Madame Web: un incubo ad occhi aperti

Madame Web, il cinecomic di cui nessuno aveva bisogno. – Voto UVM: 1/5 (voto motivazionale perchè il film ha le capacità, ma non si applica!)

 

Guardare un film al cinema è sempre una buona idea. L’esperienza del grande schermo è ineguagliabile e si sostengono anche preziose attività messe ormai in ginocchio dallo streaming e i loro infiniti cataloghi da consumare comodamente dal divano di casa. Che il film sia di tuo gradimento o meno, rimane comunque un’esperienza piacevole.

A volte però, l’imbarazzo è talmente evidente che, sebbene armati di positività e indulgenza, proprio non si riesce a trovare nulla di buono in quelle due ore e mezza passate in sala: in poche parole, capita che i cinema passino film come Madame Web…

Un cinecomic apparentemente “normale”

 

Madame Web
Dakota Johnson in una scena del film. Fonte: Sony Pictures

Concepito come spin-off della serie legata a Spiderman, e girato da S. J. Clarkson, il film vede nel proprio cast attori e attrici di spicco come Dakota Johnson (nota per il suo ruolo nella serie di film Cinquanta sfumature), Sidney Sweeney (Euphoria e The White Lotus) e Tahar Rahim (Il profeta).

Il film si incentra sulle vicende di Cassandra Web, figlia di Constance Web, una ricercatrice che, come viene mostrato nelle prime scene, decenni prima si ritrovò in Perù a studiare una specie di ragno dalle potenziali proprietà curative. Tuttavia la ricercatrice è vittima di una trappola tesa dal suo stesso collaboratore Ezekiel per cui viene mortalmente ferita e lasciata in mezzo alla foresta. Costance era in quel momento incinta di Cassey. Per sua fortuna la neonata viene salvata dall’autoctona tribù dei Las Arañas. Questi le praticano una forma di medicamento con la puntura del ragno dalle proprietà curative, donando alla bimba dei superpoteri che le rimarranno sconosciuti fino all’età adulta.

La scena si sposta così al 2003. Qui ritroviamo Cassey nei panni di una paramedica a New York, la quale dopo un incidente quasi fatale ha le prime rivelazioni sul suo superpotere: vedere nel futuro. Questo privilegio le consente di salvare la vita a tre ragazzine che sono nel mirino di Ezekiel, il collaboratore in Perù della madre Constance. In qualche modo non svelato nel film, Ezekiel sa che verrà ucciso dalle ragazzine che nel futuro acquisiranno dei superpoteri, come peraltro svelato dal finale.

Lo sviluppo narrativo…inevitabilmente comico!

 

Una scena del film. Fonte: Sony Pictures

Leggendo la trama sembrerebbe un film sui supereroi come tanti altri, in linea con gli standard narrativi della Marvel. Ciononostante, lo sviluppo della narrazione è talmente incoerente e illogico da diventare quasi ridicolo. Lascia abbastanza a desiderare anche la performance attoriale: un mero esercizio mnemonico.

Ma entriamo un po’ più nei particolari. In primis il superpotere della nostra Madame Web: da copione lei dovrebbe essere capace di “vedere” nel futuro, ma dal film sembra invece che il suo vero potere sia quello di rubare auto in giro per la città e di sfondare muri.

C’è poi il trio per eccellenza stereotipato dai cinecomics: l’outsider, l’alternativa e la ribelle, le quali vengono rapite senza opporre alcuna resistenza. E come non parlare poi dello scontro finale, in cui Cassey e le ragazzine affrontano Ezekiel, in una battaglia all’ultimo “petardo” su una grande insegna della Pepsi (che quasi quasi è lei la vera protagonista del film). E sarà proprio in questo frangente che la nostra supereroina “da quattro soldi”, scoprirà di avere una nuova capacità: la moltiplicazione corporea.

Conclusioni “affrettate” ma (dato il film) sufficienti…

Madame Web è uno di quei titoli per i quali, a fine proiezione, lo spettatore vorrebbe che gli restituissero i suoi soldi. Giusto per rispetto. A maggior ragione se si pensa alla cifra spesa per la produzione del film: ottanta milioni di dollari (circa).

Ma a questo punto, l’unica cosa da chiedersi è: non sarebbe stato meglio darli in beneficienza?

 

Francesco D’Anna

Goodbye, Eri: tra narrazione e memoria

Goodbye, Eri
“Goodbye, Eri” di Tatsuki Fujimoto – Voto UVM: 5/5

 

Goodbye, Eri è un volume unico scritto e disegnato da Tatsuki Fujimoto, già autore di altri fortunati manga come Fire Punch o il più famoso Chainsaw man, e pubblicato in Italia nel 2023 dalla casa editrice Star Comics.

L’autore e le sue passioni

Il fumettista, nato a Nikaho nel 1993, è un grande appassionato sia del disegno, che coltiva sin da bambino frequentando i corsi a cui prendevano parte anche i suoi nonni, sia di cinema, tanto orientale quanto occidentale, e nelle sue opere non mancano riferimenti visivi tanto ad un’arte quanto all’altra: basti pensare che già nell’opening dell’anime Chainsaw man, tratto dalla sua serie più recente, è presente un riferimento a Pulp Fiction di Quentin Tarantino, regista amato da Fujimoto, e pochi anni fa l’autore ha pubblicato un altro volume unico, Look Back, interamente dedicato al suo amore per il disegno.

Goodbye, Eri
Cover “Goodbye, Eri”

Lo stile

Proprio lo stile di disegno merita qualche parola a parte. Fujimoto presenta uno stile particolare e molto caratteristico, impossibile da confondere: grezzo, graffiato, all’apparenza semplice e superficiale, ma molto complesso. Uno stile già presente nel suo Chainsaw man, divenuto famoso anche per questo disegno così particolare, e riproposto in Look Back. Ma lo stile si riconosce anche per l’espressività che sa imprimere ai volti: i sorrisi sono dolci e scaldano il petto del lettore, così come i pianti che vengono raffigurati non solo con le classiche lacrime, ma anche con vere e proprie smorfie che rendono grotteschi i personaggi, e un discorso analogo vale per le altre emozioni, che Fujimoto sa bene come rendere in maniera realistica, quasi straniante, personalmente.

Da sottolineare poi i perfetti intervalli tra scene con battute anche molto serrate, e vignette vuote e senza una parola, quasi contemplative, preparatorie per qualche colpo di scena o per una reazione dei personaggi a qualcosa che è appena successo, e che fanno tenere anche a noi lettori il fiato sospeso, mentre ammiriamo le tavolo del fumettista.

