Nicola Sturgeon sotto arresto, l’ex primo ministro scozzese è accusata di corruzione

Nicola Sturgeon è stata la prima donna a occupare le cariche di Primo ministro della Scozia e leader del Partito Nazionale Scozzese dal 2014 al 2023. Nel 2021 e nel 2023, è stata classificata da Politico Europe tra le 28 personalità europee più potenti d’Europa.

Le dimissioni

A febbraio, dopo otto anni in carica, ha annunciato le dimissioni per motivi personali. 

Sostiene di essere diventata una figura troppo divisiva, sia nel suo partito, che nella politica scozzese e solo con le sue dimissioni si potrebbe riprendere un dialogo più civile. 

Ho lottato con questa decisione per diverse settimane, ho capito che la natura della politica moderna è molto brutale, ben più di quando io ho iniziato a fare politica. Per trent’anni sono stata Nicola Sturgeon la politica, ora vorrei essere Nicola Sturgeon essere umano

Ha affermato inoltre che il suo è «il miglior lavoro del mondo, ma è importante sapere quasi istintivamente quando è il momento giusto per far posto a qualcun altro».

Seppur lo abbia negato, i motivi che hanno spinto Sturgeon a prendere questa decisione potrebbero essere stati la bocciatura da parte della Corte Suprema del Regno Unito di riproporre un referendum per l’indipendenza della Scozia, un tema a cui il partito della Sturgeon tiene molto.

Inoltre, l’ex premier è da sempre a sostegno dei diritti LGBTQ+, tanto da promulgare la legge sull’autodeterminazione di genere “Gender Recognition Reform Bill”.

In cosa consiste?

Questa legge renderà più semplice alle persone trans di 16 anni, quindi non solo chi ha già raggiunto la maggiore età, poter richiedere il cambio di genere sui documenti.

La Scozia è l’unico paese del Regno Unito ad aver approvato una riforma simile, considerata fino ad oggi di competenza esclusiva del Parlamento del Regno Unito. Il governo ha già dichiarato che si opporrà con un veto alla promulgazione, se non verranno modificati determinati punti.

Shona Robison, Ministra della Giustizia Sociale, ha definito «un passo importante per una Scozia più equa, dove le persone trans siano validate, incluse, ed emancipate».

Queste le parole di Nicola Sturgeon:

Una voce per l’inclusione, l’uguaglianza, i diritti umani e la dignità. Sono stata e sarò sempre una femminista. Combatterò per i diritti delle donne e mi opporrò a chi minaccia tali diritti ogni giorno che avrò fiato in corpo. Ma difenderò anche qualsiasi gruppo stigmatizzato, discriminato, emarginato e vulnerabile nella società. Chiamatemi ottimista, ma credo che queste cose debbano, in qualsiasi società progressista, liberale e inclusiva, trovare il modo di coesistere. Qualunque sia il ruolo che svolgerà in politica nel prossimo futuro, cercherò sempre di fare tutto il possibile per trasformarlo in realtà.

Adesso si pensa che chiunque prenda il posto dell’ex premier possa abbandonare i diritti delle persone transgender, per evitare lo scontro con il governo del Regno Unito.

Operazione Branchform

Si tratta di un’indagine della polizia scozzese su accuse e sospetti di corruzione che va avanti da mesi e che continua a destabilizzare lo Scottish National Party (partito leader di Nicola Sturgeon).

Sturgeon è stata accusa di aver speso in modo improprio oltre 600mila sterline donate al Partito Indipendentista scozzese. Tramite il suo account Twitter ha dichiarato la sua innocenza.

Sturgeon non è l’unica ad essere stata arrestata. Il 5 aprile è stato preso in custodia il marito, Peter Murrell per 24 anni è stato amministratore dello Scottish National Party – rilasciato dopo 12 ore di interrogatorio.

Nicola Sturgeon a fianco del marito Peter Murrell. Fonte: The Independent

Anche Colin Beattie, tesoriere del partito è stato interrogato per gli stessi motivi il 18 aprile e successivamente rilasciato. Si è dimesso dal suo incarico il giorno successivo.

Sono stati tutti e tre rilasciati, senza accusa, in attesa di indagini.

Gabriella Pino

Guerra ucraina: le due potenze ai conti con i “proiettili all’uranio impoverito”

La guerra in Ucraina procede e l’Occidente, determinato, protrae i suoi aiuti a Kiev. Il Regno Unito, in particolare, ha deciso per l’invio di un nuovo, letale tipo di equipaggiamento: i proiettili all’uranio impoverito. Vediamo ora le loro caratteristiche, quindi perché possono essere parecchio incisivi e pericolosi, tanto per chi li utilizza quanto per chi ne subisce l’impiego.

