Nasce in Parlamento la coalizione per il Ponte sullo Stretto dopo la sua esclusione dal Recovery Plan

In occasione della discussione delle ultime settimane sull’erogazione dei fondi del Next Generation EU, la questione mai risolta del ponte sullo Stretto è tornata ad accendere il dibattito politico. Il progetto del ponte, escluso dal Recovery Plan, viene però reclamato a gran voce dalla società Webuild che, suscitando le speranze di quanti confidano nel vento del cambiamento e al tempo stesso le paure dei più restii alle trasformazioni, ha dichiarato di essere pronta ad avviare la costruzione.

La storia del ponte sullo Stretto

Quella del ponte sullo Stretto è la storia di una chimera che non ha mai smesso di turbare e al tempo stesso affascinare l’immaginario collettivo, soprattutto di noi siciliani. Nel ponte prende forma da una parte la promessa di un futuro migliore, in cui verrà spezzato il divario tra Nord e Sud, in cui gli spostamenti saranno più semplici e veloci e i paesaggi all’avanguardia, dall’altra parte la minaccia dell’irrompere della modernità sulle bellezze naturali.

L’idea di un ponte che possa collegare la Sicilia alla penisola ha origini molto antiche: risale alle guerre puniche, quando l’esercito romano per trasportare un contingente di elefanti catturati a Cartagine fu costretto a costruire un ponte di barche. Nei secoli successivi, molti re e imperatori, come ad esempio Carlo Magno, sognarono la possibilità di unire la Sicilia al continente. A quei tempi, naturalmente, la mancanza di mezzi tecnici non permetteva di pensare all’imponente costruzione se non come ad un sogno irrealizzabile.

Ponte di barche realizzato dai romani – Fonte: www.divulgazioneumanistica.com

Fu a partire dalla rivoluzione industriale che la classe politica iniziò a guardare alla realizzazione del ponte con ottimismo e realismo. Nel 1876 Giuseppe Zanardelli, allora ministro ai lavori pubblici, dichiarò: «Sopra i flutti o sotto i flutti la Sicilia sia unita al Continente». Il progetto non venne realizzato ma l’idea di un collegamento con la Calabria rimase viva: se ne parlò negli anni ‘20, più tardi ne parlò lo stesso Benito Mussolini che ipotizzò di far iniziare la costruzione subito dopo la guerra, fino a giungere al 1981 quando il governo incaricò la società Lo Stretto di Messina S.p.a di occuparsi della progettazione dell’opera. Le indagini condotte sul campo fecero emergere la profondità dello Stretto e, di conseguenza, l’impossibilità di gettare nel mare i piloni di sostegno. Si fece strada l’idea di un ponte a campata unica. Ma il tutto si risolse in un nulla di fatto.

La “Domenica del Corriere” il 21 marzo del 1965 dedica la prima pagina al ponte sullo Stretto – Fonte: www.meteoweb.eu

La questione tornò a coinvolgere vivamente l’opinione pubblica nel 2001 quando, in occasione della campagna elettorale, Silvio Berlusconi promise che avrebbe realizzato il ponte entro il 2012. Nel 2005 il consorzio Eurolink vinse l’appalto e nel 2006 vennero firmati gli accordi. Il progetto fu interrotto da Prodi nel 2006, poi fu ripreso da Berlusconi e infine bloccato nel 2012 dal governo Monti. Nel 2013 la società Lo Stretto di Messina S.p.a fu messa in liquidazione.

Nel 2016 fu Matteo Renzi, in vista del voto per il referendum costituzionale, a rilanciare l’idea della costruzione del ponte sullo Stretto che, come dimostrato dagli avvenimenti degli ultimi mesi, sembra essere l’asso nella manica del leader di Italia Viva. La rivendicazione della presenza del ponte nel Recovery Plan è stata una delle armi da lui giocate contro il governo Conte.

La questione del ponte oggi

Negli ultimi giorni, la discussione sul ponte si è riaccesa in relazione all’esclusione del progetto dal Recovey Plan, così giustificata dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Enrico Giovannini: “Ponte sullo Stretto è fuori dal Recovery Plan perché non ci sarebbe stato modo di metterlo in esercizio entro il 2026, anche se si fosse voluto fare”.

