Perchè dopo 101 anni parliamo ancora di José Saramago?

101 anni fa, il 16 novembre 1922, nasceva José Saramago. Numerosi sono i capolavori che ha prodotto, dal celebre Cecità alla monumentale opera de Il Vangelo secondo Gesù Cristo passando però anche per opere minori che si rivelano veri e propri gioielli. Ma perché ancora lo leggiamo e perché con buona probabilità potrebbe finire tra qualche tempo nei libri di letteratura?

1998: storia di un premio Nobel

Nato in Portogallo da una famiglia umile, è costretto sin da subito a rimboccarsi le maniche per poter contribuire alla vita familiare. Scrive il suo primo romanzo nel 1947, Terra del peccato, ma ne sarà dopo poco insoddisfatto. Nonostante ciò, non si arrende e continua a scrivere, riuscendo a farsi strada anche nel mondo della critica letteraria e lavorando come traduttore.

“Con parabole, sostenute dall’immaginazione, dalla compassione e dall’ironia ci permette continuamente di conoscere realtà difficili da interpretare

Con queste parole nel 1998 viene insignito del Premio Nobel per la Letteratura. Sebbene l’autore già godesse di un discreto successo, trovò il riconoscimento internazionale solo negli anni Novanta, con la pubblicazione in primis dei suoi due capolavori, Cecità Il Vangelo secondo Gesù Cristo, ma anche di Storia dell’assedio di Lisbona (che, al contrario di come pare far intendere il titolo, non ha l’intento di fare cronaca quanto più di raccontare il meccanismo che sta dietro la scrittura).

José Saramago il 10 dicembre 1998 dopo avere ricevuto il Premio Nobel. Fonte: eremodicelestino.home.blog

Sono degne di nota anche altre opere canonicamente definibili minori: è il caso de Il racconto dell’isola sconosciuta, che con appena 43 pagine riesce a restituire delle atmosfere al confine tra realtà e tradizione favolistica. I personaggi non vengono presentati con i loro nomi, ma soltanto con il loro “ruolo” nella storia: sembra quasi che lo scrittore voglia chiedere al lettore di scegliere il proprio posto, quello che ritiene più comodo, e indossare i panni di quei personaggi di cui sta leggendo.

“Tutte le isole, anche quelle conosciute, sono sconosciute finché non vi si sbarca” (Il racconto dell’isola sconosciuta, Feltrinelli, 2015)

Saramago al tempo dei social

Chi l’avrebbe mai potuto dire che il racconto di un’epidemia di cecità bianca avrebbe potuto restituire emozioni e sensazioni quanto più attuali? Successe più o meno questo nel 2020, quando, allo scoppiare della pandemia di Covid-19, molti lettori riscoprirono romanzi come La peste scarlatta di Jack LondonLa Peste di Albert Camus o proprio Cecità di Saramago.

Pubblicato nel 1995, il romanzo parte con un evento al limite tra il realistico e l’assurdo: un automobilista fermo al semaforo non riesce a proseguire perché si accorge di essere diventato improvvisamente cieco. Un protagonista senza nome in una città senza nome soccorso da paladini senza nome in un periodo fuori dal tempo. Sebbene il racconto possa sembrare surreale, lo stile unico di Saramago – che ha un modo tutto suo di utilizzare la punteggiatura – e la storia catastrofica riescono ad attrarre ancora oggi lettori.

“La cecità stava dilagando, non come una marea repentina che tutto inondasse e spingesse avanti, ma come un’infiltrazione insidiosa di mille e uno rigagnoli inquietanti che, dopo aver inzuppato lentamente la terra, all’improvviso la sommergono completamente.” (Cecità, Feltrinelli, 2013)

Cecità, edizione speciale realizzata per il centenario dalla nascita dello scrittore.

Il mondo dagli occhi di Saramago

José Saramago crea i suoi protagonisti con un gioco di luci e ombre che porta il lettore a non patteggiare nè per una parte nè per l’altra, bensì a osservare semplicemente il dramma esistenziale della vita. In un’intervista del 2001 per Rainews dichiara:

“Credo che sebbene qualche volta nei miei romanzi ci sia la preoccupazione di vedere, rendersi conto, osservare, in fondo, sebbene a volte ci sia una relazione diretta con la vista, c’è sempre un aspetto oggettivo. Quando dico “vedere” intendo “comprendere”, ma per comprendere non basta vedere, è solo un mezzo. Quando mi chiedono perchè scrivo, oggi mi limito a dire che lo faccio per comprendere” (Intervista di Luciano Minerva per Rainews, marzo 2001)

Lo continuiamo ancora a leggere dopo decenni per la grandezza delle sue opere e per la trasversalità delle sue storie. Ed è nella stessa intervista sopracitata che Saramago parla della sete di conoscenza, che prescinde da qualsiasi tipo di sovrastruttura sociale. Come disse lui stesso riferendosi al nonno, “l’uomo più saggio ch’io abbia mai conosciuto non era in grado né di leggere né di scrivere”.

Giulia Cavallaro

C’è ancora domani: il manifesto di un’emancipazione in bianco e nero

Paola Cortellesi torna in scena da regista con C’è ancora domani, esaltando ancora una volta la sua dote ironica – Voto UVM: 5/5

 

Paola Cortellesi è nata a Roma il 24 novembre 1973. Ha frequentato la Facoltà di Lettere ma la sua più grande passione è sempre stata la recitazione; pertanto, a diciannove anni inizia la sua carriera da artista.

Nel 1997 arriva il debutto in TV con il programma Macao. Seguiranno altre apparizioni televisive, come La posta del cuore (1998) e Teatro 18 (2000).

Il successo però arriva nel 2000, esordisce al cinema come protagonista femminile di Chiedimi se sono felice, con Aldo, Giovanni e Giacomo (odio l’estate), con cui collaborerà ancora in Tu la conosci Claudia? (2004). Nel 2004 la vedremo scendere la scalinata del Teatro dell’Ariston come presentatrice del Festival di Sanremo e ad aggiudicarsi il Premio Flaviano per il Teatro e la TV.

Come nasce l’idea di C’è ancora domani

C’è ancora domani è il film presentato in anteprima da Paola Cortellesi alla Festa del cinema di Roma 2023 vincendo tre riconoscimenti. Per la prima volta esordisce da regista e attrice al tempo stesso, la ritroviamo dunque come protagonista col nome di Delia.

L’idea nasce dai vecchi racconti di familiari delle sue nonne, bisnonne e zie, in particolare quella che è stata la loro giovinezza in un contesto storico in cui ancora son presenti le macerie del conflitto ma anche il forte desiderio di ricostruzione. Ambientato, dunque, nella Roma del dopoguerra, il film si presenta in bianco e in nero, scelta che richiama la sua infanzia, contrassegnata dal Neorealismo italiano, e data dall’immaginazione della stessa Cortellesi di questi reconditi ricordi.