Goodbye, Eri
Tavola “Goodbye, Eri”.

Punto di vista…

Già nella sua premessa Goodbye, Eri potrebbe stranire: una madre gravemente malata chiede al figlio di registrare col cellulare ogni momento fino alla di lei morte. E così fa Yuta, il nostro protagonista, che accumulerà numerosissime ore di filmato che poi monterà in uno strano film per una mostra scolastica. Purtroppo però, il lavoro non verrà apprezzato da nessuno, e Yuta pensa di farla finita, salvo poi incontrare la sola persona che sembra aver visto del buono nel suo lavoro: l’Eri che compare sin dal titolo.

Inizia così la storia del rapporto tra i due adolescenti, che noi lettori vedremo sempre dal punto di vista del cellulare di Yuta, come viene lasciato intendere già dallo stile di disegno e di disposizione delle vignette: sempre strisce orizzontali, alle volte anche sfocate, proprio come se stessimo filmando tenendo in orizzontale il cellulare.

…e punti di vista

Ma tramite le innumerevoli ore di registrazioni dal cellulare noi non conosciamo tutta la realtà, ma solo il punto di vista di chi quelle registrazioni le monta e le riordina, ossia lo stesso Yuta: lui è il regista assoluto, è lui che ha il potere di superare la linea che c’è tra la realtà effettiva e la memoria, il come vogliamo ricordare qualcuno e la persona reale. Yuta ci narra così quello che è il suo punto di vista, filtrato dal cellulare, e diverso tanto da altri punti di vista quanto dall’effettiva realtà.

E in fondo, l’arte in generale non è proprio questo, cioè narrazione di un punto di vista che è sempre personale ed interiore? Forse è proprio questo quello che, tra una citazione e l’altra che i cinefili si divertiranno a cogliere, e gli altri a scoprire, voleva ricordarci Fujimoto.

 

Alberto Albanese

Aspettando Sanremo: la storia di sette insoliti vincitori

Finalmente il Festival di Sanremo è alle porte, è l’aria si riempie già di frenesia e musica, in attesa di sentire i 30 artisti che calcheranno il palcoscenico della 74° edizione della kermesse più attesa d’Italia. Nel corso della storia sono state tantissime le canzoni vincitrici che hanno fatto successo e segnato la storia dell’immaginario musicale italiano, ma sono altrettante le canzoni che sono state meteore, vincitrici subito cadute nel dimenticatoio collettivo.

E noi, nel nostro piccolo, vogliamo ripercorrere la storia del Festival di Sanremo, scegliendo sette brani, uno per decennio, alternati tra canzoni più celebri ad alcune chicche di nicchia.

Sanremo 1951/1959: Modugno – Piove (ciao ciao bambina) (1959)

Il primo decennio del Festival di Sanremo viene caratterizzato dalla presenza di canzoni che si rifanno alla musica lirica della tradizione italiana. Infatti, i protagonisti sono per lo più cantanti dalla voce possente e da canzoni tristi dai toni i drammatici ma, per questo decennio, la scelta ricade su quello che potrebbe definirsi il fautore di un nuovo modo di fare musica, più leggera e melodica, stiamo parlando dell’intramontabile Domenico Modugno. Già vincitore nel 1958 con la famosa nel Blu dipinto di blu, vince anche l’anno successivo con Piove (ciao ciao bambina), sempre in coppia con Johnny Dorelli. La canzone in gara parla di un amore al capolinea dove, nonostante il sentimento sia forte, non si può che fare altro che dirsi addio.

Come una fiaba, l’amore passa:C’era una volta poi non c’è più

Canzone commovente che fa ancora scendere parecchie lacrime.

Sanremo 1960/1969: Sergio Endrigo – Canzone per te (1968)

Per gli anni ’60, più precisamente per gli anni della Rivoluzione, la scelta è caduta su Sergio Endrigo e la sua Canzone per te. Il brano portato Sanremo e, accompagnato da Roberto Carlos, ci parla, con toni struggenti, di una storia d’amore finita ma dove il sentimento resiste.

È stato tanto grande e ormai non sa morire

Anche qui, nonostante la poco profondità del testo, ci lascia con l’amaro in bocca e con la tristezza nel cuore.

Sanremo 1970/1979: Peppino di capri – Un grande amore e niente più (1973)

Negli anni del boom economico e, come amava definirli Pasolini, gli anni del neo-edonismo consumistico, dove l’Italia andava via via perdendo la propria identità culturale a favore di uniformazione di massa, Sanremo si mantiene sempre vivo e uguale, con un unico comune denominatore: è sempre l’amore a trionfare. Quell’amore cantato in tutte le sue sfaccettature, così la scelta è caduta su una poesia tenue, leggera che ti sfiora la pelle ed è Un grande amore e niente più di Peppino di Capri. Anche qui non è andata proprio bene, ma è il racconto di quel tempo d’amore vissuto a pieno, tra ricordi teneri e struggenti che, una volta andati, non tornano più.

Ma non risale l’acqua di un fiumeE nemmeno il tuo amore ritorna da me

 

Sanremo 1980/1989: Tiziana Rivale – Sarà quel che sarà  (1983)

Spesso confusa con la più famosa Che sarà dei Ricchi e Poveri, è il grido di un amore che nonostante le innumerevoli difficoltà che la vita possa porci davanti, tra cui l’incertezza del futuro, si ha la consapevolezza che è l’altro il fattore salvifico e che, nonostante tutto, bisogna saper prendere l’amore per come è, senza idealizzazioni.

Se anche l’acqua poi andasse all’insù
Ci crederei perché ci credi anche tu
Una storia siamo noi
Con i miei problemi e i tuoi
Che risolveremo e poi

Il brano appena descritto è di Tiziana Rivale, vincitrice dell’edizione del 1983, con questa canzone purtroppo poco conosciuta e ancor di più lei, un’altra meteora del panorama musicale italiano.

Sanremo 1990/1999: Riccardo Cocciante – Se stiamo insieme ci sarà un perché (1991)

Cosa succede quando Riccardo Cocciante incontra un pianoforte? Nasce poesia!

Se stiamo insieme ci sarà un perché, ci racconta di quell’amore vissuto, dove ad un certo punto tutto sembra logorarsi, in quel momento in cui ci si scorda perché si sta insieme, in cui è necessario riscoprirsi e riscoprire, per non lasciare morire quel fiore. E Cocciante ci ricorda che al lasciare morire quel sogno sognato insieme, c’è sempre un’altra via fatta di dialogo, cura e tanta pazienza.

