a distanza sulla tratta Milano-Roma. Con una fusione tra suono synth ’80 e un’orchestrazione all’italiana, descrive alla perfezione le difficoltà del mantenere una relazione a distanza, e tutte le sensazioni che si provano con essa, come la mancanza della persona amata che a lungo andare si avverte sempre di più.

…e spensieratezza!

Tra le canzoni più emozionanti invece, per testo e melodia, vi è Amore mio dove sei, un duetto con il cantautore Vasco Brondi, primo ospite dell’album. Le voci dei due artisti suonano in perfetta armonia, e si rivolgono ad un amore che non esiste in quanto non si conosce ancora, ma che prima o poi arriverà, e quando lo farà accadrà in modo intenso e profondo, per concludere finalmente un percorso fatto di solitudine, dolore e delusioni.

Amore mio, dove sei?
Quante ne hai passate senza di me?
E quante volte al giorno hai pensato di piangere?

Chiude il disco in bellezza Stavo pensando a te (con Fulminacci), la versione dell’iconico pezzo di Fabri Fibra, già rilasciata nella primavera dello scorso anno. Nata tra i due in modo casuale, la cover è comparsa nella colonna sonora di Fedeltà, serie tv di Netflix Italia uscita il 14 febbraio 2022, e poi pubblicata il 1 Aprile seguente.

Capolavoro dal forte coinvolgimento emotivo, al suo interno riprende una delle frasi del ritornello di Ho Capito Che Non Eravamo dei Canova: Ciao, ciao, ciao, amore”, che ripetuta continuamente sul finale, contribuisce ad accrescere il senso di malinconia.  

Giulia Giaimo

Il segreto per essere felici? La risposta è tra di noi

Chiederci cosa ci rende felici è forse un fatto tanto personale quanto collettivo. La ricerca della felicità muove le nostre vite, le nostre scelte, governa il nostro tempo. Desideriamo la felicità per tutta la vita forse, ma perché?

Forse, questo istinto, nasconde dei fini ultimi per la conservazione della specie, o forse perché, altrimenti, ci annoieremmo. Nessuno ha una risposta univoca che possa soddisfare se stesso, tanto meno gli altri.

Un recente sondaggio condotto sui giovani chiedeva loro quali fossero gli obiettivi di vita più importanti. Oltre l’80% ha affermato che uno di questi fosse diventare ricchi, il 50% che lo fosse anche diventare famoso. Percentuali alte, sì, ma che ti aspettavi? In una realtà in cui ricchezza e fama ci vengono presentati come stereotipo dell’uomo felice e di successo è normale che tutti vi aspirino (anche tu ci avrai pensato almeno una volta!).

Siamo figli della smania della produttività, già preimpostati sulla competizione, sul lavorare duro, sullo spingere di più e ottenere di più. Di più, di più, di più. Sarebbero queste le cose che infatti dovremmo inseguire per raggiungere il nostro obbiettivo: una vita felice ed in salute.

Ma se potessimo guardare intere vite mentre si svolgono nel tempo? E se potessimo studiare delle persone da quando sono adolescenti fino alla vecchiaia per vedere cosa le rende davvero felici e in salute?

Scena tratta dal film “The Truman Show”

In realtà è stato fatto. Uno studio condotto dall’Università di Harvard è lo studio più lungo che sia mai stato condotto. Per 75 anni è stata seguita la vita di 724 uomini, anno dopo anno, e ora sta per iniziare lo studio degli oltre 2.000 figli di questi uomini. Un po’ come fossimo dentro “The Truman Show”.

Lo studio prende vita nel 1938 con due gruppi: il primo composto da studenti di Harvard, il secondo da ragazzi dei quartieri più poveri di Boston.

Sono stati seguiti nel tempo dal punto di vista medico, sociale, lavorativo e psicologico. Sono diventati adulti, hanno iniziato a lavorare, a viaggiare, a metter su famiglia. Alcuni sono diventati operai, altri avvocati, muratori o dottori, uno di loro persino Presidente degli Stati Uniti. Altri si sono ammalati e sono morti, altri hanno sviluppato tossicodipendenze, altri ancora alcolismo. Altri ancora hanno asceso la scala sociale, dal fondo fino in cima, altri hanno fatto lo stesso percorso al contrario.

In tutto questo lo studio raccoglieva dati. Si analizzavano le cartelle cliniche, se ne studiano i parametri vitali, ematochimici, cerebrali. Ma soprattutto gli si chiedeva di loro, quali fossero le preoccupazioni del momento, quali quelle future, se fossero soddisfatti della propria vita, delle proprie scelte, se fossero felici.

