Il Robot Selvaggio: tra Artificio e Natura

Il robot selvaggio è un film che unisce sapientemente il classico e l’innovazione
Voto UVM: 5/5

 

Il Robot Selvaggio è un film d’animazione del 2024 targato Dreamworks, scritto e diretto da Chris Sanders (regista di Lilo & Stitch Dragon Trainer). È l’adattamento dell’omonimo libro scritto da Peter Brown.

Il Robot Selvaggio: Trama e personaggi

Il film narra le vicende dell’unità robotica ROZZUM 7134, detta Roz (nella versione italiana la voce è di Esther Elisha). Prodotta dalla Universal Dynamics, quest’unità, così come le altre della linea ROZZUM, è stata programmata per aiutare noi umani a svolgere le più svariate mansioni. Un giorno il mezzo che trasportava Roz e altre unità ROZZUM si schianta su un’isola dalla natura incontaminata. Qui il robot dovrà riuscire a “sopravvivere” in un ambiente per il quale non è stato programmato e, soprattutto, dovrà capire come fare da “madre” a Beccolustro, un’ochetta trovata da Roz stessa a seguito di un incidente. Ad aiutare Roz ci sarà anche la volpe Fink, dapprima interessata a sfruttare il robot per le sue comodità, finendo poi per affezionarsi davvero sia al robot che a Beccolustro.

La nascita di Beccolustro. Fonte: UCI Cinema

Istinto e programmazione

Uno dei temi principali del film è la relazione tra natura e tecnica, entrambe rappresentate nelle loro forme più pure: la foresta incontaminata e il robot. Da un lato, puro istinto di sopravvivenza, dall’altro una macchina che segue pedissequamente un codice preimpostato. Due modi di stare al mondo apparentemente molto diversi, ma in fondo nemmeno troppo, poiché anche gli animali, per la sopravvivenza, seguono quella che Roz definisce la loro programmazione. Ma se il robot è programmato per aiutare gli esseri viventi, gli animali sono programmati per autoconservarsi. Persiste un’importante differenza: gli animali mostrano comunque di sapersi adattare ed essere flessibili. Questo non vale per i robot, i quali, eccezion fatta per Roz, seguono in maniera rigida e inflessibile la loro programmazione, dimostrando di possedere un’intelligenza (artificiale) che dopotutto intelligente non è.

Adattarsi

Roz è un robot costruito apposta per portare a termine l’incarico che gli viene assegnato. Ma il destino le riserva un compito davvero difficile: quello di genitore. La genitorialità però, non è iscritta in nessuna sua programmazione, ed esiste un solo modo per assolverla: adattarsi, come dice una madre opossum incontrata da Roz. Il robot è quindi costretto ad andare oltre la sua programmazione, che comunque rimane alla base della sua personalità, ma non è più un semplice insieme di protocolli. Non è più un’intelligenza artificiale, lineare nei suoi algoritmi, ora diventa quella che potremmo chiamare intelligenza adattiva. Roz non sarà il solo personaggio a seguire questo percorso, anche gli animali impareranno qualcosa da lei, ma di questo non voglio anticipare niente, lascio al lettore il compito di scoprirlo guardando la pellicola.

Roz e Fink cercano di crescere Beccolustro. Fonte: Dreamworks, Universal Pictures

Non Cosa raccontare, ma Come raccontarlo

Fino a qui, il film non pare nulla di nuovo: in effetti, la storia non è così rivoluzionaria. Viene però rappresentata in maniera eccellente e con introspezione immediata. Un ingrediente della pellicola che mantenendo leggerezza e bellezza, porta il giovane spettatore alla facile comprensione e l’adulto alla riflessione. Le animazioni sono una gioia per gli occhi, e sfruttano alcune delle tecniche più recenti che stanno rinnovando l’estetica occidentale dei film d’animazione. A ciò si aggiunge la colonna sonora, di Kris Bowers, la quale si accompagna perfettamente ai momenti principali del film, coinvolgendo lo spettatore nelle scene emotivamente più alte della pellicola. È anche facile ritrovarsi nei personaggi, tutti mossi dal medesimo scopo: trovare il proprio posto, obiettivo un po’ di tutti. Questo film ci ricorda che non è tanto il cosa racconti, ma il come lo racconti a fare la differenza.