Musumeci non sembra volersi arrendere, vuole un confronto con Giovannini. Non ha tardato a farsi sentire anche la reazione di Cateno De Luca che ha dichiarato sui social:

Se il governo Draghi non inserirà la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina, lancerò il movimento politico del meridione

e, riguardo l’impossibilità di concludere il progetto entro il 2026, ha avanzato una proposta: “Il Governo sostiene che non si inserisce il ponte sullo Stretto nel Recovery Plan perché non si completerebbe entro il 2026. La soluzione è molto semplice: nell’ambito di tutte le opere strategiche inserite nel Recovery Plan, l’Italia deve chiedere un’espressa deroga per la realizzazione del ponte sullo Stretto che potrà essere completato entro il 2030 piuttosto che 2026, come prevede l’Europa per il Recovery Plan”.

Intanto, in Parlamento, quell’Italia Viva che tanto due mesi reclamava il Pronte sullo Stretto, ha trovato l’appoggio di Lega e Forza Italia. È nato infatti l’intergruppo parlamentare “Ponte sullo Stretto. Rilancio e sviluppo italiano che parte dal Sud”, con l’intento di

dare un sostegno concreto alla ripresa dell’economia in un periodo in cui le idee devono riacquistare valore al di là di ideologie per il buon governo dell’Italia, ripartendo proprio dal cuore del Mediterraneo che, ancora una volta, si rivela fucina di innovazione e ispiratore del progresso

All’opposizione il Movimento cinque stelle che considera la realizzazione del ponte prematura in un Sud ancora immaturo dal punto di vista infrastrutturale su altri fronti: se prima non si risolve il problema dei collegamenti per Reggio, ancora complicati, e degli spostamenti dalle città siciliane a Messina, il progetto del ponte rischia di essere una grande perdita tempo, “una cattedrale nel deserto”. Dal punto di vista politico, la nascita di questo gruppo in Parlamento è molto significativa agli occhi dei grillini: “sancisce finalmente l’ingresso di Matteo Renzi nell’alleanza-calderone del centrodestra. Un habitat naturale sicuramente più congruo al suo partito”.

 

Ma il ponte si può fare?

Quella del ponte sullo stretto è una storia infinita, una storia fatta non solo di contrasti e interessi politici, ma anche di anni di indagini e progetti che ancora non riescono a dare una risposta definitiva alla domanda “il ponte si può fare?”.

Secondo Webuild, la società che si è occupata della ricostruzione del ponte di Genova e che adesso ha acquisito il progetto Eurolink, non solo si può fare ma si può iniziare subito con la realizzazione. Ecco quanto detto dall’amministratore delegato Pietro Salini: “Noi siamo pronti a partire anche subito e a creare nuova occupazione nel Sud per ottimizzare il collegamento delle linee ad alta velocità da Napoli fino alla Sicilia”. Il progetto sostenuto da Webuild è quello di un ponte con campata unica più lunga al mondo (3.660 metri), torri da 399 metri e 4 cavi per una lunghezza totale di oltre 5 chilometri.

Il progetto, tuttavia, per il momento resta un’utopia. Troppi sono ancora i dubbi e le perplessità, legati soprattutto al territorio. Innanzitutto, un’impresa di tal fatta comporterebbe grosse difficoltà già nella fase di costruzione: si potrebbe garantire la sicurezza agli operai? Inoltre, una grande sfida è costituita dal fatto che si tratta di una zona particolarmente esposta ai venti e ad alto rischio sismico: il ponte deve essere concepito per resistere negli anni alle vibrazioni causate, oltre che dal traffico stradale e ferroviario, dai forti venti e alle scosse telluriche. Come ogni costruzione umana, determinerebbe poi un grande impatto ambientale, a partire dal paesaggio che verrebbe drasticamente modificato. Secondo i favorevoli le conseguenze sull’ambiente sarebbero positive: la costruzione del ponte diminuirebbe l’inquinamento prodotto dal transito dei traghetti nello stretto. E l’economia? Secondo alcuni la realizzazione del ponte velocizzerebbe il trasporto delle merci e creerebbe nuove opportunità di lavoro; per altri invece l’erogazione di fondi nel Mezzogiorno deve essere, prima ancora che al ponte, finalizzata ad un potenziamento delle autostrade e delle ferrovie.

La parola ai posteri: forse tra anni una grande costruzione d’acciaio si staglierà all’orizzonte o forse è un progetto destinato a restare utopia, per nutrire quelle immaginazioni e fantasie, quelle paure e incertezze che fanno vincere le elezioni a qualcuno.