Non è quel sogno che sognavamo insieme, fa piangereEppure io non credo questa sia l’unica via per noi

 

 

Sanremo 2000/2009: Giò di Tonno e Lola Ponce – Colpo di fulmine (2008)

Da molti considerata una delle canzone vincitrici più brutte di sempre, cantata dai protagonisti dello spettacolo  Notre-Dame de Paris, scritto da Luc Plamondon con le musiche di Riccardo Cocciante. Con questo brano, cantato appunto da Giò di Tonno (Quasimodo) e Lola Ponce (Esmeralda), veniamo riportati ad una musica più scenica, più teatrale, che ci apre alla potenza dell’amore, fulmine a ciel sereno che si abbatte furioso su di noi e che ci fa vivere, a volte, in una favola che sembra non finire mai

D’amore e d’incoscienzaPrendimi sotto la pioggiaStringimi sotto la pioggiaLa vita ti darò

 

Sanremo 2010/2019: Roberto Vecchioni – Chiamami ancora amore (2011)

La classe non è acqua, lo sa di certo l’edizione del Festival di Sanremo del 2011, che ha visto calcare e trionfare una delle divinità della musica cantautoriale italiana, il grande prof. Roberto Vecchioni. Chiamami ancora amore è una preghiera all’umanità, ricordandoci che  è l’amore a renderci umani e che non bisogna mai avere paura di amare e di lottare per ciò che si ama, che sia una persona, un pensiero o per la vita in sé. 

Chiamami sempre amoreIn questo disperato sognoTra il silenzio e il tuonoDifendi questa umanitàAnche restasse un solo uomo

Sanremo 2020/2023: Diodato – Fai Rumore (2020)

Nell’anno che segna un cambiamento epocale, in cui tutto il mondo si è fermato nel silenzio più assoluto, è stato il “Rumore” di Diodato a riecheggiare, colpendo dritto al cuore di ognuno di noi. Il brano scritto è una carezza che riconcilia l’anima, un rumore che diventa musica e ci scalda il cuore, quel rumore prodotto nella nostra vita dalla persona amata, perché possiamo finalmente guardare negli occhi quel qualcuno e dirgli:

E non ne voglio fare a meno oramai
Di quel bellissimo rumore che fai

 

Chiudiamo così questo Aspettando Sanremo, con la voce di Diodato che ci accompagna nel rumore della quotidianità. 

Gaetano Aspa

Precedi e procedi. La filosofia di Past Lives

Past Lives è un esordio sorprendente. Voto UVM 4/5

Past Lives è il primo film della regista sudcoreana Celine Song, candidato a cinque Golden Globes e a due premi Oscar, come miglior film, accanto a grandi pellicole quali Killers of the flower moon e Oppenheimer, e miglior sceneggiatura originale. Il film racconta tramite la personale esperienza da emigrata della stessa regista, una storia alternativa e diversa da quello che definiamo oggi un cliché.
Attuale e molto moderno, Past Lives apre le porte a una serie di interpretazioni per il pubblico, in modo tale da creare la giusta atmosfera e forse anche un po’ di suspense. In maniera intraprendente e originale, si percepisce fin da subito come l’obiettivo principale sia probabilmente quello di non risultare banale e scontato.

Past lives: “Ciao…”

Almeno una volta nella vita è capitato a tutti noi di chiedersi cosa voglia significare veramente dirsi “ciao”. Past lives ci offre qualche prospettiva in più: il tempo passa, si cresce, si fa spazio alle esperienze, ma il passato è qualcosa di ancorato a noi. Ci insegue, a volte si nasconde, altre invece torna quando meno te lo aspetti. Paradossalmente sembra di vivere numerose esistenze, perché la metamorfosi della vita non appartiene solo a noi come soggetti, ma anche a ciò che circonda.
Il film si presenta inizialmente come un inno alla memoria che cancella, ma ricorda che per natura noi individui siamo insistenti. L’ovvietà è data dalla condizione che vivere nel passato non è fattibile e, dunque, bisogna avere il coraggio di voltare pagina.

Past lives: in-yun

Past lives è un film d’amore, ma non del tutto e diverso da quello che si è abituati a vedere.
La protagonista Nora (Greta Lee) utilizza un termine coreano, ovvero “In-yun” , letteralmente “destino” o “provvidenza”, per spiegarci in breve la connessione instaurata tra persone e cose nel corso della vita. Una parola che può manifestarsi nel momento in cui due persone si scontrano e si sfiorano per strada, rappresentando così l’esistenza passata di un rapporto tra i due.
Una pellicola che abbraccia sicuramente la malinconia raccontandoci una storia che inizia tra i banchi di scuola a Seoul e che purtroppo è destinata a mettere non un punto, ma un punto e virgola.

Past lives
© CJ ENM

Un tanto atteso rendez-vous tra due persone che ormai sono adulte ma che in qualche modo, nonostante la distanza e il modo di approcciarsi alla vita, li spinge a cercarsi a vicenda. Nora (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo) ormai hanno vite diverse, ciò che li accomuna sembrano essere solo le loro origini, il resto è cambiato, tranne il bene che provano l’una per l’altra malgrado gli anni passati senza vedersi, toccarsi e parlarsi.
Il rincorrersi e rivedersi dopo anni permette loro di confrontarsi su ciò che sarebbe potuto accadere se le cose fossero andate in maniera diversa. Un dialogo faccia a faccia permette loro di porsi delle domande; dopo una giusta riflessione e l’ascolto reciproco di entrambi, i due si lasciano nuovamente alle loro vite.

Accettare per superare

Past lives
© CJ ENM

Il messaggio finale di questa storia che si chiude con le note di “Quiet eyes” di Sharon Van Etten, non è per forza una triste realtà. Più precisamente la chiave di lettura va colta nell’accettazione per qualcosa o qualcuno che ormai è andato.
La fine non è indice di un’eclissi bensì la possibilità di una serie di inizi infiniti in cui noi, come individui, ci scontriamo casualmente; questo racconto non serve a rendere il pubblico appagato per l’ennesimo lieto fine, ma forse a cercare di renderci consapevoli del fatto che è necessario accettare il presente ed il passato, vivendo quasi in simbiosi con entrambi. Accettare questo è il primo passo per andare avanti senza dimenticare le vite passate.