Ma dopo tutto questo tempo abbiamo imparato qualcosa? Se si, cosa? Quali sono le lezioni che derivano da decine di migliaia di pagine di informazioni che sono state generate su queste vite? 

Tutti i giorni di una vita in un’immagine


Il messaggio più chiaro che riceviamo è questo
: “le buone relazioni ci rendono più felici e più sani”. Tutto qua? Non potevamo risparmiarci tutta questa fatica per una cosa tanto ovvia? No, perché non è ovvia come sembra.

Scendiamo nel dettaglio: sono tre le grandi lezioni che possiamo trarre.

  1. Le connessioni sociali sono sempre positive e che la solitudine uccide. Si è visto che le persone socialmente più collegate alla famiglia, agli amici, alla comunità, erano più felici e soddisfatte della propria vita. Inoltre erano clinicamente più sane e vivevano più a lungo, alcuni di loro sono ancora in vita. Di contro la solitudine, oltre che causa di infelicità per ovvi motivi, è un fattore di rischio per lo sviluppo di patologie croniche e che si manifestano precocemente rispetto ai primi.
  2. Tuttavia sappiamo anche che ci si può sentire soli in mezzo ai colleghi, ad un concerto con migliaia di persone, in un matrimonio. Quindi, non è tanto il numero di amici che hai, né il numero di serate in compagnia, né se sei impegnato o meno a fare la differenza, quanto la qualità delle relazioni che stringi a fare la differenza. Si è visto che vivere relazioni litigiose o insoddisfacenti si traduceva in un aumentato rischio per diverse patologie, che i matrimoni conflittuali e anaffettivi si rivelavano dannosi per la salute molto più che affrontare un divorzio. Di contro vivere relazioni sincere e profonde era un fattore protettivo. Andando a ritroso con i dati, si è visto che i partecipanti che durante la loro mezza età dichiaravano di essere soddisfatti delle proprio relazioni, amichevoli e amorose, vivevano in media 5 anni di più rispetto agli altri. La stessa differenza tra fumatori e non fumatori.
  3. Le relazioni non solo proteggono il nostro corpo, ma proteggono il nostro cervello. Si è visto che vivere una relazione consolidata con un’altra persona rallenta il fisiologico declino mentale durante la vecchiaia. Le persone che avevano instaurato relazioni in cui sentivano davvero di poter contare sull’altra persona conservavano ricordi più nitidi ed un pensiero astratto più elastico rispetto alle persone che non vi erano riuscite, che invece, a confronto, accusavano un peggioramente repentino delle capacità cognitive.

In tutti questi casi, ogni relazione ha avuto e continua ad avere alti e bassi, litigi ed incomprensioni ma, fintanto che ogni persona sa di poter contare ugualmente sull’altra (amico, collega, compagno/a), allora quella è una relazione che rende felici e che protegge la salute.

Il fatto che relazioni vere e sentite fossero anche salutari non è per niente una novità. Tutti possono quantomeno crederci con un minimo di logica. 

Ma allora perché è così difficile da capire e così facile da ignorare? Perché siamo umani, e quello che vorremmo davvero è una soluzione rapida, qualcosa che possa rendere le nostre vite felici e sane senza troppo sforzo. 

Le relazioni sono disordinate e complicate: non è facile mantenere un’amicizia quando si studia, quando si inizia a lavorare, non lo è essere presente in famiglia, non lo è tener vivo un amore quando la vita sembra risucchiarci. E’ un lavoro duro, che richiede tanto senza dare nulla, almeno nell’immediato. 

La verità è che, per quanto sia ovvio che la felicità e la salute di un uomo si basi anche sulle relazioni che esso costruisce, è difficile ammettere che la vita che desideriamo per noi stessi passi inevitabilmente attraverso gli altri.

E tu, sei felice? Qualsiasi sia la risposta, ricorda che la vita è troppo breve per passarla a cercare la felicità dentro di noi, perché la felicità è sempre stata tra di noi.

Antonio Nuccio

Per approfondire:

https://www.betterdaysandnights.com/Happyness%20Secret.pdf

https://europepmc.org/article/pmc/pmc3066527

Gli effetti del distanziamento sociale forzato. La psicologia risponde

Il distanziamento sociale ci sta distruggendo!