Chiara Vita

Oggi Conte al Consiglio europeo: il via alla riforma sul Mes. Ancora contrasti sul Recovery Plan

Una settimana impegnativa per il premier Conte, che tenta di tenere il timone dell’Italia destreggiandosi tra il controllo della pandemia, i conflitti per la gestione del recovery fund e lo scompiglio causato dalla riforma sul Mes approvata ieri in Parlamento. Quest’ultima sarà al centro del Consiglio Europeo che si terrà oggi e domani a Bruxelles, durante il quale Conte darà il via libera alla trasformazione apportata proprio da tale riforma all’economia europea.

Che cos’è il Mes? Che cosa prevede la riforma?

Il Mes, ovvero il meccanismo europeo di stabilità, è uno strumento nato nel 2012 per contrastare una possibile crisi del debito dei paesi dell’Unione Europea che hanno adottato l’euro come moneta. Il Mes ha una dotazione complessiva di 700 miliardi di euro, è finanziato direttamente dai singoli Stati membri in base al loro specifico peso economico ed è gestito da un’apposita struttura che ha sede a Lussemburgo. Il Paese in crisi, per ottenere un aiuto, deve accettare un piano di riforme la cui applicazione è sorvegliata da Troika, un organismo costituito dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale. Il piano prevede pesanti tagli alla spesa pubblica.

La riforma del Mes, approvata ieri dal Parlamento italiano, prevede tre cambiamenti importanti. Per ottenere un prestito non sarà più necessario sottoscrivere un accordo di riforme impopolari, ma sarà sufficiente una lettera di intenti. Il fattore limitante è che tale regola vale solo per quegli stati che rispettano i parametri di Maastricht.

Inoltre, la riforma tenta di rendere più facile la ristrutturazione del debito pubblico di un paese che chiede aiuto al Mes. Ristrutturare il debito pubblico significa concordare una riduzione del valore del prestito fatto allo stato, il che, per i creditori, vuol dire perdere parte del loro investimento nel momento in cui scatta il pacchetto di aiuti. La riforma introdurrebbe le single limb Cacs, cioè un particolare tipo di titoli di stato che permettono una ristrutturazione tramite un solo voto dei creditori, rendendo le procedure meno complesse. Il timore è che i creditori, consapevoli della possibilità per i debitori di restituire meno di quanto dato in prestito, chiedano interessi più alti, soprattutto agli stati più a rischio, come l’Italia.

La riforma sostiene anche l’anticipazione al 2022 del «backstop» al Fondo unico di risoluzione per le banche. Con backstop si intende la protezione delle banche in dissesto grazie alle risorse provenienti dal Mes.

I contrasti sul Mes hanno avuto come sfondo lo scontro tra europeisti e antieuropeisti. Gli oppositori intravedono nella riforma il pericolo di una forte ingerenza dell’Europa nella politica italiana. Emerge questo dalle parole di Giorgia Meloni:

Il Mes non è uno strumento utile per l’Italia ma un atto di sottomissione al controllo della burocrazia europea”.

Nonostante le avversioni, la riforma ha ottenuto il via libera, ieri in Parlamento, con 156 favorevoli. Entusiasta il ministro dell’economia e delle finanze Roberto Gualtieri:

Grande soddisfazione per il voto di oggi di Camera e Senato. È un’importante conferma della coesione della maggioranza su un chiaro indirizzo europeista e del lavoro positivo svolto dal governo in Europa”.

Il ministro Roberto Gualtieri – Fonte: www.policymakermag.it

 

Il Recovery Plan

Disinnescata la mina del Mes, la maggioranza è invece in fibrillazione sul Recovery plan, il progetto nazionale di gestione del fondo per la ripresa dei paesi europei maggiormente colpiti dal Covid.

Per quanto riguarda i settori di impiego del finanziamento, la domanda guida del progetto proposto da Conte, così come affermato da lui stesso, è stata: “Che paese vorremmo tra dieci anni?”. Il premier guarda al futuro fiducioso di recuperare il ritardo dell’Italia, soprattutto in alcuni settori, rispetto agli altri paesi europei. Le valutazioni dei tecnici del Tesoro lasciano sperare: secondo le previsioni, se il Recovery Plan funzionerà, tra sei anni il Pil italiano sarà più alto di oltre 40 miliardi. Stando al progetto,74,3 miliardi saranno assegnati al green, 48,7 miliardi alla digitalizzazione, 27,7 miliardi alle infrastrutture, 19,2 miliardi ad istruzione e ricerca, 17 miliardi a parità di genere, coesione sociale e territoriale, 9 miliardi alla salute.