Le ambiguità dei proiettili “speciali”

Riporta le informazioni L’Indipendente. Il 20 marzo, durante un’audizione alla Camera dei Lord, la baronessa Annabel Goldie, viceministra della Difesa, ha dichiarato:

Assieme a uno squadrone di carri armati pesanti da combattimento Challenger 2 manderemo anche le relative munizioni, inclusi proiettili perforanti che contengono uranio impoverito poiché altamente efficaci per neutralizzare tank e blindati moderni russi

Un annuncio importante per tutto il mondo, che dal conflitto sovietico è preso in causa. Scioccante per chi conosce la natura di questi mezzi, provocante forse più sgomento che gioia. Perché c’è una cosa che la baronessa ha omesso; cioè che l’impatto delle pallottole genera la diffusione di microparticelle di uranio, sì impoverito, ma diversamente radioattivo, per le persone e le cose circostanti gli spari.

La storia dei proiettili all’uranio impoverito

La storia vede i proiettili all’uranio impoverito protagonisti degli assalti occidentali in Iraq, in Kuwait e nei Balcani. E fu proprio all’epoca dei fatti, nel 2001, che Carla del Ponte, allora procuratrice capo del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, definì “crimine di guerra” l’utilizzo di quegli strumenti.

Invece oggi? Per il motivo succitato, il dibattito internazionale sulla fruizione delle armi all’uranio impoverito è più che mai vivo, e queste munizioni non sono ancora state messe al bando. Solo un ristretto numero di paesi, tra cui il Regno Unito, impiega questi mezzi senza considerare i danni ambientali e fisici che possono generare.

D’altronde, pochi studi riescono efficacemente a dimostrare il legame consequenziale tra proiettili e malattie da essi scaturite; perché pochi studi sono stati condotti in merito e la correlazione non è semplice da dimostrare. Dulcis in fundo: non esistono trattati restrittivi a proposito.

Proiettili. Fonte: PxHere

La notizia incattivisce il Cremlino

Alla luce di quanto scritto, si spiegano le reazioni di Putin e del suo ministro della Difesa Sergei Shoigu alle parole della Goldie. «La Russia sarà costretta a reagire alle forniture occidentali di munizioni all’uranio» ha affermato il Presidente, mentre il membro del governo ha definito oramai «a pochi passi» lo scontro nucleare.

Tutto questo è avvenuto nel momento in cui il Capo del Cremlino e il Presidente cinese Xi Jinping si trovavano a Mosca per un dialogo, bigotto, su “negoziati e piani per la pace”. Un dialogo basato su dodici punti redatti dall’amministrazione di Jinping.

I dodici obiettivi di Xi Jinping

Di seguito elencati i dodici obiettivi, qui concentrati in brevi frasi, contenuti nel piano “per la pace” del Presidente Xi Jinping:

  1. Rispettare la sovranità di tutti i paesi.
  2. Abbandonare la mentalità della guerra fredda.
  3. Cessare le ostilità.
  4. Riprendere i colloqui di pace.
  5. Risolvere la crisi umanitaria.
  6. Protezione dei civili e dei prigionieri di guerra (POW).
  7. Mantenere sicure le centrali nucleari.
  8. Riduzione dei rischi strategici.
  9. Facilitare le esportazioni di grano.
  10. Stop alle sanzioni unilaterali.
  11. Mantenere stabili le catene industriali e di approvvigionamento.
  12. Promuovere la ricostruzione postbellica.

Gabriele Nostro

Boris Johnson fa dietrofront su Brexit: pronta una proposta di legge contraria agli accordi con l’Unione Europea

Boris Johnson, a capo del governo britannico, ha avanzato una proposta di legge sullo status commerciale dell’Irlanda del Nord, che va in contrasto con gli accordi precedentemente presi con l’Unione Europea. Se la proposta di legge fosse approvata, violerebbe un trattato internazionale.

La situazione dell’Irlanda del Nord

Il governo inglese non intende rispettare gli accordi presi con l’Unione Europea in seguito alla Brexit riguardo la posizione commerciale dell’Irlanda del Nord. Infatti, il paese, che fa parte del Regno Unito, rimane nel mercato comune europeo e nell’unione doganale, quindi rispetta gli standard qualitativi europei e lascia all’Europa la gestione dei controlli sulle merci. Questo, d’altronde, è quello che prevede il Protocollo dell’Irlanda del Nord, uno dei punti dell’accordo Brexit. Tale misura è ritenuta necessaria se si vuole evitare l’interruzione dei rapporti con l’Irlanda, la quale fa parte dell’Unione Europea. Non vogliamo assistere, infatti, a situazioni simili a quelle avvenute dopo la seconda guerra mondiale: episodi di violenza e lotta armata tra Irlanda e Irlanda del Nord, risolti poi con gli accordi di pace del Good Friday Agreement del 1998.

La proposta di legge

A causa della posizione commerciale dell’Irlanda del Nord, le merci che arrivano dal Regno Unito sono sottoposte a controlli e pratiche burocratiche che possono durare anche giorni, creando difficoltà alla popolazione di questa terra di mezzo. Così, il Regno Unito ha proposto una legge per alleggerire il carico di controlli: Johnson vuole creare una “corsia verde” e una “corsia rossa”. La prima per le merci provenienti dalla Gran Bretagna dirette in Irlanda del Nord, in modo che i controlli siano ridotti quasi a zero e quindi ci sia un lasciapassare. La seconda per le merci dirette nell’Unione Europea, che, invece, dovrebbero subire tutti i controlli del caso. Questo, chiaramente, violerebbe gli accordi con l’Europa.