Conclusioni su Il Robot Selvaggio

In conclusione, Il Robot Selvaggio vale il prezzo del biglietto, anche già solo per il comparto tecnico, il quale è un vero spettacolo. Inoltre, c’è tanto altro da dire sul film, che volutamente ho omesso proprio per non rovinare la visione a chi volesse recuperarlo. La pellicola ha tanto da dire un po’ a chiunque, come ogni opera d’arte degna di tale nome dovrebbe riuscire a fare.

 

 

Alberto Albanese

Megalopolis: il “film della vita” di Coppola è Cinema ma non convince

Megalopolis
Un film che dal punto visivo coinvolge e che con un linguaggio particolare vuole lanciare un messaggio, ma lo fa con ritmo discontinuo e risultando anche “fuori tempo” Voto: 3/5

 

Megalopolis è un film del 2024 scritto, autofinanziato, prodotto e diretto da Francis Ford Coppola (regista di film come Apocalypse Now, o la trilogia de Il Padrino). È stato presentato in anteprima al Festival di Cannes tenutosi lo scorso Maggio e anche di recente, al Festival Del Cinema Di Roma, dove ha rilasciato una stupenda intervista.

Il cast è composto da Adam Driver, Giancarlo Esposito, Nathalie Emmanuel, Aubrey Plaza, Laurence Fishburne, Dustin Hoffman, Shia LaBeouf, Jon Voight.

Trama

Cesar Catilina (Adam Driver) è una delle persone più importanti di New Rome, affermato architetto che ha vinto il Premio Nobel per aver inventato il Megalon, un materiale capace di far avere una visione futura della città, che appare piuttosto rivoluzionaria. È ingiustamente accusato di aver avuto un ruolo nel suicidio della moglie dal procuratore distrettuale Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito). Quest’ultimo è divenuto sindaco e vuole ostacolare a tutti i costi il progetto architettonico di Cesar, che consiste nell’utilizzo del Megalon per restaurare la città e costruire Megalopolis, per mantenere una visione conservatrice e non lasciare che la città progredisca. Cesar ha l’appoggio di suo zio Hamilton Crassus III (Jon Voight), mentre suo cugino Clodio (Shia LaBeouf) cerca di ostacolarlo con una campagna politica. Julia (Nathalie Emmanuel) è la figlia del sindaco, diverrà presto l’amante di Cesar e questo la porterà a ritrovarsi combattuta tra quest’ultimo e suo padre Franklyn.

In tutto questo, la città sta arrivando sempre di più verso la decadenza.

Megalopolis, osare alla maniera di Francis Ford Coppola

Nel bene e nel male, Francis sa come fare il regista e il suo tocco ha dato una svolta non indifferente alla storia del cinema. Appartenente alla categoria di registi che hanno formato la nuova Hollywood (la stessa dove si annoverano anche Steven Spielberg, Martin Scorsese, Stanley Kubrick), Coppola è sempre stato un uomo che adora fare cinema e nonostante abbia avuto diverse difficoltà nella vita e non tutti i suoi film siano stati dei successi, non si è mai arreso e ha sempre voluto osare o sperimentare alla regia, uscendo sempre a testa alta. La sua passione per il cinema si vede dai suoi prodotti e dal suo stile osmotico. I suoi film uniscono intelletto, bellezza, stile ed emozione e riescono a toccare sia la mente che il cuore, con un tocco che include sia la poetica che la drammaticità e che garantisce uno spettacolo visivo e sentimentale.

Anche nel “peggiore” dei suoi film si percepisce ciò e che non è infallibile lo ha dimostrato ora nel suo “film della vita”: Megalopolis.

Megalopolis
Veduta di New Rome.  Fonte: Eagle Pictures

 

Il Caso “Megalopolis”

In un’epoca difficile come questa, il cinema sembra che punti più sui guadagni che sulla comunicazione. Questo non sta a significare che sia un male ed è giusto che ci siano i prodotti d’intrattenimento (che possono essere anche questi di qualità), ma non si deve perdere la vera magia del cinema e l’amore per esso.