C'è ancora domani
Fonte: foto di Romana Maggiora Vergano @Screenweek

 

C’è ancora domani: un racconto di un’Italia che non è passata

Il film si apre con una potente scena che ci fa già intravedere la tematica che verrà a sviscerarsi nel corso del film: la violenza domestica. Si parla di dramedy, ci si dota dell’ironia come antidoto alla brutalità dell’uomo, scelta dettata da un senso di profondità e di leggerezza.

Delia è una donna semplice, cresciuta nel culto di moglie dedita alla cura della casa e alla crescita dei figli ma soprattutto schiava e succube delle frustrazioni del marito, Ivano. Possiamo, fin dai primi secondi, notare che è una donna che inizia la sua giornata con uno schiaffo perché si è alzata troppo tardi, con sottofondo musicale: “Aprite le finestre“, evidenziando lo scorrimento della vita come nulla fosse.

La violenza da parte del marito Ivano (Valerio Mastandrea), padrone di questo regime patriarcale, viene ad essere giustificata dalla stessa Delia con la frase “sta nervoso, ha fatto due guerre”, simbolo di una manipolazione maschile che viene ad essere incitata anche dal suocero Sor Ottorino (Giorgio Colangeli). Si tratta di un uomo anziano che dà consigli al figlio su come addomesticare una donna che ha il “vizio” di parlare troppo.

Viene posto l’accento anche sulla figura della figlia, Marcella (Romana Maggiora Vergano), anch’essa vittima dell’obbedienza maschile e ad avere come unico obiettivo quello di accasarsi con un uomo ricco (e non alla sua volontà di studiare) per far sì che sia tutta la famiglia a beneficiarne. Ma sarà proprio lei a far acquistare la dignità di Donna alla madre.

Parliamo di una realtà ancora attuale, l’indifferenza e l’assenza di denuncia da parte dei vicini della porta accanto ma anche la solidarietà della condivisione del silenzio.

Delia: la presa di coraggio, la scelta del proprio benessere

A modificare questo insano stile di vita sarà l’arrivo inaspettato di una lettera a Delia, di cui non si conosce inizialmente il contenuto, ma presumiamo sia da parte del suo primo amore Nino che intende portarla via con sé al Nord. Se in un primo momento appare dubbiosa per la salvaguardia della figlia, successivamente decide di lasciare la famiglia e scegliere sé stessa. Prepara le sue cose in una borsa nascosta dal marito. Ma proprio quella mattina il suocero decide di morire. Delia si ritrova impossibilitata però non si arrende e col motto “c’è ancora domani” lascia un biglietto con dei soldi risparmiati alla figlia e va via.

Qualcosa però va storto, Ivano trova la lettera che è caduta dalla tasca di Delia e corre per raggiungerla. Nel frattempo, anche la figlia che ha compreso tutto, corre al soccorso della madre.

Fonte: instagram @rbcasting

2 giugno 1946: la libertà di poter cambiare un contesto (ancora) maschilista

Pensavamo fosse la lettera di Nino a cambiare il corso degli eventi, in realtà si trattava della scheda elettorale. Marcella riuscirà a raggiungerla e a porgerle il documento per poter votare. Infatti, il 2 giugno 1946 le donne hanno il diritto di scegliere tra Repubblica e Monarchia, manifesto di una emancipazione che ha acquistato finalmente un colore.

C’è ancora domani” porta a compimento una rivoluzione che venne a realizzarsi a bocca chiusa, così come cantava Daniele Silvestri nel 2013. Non ci resta che prender coscienza delle criticità (dis)umane e correggerle. Applaudire a questo capolavoro è un atto più che dovuto.

Stefy Saffioti

Il ruggito de “I Leoni di Sicilia”

 

Con “I Leoni di Sicilia” Paolo Genovese, da grande domatore, riesce a raccontare una storia di potere e di riscatto. – Voto UVM: 3/5

 

Il 2023 non è ancora finito e Paolo Genovese continua a stupirci! Dopo Il primo giorno della mia vita (uscito nelle sale lo scorso 26 gennaio), il regista romano arriva su Disney+ con I Leoni di Sicilia.

La serie, tratta dal romanzo bestseller della scrittrice trapanese Stefania Auci, racconta la storia della famiglia Florio che partì da Bagnara Calabra nei primi dell’800, per arrivare a Palermo, facendosi strada tra difficoltà e pregiudizi.

Gli episodi sono in totale otto. I primi quattro si incentrano principalmente sull’arrivo della famiglia calabrese nella capitale siciliana. Vengono messi in evidenza il loro adattarsi ad un nuovo stile di vita (dal punto di vista lavorativo ma anche e soprattutto umano) e la crescita di Vincenzo (interpretato da Michele Riondino), figlio di Paolo (Vinicio Marchioni) e Giuseppina.

I restanti quattro, invece, vedono protagonista un Vincenzo adulto che investe tutto sul mestiere che ha scelto di portare avanti con ostinazione, creatività e spiccata intuizione.

Due donne, due mentalità

Il regista romano nella sua ultima fatica evidenzia un aspetto in particolare: la posizione delle donne.

Definite come oggetto di proprietà del padre o del marito non avevano diritto a prendere nessuna posizione. E su questo aspetto il regista costruisce un confronto tra due protagoniste con posizione e mentalità differenti: Giuseppina (Ester Pantano / Donatella Finocchiaro) e Giulia Portalupi (Miriam Leone), moglie di Vincenzo.

La prima, innamorata di Ignazio ma costretta a sposare Paolo, desidera per il figlio una donna con un titolo nobiliare così da tenere alto il nome della famiglia (inizialmente non prenderà benissimo la sua relazione con Giulia).

La seconda la si può descrivere con la definizione data dall’attrice, ovvero:

“libera, sincera e appassionata”

Si tratta, infatti, di una donna avanti con i tempi: la sua mentalità proiettata verso il futuro le permetterà di aiutare il marito in momenti delicati, sul lavoro e non solo.

Sempre l’attrice la definisce come una donna in conflitto con la società patriarcale dell’epoca, che prende posizioni contro la famiglia per amore, in primis, verso se stessa, poiché sceglie che vita vivere, a differenza di Giuseppina.