Una corsia verde farebbe arrivare la merce in Irlanda del Nord senza alcun controllo; una volta giunta su questo territorio – che ricordiamo far parte del mercato europeo – nessun controllo sarebbe più richiesto per entrare nei territorio dell’Unione. Ciò, in poche parole, significherebbe che le merci del Regno Unito possono entrare tranquillamente all’interno dell’Unione Europea anche senza rispettare i suoi standard e il suo regime fiscale.

Le proposte di Boris Johnson non sono finite qui. Il governo britannico vorrebbe applicare all’Irlanda del Nord le stesse agevolazioni fiscali di cui beneficiano le regioni del Regno Unito: in questo modo la merce giungerebbe in Irlanda del Nord e quindi sul mercato europeo a prezzi stracciati. Inoltre, vorrebbe che fosse un un arbitrato indipendente a risolvere le controversie tra Regno Unito e Unione Europea, e non la Corte di Giustizia dell’Unione, com’è invece previsto dal protocollo su alcuni argomenti particolari.

Bandiere del Regno Unito, dell’Unione Europea e dell’Irlanda (Fonte: lawyersforbritain.org)

La precedente proposta dell’Unione

L’Unione Europea, nell’ottobre 2021, aveva proposto delle modifiche per alleggerire le pratiche burocratiche per alcuni prodotti in arrivo dalla Gran Bretagna. La carne refrigerata – fondamentale in Irlanda del Nord per la produzione di salsicce -, i medicinali e le piante sarebbero arrivate a destinazione con meno della metà dei controlli fino quel momento previsti. Il Regno Unito, però, ha rifiutato la proposta, portando la Commissione a non voler più aprire trattative.

La risposta dell’Unione e del partito laburista

La Commissione Europea, in risposta all’iniziativa britannica, ha riaperto una procedura d’infrazione, avviata nel 2021, nei confronti del Regno Unito, per presunta violazione del Protocollo dell’Irlanda del Nord. Oltre a due procedure d’infrazione minori per presunta mancata esecuzione dei controlli necessari e per la fornitura di dati statistici commerciali.

Maroš Šefčovič, vicepresidente della Commissione Europea, afferma:

“La fiducia presuppone l’adempimento degli obblighi internazionali. L’azione unilaterale non è costruttiva, la violazione degli accordi internazionali non è accettabile. Il Regno Unito non rispetta il protocollo: è il motivo per cui oggi avviamo queste procedure d’infrazione.”

Anche i laburisti si schierano per il rispetto del protocollo, contro Johnson. David Lammy, il deputato laburista, esprime il suo pensiero in un articolo del Guardian:

“Fu l’accordo di Boris Johnson che introdusse barriere nel Mare d’Irlanda dopo aver promesso che non l’avrebbe fatto. I conservatori devono assumersi la responsabilità dei problemi del protocollo che devono essere risolti.”

Manifestazione contro Boris Johnson (Fonte: informazione.it)

Le supposizioni sulla proposta di Johnson

La Brexit è realmente un argomento che Boris Johnson ha a cuore o solo un tentativo di spostare l’opinione pubblica su altri argomenti? Negli ultimi mesi, le feste organizzate dal primo ministro in casa sua durante il lockdown, tra il 2020 e il 2021, stanno facendo scalpore. Queste violavano le limitazioni imposte dal governo stesso contro la pandemia.

Inoltre, a causa delle diverse polemiche attorno alla figura di Johnson, 54 parlamentari conservatori avevano chiesto il voto di fiducia sul ministro. Tale voto ha avuto esito positivo, ma con una scarsa maggioranza: 148 parlamentari su 359 hanno votato contro il proprio leader. Questo dimostra quanto sia fragile l’equilibrio interno e fa riflettere sull’improbabile lunga durata del governo.

Probabilmente Johnson vuole solo distogliere l’attenzione dai problemi che stanno interferendo con la sua carriera politica. D’altronde, come afferma David Carretta, un esperto giornalista che copre le istituzioni europee:

“Ogni volta che si è trovato in difficoltà, Johnson ha usato la carta Brexit.”

 

Eleonora Bonarrigo

 

Verso l’estradizione di Assange, arriva l’ok del Tribunale. ONU: estradizione violerebbe diritti umani

Mercoledì, la Corte dei Magistrati di Westminster (uno dei tribunali di Londra) ha autorizzato formalmente l’estradizione del giornalista e creatore di Wikileaks Julian Assange verso gli Stati Uniti, dove rischia di essere condannato a 175 anni di detenzione o alla pena di morte per i diciotto capi d’accusa legati alla sua attività di hacker, in particolare per la violazione dell’Espionage Act americano. Si tratta di una misura che non era stata attivata neanche quando Daniel Ellsberg svelò i Pentagon Papers riguardanti la guerra in Vietnam. In quel caso, infatti, la contestazione sulla riservatezza degli atti pubblici cadde a favore della libertà di diffusione di informazioni d’interesse pubblico.