Registi come Coppola hanno un problema, ossia sono rimasti ancorati a vecchie tradizioni (nobilissime) senza adeguarsi alla contemporaneità. Ciò porta le case di distribuzioni a non scommettere tanto su di loro, il che rende assurdo che il regista de Il Padrino faccia fatica a lavorare e che debba autofinanziarsi un progetto verso cui credeva tantissimo. Investire diverso tempo e molti soldi per il “lavoro della vita” può portare ad un grande risultato, ma solo perché si parla di Coppola non significa che sia per forza un capolavoro.

Megalopolis
Cesar Catilina (Adam Driver). Fonte: Eagle Pictures

“Megalopolis” è cinema con la C maiuscola, ma capace di far discutere

Megalopolis è cinema con la C maiuscola, una di quelle pellicole che comunicano messaggi con un linguaggio non troppo semplice ed estetica ricercata. E’ palese che il regista ci tenesse a realizzare una pellicola che avesse idee sue personali da inserire nei personaggi. Una denuncia alla società contemporanea su tutti i fronti, rappresentata qui come un’antica Roma che fa fatica ad adeguarsi ai tempi che corrono. L’odissea che ha dovuto affrontare Coppola nella realizzazione del suo progetto viene raccontato con una favola metaforica. Anche il personaggio di Cesar ha delle similitudini con Coppola stesso, è un uomo che ha una grande visione che non viene compresa da tutti.  Un uomo che deve fare i conti con il tempo che scorre e con la difficoltà di adeguatezza che lo contraddistingue. Megalopolis è una pellicola che mostra una visione del futuro già passata e quindi “fuori tempo”.

La trama del film è semplice, ci si può fare un’idea sugli ideali del regista, ma è lontano dall’essere definito un capolavoro. Alcuni errori sono stati commessi, come un ritmo discontinuo e con una mancata cura nella scrittura di qualche personaggio.

Un film forse già vecchio

Se da una parte si può considerare una storia che rispecchia il regista, con la sua visione e il suo stato d’animo, dall’altra questo mancato adattamento ai tempi che corrono hanno reso Megalopolis un film già “vecchio” ancor prima che uscisse, perché la visione sul futuro è una visione già passata. Megalopolis è un film destinato a far dividere e a far discutere, perché non sarà compreso da tutti, naturalmente. C’è chi lo definirà un capolavoro e chi invece, un pasticcio confusionario con delle scene che sfiorano anche il trash, in alcuni momenti.

Ma lo si può anche considerare un film che attira l’attenzione e che riesce trasmettere qualcosa, notando tuttavia anche difetti che stonano con la pellicola, su alcuni fronti.

 

 

Giorgio Maria Aloi

 

 

 

 

 

 

 

I Dream Theater e il loro “incubo d’una notte di mezza estate”

Night Terror dei Dream Theater è una cavalcata musicale da brivido catturata in poco meno di dieci minuti di ascolto. Voto UVM: 5/5

I Dream Theater, band progressive metal vincitrice di un Grammy, hanno rilasciato il loro nuovo singolo Night Terror, tratto dall’album Parasomnia. Il disco, – il primo dopo 15 anni con l’iconica formazione originale composta dal cantante James LaBrie, dal chitarrista John Petrucci, dal bassista John Myung, dal tastierista Jordan Rudess e dal batterista Mike Portnoy dopo Black Clouds & Silver Linings del 2009, – è stato prodotto dal chitarrista John Petrucci, progettato da James “Jimmy T” Meslin e mixato da Andy Sneap, con Hugh Syme nuovamente alla direzione creativa della copertina. “Parasomnia” è un termine che indica disturbi del sonno dirompenti, tra cui sonnambulismo, paralisi del sonno e terrori notturni. Il nuovo singolo si presenta, infatti, come un viaggio sonoro che affronta il tema della paralisi, un’esperienza che molti di noi hanno vissuto almeno una volta nella vita.