I Leoni di Sicilia
I Leoni di Sicilia. Fonte: Vanity Fair. Distribuzione: Disney+

Vincenzo Florio: un vero “leone di Sicilia”

Il fulcro de “I Leoni di Sicilia” è sicuramente Vincenzo Florio che dopo la morte del padre e dello zio, è destinato a diventare l’uomo di casa, ritrovandosi a gestire gli affari di famiglia. Caratterialmente sarà un vero “leone” dal ruggito inconfondibile.

Vincenzo è stato abituato fin da ragazzo a guardare avanti, al progresso nell’ambito dell’edilizia e dell’imprenditoria. La sua storia con Giulia oscilla tra amore e scandalo: avranno due figlie prima del matrimonio.

All’arrivo di Ignazio (Eduardo Scarpetta), il figlio maschio da lui tanto atteso, non ha più vie di scampo e asseconda il volere del padre, consapevole di una scelta infelice.

“Mia amata Giulia, senza di te non sono nessuno”

È proprio in questa frase che è racchiuso tutto il suo amore per la moglie. Lui stesso ammette più volte di non poter vivere senza di lei, nonostante i tanti conflitti.

Il ritorno, da grande domatore, di Paolo Genovese

La colonna sonora è come un salto nella contemporaneità: non solo i titoli di coda sono accompagnati da Durare di Laura Pausini (singolo contenuto nell’album Anime Parallele), ma nel corso dello sceneggiato possiamo ascoltare anche Supermassive Black Hole dei Muse e Vorrei che fosse amore di Mina.

Paolo Genovese, da grande domatore, riesce a far ruggire i suoi “leoni”, facendo raccontare loro una storia di potere e di riscatto, e facendo arrivare il messaggio che per arrivare in alto bisogna contare principalmente su se stessi e sulle proprie forze!

 

Rosanna Bonfiglio

Prendetevi un momento di Relax: il ritorno di Calcutta

Relax
Calcutta torna a far parlare di se con uno sguardo più consapevole e fiducioso- Voto UVM: 4/5

Dopo 5 anni di silenzio ritorna il debutto, dal carattere epifanico, di Edoardo D’Erme, in arte Calcutta. Come lancio promozionale, ha deciso di stupire gli ascoltatori con l’occupazione di un palazzo della Darsena di Milano, immettendo sui balconi dell’edificio alcune lenzuola con la copertina del nuovo disco e un cartellone che recita: “Relax, fate con calma!”

Nel 2018 ci aveva lasciati con Evergreen, dallo stile confidenziale e di parole sussurrate all’orecchio, giungendo inaspettatamente a Relax, quasi come se in tutto questo tempo fingesse di non lavorare. Anche in questo caso, uno tra i più importanti autori della scena indie italiana, riesce a racchiudere canzoni che stanno bene insieme, che non “litigano” nello stesso contenitore.

Calcutta pubblica “Relax”, album con Bomba Dischi/Sony Music Store

Relax: si parte da uno sguardo nostalgico

Il disco, contenente 11 componimenti, esordisce con la traccia “Coro“, inno in cui percepiamo una certa solennità malinconica già dal primo suono, con una alternanza tra voce individuale e corale.

“Ti guardo mentre dormi
Abbandonata al vento
Sai ogni tanto ci penso
Che dolore”

La dimensione amorosa emerge nelle successive tracce, impregnate da vibes nostalgiche. Partendo dall’allontanamento fra due persone, si arriva quasi ad implorare soltanto un Giro con te prima dell’apocalisse e al tempo stesso a riconoscere questa non-sintonia che può emergere in un rapporto, definendolo Controtempo, finendo per comprendere a fondo la natura di lei.

Ma bastano per l’autore Due minuti per cambiare idea, e con tutt’altro animo subentra d’improvviso la paura di un incontro casuale definito “come un lampo sopra la città” verso una persona di cui ancora prova dei sentimenti. Questo timore di comunicabilità porta l’io alla fuga, destinando dunque i due a non incontrarsi, nonostante la persistente memoria del suo ricordo, sua fonte di salvezza ed evasione dalla mondanità.

“Come un lampo sopra la città
Ti ho vista in un angolo da sola nel traffico
Ma magari non eri neanche te
Io ho accelerato il passo per andare via
Il mio cuore è nel panico, la faccia d’intonaco
Ma magari non eri, magari non eri neanche te”

Un grido di dolore, si scaglia nel brano Tutti, un canto disperato non solo verso la fine di una relazione quanto la dimensione problematica innestata dal successo. L’inadeguatezza sociale ma anche il coraggio portano a ricordarci che “sembriamo tutti falliti“.

“E tu come stai? Che cosa fai?
Io coi piedi nel mare e soltanto a pensare
Che sembriamo tutti falliti, tutti falliti”

L’amore vive andando oltre anche al non esserci

Dopo Intermezzo3, dal ritmo elettrizzante, si apre il secondo momento del disco con il brano SSD, in cui eccezionalmente troviamo il riferimento verso la morte prematura della madre, menzionata precedentemente in brani come “Due punti” e “Sorriso (Milano Dateo)“. L’alterazione dell’umore, dato dall’assunzione di sostanze psichedeliche, lo porta a cantare di lei e a preferire la sua permanenza in una dimensione di oscurità.

“Con mia madre in LSD, uh
Anche se non è qui Perché non è qui
E sembra di non esserci
Sembra di non esserci
Sembra di non esserci
Sembra di non esserci
Perché non è, non è qui”

Dunque sembra esser costante la tematica dell’assenza e, in particolar modo, di chi lo riempie di solitudine che ritroviamo sia in Loneliness che Ghiaccioli. Adesso che l’autore rimane da solo, non gli resta che raccontare ogni tanto della donna amata, nonché tutto il tempo che gli resta da vivere.

Il disco volge verso  la fine con Preoccuparmi, esplicitazione del suo stare in pensiero nella quotidianità, portandolo al tormento continuo, tanto da non volersi più ritrovare in mezzo alla gente ma richiedendo ed evocando solamente il contatto della donna per alleviare l’inferno che ha dentro.

Calcutta, fonte: pagina Instagram @bombadischi

E non può mancare una velatura di Allegria

È evidente il desiderio del ritorno della persona in questione, enfatizzata nell’ultimo brano Allegria. Qui, tramite la metafora di una ruota che gira e di un interruttore non reattivo, si trasmette dunque la frustrazione e il senso di perdita, nel tentativo di riportare indietro la persona che si desidera.

Si scorge, nonostante tutto, anche un sapore agrodolce. Pur riconoscendo l’impatto emotivo, suggerisce che potrebbe comunque esserci una luce di speranza che gravita intorno a loro, anche se non è la stessa affinità che hanno sperimentato in passato. Con Allegria spera ardentemente di trovare ancora una volta la felicità.