Assange si trovava dal maggio 2019 presso il carcere di massima sicurezza Belmarsh per scontare una pena di 50 settimane relativa alla violazione dei termini della libertà su cauzione concessagli in seguito all’arresto, avvenuto nel 2010, per reati sessuali. Prima di allora, aveva trascorso sette anni presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra in qualità di rifugiato politico.

Chi è Julian Assange, la mente dietro Wikileaks

Assange nasce il 3 luglio 1971 a Townsville, in Australia. Durante l’adolescenza acquisisce esperienza nella programmazione e verso la fine degli anni ’80 entra a far parte del gruppo di hacker “Sovversivi Internazionali”. Già negli anni ’90 gli vengono rivolte diverse accuse di pirateria informatica, alcune di queste anche contro il Dipartimento di difesa americano.

Nel 2006 fonda Wikileaks, organizzazione che si occupa di divulgare documenti coperti dal segreto di Stato. Sarà proprio nel 2010 che il sito web riceverà fama internazionale, grazie alla diffusione di notizie fornite dall’ex militare statunitense Chelsea Manning. Quest’ultima riuscì a far trapelare – durante il proprio servizio militare – dei diari di guerra dall’Afghanistan e dall’Iraq, così come il video Collateral Murder, esponendo i crimini di guerra commessi dagli Stati Uniti durante le relative campagne militari.

Tuttavia, sia Assange che Manning pagheranno un caro prezzo: il primo costretto ad una fuga decennale, la seconda condannata a 35 anni di detenzione (con grazia del presidente Barack Obama e scarcerazione dopo sette anni).

Il caso della Svezia e il primo arresto

Nel 2010 – si noti, poco dopo la divulgazione dei crimini di guerra statunitensi – la Svezia emette un mandato di arresto per Assange con l’accusa di aver praticato rapporti sessuali non protetti contro il consenso delle partner (atto che in Svezia è equiparato al reato di stupro). Ai tempi, Assange si difese affermando che si trattasse di un pretesto per essere portato in Svezia e successivamente estradato negli Stati Uniti. Infatti, in territorio americano avrebbe dovuto essere processato per spionaggio cospirazione.

A questo punto Assange si trova a Londra, dove si costituisce nel 2010 in seguito all’emanazione del mandato di cattura europeo. Verrà rilasciato pochi giorni dopo su cauzione, mentre la Svezia presenterà richiesta formale di estradizione. Accolta la richiesta dall’Alta Corte londinese e rigettato il ricorso dei legali, il giornalista chiede asilo politico presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, che lo accoglierà per i successivi sette anni concedendogli anche la cittadinanza (revocata nel 2021 in seguito al cambio di personale dell’ambasciata). Le accuse svedesi verranno archiviate nel 2017 per essere riprese al termine del suo asilo politico nel 2019, finendo, da ultimo, in prescrizione nel 2020.

Julian Assange parla dal balcone dell’ambasciata ecuadoregna (fonte: parool.nl – Immagine di AFP)

Il caso delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti nel 2016

Un caso che aggravò la posizione di Assange, e di Wikileaks in generale, fu quello del Russiagate, ossia la diffusione di email ricevute dall’allora candidata alla presidenza Hillary Clinton che dimostravano il coinvolgimento di Arabia Saudita Qatar nella formazione dello Stato Islamico (ai tempi ISIS) e che indussero a sospettare anche un coinvolgimento degli Stati Uniti. Lo scandalo portò, quantomeno indirettamente, all’elezione dell’opponente Donald Trump. Ad ogni modo, Assange negò qualsiasi connessione con la Russia nella divulgazione di tali notizie, ma fu inevitabile l’incrinarsi ulteriore dei rapporti con gli USA.

Violazione dei diritti umani secondo l’ONU e gli appelli umanitari

Nel luglio 2015, Assange si dichiara in pericolo di vita. Già pochi anni prima il Regno Unito aveva minacciato di voler violare il diritto all’immunità delle sedi diplomatiche per irrompere nell’ambasciata e catturarlo. Pochi mesi dopo, a dicembre 2015, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria dichiara che le vicende vissute dal giornalista dal 2010 sarebbero configurabili come detenzione arbitraria e illegale da parte di Gran Bretagna e Svezia, con conseguente richiesta di liberazione e risarcimento. I due Paesi si rifiutano.

Nell’aprile 2019, il Relatore Speciale ONU sulla tortura, Nils Melzer, si è detto allarmato per la possibile estradizione in quanto l’imputato rischierebbe di subire gravi violazioni dei suoi diritti umani, trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti, perdita della libertà di espressione e privazione del diritto a un equo processo. Il 9 maggio dello stesso anno, Melzer ha visitato Assange e ha riscontrato sintomi di “esposizione prolungata alla tortura psicologica”.