Asia Origlia

I Subsonica sbarcano sulla terra e nasce “Realtà Aumentata”

uvm 4 stelle
Le sonorità del rock elettronico dei Subsonica si scontrano con i grandi temi dell’attualità come disastri umanitari, catastrofi climatiche e guerre. – Voto UVM: 4/5

 

Non sono tempi semplici quelli in cui viviamo, lo sappiamo tutti: su di noi incombono numerose ombre come quella della crisi climatica e delle guerre in corso, solo per citarne qualcuna. Per non parlare poi di tutti quei temi ed eventi che scaldano  e polarizzano l’opinione pubblica, in particolar modo quella italiana (il verso d’apertura del disco recita In un covo di rancore, ben descrivendo il contesto socio-culturale italiano di oggi), come immigrazione, calo demografico, carovita e perdita del senso di comunità.

Sono sempre più numerosi gli artisti che, giustamente, sentono l’urgenza di parlare di attualità. Non è più possibile contenersi, la cronaca travalica i confini dei media e travolge così i suoni e le parole dei dischi, come Realtà aumentata. Ed effettivamente, rispetto al ’96, anno di formazione dei Subsonica, la realtà è davvero “aumentata” e non è più possibile abitarla come si vuole, è lei che abita noi: “la realtà è aumentata quando l’utopia si è arresa”, scrivono in Africa su Marte.

La band, nata all’ombra del quartiere Murazzi di Torino, storico epicentro piemontese di subculture e correnti artistico-musicali d’avanguardia, ha sicuramente avvertito questo passaggio d’epoca.
Dalle sperimentazioni di Mentale Strumentale, i Subsonica decidono di ritornare sui loro passi con un progetto uniforme che ricorda i lavori delle origini lasciando però spazio alla scorrevolezza del mainstream, un’unione che fu proprio da loro consacrata all’inizio degli anni 2000. 

Esplorazione e composizione musicale

Si torna a essere “esploratori nel proprio pianeta“: così si definiscono Samuel (voce e chitarra), Casacci (chitarra), Boosta (tastiere), Ninja (batteria) e Vicio (basso) nella presentazione all’album che pubblicano sul profilo Instagram della band.

La cover (realizzata dal designer Marino Capitanio) ritrae infatti un astronauta (o meglio un “afronauta” come scrivono in Africa su Marte) intento a percorrere il pianeta Terra ed assorbirne le vibrazioni da trasformare in prodotti sonici.

La tensione dello sbarco è ben rappresentata dal brano d’apertura Cani umani, i cui ritmi elettronici sincopati descrivono la disumanizzazione dei nostri tempi dove orrore e terrore sono a portata di click. Segue Mattino di Luce (terzo singolo estratto), un incontro fra synthwave retro e sonorità cosmiche che pone in parallelo eventi astronomici come la formazione di stelle da nebulose con la liberazione di se stessi dalle gabbie del conformismo.

In Pugno di Sabbia (primo singolo estratto) è chiaro il riferimento al trattamento riservato dalle istituzioni nei confronti delle seconde generazioni di immigrati regolari (vittime del loro passato e privati della possibilità di costruirsi un futuro):

“Non sono i cani di razza che
Urlano in piazza gridando che
Qui c’è un passato che non passa mai
Ed un futuro che non troverai”

Ritorna il tema in Nessuna colpa, dove l’invettiva non solo si fa più critica ma diventa una vera e propria accusa nei confronti del governo ritenuto responsabile delle stragi di migranti in mare:

“Se il mare affonda nella gola di un bambino
Se nello specchio si nasconde l’assassino
E in fondo quella presunzione tossica
Di essere eterni come solo la plastica
Conquistatori senza sensi di colpa
Neanche una volta, neanche una volta”

Ma in mezzo a temi così divisivi c’è anche spazio per l’emotività e i sentimenti: Universo è la vera gemma dell’album, una sapiente composizione di tastiere, archi, riverberi e viaggi cosmici.

La docile rassegnazione dei Subsonica

In alcuni momenti del disco gli elevati bpm lasciano spazio anche a commoventi ballads come Missili e droni. Proprio in canzoni come questa le parole vengono sfruttate per esprimere quella naturale rassegnazione e percezione di piccolezza di sé rispetto agli eventi del mondo:

“Vorrei dissolvermi
In giorni pacifici”

L’album si chiude infine sulle note di Adagio. Quest’ultima, un calmo epilogo di ripetute tastiere distorte e parte della colonna sonora dell’omonimo film di Stefano Solima.

E con queste sonorità soffuse si chiude un lavoro che probabilmente rappresenterà uno dei migliori dischi italiani dell’anno. Con Realtà Aumentata si ha davanti un disco musicalmente uniforme, in grado di portarci in diverse dimensioni sonore e tematiche. E in fondo questo i Subsonica l’hanno sempre fatto.

 

Francesco D’Anna

Club Dogo, i capi sono tornati a casa!

Un album che letteralmente urla “Siamo Tornati Zio” – Voto UVM: 5/5

Come ci hanno lasciato i Club Dogo?

Sarebbe stato facile dire, fino a qualche anno fa, che non avremmo più sentito parlare del trio musicale più famoso di Milano, dopo Non siamo più quelli di Mi Fist. Titolo che suona come un epitaffio, un album che rivela l’evoluzione finale dei Club Dogo, collettivo che nel tempo gradualmente perdeva il suo scopo. In 13 anni si sono appollaiati sugli allori, sapendo di essere i migliori hanno deciso di dare il loro peggio per guadagnare di più, ed è cosi che dalle importanti Cronache di Resistenza (Mi Fist) siamo passati a Minc*ia Boh!

Tuttavia anche perdendo il peso liricistico, sono diventati con gli anni un simbolo del gangsta/coca rap italiano, dove alla denuncia sociale si sostituiva l’esaltazione dell’alcool, delle discoteche, dei soldi e la musica da club e da piazza.

Cover di “Club Dogo”. Casa discografica: Universal Music Italia Srl

La speranza è l’ultima a morire

Nel 2015 si è chiusa anche quella fase con un’apparente rottura tra i tre membri dei Club Dogo, di cui si sa tutt’ora molto poco. Rimane un dato di fatto che da allora non abbiamo mai assistito a un lavoro che contenesse tutti e tre i membri insieme. Eppure dopo tanto silenzio, tra interviste e citazioni nei pezzi, è venuto fuori che effettivamente l’affetto e la stima erano ancora vivi tra Guè Pequeño (Cosimo Fini), Jake La Furia (Francesco Vigorelli) e Don Joe (Luigi Florio).