L’essere umano è un animale fortemente sociale. Dunque, non ci sorprenderà scoprire che si può vivere “un’astinenza da contatto” in seguito alle misure del distanziamento sociale, attuate per il Covid-19. Per la prima volta nella storia, ciò emerse da un inquietante esperimento di Federico II. Egli isolò un gruppo di neonati per scoprire quale fosse la lingua umana originaria, nutrendoli e limitando i contatti con le nutrici alle necessità igieniche. Risultato? Queste povere creature morirono. Questo evento (narrato dallo storico Salimbene de Adam) trovò una conferma in seguito. Le osservazioni dello psicoanalista Renè Spitz, presso un orfanotrofio, risalgono infatti agli anni ’40.  Molti bambini abbandonati (anch’essi con contatti minimi con le educatrici) si ritrovarono a vivere in una condizione simile al letargo, di totale apatia. Nei peggiori dei casi, alcuni non riuscivano nemmeno a stare seduti da soli o ad attuare una coordinazione oculare.

Analizziamo le conseguenze psicologiche del distanziamento sociale, appellandoci anche alle neuroscienze.

Il Corriere della Sera, “L’amore (senza baci e abbracci) al tempo del Coronavirus: «Si rafforzano nuove forme di affetto”

La “fame da contatto”

Si chiama “skin hunger” (lett. fame di pelle) ed è un bisogno fisiologico primario per l’essere umano (come la sete). Spesso viene sottovalutato. I neonati hanno il riflesso della prensione sin da subito: questo ci fa capire quanto sia basilare il contatto fisico.  La pelle è il nostro primo organo sociale: definisce il nostro confine del nostro Sé corporeo ma – allo stesso tempo – ci consente di entrare in connessione con gli altri. Avere un contatto tramite la pelle (carezze, abbracci, baci, strette di mano, ecc…) consente al nostro cervello di rilasciare l’ossitocina. Essa viene anche definita “ormone dell’amore” ed è fondamentale per la creazione di legami. L’ossitocina ci permette di creare rapporti sociali basati sull’altruismo, sulla fiducia, sulla generosità e sull’empatia. Infatti, è anche responsabile dell’induzione del travaglio e non è un caso che venga prodotta in quantità maggiore nelle donne che allattano.

Avere maggiori contatti fisici significa produrre più ossitocina

E contrastare gli alti livelli del cortisolo (ormone dello stress) e quindi ridurre i livelli di ansia, stress e paura. Si riduce così la pressione arteriosa, della circolazione sanguigna e respiratoria. Ciò aiuta a rendere il nostro sistema immunitario più forte. Avere meno ossitocina (perché ovviamente dobbiamo rispettare il distanziamento sociale) vuol dire toglierci tutti questi benefici.

Bassi livelli di ossitocina sono correlati ad ansia, depressione, disturbi dell’umore, ad alterazioni del ritmo del sonno e del nostro legame col cibo, diminuzione del desiderio sessuale, minor comprensione delle situazioni socio-relazionali, aumento di atteggiamenti conflittuali.

Avere un animale domestico può aiutare. In casa non possiamo parlare di veri e propri interventi di pet therapy. Nonostante ciò, il contatto con l’animale e il processo affettivo-relazionale che si viene a creare possono venirci in soccorso.

Nel nostro cervello i lobi frontali hanno varie funzioni

Fra queste vi è il loro coinvolgimento per quanto riguarda la modulazione comportamentale e, di conseguenza, anche sociale.

Nello specifico:

  • La corteccia orbito-frontale è coinvolta nella capacità di inibire i comportamenti impulsivi e le reazioni emotive inadeguate, di regolare emozioni e processi decisionali;
  • La corteccia cingolata anteriore controlla la motivazione e l’inibizione di stimoli interferenti;
  • La corteccia prefrontale dorso-laterale è coinvolta nella capacità di giudizio e valutazione critica delle circostanze, nella messa in atto di comportamento organizzato e appropriato al fine prefissato e gestione adeguata di situazioni nuove e complesse.

Per i nostri contatti sociali fondamentale è anche l’amigdala

L’amigdala è un regione cerebrale che gestisce le emozioni e le motivazioni. È stato dimostrato che soggetti con lesioni ad essa dimostrano difficoltà a rispettare le norme e le gerarchie sociali. Inoltre, le informazioni che riceve dalle connessioni con le aree sensoriali primarie sono molto dettagliate e le consentono di preparare risposte adeguate alla situazione.

Sicuramente il momento storico è delicato.