(fonte: sueddeutsche.de – Immagine di Henry Nicholls/Reuters)

Nel 2020 anche il Consiglio d’Europa si esprime a sostegno di Assange, affermando che una sua estradizione risulterebbe in importanti conseguenze non solo per la tutela dei diritti umani, ma anche per la tutela di chi diffonde informazioni riservate nell’interesse pubblico. In sostanza, l’allarme esposto dal Consiglio è quello di un grave colpo anche alla libertà di stampa e al futuro dei giornalisti.

Il secondo arresto e l’ok all’estradizione

Nel 2019 Assange perde l’asilo politico dell’Ecuador e verrà portato via di forza dagli agenti della polizia metropolitana di Londra ammessi nell’ambasciata. Scontate le 50 settimane, gli viene negata nuovamente la libertà, finendo ancora una volta in detenzione preventiva per via della richiesta di estradizione rinnovata dagli Stati Uniti.

Nel gennaio 2021 il tribunale di Londra deciderà sulla richiesta negando l’estradizione sulla base del timore che Assange possa suicidarsi una volta estradato. Tuttavia, nel dicembre dello stesso anno l’Alta Corte accoglierà il ricorso della controparte ammettendo ancora una volta la possibilità dell’estradizione.

Autorizzata formalmente l’estradizione pochi giorni fa, la decisione finale spetta al Segretario di Stato per gli affari interni del Regno Unito Priti Patel. In seguito alla decisione del tribunale, Amnesty International e diversi tra senatori e giornalisti italiani hanno fatto appello per negare l’estradizione ed a favore della liberazione di Assange.

 

Valeria Bonaccorso

Inghilterra ed Israele, le prime riaperture. Italia alla rincorsa del modello inglese

Dopo ben 99 giorni di lockdown invernale, la Gran Bretagna ha potuto finalmente festeggiare lo scorso lunedì 12 aprile l’avvio della fase due della ‘’road map’’, stabilita dalle autorità britanniche per una graduale riapertura della nazione.

L’Inghilterra riapre pub, negozi e palestre. Fonte: AGI

Si tratta del primo Paese europeo a stare dimostrando già da ora i risultati di un’efficiente campagna vaccinale, così come lo Stato di Israele sta facendo in territorio extra-europeo. L’Italia ha invece annunciato, per voce del sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, di puntare al mese di giugno per una riapertura all’inglese. A trovarsi in grandi difficoltà è piuttosto il Cile che, nonostante l’ampia campagna vaccinale, pare essere ancora in piena crisi di trasmissione.

Gli inglesi tornano alla normalità

Lunghissime file davanti a pub e negozi, tra assembramenti vari e pinte di birra in mano: questo lo scenario in diverse città del Regno Unito già nelle prime ore di un lieto lunedì inglese, che è stato pronto ad accogliere il piano di allentamento delle restrizioni per la pandemia, deciso in precedenza dal governo. Esso prevede la riapertura di negozi non essenziali, edifici pubblici, palestre, piscine – e ancora – bar, pub e ristoranti (con possibilità di fare servizio solo all’aperto ma senza limiti di orario).

Ma il primo ministro inglese Boris Johnson ha tenuto comunque a precisare, in un intervento su Bbc, che il graduale percorso di uscita dalle restrizioni anti Covid – protrattesi per oltre 3 mesi – comporterà in modo inevitabile una ripresa di casi di contagio e conseguenti decessi. Durante l’intervento, Boris ha inoltre evidenziato il merito del rigido lockdown imposto a fine gennaio (che vietava di uscire di casa se non per motivi di salute o necessità) e dell’ottimo andamento della campagna vaccinale nel rendere possibili delle simili riaperture:

«È molto molto importante che tutti capiscano che la riduzione dei ricoveri, delle vittime e dei contagi non è stato ottenuto dal piano vaccinale. Penso che la gente non capisca che è stato il lockdown ad essere incredibilmente importante nell’ottenere questi miglioramenti. Naturalmente i vaccini hanno aiutato ma il grosso del lavoro è stato fatto dal lockdown», ha detto il premier inglese.

Il Regno Unito non deve abbassare la guardia

Il Regno Unito è al momento il paese con la più alta percentuale di abitanti vaccinati dopo Israele, trascurando ovviamente i dati delle piccole nazioni.

Il motivo di tale successo deriva senz’altro dalla negoziazione in autonomia dei vaccini e da un’aggressiva strategia vaccinale, con la quale si è cercato di somministrare la prima dose a più persone possibili, senza badare molto alla conservazione di scorte per i richiami: il 47% delle persone ha ricevuto la prima dose del vaccino, ma il ciclo vaccinale è stato completato soltanto dall’11%. Dalla combinazione tra protezione della prima dose di vaccino e rigide misure restrittive è derivato quindi un sostanziale calo di contagi e terapie intensive.

Secondo uno studio condotto dall’Imperial College di Londra, il Regno Unito dovrebbe essere diventato dal 12 aprile scorso ‘’territorio dell’immunità di gregge’’, dal momento che i tre quarti della sua popolazione possiede gli anticorpi contro il Covid, grazie alle avvenute guarigioni e agli oltre 40 milioni di dosi vaccinali fino ad ora somministrati.