In un’intervista di un paio di anni fa scopriamo che Jake ha sempre voluto tornare a lavorare con entrambi insieme ma a patto che fosse per riportare effettivamente il gruppo in gioco. Inoltre esigeva che fosse fatto per conto del gruppo e non sul disco di qualcun altro. A detta sua, Guè, che ha preso molto seriamente la sua carriera solista negli anni dopo l’ultimo lavoro fatto insieme, lo aveva contattato per farlo comparire nei suoi lavori personali, e ha sempre rifiutato. Fortunatamente questo fatto non è stato ragione di astio fra i due. Anzi è stato il meccanismo di riflessione che ha portato all’attesissimo ritorno del 2024 dei Club Dogo.

Come siamo arrivati a questo punto?

Guè ha avuto alti e bassi dal 2015 fino ad ora, iniziando la sua carriera solista quando i Dogo erano ancora insieme. La sua anima da rapper megalomane, rimasta ancora nei primi lavori (Il Ragazzo d’Oro, Vero) ha conosciuto l’avvento della trap, mutandosi in modo non molto decente in quella di un trapper di mezza età (se mi sentisse mi insulterebbe la madre), evento visibile in Sinatra e Gelida Estate EP. Ma ha anche ritrovato qualità e decenza con gli ultimi lavori (Mr.Fini, Fastlife 4, Gvesus, Madreperla) e con apparizioni in dischi di altri artisti e producers.

Jake, dal canto suo, subito dopo lo ‘scioglimento’ si è buttato sul commerciale in qualsiasi modo possibile, cimentandosi in qualsiasi stile andasse di moda in quel periodo. Addirittura è riuscito a fare lavori reggaeton e da discoteche in spiaggia, causando l’amarezza dei fan di una vita. Soltanto nell’ultimo paio di anni sembra essersi stancato di essere usato per i balletti su TikTok, tornando prima con un joint-album con Emis Killa (17) che fa tirare un sospiro di sollievo agli amanti del rap, e poi con un disco solista molto carino: Ferro del mestiere. Quest’ultimo segna il suo ritorno alle rime e alle barre hip-hop.

Infine Don Joe tra silenzi e sporadiche produzioni personali, si è reso artefice di diverse produzioni per tantissimi artisti della scena rap old e new-school e anche di quella pop italiana, ma più recentemente un producer album molto bello: Milano Soprano.

I Dogo durante una sessione di registrazione del nuovo album.

Come li ritroviamo adesso?

L’annuncio è arrivato completamente dal nulla, avevamo smesso tutti di pensarci e sperarci, ma è arrivato nel momento più ideale delle carriere dei tre membri. Tutti e tre hanno solo in testa l’hip-hop, le basi vecchia scuola col boom-bap, gli scratches, e l’autoreferenzialità. I Dogo si sentono i supereroi del rap, direttamente da Milano per l’intera Italia, tanto che prima ancora dell’album, la campagna pubblicitaria si è rivelata iconica e demenziale al punto giusto. Testimone il simpatico sketch con Claudio Santamaria e Beppe Sala.

“Club Dogo”, come suona?

L’album Club Dogo si presenta come un decentissimo ritorno, praticamente tendente ai primi album come Mi Fist o Penna Capitale. Manca purtroppo il peso sociale di quegli album ma compensa con l’attitudine e il volersi riportare al proprio posto nell’Olimpo del genere in Italia. E’ la conseguenza diretta dei diversi stili evoluti dei membri del gruppo. Sovverte completamente l’album con cui ci hanno lasciato nel 2015 e probabilmente anche quei due-tre prima di lui. I temi sono principalmente di critica al rap odierno, fatta anche con molto divertimento e ironia. I featuring sono ben selezionati, Marracash, Elodie e anche Sfera Ebbasta, hanno scritto strofe e ritornelli azzeccati per l’occasione.

A primo ascolto potrebbe sembrare un album un po’ piatto dove ogni canzone sembra quasi sullo stesso piano, senza una canzone che spicchi. Serve tuttavia almeno un altro ascolto per discernere bene la qualità di ogni singola traccia. Le prime quattro soprattutto, sono quelle che danno una botta di nostalgia difficile da gestire all’ascoltatore dogofiero storico. Un’altra di queste è Tu Non Sei Lei, la traccia più scura, sorprendente sia per il lavoro strumentale di Don Joe, sia per il tema. Una canzone che parla di amore marcio paragonato al male delle droghe pesanti.

“Club Dogo”, il come-back di Milano con la ‘M’ maiuscola

Una caratteristica molto particolare di questo album è che non ha tracce da radio. Incredibile a dirsi, anche i pezzi con i featuring non hanno un sound commerciale. Certo potrebbero essere passati in radio, ma mai come i loro pezzi più famosi e cantati. Questo non vuol dire che sia un brutto album, ma anzi che sia un disco ben mirato. Di sicuro è mancato poter ballare su una canzone come Pes, anche se King Of the Jungle si avvicina molto a quelle vibes estive e reggae.

E’ un disco che ha un target e uno scopo: è stato scritto per rieducare, per riabituare l’orecchio dell’adolescente al rap di qualità, o comunque davvero di strada (di piazza, nel caso dei Dogo). Ma anche per esaudire tutti noi che li aspettavamo cantando Puro Bogotà.

 

Giovanni Calabrò

Saltburn: la nuova grande opera di Emerald Fennel

Saltburn
Saltburn, arrivato di recente su Prime Video, sta facendo discutere e ha diviso l’opinione pubblica. Merita una visione. Voto UVM: 4/5

 

Saltburn è un film del 2023 prodotto da Margot Robbie (Babylon) ed è scritto e diretto da Emerald Fennell (Una Donna Promettente). È stato presentato in anteprima a vari Festival del cinema ed è stato poi distribuito direttamente su Prime Video, qualche settimana fa. Nel cast sono presenti Barry Keoghan (Gli spiriti dell’isola), Jacob Elordi, Rosamund Pike, Richard E. Grant, Alison Oliver e Carey Mulligan.

Saltburn: trama

2006. Oliver Quick (Barry Keoghan) frequenta l’Università di Oxford ma non riesce a integrarsi con gli altri studenti, per via del fatto che non appartiene alle loro stesse classi sociali. Un giorno conosce il popolare Felix Catton (Jacob Elordi) e il loro rapporto nasce poco a poco. Felix decide di invitare Oliver a trascorrere l’estate con la sua famiglia, a Saltburn. Lì conosce la sua eccentrica famiglia che riesce gradualmente a conquistare e trascorrerà un’indimenticabile estate. Ma poco a poco, cominceranno ad accadere cose strane e scandalose.