Abbiamo la responsabilità di stare attenti per noi stessi e per gli altri ed abbiamo una grande opportunità: quella di dimostrare che abbiamo davvero il senso della socialità e rispetto reciproco. Non sprechiamola!

Per molto tempo potremmo vedere l’altro come un nemico, come colui che può contagiarci. Avremo maggiore diffidenza e ciò potrebbe portare ad una maggiore distanziamento sociale anche dopo, trasformandolo in una vera e propria fobia. Questo non deve avvenire!

Cerchiamo di essere prudenti, di prendere tutte le cautele del caso ma non isoliamoci come delle piccole monadi.

Appena sarà possibile, più abbracci e più ossitocina per tutti!

 

Chiara Fraumeni

 

Bibliografia

A. Moschetti,M. Tortorelli, Ossitocina e Attaccamento (2007)

I.Morrison,Line S.Loken,H. Olausson, The skin as a social organ(2009)

E. De Luca, C. Mazza, F. Gazzillo, La centralità dell’adattamento: emozioni primarie, funzionamento
motivazionale e moralità tra neuroscienze, psicologia evoluzionistica e Control Mastery Theory (2017)

 

 

 

Le relazioni e l’ignoto che è l’altro

Metti un venerdì sera due amiche un gin tonic e un negroni…

Scenda di Seinfeld (da sinistra Julia Louis-Dreyfus, Jerry Seinfeld, Michael Richards e Jason Alexander)

Ci siamo ritrovate a parlare delle relazioni.
Nello specifico di quelle amorose, la nostra visione non è più quella di quando avevamo diciott’anni, ma nemmeno quella di un anno fa. Crescendo e smussando la nostra personalità , le esigenze cambiano, inevitabilmente.
Tornata a casa ho ripensato alla discussione e alle relazioni, ne abbiamo di carattere diverso, che necessitano approcci differenti, ma c’è un comune denominatore: la convivenza.
Nel suo etimo vuol dire “vivere con” , penso a due partner, coinquilini, sposi. Ma anche dividere la propria vita con qualcuno, un amico.
Enfatizzando, potrebbe anche voler indicare il poter contare sull’altro.

Negli anni ho imparato che la convivenza è innanzitutto rispetto dell’altro, delle sue idee, e confronto.
La distanza che mi separa dall’altro, la sua unicità , è una strada percorribile con la gentilezza e l’affabilità. Ma è anche una scommessa.
Le barriere sono fisiche, anche involontariamente, la vista agisce da filtro: un paio di occhiali, dei tatuaggi, il modo di vestire influenzano il proprio giudizio. Vedere e guardare concetti distanti fra loro.
Non deve intimorire la vertigine che l’abisso dell’altro significa, anzi è proprio questa adrenalina che si trasforma in “ponte” verso l’altro.
Divenire il prossimo di qualcuno significa accettare questa affascinante differenza, anche quando è irritante o scomoda.
La unicità dell’altro non ha bisogno di imporsi deve solo poter liberamente essere e quando trova nello sguardo dell’altro quell’intesa, gli corre incontro.
E’ nell’universo della diversità che si gioca la gratuità degli affetti.

“Pugili” di Vittoria Abramo

Ed è qui che un pensiero un po’ più scomodo si è fatto spazio nella mia mente: forse che trascorriamo la vita in questa condizione, che l’unicità dell’altro ci diventi indispensabile quanto la nostra?
E’ una idea di fratellanza. Niente di deprimente pensando alla “dipendenze” dall’altro, benché ci siano relazioni di questo tipo.
Siamo tutti uguali, sono le vite che viviamo , la cultura , le varie sovrastrutture che ci rendono diversi, fondamentalmente siamo esseri semplici.
Abitudini secolari portano tutt’oggi a combattere per diritti che sono connaturati all’essere esseri umani.

La diversità è l’essenza della nostra razza. E’ questo il punto.
Ognuno ha un proprio proposito nella vita, la barriera più alta e dura da abbattere è non voler ammettere che non c’è una persona superiore all’altra, un modus vivendi migliore di un altro.
L’unico vuoto che ci separa è non conoscerci l’un l’altro. Una volta ogni tanto dovremmo gettarci nelle braccia dello sconosciuto.

In conclusione credo che rimescolando i colori ed educando il nostro sguardo alle altrui sfumature un giorno sapremo coglierne la bellezza. Anche quando, nella imprevedibilità dell’altro, ci appariranno assurde combinazioni.

Arianna De Arcangelis