“Allegria, perché tu te ne vai
Spezzandomi come pane carasau?
Se tu non torni qui
Se non ritorni qui da me
Se tu non torni qui, se non ritorni qui”

In conclusione, Relax è un album che nasce dall’isolamento dell’artista stesso dalla scena musicale ma che al tempo stesso riesce a sviluppare tematiche sempre attuali, mantenendo pienamente la sua cifra estetica, e confluendo in tal pensiero: seppur distanza fisica, la vicinanza emotiva non viene ad interrompere il legame tra due persone ma li connette l’uno con l’altra.

Stefy Saffioti 

Sex Education 4: l’ultima tappa tra delusioni e nostalgia

Sex education 4
L’ultima stagione di Sex Education presenta criticità difficili da ignorare, nonostante le brillanti prime due stagioni. – Voto UVM: 2/5


Sex Education
, serie Netflix Original di Laurie Nunn, ci ha tenuto incollati agli schermi dal 2019, offrendoci uno spaccato senza filtri su relazioni e problemi degli adolescenti di oggi (e non). Con incredibile sincerità e maestria è riuscita ad affrontare temi delicati e attuali ad un maggior numero di persone rispetto a selezionati spazi del web.

Tuttavia, dire addio non è mai facile e giunti alla quarta ed ultima stagione le critiche non sono tardate ad arrivare, dividendo nettamente i fans della serie Netflix.

Cosa succede nella stagione finale? Con un pizzico di SPOILER!

Abbandonato il palcoscenico del liceo di Moordale,i nostri protagonisti si ritrovano in territorio inesplorato, ognuno per conto suo: Maeve è in America, Adam lascia la scuola e trova lavoro in una fattoria mentre Otis, Eric e Ruby vengono catapultati nel mondo inclusivo del Cavendish College.

Il nuovo istituto è uno spazio dedicato interamente agli studenti. Questi sono liberi di esprimersi come meglio credono, proponendo iniziative come quella della consulente sessuale in erba “O” con cui Otis entrerà subito in competizione, e dalla quale Ruby rivelerà di aver subito bullismo in passato. 

Eric, invece, trova fin da subito il suo posto tra i banchi elite delle new entry della serie: Roman, Abbi e Aisha, gli influencer anti-gossip della scuola. Saranno proprio loro, in quanto persone appartenenti alla cultura LGBTQIA+, che aiuteranno Eirc a sentirsi compreso e “incluso” molto meglio di come ha fatto l’amico Otis, concentrato da sempre sulla sua relazione con Meave.

Quest’ultima, nel corso della stagione capirà, seppur con non poche difficoltà, che il suo posto è in America e deciderà, alla fine, di lasciare Otis e Moordale per poter realizzare il suo sogno: diventare una scrittrice!

Tutto nel calderone…ed è anche troppo

Se quello che avete letto sopra vi sembra troppo, siate consapevoli del fatto che mancano all’appello numerosissimi snodi di trama e le backstory di diversi personaggi tra cui Jean, sua sorella Joanna, Jackson, Cal, Aimee e molti altri…

Infatti, nonostante la serie si “alleggerisca” di alcuni personaggi presenti nelle prime stagioni come Lily, Ola, Anwar e Olivia, lo spettatore sembra quasi essere “assalito” da tutte le trame che si intessono senza tregua. Risulta quasi impossibile seguire tutto senza perdersi, togliendo, così, risalto ad eventi principali come la morte della madre di Maeve o la fuga di Cal. E questo succede perché nessuna tappa del percorso di questa stagione ha modo di essere esplorata approfonditamente che già ne parte subito un’altra!

Il risultato è diametralmente opposto a quello delle prime stagioni (le prime due in particolare), in cui era possibile seguire attentamente ogni sguardo e ogni singola parola dei personaggi. È ovvio che la distinzione tra eventi principali ed eventi a margine era più netta.

In breve, molti hanno sofferto l’aver perso le storie dei personaggi principali in mezzo a quelle di personaggi secondari e a cui non hanno avuto modo di affezionarsi in così poco tempo. 

Evoluzione, rivoluzione, involuzione

Sex Education nasce come una serie che riesce a far riflettere su tematiche attuali ed importanti (qui la nostra recensione della terza stagione) all’interno di una cornice leggera ma non banale, ben ricercata ma non pedante.

La speranza nel cambiamento è sempre stata al centro del progetto, a partire dal titolo stesso che rimanda all’assenza dell’educazione sessuale nelle scuole ma che ne espone concretamente benefici e ostacoli attraverso i personaggi e le loro storie in quello che per la maggior parte è un “Show, don’t tell” (“Mostra, non raccontare”) ben riuscito. Ogni tema vive perché un personaggio e le sue contraddizioni e difficoltà vivono e si evolvono con lui.

Purtroppo, questa struttura portante sembra venire meno nel corso dell’ultima stagione, in cui tematiche rilevanti non solo si perdono nel loro spasmodico susseguirsi sullo schermo ma assumono occasionalmente toni didascalici e soffrono di una cattiva sceneggiatura.

Alcuni personaggi, come Otis, ad esempio, sembrano quasi subire un’involuzione: da terapista sessuale amatoriale che aiuta gli altri ma non riesce a sciogliere i nodi della propria sessualità, il protagonista nelle prime due stagioni sbaglia e cresce in una persona più aperta ed affidabile per poi tornare ad essere immaturo ed egocentrico in modo, però, ingiustificato

Sex Education 4
Cover Sex Education 4. Fonte: Netflix.

Grazie Sex Education, è stato un bel viaggio!

Nel tentativo di creare un mondo ricco di sfaccettature e complessità sembra che si sia perso di vista il cuore della serie e la sua forza motrice, cioè i rapporti con l’altro, con i propri sentimenti e la propria sessualità.

Il percorso di crescita intrapreso dai personaggi nell’ormai lontano 2019 è passato in secondo piano per via del marasma di snodi di trame che ci hanno restituito una visione della serie paradossalmente e tristemente piatta.

Di questi anni in compagnia degli amati protagonisti rimane però una grande speranza, sia nella conclusione delle loro storie sullo schermo che nelle loro carriere attoriali, e una prospettiva nuova e positiva di temi importantissimi che, speriamo, possano lasciare dei sassolini per progetti futuri (magari proprio by Netflix) su percorsi virtuosi sull’inclusività sociale.

 

Chiara Tringali

Calvino: cent’anni dalla nascita dello scrittore rampante

Il 15 ottobre di quest’anno ricorrerà il centenario dalla nascita di uno degli scrittori che maggiormente hanno fatto la storia della letteratura italiana contemporanea: si tratta di Italo Calvino. Sono tantissimi gli eventi programmati in tante città italiane per commemorare l’autore: primo fra tutti, la Zecca e il Poligrafo di Stato hanno prodotto delle monete in argento in suo onore, rappresentanti due personaggi de Il barone rampante, Cosimo e Violante.