Lunga coda di persone davanti al pub di Coventry. Fonte: BBC

Non bastano tuttavia tali numeri per abbassare la guardia. Per questo, già nei giorni scorsi, sono scattate le prime indagini di polizia e minacce di multe per via dell’eccessivo entusiasmo segnalato in diverse zone del Paese per la ripresa del servizio dei pub, tradizionali luoghi di ritrovo per moltissimi inglesi.

Tra i casi limite, spicca quello del pub ‘’Oak Inn’’ di Coventry, finito sotto investigazione a causa di un assembramento di persone che fin dalla mezzanotte si erano radunate in fila, con pochissimo distanziamento tra loro.

L’Israele riapre grazie alle vaccinazioni

In Israele tutto sta gradualmente tornando alla normalità, dimostrando al resto del mondo che non per forza è necessaria l’immunità di gregge per sconfiggere la pandemia e far ripartire l’economia: vaccinare il 55% dei cittadini è stato sufficiente. Tale percentuale (più alta ove la popolazione fosse più anziana) sarebbe infatti sufficiente per bloccare la trasmissione del virus e proteggere i soggetti a rischio mediante una ‘’protezione indiretta’’, fatta di vaccinazioni e restrizioni.

Ad intervenire sul tema il noto divulgatore scientifico italiano Roberto Burioni, che ha mostrato attraverso una serie di tweet la curva dei contagi in Israele, per dimostrare l’importanza dell’immunizzazione con i sieri anti-covid.

Covid Israele. Fonte: Quotidiano.net

Dalla task force anti Covid di Gerusalemme sono poi arrivati degli incoraggiamenti rivolti all’Italia:
“Ce la farete, come ce l’abbiamo fatta noi”, ha dichiarato Arnon Shahar, capo della task force israeliana.
Il medico, intervistato da Sky Tg24, ha poi continuato dicendo:

«non abbiamo ancora una vita normale, ma ci stiamo arrivando. La nostra è stata una Pasqua diversa. Siamo stati a casa e in famiglia», ma ora «possiamo sperare di poter togliere la mascherina all’aperto entro la fine di aprile».

E ancora:

«Le scuole sono aperte, anche se non totalmente. Le elementari sono tutte aperte, le medie ‘’in capsule’’, e stiamo valutando se fare tornare anche loro alla normalità». Infine, Shahar ha rivelato di essere stato anche a un concerto «con quasi mille persone, tutte con il patentino verde che dimostra che sono state vaccinate o guarite da Covid, e tutte con la mascherina».

L’Italia spera nel mese di maggio

Per quanto riguarda l’Italia, la decisione sulle riaperture verrà molto probabilmente presa la prossima settimana dal Consiglio dei ministri. Non è possibile fissare con certezza una data, anche se si prospetta già un mese di maggio fatto di progressive aperture.

‘’Riaprire in sicurezza ristoranti a pranzo e a cena sfruttando gli spazi all’aperto’’, questa l’ipotesi contenuta nella bozza delle linee guida sulle riaperture che le Regioni sottoporranno al Governo alla Conferenza Stato-Regioni, confermando inoltre le misure di protezione già in atto.
Il sottosegretario alla Salute Sileri ha detto la sua intervenendo nel programma ‘’Agorà‘’ su Rai 3, confermando di essere a favore delle riaperture ma con giudizio:

«Abbiamo dei dati in miglioramento – osserva Sileri – L’Rt è sceso e verosimilmente continuerà a scendere», quindi «io immagino che consolidando i dati, scendendo largamente sotto un’incidenza di 180 casi ogni 100mila abitanti, a quel punto dal 1 di maggio si può tornare a una colorazione più tenue delle Regioni: le Regioni gialle ovviamente riaprono e qualcuna potrebbe essere bianca», anche se ora «questo non posso saperlo». Anche «riaprire la sera i ristoranti potrebbe essere fattibile. Non dal 1° maggio», precisa il sottosegretario, «ma progressivamente di settimana in settimana nel mese di maggio, fino ad arrivare ai primi di giugno con una riapertura modello inglese».

Sileri parla di possibili aperture. Fonte: LaNotiziaGiornale.it

Il perché della crisi cilena spiegato da Crisanti

Il caso del Cile è alquanto singolare, ritrovandosi quest’ultimo con un continuo aumento di contagi nonostante l’ampia campagna vaccinale: solo pochi giorni fa il paese sudamericano ha registrato un nuovo record di casi giornalieri, con 9.171 positivi rilevati in quelle ultime 24 ore.
A parere del virologo italiano Crisanti la crisi cilena:

«si spiega con le varianti. Sicuramente in questo Paese è stato usato in maniera massiccia un vaccino cinese che non è proprio uno dei migliori al mondo, Sinovac, ed evidentemente non si è rivelato abbastanza efficace. Ma non è solo questo. Loro sono pieni di varianti e la trasmissione è continuata in maniera sostenuta, alimentata dal liberi tutti, dall’allentamento delle restrizioni».

