Caso Giulio Regeni: sospeso il procedimento a causa della non-collaborazione delle autorità egiziane

Rinviata al 10 Ottobre l’udienza che vede quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati di aver rapito, torturato ed infine ucciso Giulio Regeni.

L’omicidio di Giulio Regeni: la storia

Era il 25 gennaio 2016 ed un giovane dottorando dell’università di Cambridge si trovava in Egitto, al Cairo, per svolgere degli studi sui sindacati indipendenti egiziani.

L’ultima traccia di Giulio Regeni risale esattamente al tardo pomeriggio di quel lunedì, quando, alle 19:41, ha inviato un messaggio alla sua fidanzata. Da quel momento in poi buio totale per circa una settimana, fino al ritrovamento del cadavere il 3 Febbraio. Il corpo, apparso su un tratto di autostrada poco distante dal Cairo, appariva mutilato e con evidenti segni di tortura: molte ossa rotte, diversi segni di coltellate e segni di bruciatura da sigaretta.

Giulio Regeni. Fonte: it.blastingnews.com

Le indagini che portano a molti “nulla di fatto”

I casi di reati a danno di italiani all’estero sono notoriamente tra i più controversi da risolvere, soprattutto se, come spesso accade, l’altra nazione non sia del tutto disponibile alla condivisione di documenti che potrebbero risultare prove determinanti al fine di trovare i colpevoli.

Sebbene in un primo momento le autorità egiziane si erano mostrate attive e volenterose di indagare sulla terribile vicenda, collaborando con la Procura di Roma, tale aiuto con il tempo è diventato secondo alcune fonti un vero e proprio tentativo di depistaggio. Le ipotesi scaturite dalle indagini della polizia egiziana erano di fatto tre: incidente casuale in autostrada, omicidio dovuto a motivi personali legati ad una relazione omosessuale e per ultima l’ipotesi che fosse stato ucciso a causa degli ambienti frequentati dallo studente in Egitto, dove spacciava e faceva uso di sostanza stupefacenti. Ovviamente, ognuna di queste possibilità si è rivelata errata.

Fonte: huffingtonpost.it

L’Egitto non collabora, sospeso il processo

Nonostante la carenza di materiale su cui indagare, la Procura di Roma è riuscita ad avviare un procedimento giudiziario nei confronti di quattro 007 egiziani. Un procedimento che però è stato rimandato al 10 Ottobre a causa – come si legge dalla nota del Ministero della Giustizia – del “rifiuto dell’Egitto di collaborare nell’attività di notifica degli atti“. Negata anche la possibilità di incontro tra il ministro Marta Cartabia e il suo omologo egiziano. La reale difficoltà per le autorità italiane sta nel rintracciare il domicilio degli indagati. Il corpo dei Carabinieri del Ros è riuscito a ricavare fino ad ora solo l’indirizzo dei luoghi di lavoro.

Fonte: thesocialpost.it

Il legale della famiglia Regeni chiede a gran voce l’intervento di Mario Draghi

«Prendiamo atto dei tentativi falliti del Ministero della Giustizia di ottenere concreta collaborazione da parte delle autorità egiziane e siamo amareggiati e indignati dalla risposta della procura del regime di al-Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto. Chiediamo che il presidente Draghi condividendo la nostra indignazione pretenda, senza se e senza ma, l’elezione di domicilio dei 4 imputati dal presidente al-Sisi e ci consenta lo svolgimento del processo per ottenere giustizia riguardo il sequestro le torture e l’omicidio di Giulio»

Queste le parole dell’avvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni. Dito puntato contro il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, ma anche parole forti al fine di convincere il premier Mario Draghi a mobilitarsi. Nel corso di questi sei anni, numerose sono state le critiche nei confronti dello Stato italiano che – secondo molti – sarebbe dovuto intervenire con il “pugno duro“. Vi è infatti la possibilità di appellarsi alla convenzione dell’ONU contro la tortura che impone di consegnare i responsabili, processarli e punirli.