Un tale colosso della letteratura italiana non può certamente passare inosservato: qui si ripercorrerà la vita dello scrittore e la sua crescita artistica attraverso alcuni dei suoi romanzi più noti: Il visconte dimezzato e Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Calvino: dall’impegno politico alla crescita letteraria

Italo Calvino nasco il 15 ottobre del 1923 a Santiago de Las Vegas, a Cuba: il padre, originario di Sanremo, vi si era trasferito per questioni di lavoro. Lo scrittore stesso afferma di non avere alcun ricordo degli anni passati a Cuba: la famiglia, infatti, farà ritorno a Sanremo nel 1925. Dopo una fanciullezza trascorsa nella spensieratezza, estraneo al nascente fascismo, Calvino fa emergere dai primi anni dell’università la sua passione per il cinema e la letteratura: fa pubblicare alcune recensioni e scrive i primi racconti respinti dalle Einaudi a Torino, città dove lo scrittore proseguiva i suoi studi. Trasferitosi all’università di Firenze nel 1943, qui Calvino inizia a forgiare maggiormente le proprie idee politiche antifasciste; queste lo accompagneranno anche nel periodo successivo alla fine del secondo conflitto mondiale. Si iscrive al PCI e vi partecipa attivamente per anni.

Questi sono gli anni in cui Calvino da vita alla trilogia I nostri antenati. Si tratta di tre dei suoi romanzi più noti: Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957) ed Il cavaliere inesistente (1958). Dagli anni 60 in poi lo scrittore modifica il suo stile, abbracciando il post-modernismo: di questi anni è Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979).

Calvino muore improvvisamente il 6 settembre 1985 all’età di soli sessantun anni.

Calvino
Italo Calvino. Fonte: ilfattoquotidiano.it

Il visconte dimezzato: uno sguardo alla contemporaneità

È ai primi anni ’50, periodo della più sincera e contrastata adesione di Calvino agli ideali marxisti, che risale la sua propensione ad una scrittura leggera. Esperimento che lo scrittore abbandona dopo non pochi tentativi. Invece, negli stessi anni trova facilmente compimento il racconto comico-fantastico Il visconte dimezzato (1952), in cui il protagonista, Medardo di Terralba, viene diviso da una palla di cannone in due parti, una buona e una malvagia.

Grazie ad una costruzione narrativa basata sui contrasti e su una serie di effetti a sorpresa, Calvino ci regala una storia divertente e significativa al tempo stesso. Invece del visconte intero fa ritornare al paese un visconte a metà, quella crudele e solo dopo, tramite una narrazione perfettamente simmetrica e dal ritmo incalzante, fa scoprire al lettore l’esistenza della metà buona del visconte.

“L’importante in una cosa del genere è fare una storia che funzioni proprio come tecnica narrativa, come presa sul lettore”. (Parte dell’intervista con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983, trascritta e pubblicata in «Il gusto dei contemporanei»)

Ma la storia del visconte ha un significato allegorico molto più profondo e soprattutto molto più vicino a noi. Calvino si è da sempre fatto portavoce dei “problemi dell’ uomo contemporaneo” (dell’intellettuale in particolar modo), e del suo sentirsi “alienato” nei confronti di una società che lo faceva sentire emarginato e, dunque, incompleto.

Se una notte d’inverno un viaggiatore: un romanzo sperimentale

Con Se una notte d’inverno un viaggiatore Calvino stupisce il lettore proponendogli una trama tutt’altro che banale, accompagnata da una strutturazione del romanzo originale ed accattivante. La narrazione si svolge su due livelli: le vicende che riguardano il Lettore ed i dieci differenti incipit. Il Lettore, protagonista del romanzo di cui non si conosce l’identità, si dedica alla lettura di un libro, quando si rende conto che la trama non corrisponde al manoscritto da lui comperato: la copertina e l’interno del libro non corrispondono!

Questa è solo la prima delle varie peripezie che porteranno il Lettore, successivamente insieme a Ludmilla, la lettrice, a iniziare ben dieci libri differenti, senza riuscire a concluderne nessuno. Ogni capitolo permette ai lettori di iniziare, insieme al Lettore, tanti romanzi diversi, tante storie lasciate poi in sospeso. La struttura, per quanto possa sembrare frustrante (ogni storia ha bisogno del suo gran finale!), mantiene salda l’attenzione del suo pubblico, permettendogli anche di immedesimarsi alla perfezione nella figura del Lettore.

Il linguaggio utilizzato è molto semplice e scorrevole: questo, insieme alla particolarità dell’intreccio narrativo, rende possibile una lettura molto rapida del romanzo, di base già abbastanza breve.

Calvino
Graphic Design: “Cent’anni di Italo Calvino”. Fonte: radiocittafujiko.it

Eccessivamente e per sempre, Italo Calvino!

È molto vasta la produzione lasciataci dallo scrittore, e altrettanto vasto è il polverone che la critica letteraria ha innalzato su di lui, soprattutto negli ultimi anni. Da molti accusato di rendere la letteratura eccessivamente intellettualistica e astratta, da altri ritenuto già un “cult” nella storia della letteratura italiana contemporanea poiché capace, come pochi, di attraversare e di interpretare acutamente fasi culturali diverse: dal neorealismo al postmoderno.

Ma una cosa è certa: nessuno potrà mai scordare Calvino dopo aver letto una sua opera. Qualunque essa sia. Dal Visconte dimezzato a Se una notte d’inverno un viaggiatore, senza scordare le cinque Lezioni (di vita) americane, Calvino era capace di arrivare a tutti con estrema leggerezza e “semplicità”. E a tutti noi ha lasciato un’importantissima eredità culturale.

 

Ilaria Denaro
Domenico Leonello

The Palace: che fine ha fatto il genio registico di Polański?

The Palace è satirico, ma tremendamente troppo. Voto UVM: 2/5

 

Presentato in anteprima alla 80° edizione della Mostra del cinema di Venezia, The Palace segna il ritorno (nonostante la veneranda età del regista, 90 anni) sul grande schermo di Roman Polański , a quattro anni di distanza da L’ufficiale e la spia.

Quando si legge il nome del celebre regista polacco, vengono in mente due cose: le vicende giudiziarie che ha dovuto affrontare (è noto per essere stato accusato di molestie sessuali), e alcune pellicole che hanno riscosso un grande successo (per citarne alcune: Il pianista, Oliver Twist e Carnage).