Come verrà gestito il Recovery Fund – Fonte: www.genteditalia.org

 

Il Recovery Fund in Sicilia

“Un’occasione unica per riequilibrare il divario tra nord e sud”,

vengono visti in tal modo, dall’assessore all’economia Gaetano Armao, i 20 miliardi che toccano alla Sicilia. Secondo le previsioni della bozza di Conte, il prodotto interno lordo della nostra isola aggiungerà un 4,67% alle stime per il 2021.

Gaetano Armao – Fonte: www.siciliaunonews.com

La bozza del premier delude, tuttavia, la giunta regionale siciliana: non è menzionato né il Ponte sullo Stretto richiesto dal centrodestra, né l’aeroporto intercontinentale che il governo Musumeci vorrebbe realizzare a Milazzo.

Si punta invece alla tutela del patrimonio culturale, alla riduzione del divario sociale, al potenziamento delle due zone economiche speciali, quella occidentale che include parte di Palermo e Trapani, quella orientale che ingloba Enna, Messina e Siracusa. Importante l’intervento sulle ferrovie: l’investimento di 6,8 miliardi permetterà ai treni del triangolo Palermo, Messina, Catania di raggiungere una velocità di 160 chilometri orari.

La frattura della compagine governativa

La questione che ha lacerato il governo è quella della cabina di regia, cioè degli organi a cui è affidata la gestione dei 209 miliardi che spettano all’Italia. La proposta del premier prevede la presenza di un comitato esecutivo composto, accanto a Conte, da Gualtieri e da Patuanelli e una task force di sei manager nominati da lui stesso. Il piano punta anche sulla collaborazione di un “comitato di responsabilità sociale, composto da rappresentanti delle categorie produttive, del sistema dell’università e della ricerca” che possa dare pareri e suggerimenti.

Il no alla bozza del progetto del premier è arrivato soprattutto da Italia viva, il cui leader, Matteo Renzi minaccia: “Io mi sgancio” evocando la crisi del governo. Agli occhi di Renzi, la proposta di Conte priverebbe ministri e regioni di potere decisionale in un progetto che influenzerà il futuro dell’Italia.

Questa struttura esautora non solo i ministeri, ma anche le Regioni e in sostanza l’intera Pa, mentre il Recovery deve rappresentare una straordinaria occasione di rinnovamento e innovazione della pubblica amministrazione”.

Decisa la renziana Teresa Bellanova che, tra l’altro, Italia Viva avrebbe voluto includere nel triumvirato incaricato di gestire il Recovery incontrando, tuttavia, l’opposizione del partito democratico che non intende cedere alle pretese di Renzi. Dure le parole del ministro Peppe Provenzano:

Già abbiamo Orban che frena. Dividerci anche tra noi per ragioni di visibilità sarebbe molto grave”.

Conte risponde agli attacchi assicurando che la struttura del Recovery plan non priverà i ministri del potere:

la responsabilità rimane sempre nel governo perché servirà l’autorizzazione del Consiglio dei Ministri”.

Oggi Conte al Consiglio europeo

La questione del Recovery Fund è ancora tutta da risolvere. Gli scontri in Italia preoccupano l’Unione Europea: il nostro paese è quello a cui spettano più fondi e, di conseguenza, è necessario un progetto forte ed efficace. Il tempo a Bruxelles stringe: la commissione europea spinge affinché il piano venga approvato e mandato all’Ue, così da metterlo in atto nel minor tempo possibile.

Conte a Bruxelles – Fonte: it.notizie.yahoo.com

Oggi, dunque, si prospetta per Conte un’aria tesa a Bruxelles. Accanto al Mes e al Recovery Fund, sul quale, così come affermato ieri in Parlamento dal premier, si intravede uno spiraglio nel negoziato con Polonia e Ungheria, terranno impegnato il vertice dei leader del Consiglio europeo anche altre importanti questioni: la Brexit, il green deal e i rapporti con la Turchia.

Chiara Vita