Gaia Cautela

Accordo su Brexit criticato dagli unionisti nordirlandesi: ecco perché non vanno più bene alcuni suoi punti

Oggi, lunedì 22 febbraio, è iniziata una campagna politica e giudiziaria guidata dalla leader del principale partito degli unionisti nordirlandesi, il DUP (Democratic Unionist party), con l’obiettivo di convincere il governo conservatore britannico guidato da Boris Johnson ad apportare delle modifiche su alcune parti essenziali dell’accordo su Brexit. Il motivo sarebbe legato all’allontanamento dell’Irlanda del Nord dagli altri territori del Regno Unito, dovuto proprio alle conseguenze di alcuni punti del trattato.

Graffiti degli unionisti in segno di protesta. Fonte: Il Post

È con tali premesse che in questa giornata si terrà un dibattito sul tema alla Camera dei comuni britannica e che, nei prossimi giorni, verranno presentati dal partito una serie di ricorsi legali per dichiarare l’illegittimità dei punti criticati nelle corti inglesi, nordirlandesi e delle istituzioni europee.

«Le tenteremo tutte per provare a ottenere giustizia per il popolo dell’Unione», ha comunicato una fonte del partito al quotidiano britannico ‘’The Guardian’’.

I motivi delle contestazioni

Il principale motivo delle polemiche degli unionisti è il trovato compromesso del primo ministro britannico nell’ottobre del 2019, con il quale si mise fine alla situazione di stallo dovuta ai lunghi negoziati, accettando la presenza dell’Irlanda del Nord sia nel mercato comune europeo che nell’unione doganale.

In tal modo, se da una parte è stato soddisfatto un obiettivo condiviso da entrambi le parti della negoziazione (europei e britannici) di evitare la costruzione di barriere fisiche fra le due Irlande, dall’altra si è assistito ad un indebolimento del legame fra Irlanda del Nord ed il resto del Regno Unito.

Fonte: JPress

In effetti, da quando il Regno Unito ha completato la sua uscita dall’Unione Europea il primo gennaio 2021, gli impedimenti burocratici tra l’Irlanda del Nord ed il resto dei territori britannici non hanno fatto altro che moltiplicarsi: i supermercati nordirlandesi non si sono potuti più rifornire dall’Inghilterra e ciò ha provocato un’iniziale penuria di prodotti alimentari, oltre che ad un ripensamento generale delle tratte commerciali.

Altre conseguenze – tra le più contestate dell’accordo – riguardano la necessità di un nuovo passaporto per gli animali domestici di chi viaggia fra Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito e l’impossibilità di acquistare online alcuni prodotti della Gran Bretagna. A ciò si aggiunge l’entrata in vigore nei prossimi mesi di nuovi iter burocratici, come quello richiesto ad esempio per l’esportazione delle salsicce di maiale (assai diffuse nelle colazioni inglesi) che potrebbe renderle molto più costose per i nordirlandesi.

Fonte: Eunews

Il DUP cambia idea

Da alcuni anni il DUP aveva grandi aspettative sull’alleanza con il partito Conservatore, tradizionalmente più legato all’integrità territoriale rispetto ai Laburisti: alle elezioni britanniche del 2017 sostennero apertamente il governo Conservatore di Theresa May, la quale non avrebbe altrimenti ottenuto una maggioranza parlamentare e che si è sempre opposta a lasciare l’Irlanda del Nord così legata all’Unione Europea.

La leader del DUP Arlene Foster, nei primi giorni, addirittura difese il compromesso di Johnson, nella convinzione che si sarebbe comunque trovata una soluzione per preservare il legame privilegiato dell’Irlanda del Nord con gli altri territori britannici. Oggi però i toni di Foster sono completamente cambiati, come dimostrano le sue affermazioni di qualche giorno fa:

«è stato il primo ministro britannico a metterci in questa situazione e causare queste difficoltà interne al mercato britannico, quindi spetta a lui risolverle».

La Foster criticata dal giornalista Murray

Eppure – secondo quanto commentato dal giornalista Conor Murray sul sito della tv pubblica irlandese RTÉ – le critiche della Foster non sono credibili, dal momento che le potenziali conseguenze della Brexit sono già note da un anno e mezzo:

«Montare un’opposizione ai diversi regimi commerciali [fra Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito] potrebbe fare parte di un cinico tentativo di galvanizzare la propria base elettorale», ha detto.

La leader del DUP Arlene Foster. Fonte: BBC

Incertezze sulla campagna di pressione del DUP

Non è ancora ben chiaro in che modo il DUP intenderebbe contestare il Protocollo definito dall’accordo su Brexit che regola lo status dell’Irlanda del Nord, ma alcune ipotesi si stanno già facendo strada: in passato il DUP e i suoi governi regionali erano ricorsi al petition of concern, un meccanismo che aveva impedito l’applicazione di alcune leggi del governo centrale nell’Irlanda nel nord senza che ci fosse il consenso della comunità nordirlandese; è possibile quindi che un simile provvedimento venga preso anche in questo caso.