Saltburn
Jacob Elordi nel ruolo di Felix. Fonte: eaglescry.net

Emerald Fennell: una stella nascente nella regia

Emerald Fennell ha un futuro radioso che le aspetta, perché finora ha realizzato solo due pellicole molto particolari ed ha fatto centro in entrambe le occasioni. Ha tutte le potenzialità per unirsi alla schiera di registe donne affermate e contemporanee come Greta Gerwig o Sofia Coppola. Ha ancora molta strada da fare, però con due sole pellicole è riuscita a trovare un suo stile personalizzato che rende i suoi film non facili da dimenticare.

Fennell ha adottato uno stile pop che si manifesta con una fotografia coloratissima, con una luminosità camaleontica ogni tanto altalenante in base alla scena mostrata, ed una colonna sonora capace di entrare nella testa dello spettatore e rimanere impressa nella mente, anche nei giorni seguenti dopo la visione. A proposito di quest’ultimo effetto consequenziale, ciò avviene anche per il modus operandi adottato per la narrazione delle storie (originali e non tratte da opere) e per il messaggio che vuole trasmettere, inciampando ogni tanto sul didascalico.

L’attenzione ai dettagli

Fennell ha dimostrato una regia molto calma e curata nei dettagli,  ed ogni particolare è fondamentale nella storia che vuole raccontare. Il cinema è sempre un’arte e viene usata, oltre per raccontare una storia, per fare propaganda o semplicemente per diffondere un messaggio. La differenza sta nel come si vuole fare ciò e Fennell ha aggiunto al suo stile un tocco thriller molto crudo, tanto che lo spettatore rimane angosciato ed ancorato ad una riflessione che lo accompagna per giorni.

Nei due film di Fennell, si percepisce un ritmo lento ed una complessità narrativa, in cui ci si gira un po’ attorno per arrivare al movente prefissato ma al momento opportuno, spunta un plot twist inaspettato e viene fuori all’improvviso l’intento della regista. E si deve ammettere che funziona, sia dal punto di vista tecnico che in quello narrativo.

Saltburn
Barry Keoghan in una scena del film. Fonte: movieplayer.it

Di cosa parla Saltburn?

Con Promising Young Woman (Una Donna Promettente), Fennell ha analizzato tutte le dinamiche incentrate sullo stupro e degli effetti che sta portando alla società contemporanea (soprattutto, quelli che non si notano o peggio, si fa finta di non vedere). Stavolta, con Saltburn si sposta su un altro contesto e vuole mettere a nudo un’altra realtà che si nasconde dietro l’ipocrisia delle classi sociali più alte e sulla differenza tra tutte quelle che si collocano, nella scala gerarchica sociale.

L’ispirazione cinematografica e la solitudine

Il comparto tecnico è ben strutturato anche qui ed è simile a quello visto nel suo precedente film, solo che qui è leggermente un po’ più didascalico e la trama non è del tutto originale, perché prende spunto da qualche pellicola vista nel corso degli anni. Ad esempio, se si guarda il rapporto che si crea tra i due protagonisti, escludendo la mancata fisicità, ricorda quello visto in Chiamami Col Tuo Nome; oppure l’ipocrisia dei ricchi che si cerca di nascondere come la polvere sotto il tappeto ricorda Cruel Intentions. Però, è un difetto a cui ci si passa sopra e l’obiettivo della regista è stato raggiunto. E’ riuscita anche a far parlare di sé, perché ha diviso l’opinione pubblica e se ne sta parlando da giorni.

Saltburn non parla solo di differenze di classi sociali e dell’ipocrisia e dello scandalo che si cela dietro alcuni contesti, ma anche della continua ricerca di accettazione dagli altri e della solitudine. I due protagonisti, apparentemente diversi tra loro e provenienti da mondi diversi, in realtà sono molto simili e sono alla continua ricerca dell’accettazione altrui, solo che lo fanno in modo diverso. Tutto sommato, sono anche due poli opposti che hanno lo stesso problema: la solitudine. La differenza sta nel come la gestiscono e nella maschera che portano entrambi.

Un Barry Keoghan da Oscar

A proposito dei due personaggi, non si può ignorare l’incredibile performance dei due attori: Barry Keoghan e Jacob Elordi. Entrambi hanno un talento naturale e finora non hanno fatto altro che dimostrarlo, soprattutto Keoghan. Quest’ultimo fa un’interpretazione da Oscar, mentre Jacob Elordi sembra uscito da Euphoria e quindi, mantiene lo stesso carisma. Anche gli attori comprimari hanno fatto egregiamente la loro parte, al di là del proprio minutaggio.

Barry Keoghan in una scena del film. Fonte: manofmany.com

Saltburn: il finale

Anche qui, Fennell ha usato il tocco thriller, con l’aggiunta dello scandalo per rendere il film angosciante e al momento opportuno, c’è un incredibile plot twist che colpisce lo spettatore e ci sono delle scene che stanno facendo discutere e portare poi, ad una riflessione perenne.

Giorgio Maria Aloi

Maestro: Bradley Cooper torna alla regia

Maestro
Bradley Cooper ha curato tutto, in ogni minimo dettaglio. Se si deve trovare un difetto in Maestro, è il fatto che non riesce ad essere un film compreso da tutti. Ma era da un po’ che Netflix non distribuisse un film che arriva quasi al Capolavoro. voto UVM: 4/5

 

Maestro è un film del 2023 diretto, co-prodotto assieme a Martin Scorsese e Steven Spielberg, co-scritto ed interpretato da Bradley Cooper. E’ stato presentato in anteprima alla 80° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia ed ora è uscito su Netflix, esattamente il 20 Dicembre.

Maestro: trama

«Un’opera d’arte non dà risposte alle domande, le suscita. Il valore sta nella tensione delle risposte contraddittorie»- Leonard Bernstein

Maestro è un film incentrato su Leonard Bernstein (Bradley Cooper), o meglio, narra la storia d’amore tra lui e l’attrice Felicia Montealegre (Carey Mulligan). Tutto inizia nel momento in cui Leonard ottiene la più grande opportunità della sua vita: dirigere per la prima volta a soli 25 anni la New York Philarmonic, al palcoscenico della Carnegie Hall. Da qui, la sua carriera decolla e si costruisce con la direzione d’orchestra, la composizione di musica, lo studio e l’insegnamento della musica. Allo stesso tempo, conosce e vive una storia d’amore con Felicia, con la quale convoleranno a nozze e metteranno su famiglia. Ma la loro storia sarà piuttosto travagliata, perché Leonard cadrà spesso in tentazioni e vivrà avventure extra-coniugali ed omosessuali.