Quest’ultima fatica, invece, non ha ricevuto un’accoglienza granché positiva, giudicata come una commedia stucchevole e priva di morale.

The Palace: trama

Ambientato il 31 dicembre1999, al Palace Hotel di Gstaad, in Svizzera, il film segue le vicende di un eccentrico gruppo di personaggi durante il giorno che porterà, al rintocco della mezzanotte, all’inizio di un nuovo millennio. La narrazione trova il suo centro nel soggiorno del lussuoso hotel, dove la clientela arriva per passare appunto un ultimo dell’anno indimenticabile. Tra la paura del millennium bug tanto paventato dai media e le assurde e pedanti richieste, Hansueli (Oliver Masucci), il manager dell’hotel, cerca di rimediare costantemente ad una serie di inconvenienti, con la speranza che tutti gli ospiti della struttura possano passare la miglior serata della loro vita.

Per sfruttare la carica satirica della pellicola, il regista ha scelto un cast che, ad eccezione di Mickey Rourke (un po’ in affanno), non è molto noto nel cinema. Tuttavia, spicca il nome di Luca Barbareschi (in veste anche di produttore) nei panni di un ex attore molto goffo e rincretinito dalla convinzione di essere ancora ricordato per le sue performance attoriali, e altri nomi come Fanny Ardant e John Cleese.

The palace
Parte del cast

Estetica del ridiculousness

La quasi totalità dei protagonisti fa dell’eccesso e del ridicolo la loro ragion d’essere. Tra qualche volto di plastica e rimandi continui al consumismo sfrenato, il regista lancia una forte invettiva contro quel tipo di modello dominante di una cultura capitalistica che ha fatto dell’ossessione per la giovinezza, per il fisico e dell’apparenza omologata ai canoni glamour e sovversivi, l’ideologia dominante di una classe sociale considerata altolocata. Tuttavia, i personaggi vengono messi costantemente in ridicolo, forse forzando un po’ troppo la mano.

Una satira che non convince

The palace
Scena tratta dal film

Bisogna ammetterlo: fare satira al giorno d’oggi non è un’operazione semplice. Non semplicemente per via del ridondante politically correct, ma anche e soprattutto per la sua costruzione filmica. In questo film (e duole dirlo), l’umorismo anziché lasciare spazi di riflessione produce un vuoto dal quale sembra impossibile uscirne.

L’albergo trabocca di gente ricca elitaria, rappresentata in maniera eccessiva. Giocando con il grottesco, le situazioni risultano esasperate poiché vengono messi a tutti i vizi insensati, le paure inguaribili e le richieste quasi “odiose”.

Tutto mette in mostra la miseria borghese, ma a guardar bene, emerge una visione troppo morbida, a tratti davvero vetusta ed antiquata di un gruppo sociale “semplicemente” stupido che alla fine non fa poi tanto male a nessuno.

Ciò che manca a The Palace è probabilmente quella mordacità ben calibrata e soprattutto moralistica che da sempre caratterizza la black comedy. Nonostante qualche risata l’abbia strappata, non sembra che traspaia (neanche nelle scene vuote) una morale che lasci il segno, una possibilità di riflettere.

 

Federico Ferrara

Experience Zola: la vita è autentica o soltanto un gioco delle parti?

La sirenetta
Un film a cui ci si deve affidare per essere trasportati nel flusso tra reale e immaginario! Voto UVM – 4/5

È tutto francese il nuovo film di Gianluca Matarrese, Experience Zola. Presentato alle Giornate degli Autori 2023, il film sta girando in una tourneè per tutta Italia. E si dà il caso che sia proprio Messina una delle cinque città in cui, oltre alla possibilità di vedere il film, si è avuto anche il piacere di ospitare Anne Barbot, co-autrice e attrice protagonista del film, lo scorso 27 settembre presso la Multisala Iris.

Experience Zola: il cinema parla di teatro

È doveroso fare un accenno al background della protagonista e del regista, provenienti direttamente dal mondo teatraleExperience Zola è la storia di Anne, da poco divorziata dal marito, che incontra Ben, un attore senza alcun ruolo (Benoît Dallongeville). È questo l’incipit di una storia che apparentemente potrebbe definirsi una classica storia d’amore, ma non è solo questo. Dopo il tentativo vano di Ben di conquistare la donna,  Anne stessa finisce per affidargli il ruolo di Coupeau nel suo L’assomoir di Zola, rivestendo lei  il ruolo  di Gervaise, l’amata di Coupeau. Dopo questa scelta il labile confine tra realtà e finzione si sfuma sempre di più e la storia d’amore tra i due arriva a un apice massimo di splendore per poi collassare su se stessa.

Experience Zola
I due protagonisti del film: Anne Barbot e Benoît Dallongeville. Fonte: Bellota Films e Stemal Entertainment

“Nel mio caso la menzogna è parte della verità”

Il film non dichiara mai apertamente quali siano le scene in cui si è di fronte alla finzione scenica e quelle in cui invece si rappresenta la vita quotidiana, lasciando così che sia lo spettatore stesso a perdersi tra i livelli della storia. Si distinguono fino a quattro piani: la narrazione dello spettacolo e dei personaggi di Zola, la loro storia come attori e compagni di lavoro, la loro nascente storia d’amore e un quarto e ultimo livello che diventa metacinematografico. Sono numerosi i momenti in cui la protagonista sfonda la quarta parete, rivelando così la presenza di un filtro – l’occhio del regista – attraverso cui vediamo la storia.

Dove finisce la realtà e inizia la finzione?

A generare confusione e a far funzionare il salto tra i piani sono le numerose volte in cui, soprattutto durante le scene particolarmente tese, uno dei due attori esclama dal nulla “Stop!”. È a questo punto che lo spettatore inizia a dubitare di tutto, passando la durata del film a interrogarsi sulla veridicità delle scene che si susseguono.

La ricerca spasmodica dell’autenticità è però inutile perché il “labile confine” tra finzione e realtà porta i due protagonisti a far coincidere i piani e a fare aderire in maniera quasi assurda la loro realtà alla storia dell’ AssomoirSi innesta un meccanismo tutto teatrale per cui durante i giorni intensi di prove prima dello spettacolo l’unico argomento di conversazione diventa la messa in scena e si arriva a dubitare della propria stessa identità. Si precipita in un vortice in cui non si sa più se sia Anne a influenzare Gervaise o Gervaise a influenzare Anne.