Parasomnia: il ritorno alle origini dei Dream Theater

Il ritorno di Mike Portnoy ha suscitato grande entusiasmo tra i fan, – per la prima volta, dopo anni, la band suonerà in formazione originale questo 26 ottobre al Palazzo dello Sport di Roma. È forte la presenza di Mike in Night Terror, dove la sua batteria potente e precisa si intreccia perfettamente con le complesse linee di chitarra di John Petrucci e le tastiere atmosferiche di Jordan Rudess, mentre la voce di James LaBrie, sempre espressiva e dinamica, guida l’ascoltatore attraverso un paesaggio sonoro ricco di emozioni contrastanti. Il testo di Night Terror è un’immersione profonda nei meandri dell’inconscio. La canzone inizia con immagini vivide di ragni che cercano riparo e svaniscono con l’alba, simboli di paure che si dissolvono alla luce del giorno. Tuttavia, il sollievo è solo temporaneo, poiché il protagonista si ritrova intrappolato in un ciclo di angoscia notturna.

La canzone descrive una serie di torture fisiche e mentali, con riferimenti a martiri sacrificali e processi notturni col fuoco. Tutte immagini che evocano un senso di impotenza e disperazione, mentre il protagonista lotta per liberarsi da un incubo senza fine.

“Night terror, hysteria, nocturnal trial by fire”

È attraverso la continua ripetizione di questa frase nel ritornello che la band sottolinea la natura ciclica e inesorabile di questi terrori notturni.

Dream Theater
Dream Theater: la band al completo. Fonte: vice.com

L’architettura onirica di Night Terror

Musicalmente, Night Terror è un capolavoro di progressive metal. La canzone si apre con un’introduzione strumentale che crea un’atmosfera inquietante, seguita da un crescendo di intensità che culmina in un assolo di chitarra mozzafiato di Petrucci. La sezione ritmica di Portnoy e il basso di John Myung forniscono una base solida e dinamica mentre le tastiere di Rudess aggiungono strati di complessità armonica.

I Dream Theater non sono nuovi nell’esplorare temi oscuri e complessi. Night Terror richiama alla mente brani come A Nightmare to Remember e The Dark Eternal Night, che trattano anch’essi di esperienze traumatiche del sonno. Ma questo singolo, in questo momento, rappresenta un qualcosa di più per la band: è una testimonianza della continua evoluzione dei Dream Theater e della loro capacità di creare musica che non solo intrattiene ma sfida e ispira. Con il ritorno di Mike Portnoy, la band sembra aver ritrovato una nuova energia e un rinnovato senso di unità. Questo brano è un must per tutti i fan del progressive metal e un’aggiunta preziosa al già ricco repertorio dei Dream Theater. Buon ascolto e, per chi li ascolterà il 26 ottobre a Roma, buon concerto!

 

Domenico Leonello

“Iddu”: Fotografia dell’ultimo latitante

"Iddu"
Un film che vuole scavare a fondo nella psiche di Matteo Messina Denaro e lasciare una riflessione sulla dinamica sociale presente, anche sfiorando l’immaginazione – Voto UVM: 3/5

 

Iddu – L’ultimo Padrino è un film del 2024, diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, con protagonisti Elio Germano e Toni Servillo. Distribuito da 01 Distribution e prodotto da Rai Cinema e Indigo Film , è ispirato a un momento specifico della latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro. E’ stato presentato in anteprima lo scorso 5 Settembre alla 81° Mostra d’arte cinematografica di Venezia ed è arrivato nelle sale il 10 Ottobre.

Trama di “Iddu”

Sicilia, primi anni 2000, Catello Palumbo (interpretato da Toni Servillo), condannato per concorso esterno ad associazione di tipo mafioso, esce dal carcere dopo aver pagato il suo debito con la giustizia. Ritornato a casa dalla sua famiglia, viene messo in contatto con i servizi segreti che gli propongono di collaborare alla cattura del suo figlioccio, ovvero Matteo Messina Denaro (interpretato da Elio Germano), che è in latitanza da diversi anni.

Di conseguenza, Catello inizia a scambiarsi dei pizzini con lui (quest’ultimo stanco della sua vita da latitante) e spera che in uno di questi venga rivelato per sbaglio il suo nascondiglio o che riesca a proporgli un incontro, in modo da farlo uscire allo scoperto e permetterne la cattura.

“Iddu”: un insolito film di mafia

Questo film non vuole rappresentare la verità assoluta, anzi non lo è affatto. È una possibile chiave di lettura che riesce a raccontare degli avvenimenti accaduti, mostrati con uno stile romanzato. Proprio per questo si consiglia, prima o dopo la visione di informarsi su questo personaggio e su tutto ciò che lo riguarda.