Maestro
Bradley Cooper in una scena del film. Fonte: corriere.it

La maturità di Bradley Cooper

Bradley Cooper ha una carriera completa e di tutto rispetto, dimostrando di essere davvero un attore maturo, nel corso degli anni. Ha dimostrato il suo talento in film come la trilogia di Una Notte Da Leoni, Il Lato Positivo – Silver Linings Playbook  e Nightmare Alley – La Fiera Delle Illusioni. Per di più, ha dimostrato anche di essere poliedrico, cimentandosi nel doppiaggio (Rocket nei Guardiani Della Galassia) o addirittura mettendosi alla prova come produttore, sceneggiatore e soprattutto come regista.

E a proposito della regia, chi si ricorda di A Star Is Born? Questo film lo ha visto nel duplice ruolo di attore e regista, affiancato dalla cantante Lady Gaga. Lì ha dimostrato una regia calma e sofisticata, raccontando una storia d’amore emozionante ed abbastanza insidiosa, oltre che a motivare il prossimo a saper sfruttare il proprio talento. Già in quell’occasione, ha dimostrato anche di avere un’altra grande passione: la musica. Dopo cinque anni, torna dietro la macchina da regia in un film che rimane attinente alla musica e raccontando anche qui, una storia travagliata.

Maestro si può definire il punto più alto della sua carriera e si vede che Cooper ci teneva particolarmente alla realizzazione di questo film. Con il suo bagaglio di esperienze ha potuto ottenere lo straordinario risultato che ha ottenuto nella pellicola, rispecchiando esattamente la sua passione e il suo impegno.

Maestro
Carey Mulligan e Bradley Cooper in una scena del film. Fonte: wired.it

Di cosa parla Maestro?

Come si è dimostrato in vari biopic, ciò che conta è come si vuole raccontare quella determinata storia possibilmente vera. L’inizio è mostrato con un ritmo un po’ lento e con una fotografia in formato 4:3 e con un bianco e nero che richiama il Neorealismo. Fin quando poi si passa ad un “aggiornamento” in cui vengono mostrati i vari colori e il trucco che ha reso lo stesso Cooper identico al vero Bernstein.

Dopo l’inizio della carriera di quest’ultimo e l’incontro con Felicia, ecco che viene mostrato il reale movente di Cooper: trasformare il biopic in un film sentimentale mirato a dare il giusto spazio ad entrambi i protagonisti e a scavare in profondità nell’animo umano di Leonard Bernstein. Voleva concentrarsi di più sulla vita privata di quest’ultimo e la relazione burrascosa con la moglie, fatta di tradimenti omosessuali da parte di lui, più che sulle varie esibizioni e sulla sua carriera musicale che formavano una “maschera” destinata poi a cadere. Vedendo il film, in cui la visione è accompagnata dall’ascolto delle musiche composte dal vero Bernstein, sorge il dubbio se amasse o meno sua moglie.

Nonostante i vari traguardi raggiunti, Bernstein sentiva un enorme vuoto dentro e cercava di colmarlo con l’amore verso la gente, ma questo amore lo portava sempre più lontano da Felicia interpretata da una bravissima Carey Mulligan (Una Donna Promettente). Lei, invece, è passata da essere una donna amorevole a una moglie ostile, ma allo stesso tempo per il bene dei figli, ha continuato a sopportare. Bernstein era combattuto tra i sensi di colpa e l’amore verso la gente, tanto che questo contrasto lo ha accompagnato fino alla fine dei suoi giorni.

 

Giorgio Maria Aloi

Santocielo, che miracolo!

 

Ficarra e Picone tornano con Santocielo al cinema ancora una volta con la loro innegabile e bizzarra comicità -Voto UVM: 3/5

 

Salvatore Ficarra e Valentino Picone sono un duo comico, tra i più amati d’Italia, emerso nel 1993. La loro forza comica affonda le radici, non in campo televisivo, quanto più all’interno di pub e cabaret siciliani attraverso una formazione teatrale da autodidatti.

La loro fama è accresciuta con la partecipazione a programmi televisivi quali Zelig Circus e, in tempi più recenti, Striscia la notizia. Il loro primo film, Nati stanchi, uscì nelle sale nel 2001. Da allora, mostrarono, e tutt’oggi mostrano, una grande versatilità in vari ambiti artistici. Seguirono: La matassa, L’ora legale, il 7 e l’8 ed anche serie tv come Incastrati. Ora ritornano sul grande schermo con Santocielo!

 

Santocielo
 Valentino Picone in una scena del film. Fonte: siciliafan.it

Santocielo che inversione!

Dopo l’ultimo successo de La stranezza, Ficarra e Picone proseguono con l’uscita nelle sale cinematografiche, il 14 dicembre, del nuovo film intitolato Santocielo, dalla stravagante comicità, distribuito da Medusa Film e con la regia di Francesco Amato. Si tratta di una commedia natalizia adattata in accezione moderna dove tutto ruota intorno ad una questione riportata dagli angeli: l’egoismo e le azioni belliche da parte degli uomini. Per venire a capo ad una soluzione, gli angeli decidono di indurre una assemblea e proporre un sondaggio tra diluvio universale vs la nascita di un nuovo Messia. Con la vittoria della nuova venuta al mondo, verrà meno la portata decisionale di Dio, interpretato da Giovanni Storti del trio Aldo, Giovanni e Giacomo (Odio l’estate), evento mai accaduto prima.

Qui, per la prima volta, vedremo come figura principale Aristide (Valentino Picone) che si offrirà come volontario a questa missione per poter passare ad un livello più alto del semplice smistatore di preghiere dei fedeli. Il suo obiettivo, infatti, era arrivare al coro nel regno dei cieli.

Dio donerà ad Aristide una serie di poteri, in particolar modo, consacrerà la sua mano per poter ingravidare una donna e, in seguito la celebre frase: “vado ingravido e torno”, verrà catapultato nell’abisso terrestre. In questo luogo, ambientato a Catania e a lui sconosciuto, verrà a profilarsi un equivoco divino, dato dai vizi della società, che lo porterà a mettere incinto un uomo, Nicola Balistreri (Salvo Ficarra). Quest’ultimo è un maschilista sofferente per il divorzio dalla moglie che lo porta a scontrarsi con il rigidismo cattolico presente all’interno della scuola in cui ricopre la carica da vicepreside.