La quarta parete cade giù, cadono le maschere

Verso la fine della pellicola il meccanismo con cui il film è stato girato viene rivelato. A parlare è direttamente il regista, Gianluca Matarrese, che fa un breve cameo e di cui si sente la voce tramite dei messaggi vocali. È il momento in cui la storia tra Anne e Ben è arrivata al capolinea; in quel momento lo spettatore si accorge che davvero il regista si è reso conto della storia d’amore tra i due solo dopo la confessione dell’attrice. La particolarità di Experience Zola, infatti, sta nel fatto che sia frutto di un vero e proprio workshop, in cui nessuno all’inizio del progetto sapeva come sarebbe finito il film. L’idea era soltanto di filmare il processo di preparazione del nuovo spettacolo di Anne, L’assomoir.

Experience Zola
Gianluca Matarrese, il regista di Experience Zola, in una delle scene del film. Fonte: Bellota Films e Stemal Entertainment

Si scopre che la prima parte del film, quella in cui i due protagonisti si conoscono e si innamorano, che dovrebbe essere la rappresentazione dell’autentica realtà, è stata girata quando i due non si amavano più e quindi è più finta dello stesso spettacolo.

Se da questa analisi il film è parso una montagna russa, è perché seppur la narrazione in se non si sviluppi con dei veri e propri colpi di scena, il film risulta tutt’altro che lineare. Di tutto questo cosa resta? Per rispondere alla domanda del titolo, resta soltanto la consapevolezza che a volte la realtà possa essere più artefatta della finzione

Giulia Cavallaro

Buon Compleanno, Capitan Johnny Depp!

Johnny Depp, classe 1963, è un attore, regista, produttore cinematografico e musicista statunitense del Kentucky. Nel corso della sua carriera camaleontica ha vinto un Golden Globe per Sweeney Todd e ha ottenuto tre candidature al premio Oscar per La maledizione della prima luna, Neverland e Sweeney Todd. Depp è, secondo la rivista Forbes, tra gli attori più pagati di Hollywood e, infatti, tra il giugno 2009 e il giugno 2010, ha guadagnato ben 75 milioni di dollari, raggiungendo la medesima cifra nel 2012.

Il 9 giugno 2023 spegne ben 60 candeline…!

Johnny depp
Johnny depp in la fabbrica di cioccolato. Fonte: konbini.com, Warner Bros. Pictures

Johnny Depp: l’ascesa ad Hollywood

I suoi primi piccoli ruoli arrivarono negli anni 80’ tra cui Platoon di Oliver Stone, dopo che Depp ha già fondato la sua prima rock band, The Kids, chiamata ad aprire i concerti di star come i Talking Heads e Iggy Pop.

I primi veri successi importanti sono arrivati, però, nel decennio successivo grazie al sodalizio con  Tim Burton (Johnny è il padrino dei due figli del regista Tim Burton e dell’attrice Helena Bonham Carter). Il regista lo ha diretto in film come Edward mani di forbice, una vera favola in cui manca soltanto il lieto fine, ma per il resto ha proprio tutto: poesia e divertimento, magia e tristezza (Johnny ha ammesso di aver pianto come un bambino quando ha letto per la prima volta la sceneggiatura). Edward è una creatura fantastica che ha delle forbici al posto delle mani, nata nel laboratorio di uno scienziato geniale che s’innamora della bellissima Kim, interpretata da Winona Ryder ; Johnny ebbe una relazione con l’attrice e si era anche tatuato “Winona Forever’’, trasformandolo poi in ‘’Wino Forever’’, ossia “Ubriaco per sempre”.

 “Come fai a sapere che lui è ancora vivo?”
“Non lo so, non ne sono sicura ma io credo che lo sia. Vedi, prima che lui venisse in questa città la neve non era mai caduta, ma dopo il suo arrivo è caduta. Se ora lui non fosse lassù, non credo che nevicherebbe così. A volte può vedermi ancora ballare tra quei fiocchi”. (Kim)

Qual è la rotta Capitano?

Dal 1998 al 2012 è stato sentimentalmente impegnato con l’attrice e cantante francese Vanessa Paradis, con cui diventa padre di Lily-Rose e Jack John Depp ed ha interpretato uno dei personaggi più famosi del cinema: Jack Sparrow.

Il problema non è il problema. Il problema è il tuo atteggiamento rispetto al problema. -Jack Sparrow.

La saga fantasy de “I pirati dei Caraibi”, composta da 5 film (2003 – 2017), narra le vicende dell’affascinante, leggendario quanto eccentrico pirata nobile dei Caraibi e dei sette mari capitan Jack Sparrow . Un capitano di dubbia moralità sobrietà ma scaltro, brillante ed intelligente oltre che imprevedibile e attento solo al raggiungimento dei propri interessi personali. La ciurma della sua amata Perla Nera è composta  dall’eroico Will Tuner (Orlando Bloom), dalla coraggiosa Elizabeth Swann (Keira Knightley), dal Hector Barbossa (Geoffrey Rush) e dal fedele Joshamee Gibbs (Kevin McNally).

La trama è un mix perfetto di storia e leggenda, mito e fantasia che prende spunto da un parco di divertimenti e dai cartoon che Johnny guardava insieme a sua figlia Lily-Rose: lo stesso Johnny Depp ha affermato di essere molto legato al suo personaggio, tant’è che ne ha risentito (in meglio) in suo look “quotidiano”, perché gli ha permesso di divertirsi come faceva da bambino.

Johnny depp
Jack Sparrow che scappa dagli indigeni. Fonte: cinema.everyeye.it, buena vista international, walt disney pictures

Tutti i migliori sono matti

Nell’ultimo decennio indossa i panni del Cappellaio Matto ( nell’Inghilterra vittoriana c’era il modo di dire ‘’mad as a hatter’’, ‘’ossia matto come un cappellaio’’, per gli effetti del mercurio usati nella lavorazione dei tessuti) nella saga dark fantasy di “Alice in Wonderland” (2010) e ‘’Alice attraverso lo specchio’’ (2016). Riprendendo la favola sull’omonimo romanzo di Lewis Carroll e dell’omonimo classico d’animazione del 1951 della Disney, i due film raccontano del ritorno dell’ormai diciannovenne Alice (Mia Wasikowska) nel Paese delle Meraviglie. Quegli stessi luoghi dove da bambina ha vissuto le incredibili avventure e conosciuto i magici personaggi di cui, a differenza nostra, non ricorda più nulla. Luoghi che purtroppo il nostro Johnny Depp non ha “fisicamente” conosciuto perché ha interpretato il suo personaggio (creato in 3D) da solo davanti a un green screen

Alcuni degli insegnamenti che possiamo trarre dalla storia di Alice sono: imparare a crescere e gestire gli alti e bassi della vita (Alice impara a poco a poco a  gestirli e a non trovarsi troppo in balia degli aventi) e che ogni lato che ci caratterizza è speciale, e ognuno ha le sue stranezze e debolezze che rendono ogni essere umano unico!