I due registi hanno deciso di prendere un momento specifico della vita di Messina Denaro per mettere in risalto la psicologia del noto criminale e capire cosa l’ha spinto a compiere quelle azioni. Un film ispirato a fatti realmente accaduti ma narrati con un tono autoriale e a tratti fantasioso trova anche spazio per la “possibile” umanità di questo personaggio.

“Bisogna stare attenti ai valori trasmessi. Dietro ogni azione maligna c’è un essere umano” – Elio Germano all’81ª edizione del Festival di Venezia

Inoltre pone anche un aspetto riflessivo sulla condizione sociale di oggi e, guardando al passato, ci si rende conto che la situazione non è così differente.

“Uno dovrebbe domandarsi com’è possibile che da questo universo così miserabile, da questi narcisismi così squallidi, nasca un potere che tiene in scacco un isola intera, una regione intera e un intero paese”. – Toni Servillo nell’intervista al podcast “ArteSettima”

 

 

"Iddu"
Toni Servillo nei panni di Catello Palumbo Fonte: AGENsir

 

I Due Pilastri

Una carta vincente di questa pellicola è sicuramente l’incredibile performance dei due attori protagonisti, appunto Elio Germano e Toni Servillo.

Germano fin dagli inizi ha dimostrato di avere delle capacità che gli permettono di entrare nel profondo dei personaggi che interpreta. Peraltro questa sua capacità gli ha consentito di interpretare nel corso della sua carriera diversi personaggi realmente esistiti (come ad esempio Giacomo Leopardi ne “Il giovane favoloso”, Nino Manfredi ne “In arte Nino”, Giorgio Rosa ne “L’incredibile storia dell’isola delle rose”, Antonio Ligabue in “Volevo nascondermi” ed Enrico Berlinguer ne “Berlinguer – La grande ambizione” che uscirà al cinema il 31 ottobre). Nel caso specifico di “Iddu”, la sua abilità mimica e il suo impegno nell’apprendere il dialetto trapanese ha reso l’interpretazione molto convincente.

Stesso discorso si può fare anche per Servillo che riesce anche lui, con una modalità differente, ad essere impeccabile in ogni ruolo. Anche nella sua filmografia troviamo interpretazioni su personaggi realmente esistiti (ad esempio Giulio Andreotti ne “Il Divo”, Silvio Berlusconi in “Loro”, Luigi Pirandello ne “La Stranezza” e prossimamente Giuseppe Garibaldi ne “L’abbaglio”).

Attraverso due metodi differenti (quelli di Stanislavskij e Brecht), Germano e Servillo riescono ad immedesimarsi nei due personaggi che, seppur distanti fisicamente per buona parte del film, sono comunque uniti da un filo conduttore che si manifesta con lo scambio dei pizzini. La pellicola trova spazio per entrambi gli archi narrativi: da un lato un uomo stanco della sua condizione di vita e che mostra la sua umanità, dall’altra un uomo mosso dalla paura di perdere tutto quello che ha.

Inoltre questo film può vantare la presenza di altri comprimari come Barbora Bobulova, Fausto Russo Alesi, Tommaso Ragno, Vincenzo Ferrara, Betty Pedrazzi e Maurizio Bologna.

Iddu
Catello Palumbo(Toni Servillo) e Mattia Messina Denaro (Elio Germano). Fonte: La Biennale di Venezia

Lo Scopo sociale del Film

Al di là di tutto, questo film non ha lo scopo di raccontare verità assolute sulla mafia, esso non ne rappresenta. Con un ritmo ben serrato e una sfumatura vicina alla commedia, accompagnata dalla colonna sonora del cantautore siciliano Colapesce, la pellicola riesce tuttavia a portare lo spettatore ad una riflessione profonda su un fenomeno che è come un cancro che non si riesce a estirpare del tutto. La mafia è come un’ombra: anche senza vederla è sempre in mezzo a noi.