Ficarra e Picone, fonte: pagina Instagram @ficarraepicone

 

Santocielo: il potere della fede

Aristide cominciò a tener d’occhio gli sbalzi umorali di Nicola, dati dalla gravidanza, e nel frattempo si occupò di seguire un corso corale che pian piano lo porterà a legarsi ad una suora, Luisa, (Maria Chiara Giannetta). Ammaliata così tanto dalla fede emanata da Aristide, lo bacerà, mettendo in discussione inizialmente il suo percorso spirituale. Al tempo stesso, la notizia di uomo incinto cominciò a girare, costringendo Nicola e Aristide a rintanarsi in casa finché Suor Luisa non li aiutò a scappare nella ridente località di Montalbano Elicona dove risiedevano i suoi genitori. Qui trovarono un umile paese, indisposto a livello ospedaliero, ma pronto ad accoglierli e aiutarli. Al momento del parto però Nicola deciderà di non rinchiudersi nella vergogna e dare alla luce il nascituro in un ospedale pubblico.

Ma il nuovo Messia è una femmina

Ebbene, non ci saremmo mai aspettati che il nuovo Messia fosse in realtà una femmina. Aristide finalmente può, anche se a malincuore, tornare “lassù” al regno dei cieli e tutto improvvisamente prende forma nel momento in cui confessa alla suora la verità. Capisce, dunque, che il bacio con Aristide non era una perdita di spiritualità ma solo una maggiore attrazione ad essa. In sostanza, anche in questo caso assistiamo ad un rovesciamento dei canoni tradizionali in campo religioso: l’entrata di una donna Messia!

Santocielo
Ficarra e Picone, fonte: pagina Instagram @ficarraepicone

 

Uso dell’ironia dissacrante per rompere le barriere mentali

Santocielo si profila sicuramente come una commedia incentrata sul paradosso e lo stravagante, dal retrogusto amaro, ma che cerca fondamentalmente di abbattere i pregiudizi in primis sulla cristianità, senza fare la morale a nessuno. Al giorno d’oggi, la fede cristiana viene vista come una dottrina dominata da regole imprescindibili quando in realtà, come espliciterà Suor Luisa, la fede è uno strumento per sentirci meno soli dove non è importante se lassù qualcuno ci ascolta o meno. Parole che risuonano come incoraggiamento al senso di unione e comunità e di accettazione verso moderne regole. In conclusione, Santocielo inaugura un sentimento di una nuova speranza, soprattutto in questo tempo soggetto all’omologazione.

Stefy Saffioti

Willy Wonka, la nuova rappresentazione perbenista del personaggio

Wonka
Nuova versione della storia di Willy Wonka, ironica, divertente e anticonformista. Voto UVM: 2/5

 

Quest’anno alla magia del Natale si unisce anche la magia del cinema con Wonka, prequel sullo stravagante Willy Wonka. Dopo Gene Wider nel 1971 e Johnny Depp nel 2005, ora è Thimothee Chalamet ad interpretare il personaggio ideato da Roald Dahl nel suo romanzo La fabbrica di cioccolato. Wonka, distribuito nei cinema italiani dal 14 dicembre, è diretto da Paul King e vanta un cast d’eccezione: oltre alla presenza di Chalamet, nuova stella di Hollywood, ritroviamo anche Olivia Colman (la regina Elisabetta in The crown), Hugh Grant e Sally Hawkins (La forma dell’acqua).

Willy Wonka: dolce come un cioccolatino

Thimothee Chalamet (Dune, Bones and all) non poteva che essere un Willy Wonka anticonformista; giovane, di bell’aspetto e soprattutto ingenuo. Diversamente dalle versioni precedenti questo aspirante cioccolataio, lui è un mix di tanti ingredienti, quasi come quelli che Wonka utilizza per fare il cioccolato. In questo modo, riesce a distinguersi e a distaccarsi dalle altre precedenti rappresentazioni cinematografiche del personaggio.

Wonka
Thimothee Chalamet in una scena del film. Fonte: Warner Bros.

Sa sa sa prova

Se l’iniziativa è quella di andare a vedere la fabbrica di cioccolato, dovete sapere che si tratta di… un musical, e mi spiace ammettere che la scelta di tradurre le canzoni in italiano, forse non è stata un’ottima idea. La traduzione dei brani ha fatto perdere parte della magia che veniva magari trasmessa maggiormente dai testi originali.

Per cui, abbiamo un Willy Wonka interpretato da Thimothee Chalamet che, in generale, all’apparenza sembra abbia 18 anni piuttosto che 27 (è chiaramente un complimento), un musical in italiano e uno dei personaggi principali alto un metro e venti, una bambina. Sembra che questa pellicola strizzi l’occhio proprio al pubblico più piccolo, soprattutto perché rende accessibile a tutti la storia, grandi e piccini.

NoodleS per tutti

Pochi minuti dopo l’inizio del film entra in scena un personaggio che il pubblico non saprebbe  se identificare come quello principale. La storia di Willy Wonka diventa la storia di Noodle, una bambina rimasta orfana e condannata a vivere una vita rinchiusa in una lavanderia, gestita da una signora alquanto avida e per molti versi furba, la signora Scrubbit; la stessa che trarrà in inganno il povero signor Wonka. Probabilmente in un’altra vita avrà conseguito la laurea in legge, perché proprio per via di un contratto, anche Willy resterà suo prigioniero.

Meno cento punti a Grifondoro!

In verità, pensare ad Harry Potter nel momento in cui il titolo del biglietto acquistato è un altro, la trovo un po’ un’eresia, ma l’atmosfera che crea Wonka sembra essere paradossalmente simile! Si potrebbe pensare che il tocco di David Heyman, produttore di tutte ed otto le pellicole della serie cinematografica sul mago più famoso del mondo, sia diventata una testata.

Probabilmente manca quel piccolo accenno di oscurità del personaggio che dava unicità al film e allo stesso protagonista. L’aspetto più importante di Wonka sembra venir meno e di conseguenza la riuscita della pellicola fallisce nell’intento. Mentre questa sfumatura cupa sembra essere sviluppata ampliamente nella versione de La fabbrica di cioccolato diretta dal noto regista Tim Burton con Jonny Depp, qui sembra venire a mancare del tutto.

Momento perfetto, tempismo sbagliato

In un’epoca storica come questa, con la sensibilità di adesso, rivisitare un film del genere deve cercare di comunicare qualcosa al pubblico, ma in maniera più completa e marcata. Willy Wonka, descritto sia nei libri che nei film, è una persona che si nasconde dietro il suo difficile modo di esprimersi e rapportarsi al mondo, ma che paradossalmente mette in luce una serie di realtà. Probabilmente una scelta azzardata ma non da scartare potrebbe essere una seconda visione, per apprezzare di più la pellicola.

Asia Origlia