L’Italia scende in piazza e non si arrende

In questi anni di profonda incertezza riguardo il caso Regeni, il popolo italiano non è rimasto indifferente. Molte le manifestazioni nelle più grandi città d’Italia. Per ultimo, il sit-in davanti al tribunale il giorno dell’udienza preliminare (poi rimandata) a cui erano presenti i genitori di Giulio e altri manifestanti tra cui il noto presentatore televisivo Flavio Insinna che ha risposto ad alcune domande dei giornalisti lì presenti dichiarando:

«Perché sono qui? La domanda è da porre al contrario. Perché non esserci? Bisogna esserci. Come ha detto la mamma di Giulio su quel viso ha visto tutto il dolore del mondo, non dobbiamo darci pace fino a quando non si arriverà alla verità. Lo dobbiamo alla famiglia, alla parte buona di questo Paese. Voglio vivere in un Paese, come dice il Papa, che ritrovi un senso di fraternità, dove il tuo dolore diventa il mio. Questa famiglia sta facendo un’opera straordinaria con una compostezza unica al mondo. Dal primo minuto mi sono legato a questa storia. Non si può fare tutto in nome dei rapporti, del petrolio, c’è una persona che è stata torturato in maniera indicibile. Mi interessa che ci sia la volontà politica di andare avanti, spero che l’alta politica faccia il bene delle persone che amministra. A questa famiglia l’alta politica deve dare la verità»

Manifestazione per i 2 anni dalla morte di Giulio Regeni. Fonte: cultura.biografieonline.it

Francesco Pullella

 

 

Patrick Zaki, rinnovata la detenzione per altri 45 giorni

Patrick Zaki è un attivista e ricercatore egiziano di 27 anni, che è stato arrestato al suo arrivo in Egitto il 7 febbraio 2020.

L’accusa consiste in reati di opinione, “incitamento alla protesta” e “istigazione a crimini terroristici”.

Il ragazzo è di origini egiziane e frequentava l’Università di Bologna finchè lo scorso febbraio non torna in Egitto.
Doveva trascorrere una breve vacanza con i suoi familiari ma una volta atterrato è stato sottoposto ad un lungo interrogatorio di 17 ore.

I suoi avvocati hanno riferito ad Amnesty International che gli agenti della NSA (Agenzia di sicurezza nazionale) che durante l’interrogatorio hanno bendato e ammanettato il ragazzo.
Inoltre vengono riferite altre torture quali uso di scosse elettriche; il ragazzo è anche stato picchiato sulla pancia e sulla schiena.

Le domande dell’interrogatorio vertevano sulle sue attività da attivista e sul suo motivo di residenza in Italia.

L’oggetto su cui si basa l’accusa sarebbe un profilo Facebook contenente dieci post di “incitamento alla protesta”, considerato però falso dagli avvocati di Patrick Zaki.

Patrick adesso si trova in detenzione preventiva dal 7 febbraio e fino a data da destinarsi.

Dopo numerosi rinvii, domenica scorsa, il 12 luglio, si è tenuta la prima udienza del processo.
Tuttavia, anche se gli avvocati del ragazzo hanno presentato le ragioni per cui si chiede la scarcerazione, il giudice ha deciso di prolungare la detenzione preventiva per altri 45 giorni.

Ci troviamo davanti ad un fenomeno tutto egiziano già denunciato e portato sotto l’occhio mediatico per il caso Giulio Regeni.
Anche Regeni era un dottorando, rapito il 25 gennaio 2016.
Il 3 febbraio successivo venne ritrovato senza vita e la narrazione dei fatti riporta controversie simili in quanto ad accuse.

L’Agenzia per la sicurezza nazionale in Egitto è responsabile di rapimenti, torture e sparizioni con lo scopo propagandistico di impaurire gli oppositori e reprimere il dissenso.

Amnesty International ha stilato un rapporto dal titolo “Egitto: ‘Tu ufficialmente non esisti’. Sparizioni forzate e torture in nome del contrasto al terrorismo“ nel quale analizza il fenomeno.
Sono molti infatti i casi di sparizioni improvvise e torture di studenti, attivisti politici e manifestanti.

Lo scorso 4 luglio Patrick ha mandato una lettera ai familiari, nella quale afferma:

“Cari, sono in buona salute, spero che anche voi siate al sicuro e stiate bene. Famiglia, amici, amici di lavoro e dell’università di Bologna, mi mancate tanto, più di quanto io possa esprimere in poche parole

Tuttavia il rinnovo della detenzione ad ulteriori 45 giorni fa preoccupare. Intanto crescono le polemiche, anche in seguito alla liberazione di Mohamed Amashah, un ragazzo con doppia cittadinanza, americana ed egiziana.
Questi infatti era finito in carcere dopo aver esposto un cartello in piazza Tahir, con la scritta “Libertà per tutti i prigionieri politici”.
Il rilascio è avvenuto solo grazie alle numerose pressioni del governo Trump e adesso si è discusso sulla necessità di un’azione simile da parte del Governo italiano.

Angela Cucinotta