 

Rosanna Bonfiglio

Giorgio Maria Aloi

Vermiglio, antica poesia tra amore e guerra

Vermiglio
Vermiglio: un piccolo capolavoro in grado di catapultarci indietro nel tempo, laddove sono collocate le radici stesse della Storia del nostro Paese. – Voto UVM: 5/5

 

Si è conclusa da poche settimane l’ottantunesima edizione del Festival del Cinema di Venezia, un edizione che ha visto come protagonisti nuove straordinarie proposte e grandi titoli come l’attesissimo sequel del Joker di Joaquin Phoenix Joker Folie a Deux o come Iddu di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza che vedrà il ritorno di Toni Servillo sul grande schermo. Tra tutti però anche una piccola perla è riuscita a spiccare aggiudicandosi non solo un enorme successo di pubblico e critica ma anche due premi di grande importanza, sto parlando di Vermiglio di Maura Delpero, un piccolo capolavoro in grado di catapultarci indietro nel tempo in atmosfere antiche e rurali laddove sono collocate le radici stesse della Storia del nostro Paese.

Una profonda storia d’amore in tempo di guerra

Siamo nelle fredde lande del Trentino e nel mondo echeggia il boato agghiacciante della Seconda Guerra Mondiale ormai però sul punto di concludersi, nel piccolo villaggio di Vermiglio la vita in ogni caso scorre lentamente finché due giovani soldati acciaccati dalla guerra, i siciliani Pietro, interpretato dal messinese Giuseppe De Domenico, e Attilio giungono sotto l’occhio critico di gran parte degli abitanti, sarà in quel momento che la vita di Pietro si incrocerà con quella di Lucia (Martina Scrinzi) e della sua numerosissima famiglia dalla quale ne nascerà una profonda storia d’amore

La storia che Maura Delpero costruisce si dimostra dunque uno
scrigno prezioso dove anche gli elementi più distanti e diversi riescono magicamente a coesistere; guerra e amore, morte e vita, e si manifesta alla perfezione nel momento in cui il maestro del paese e padre di famiglia interpretato da uno straordinario Tommaso Ragno ascolta e invita ad ascoltare i suoi brani di musica classica mentre nel resto dell’Europa impera la guerra, oppure nel momento in cui nonostante tutto il villaggio si riunisce in festa per celebrare Santa Lucia e soprattutto nel momento in cui Pietro, un uomo afflitto fisicamente ed emotivamente dall’orrore della guerra riesce a trovare la forza per tornare ad amare, regalandoci dunque una meravigliosa unione sensibile e romantica tra nord e sud Italia, anche questo aspetto estremamente difficile a quel tempo.
Pietro e Lucia in una scena del film
Pietro e Lucia in una scena del film

Un sogno proveniente dal passato

Appare evidente come nessun dettaglio sia stato lasciato al caso, si riesce a percepire alla perfezione il gelo delle montagne trentine innevate così come la brezza marina nel mare di Sicilia, ma soprattutto l’atmosfera antica e rustica che si riesce a respirare dall’inizio alla fine del film, e non è un caso perché è da quella realtà che viene Maura Delpero, dal profondo Trentino, nel dopoguerra e da una famiglia molto numerosa.
Ci troviamo, infatti, davanti ad uno speciale racconto ispirato alla sua infanzia, non una storia vera ma una storia ispirata da un sogno che, a detta della stessa regista l’ha portata indietro nel tempo a riscoprire la sua famiglia sotto un altro aspetto, un sogno felice in un momento di tristezza a seguito del lutto del padre (anch’egli maestro del paese) e di conseguenza una storia proveniente direttamente dal cuore e dai ricordi della straordinaria Delpero. 

Un orgoglio messinese al Festival di Venezia 2024
Giuseppe De Domenico nei panni del silenzioso e sensibile Pietro ha rappresentato poi un orgoglio tutto messinese prendendo parte in maniera rilevante a questo straordinario progetto, nel ruolo per altro complesso di un personaggio dal passato nefasto e dal futuro incerto che non può far altro che vivere il presente comunicando e manifestando il suo amore per Lucia quasi esclusivamente con gesti ed espressioni.
 L’attore messinese, per altro, ci ha dato il privilegio della sua presenza venendo alle proiezioni di Domenica 22 al cinema Iris per presentare il film e per donarci anche qualche piccola preziosa chicca sulla sua interpretazione, sul backstage in generale e sull’esperienza al Festival del Cinema di Venezia.
L’attore Giuseppe De Domenico con il direttore del cinema Iris Umberto Parlagreco
L’attore Giuseppe De Domenico con il direttore del cinema Iris Umberto Parlagreco