-Cappellaio Matto: sono diventato matto?

-Alice: Temo di si, sei assolutamente svitato. Ma ti rivelo un segreto: tutti i migliori sono matti!

Sessant’anni di fascino e successo

Sex-symbol dal fascino irresistibile e attore di talento indiscusso, Johnny Depp è da un quarantennio (e lo rimarrà, con ogni probabilità, per i prossimi 40 anni e più) una stella hollywoodiana, una di quelle che fanno parlare di sé nel bene e nel male, di quelle che dopo i flop al botteghino realizzano film che il botteghino lo svuotano, di quelle che suscitano la stima – e un po’ l’invidia – dei colleghi e dei fan (e le fan, nel suo caso…) di tutto il mondo.

Johnny Depps star on Hollywood Walk of Fame https://creativecommons.org/publicdomain/zero/1.0/ https://www.rawpixel.com/image/6113765 Autore: rawpixel.com Ringraziamenti: rawpixel.com

Caro Capitan Johnny, buon compleanno!

Che tu possa avere, sempre, il vento in poppa, che il sole ti risplenda in viso e che il vento del destino ti porti in alto a danzare con le stelle

 

Carmen Nicolino

Angelica Terranova

Noel Gallagher mostra se stesso in “Council Skies”

Il disco più maturo e più curato della carriera di Noel Gallagher. – Voto UVM: 5/5

 

Se si potesse tornare indietro nel tempo, sceglieremmo una data: 1995. Sono gli ultimi anni del ventesimo secolo, vanno ancora di moda i jeans Levi’s a gamba lunga, l’Ajax batte il Milan in finale di Champions (ci scuseranno i tifosi accaniti), e altri eventi particolari.

In ambito musicale, si affermano due band britanniche che daranno vita al movimento Britpop: i Blur (che torneranno con un nuovo album) e gli Oasis. La band, formata dai fratelli Liam e Noel Gallagher, ha coltivato una serie di successi finché non si è sciolta nel 2009.

Da lì, ognuno ha intrapreso una strada da solista. Liam è stato poco fortunato, al contrario Noel ha avuto maggior successo. Con la sua band High Flying Birds, il cantante ha pubblicato venerdì 2 giugno il suo quarto album in studio Council Skies, lontano dallo stile di Who Built The Moon (2017) che risulta essere il meno riuscito della sua carriera.

Struttura

L’album che vuole essere un omaggio a Manchester, sua città natale, è composto da 11 tracce (l’ultima è una bonus track, ma non troppo) e ruotano intorno ad un concetto cardine: la nostalgia.

L’artista ha dichiarato, in diverse interviste, di averlo scritto nel 2020, durante il periodo della pandemia in piena solitudine (in quel periodo si è anche separato dalla moglie Sarah MacDonald). Ha un tono molto riflessivo — quasi richiamando i toni di Chasing Yesterday (2015) — e cupo. Lo si evince non soltanto dalle chitarre leggere (che a volte regalano assoli decisi come in Easy Now e Pretty Boy), ma anche dalla scelta di inserire strumenti ad archi, trombe e vari. Risulta decisiva, dunque, la presenza del co-produttore Paul Stacey, collaboratore storico che è stato determinante per fare in modo che le tracce suonassero in modo lineare.

Non si può dire che sia un pandemic album (ci abbiamo fatto il tarlo), né tantomeno un disco rock pesante da digerire, tutt’altro. I continui richiami al passato e la profonda introspezione dei testi, mostrano un Noel Gallagher che spera di ritornare al mondo di prima, anche se è consapevole che niente sarà come prima:

I can lend you a dream
‘Til we meet again
I’m dead to the world
I don’t know where I’ve been (Dead To The World)

Noel Gallagher
Noel Gallagher. Fonte: 1057thepoint.com

Uno sguardo nostalgico

Nonostante la forza prorompente in I’m Not Giving Up Tonight, il coraggio di affrontare sé stesso in Open The Door, See What You Find (che probabilmente è la seconda parte di The Ballad Of The Mighty I in Chasing Yesterday), la malinconia si fa sentire molto. In Dead To The World, Noel affronta il tema della fine di una relazione ponendosi un passo indietro, come se cercasse di accettarla con la riserva di poter rimediare, consapevole che se decide di lasciare andare via tutto, potrebbe cadere in un sonno dogmatico abbandonando il mondo.

Questo senso ritorna in Trying To Find A World That’s Been And Gone Pt.1, la più significativa probabilmente del disco, dove si avverte la voglia di ritornare all’età dell’oro della musica e, probabilmente, della sua stessa vita:

You give me the will to carry on
In a place where I belong
As we try to find a world that’s been and gone
(Trying To Find A World That’s Been And Gone Pt.1)

La chitarra accompagna fino alla fine la canzone, e nel momento in cui irrompe la batteria, una nuova coscienza prende vita in Easy Now, posta non a caso al centro del disco. Le difficoltà, si sa, arrivano quando meno ce lo aspettiamo. Solo bisogna avere fiducia nel corso delle cose e trovare il coraggio di andare avanti, cavalcando la tempesta per arrivare alla destinazione, probabilmente la redenzione.

Quest’ultima, traspare maggiormente in We’re Gonna Get There In The End, le cui sonorità omaggiano lo stile dei Beatles (grande fonte di ispirazione per Noel).

La forza di andare avanti mostrando sé stessi

Noel Gallagher
Cover del dico “Council Skies”. Casa discografica: Gallagher Sour Mash Records.

La formula segreta che probabilmente rende la personalità dell’artista britannico e la sua musica così originale, di album in album, è quella di rimanere sé stesso.

Se già nell’album omonimo (Noel Gallagher’s High Flying Birds, 2011) e nel successivo Chasing Yesterday abbiamo visto una personalità esuberante e riflessiva, Who Built The Moon è stato una sorta di intervallo poiché ha voluto sperimentare nuovi sound, non ottenendo forse il risultato che si aspettava. Council Skies invece, sembra davvero il suo capolavoro non solo come artista, ma anche e soprattutto come uomo. Non è sempre facile, considerando che è rimasto radicato in un genere. Ciò nonostante, ha scelto di riattraversare le sue origini dalle quali è impossibile prendere le distanze, rimanendo coerente alla sua poetica.

Il rock non è ancora morto, e forse Noel Gallagher non ha intenzione di abbandonare la scena britannica, portando ancora avanti lo stile degli Oasis al di là delle spiacevoli vicende. Magari tornano, chissà. Nel frattempo, godiamoci questo viaggio introspettivo.

 

Federico Ferrara