Ciononostante, il governo britannico e le istituzioni europee non hanno – almeno per il momento – manifestato alcuna intenzione di modificare radicalmente l’accordo su Brexit, così come non è possibile sapere con certezza fino a che punto la campagna di pressioni del partito Partito Unionista Democratico possa funzionare.

Gaia Cautela

“La guerra dei vaccini”: l’UE contesta le dichiarazioni del Ceo di AstraZeneca

È in corso una vera e propria “guerra dei vaccini’’, che vede impegnate le potenze mondiali in una frenetica corsa per l’accaparramento delle forniture di antidoti contro il Covid. Di recente è stata inasprita dalle accuse, fatte negli ultimi giorni dalla Commissione Europea, contestate da Pascal Soriot, amministratore delegato (CEO) dell’azienda farmaceutica britannico-svedese AstraZeneca, in un’intervista a Repubblica.

Azienda farmaceutica AstraZeneca. Fonte: Sky TG24

Bruxelles lo rimprovera per i ritardi annunciati e le insufficienti consegne del vaccino prodotto dalla sua azienda;  chiede, inoltre, lo svincolo dalla clausola di segretezza per la pubblicazione del contratto.

Alle 18.30 di questo pomeriggio era prevista una riunione del comitato direttivo sui vaccini Ue con AstraZeneca, in cui si sarebbe insistito sulla consegna delle dosi, ma la società ha fatto slittare l’incontro a domani.

AstraZeneca non è all’altezza della celerità pretesa dall’Ue 

Lo scorso venerdì, l’azienda aveva annunciato tagli alle consegne delle dosi vaccinali del 60% nel primo trimestre di quest’anno, riconoscendo di non poter produrre le dosi richieste dalla Commissione nei tempi concordati. In Italia, dunque, si prospetta un ritardo di almeno un mese nella campagna vaccinale: entro marzo dovrebbero arrivare circa 3,4 milioni di dosi, contro le 16 milioni previste inizialmente.

Le autorità europee, di fronte ad un simile scenario, hanno accusato i dirigenti dell’azienda farmaceutica di privilegiamento delle consegne ad altri Paesi, ai quali avrebbero venduto il vaccino, anche a prezzi più alti. Il principale indiziato sembra essere il Regno Unito, che ha già autorizzato la produzione delle dosi vaccinali.

Soriot nega le accuse 

Il CEO di AstraZeneca, Pascal Soriot. Fonte: Il Post

Durante l’intervista ai giornali del consorzio Leading European Newspaper Alliance – tra cui Repubblica – Soriot ha fornito la sua versione sulle circostanze, ricordando che il Regno Unito aveva stretto accordi tre mesi prima dell’Unione Europea. Uno scarto di tempo significativo per consentire all’azienda un’adeguata organizzazione per la disposizione della produzione nei propri impianti britannici. Ha inoltre ribadito che AstraZeneca ha promesso di non trarre profitti dal proprio vaccino nella prima fase di distribuzione:

‘’Come detto, Regno Unito e Unione Europea hanno due catene produttive diverse e al momento quelle britanniche sono più efficienti perché sono partite prima. In ogni caso, sia chiaro: non c’è alcun obbligo verso l’Unione Europea. Nel nostro contratto c’è scritto chiaramente: “best effort”, ossia “faremo del nostro meglio”. In quella sede abbiamo deciso di utilizzare questa formula nel contratto perché all’epoca l’Unione Europea voleva avere la stessa capacità produttiva del Regno Unito, nonostante il contratto fosse stato firmato tre mesi dopo. Così noi di AstraZeneca abbiamo detto: “OK, faremo del nostro meglio, faremo il possibile, ma non possiamo impegnarci contrattualmente perché abbiamo tre mesi di ritardo rispetto al Regno Unito”. Non è dunque un obbligo contrattuale, ma un impegno a fare il massimo. Perché sapevamo che sarebbe stato difficile e difatti ora abbiamo un po’ di ritardo.’’

La versione non è parsa tuttavia convincente agli occhi delle autorità europee, data la mancanza di prove e ulteriori dettagli che dimostrerebbero i problemi produttivi riscontrati dalla società, giustificandone il ritardo.

Mamer ribadisce i doveri di AstraZeneca

Il portavoce della Commissione Europea, Eric Mamer è intervenuto, in risposta all’intervista, ribadendo che l’azienda deve rispettare gli obblighi contrattuali e ha il dovere di fornire dettagliate spiegazioni circa l’impedimento nella consegna delle quote vaccinali promesse:

“Quando hanno firmato l’accordo, lo hanno fatto sulla base della capacità di produrre” ha detto.

Fonte: Repubblica.it

Mamer aveva anche ricordato che, in precedenza, negli accordi si parlava di una capacità di produzione che avrebbe consentito di poter rispettare gli impegni presi, senza alcun riferimento ad eventuali tagli alle forniture o ad un sito produttivo nello specifico. L’Europa reclama, quindi, una produzione delle dosi richieste anche nel Regno Unito (fino ad ora non impiegate altrove), oltre quella che viene fatta nell’impianto in Belgio.

Gaia Cautela