Vermiglio: una storia preziosa dagli echi neorealisti

È un opera tanto emozionante quanto originale e particolare quella che Maura Delpero porta sul grande schermo, la scelta di attori per lo più non professionisti e l’abbondante presenza di bambini tutti ovviamente trentini e l’uso esclusivo del dialetto stretto del posto che ha portato addirittura all’esigenza dell’aggiunta dei sottotitoli fa di questo film un opera che riesce quasi a rimandare ai grandi capolavori del Neorealismo, non a caso dunque aggiudicandosi il Gran premio della giuria e il Green Drop Award al Festival del Cinema di Venezia scaturendo già alla prima visione l’entusiasmo della critica.
È un opera preziosa, una piccola perla del cinema italiano contemporaneo che ha visto per altro sbocciare una nuova figura femminile alla regia di un grande capolavoro, un viaggio delicato e intrigante nell’Italia che fu che merita assolutamente di essere visto!
Marco Castiglia

The Crow – Il Corvo: l’eroe simbolo dell’underground può diventare mainstream?

The Crow - Il Corvo
Rupert Sanders con “The Crow” prende una direzione del tutto nuova. Ha saputo individuare e perfezionare le falle del film precedente ma, in quanto interpretazione originale, ha i propri punti deboli. – Voto UVM 4/5

 

Bill Skarsgård (IT, John Wick 4) è The Crow, il leggendario personaggio della graphic novel di James O’Barr, rivisitato in questa nuova versione cinematografica diretta da Rupert Sanders, nelle sale dallo scorso 28 agosto.

Sinossi

Eric Draven e Shelly Webster vengono brutalmente assassinati da una banda di criminali. Avendo la possibilità di salvarla dagli inferi sacrificando se stesso, Eric cerca vendetta, attraversando il mondo dei vivi e quello dei morti per “rimettere a posto le cose sbagliate”.

Il Corvo
Bill Skarsgård in The Crow – Il Corvo (2024) Larry Horricks/Lionsgate

Un remake necessario?

Eric Draven (Skarsgård) e Shelly Webster (FKA Twigs) ci sono ormai familiari con i volti di Brandon Lee e Sofia Shinas per la loro celebre performance nella versione della pellicola del 1994, un vero e proprio cult senza tempo.

Siamo però di fronte a un’arma a doppio taglio: se la fama che li precede stuzzica la curiosità degli appassionati, un remake si presta a inevitabili paragoni e basse aspettative.

C’è da tenere in conto che l’adattamento precedente, parlando specialmente ad un pubblico underground, risultava perfettamente inserito in una fetta della cultura della sua epoca. A chi si rivolge oggi il remake? La risposta è la Gen Z, ma stavolta si punta più al mainstream.

Un eroe “meravigliosamente a pezzi”

Interessante scelta d’interprete, che si accosta bene all’idea originale di O’Barr: il fumettista si era ispirato al volto di Peter Murphy e al corpo di Iggy Pop per caratterizzare Eric con tratti marcati.  Skarsgård poi, si è sempre distinto per ruoli psicologicamente complessi e sfaccettati, e l’ultimo non è da meno.

Il tenebroso vendicatore dal fascino gotico a cui ci ha abituati Brandon Lee ha lasciato il posto a un anti-eroe più contemporaneo, vulnerabile e pessimista. Il Non può piovere per sempre adesso si trasforma in un Piangi ora, piangi dopo.

Eric è “meravigliosamente a pezzi”, come lo definirà Shelly. Anche lei, spogliata della sua perfezione eterea e resa una donna moderna, incontra Eric in un centro di recupero.

The Crow - Il Corvo
Bill Skarsgård in The Crow – Il Corvo (2024) Larry Horricks/Lionsgate

Il male ha un nuovo volto

Ecco uno dei grandi meriti di questa versione: gli antagonisti, Vincent e Marian, non sono più una coppia di vampireschi delinquenti con il gusto per il macabro. Sono ricchi malavitosi, con una vera e propria armata di scagnozzi al loro servizio. C’è poi del soprannaturale: parliamo di un patto col diavolo. La vita eterna di Vincent in cambio della dannazione degli innocenti che uccide.

La melodia della vendetta

Largo spazio allo splatter, al sangue sulla cinepresa, ad organi in vista e a spettacolari scene d’azione. Il film raggiunge il suo acme in una sequenza pulp altamente “teatrale”. Ci troviamo, infatti, proprio all’interno di un teatro, in cui un massacro si alterna con l’opera  in atto sul palcoscenico.

Riuscitissimo l’uso del sonoro: l’orchestra, diegetica all’interno della scena, segue per intensità le dinamiche del combattimento. Si tratta di una tecnica che avevamo già visto nel film precedente, ma in un contesto meno scenografico e più sommesso: un night club con musica dal vivo, che in realtà era il covo segreto degli assassini.

The Crow
Bill Skarsgård in The Crow – Il Corvo (2024) Larry Horricks/Lionsgate

Nella colonna sonora, a cura del compositore tedesco Volker Bertelmann, è sempre presente il goth rock come omaggio alla cultura underground anni ‘90, in particolare della scena alternative rock e goth metal, di cui sia il fumetto che il primo film erano diventati i “manifesti”. Invece per le scenografie si tende più all’urban, con le immagini a vincere sui dialoghi.

È shitstorm per “Il Corvo”: quali sono i punti deboli?

La morale si è ribaltata: i sentimenti assoluti di amore e vendetta del Corvo del ’94, più favolistici, vengono corrotti dal peso del dubbio. Così tutto diventa relativo e incerto, in un certo senso anche più umano.

Questo dettaglio inedito risulta un po’ forzato per un personaggio che è l’incarnazione della vendetta, eppure aggiunge un tocco di realtà che facilita il rispecchiarsi nel personaggio. Passa però come un timido tentativo di sviluppo psicologico che, a conti fatti, resta abbastanza superficiale.

Ciò che lascia perplessi, è il suo continuo via-vai tra il nostro mondo e un aldilà dal gusto quasi distopico. Ad aspettarlo una guida, che gli chiede vendetta promettendogli in cambio il ritorno di Shelly. Questo compromesso sminuisce, se non addirittura cancella, l’elemento ossessivo e disturbante della storia, tipico sia delle le tavole di O’Barr che del primo film. Quello era il vero movente: trent’anni di inquietudine e dolore, di cui solo alla fine riesce veramente a liberarsi, restituendoli direttamente al mittente.

Insomma, si tratta di una produzione su cui si è puntato molto, che non ha preteso di riproporre al pubblico la copia carbone di una storia già fatta e finita. Invece ha preferito riesaminarla, proponendone una lettura tutta nuova.

Carla Fiorentino

Deadpool & Wolverine: il nuovo film sull’eroe “chiacchierone”

Se non fosse per alcune citazioni metafumettistiche e metafilmiche, “Deadpool & Wolverine” altro non sarebbe che una nuova “superhero fatigue” da aggiungere alla lista dei film-flop targati Marvel. – Voto UVM: 4/5

 

Deadpool & Wolverine è un film del 2024 co-prodotto, co-scritto e diretto da Shawn Levy. È il terzo dedicato al mercenario chiacchierone della Marvel (i primi due erano slegati da questo universo e realizzati dalla Fox, prima che venisse acquistata dalla Disney).

I protagonisti della pellicola sono Ryan Reynolds, anche co-sceneggiatore e co-produttore, e Hugh Jackman, rispettivamente nei panni di Deadpool e Wolverine.

Sinossi alla Deadpool, anzi, alla Wolverine…

Sono passati sei anni dagli eventi del secondo film e Wade Wilson ha abbandonato il ruolo di Deadpool per vivere una vita tranquilla. Ma un giorno, la Time Variance Authority (rimandiamo alla nostra recensione della serie su Loki!) rapisce Wade comunicandogli che la sua linea temporale è in pericolo e rischia la cancellazione.

Wade riprende i panni di Deadpool e viaggia tra le varie linee temporali alla ricerca del “giusto” Wolverine in grado di aiutarlo. Purtroppo (o per fortuna) si imbatte in un Wolverine diverso da quello che conosciamo noi.

Deadpool e Wolverine litigano. Fonte: Disney
Deadpool e Wolverine litigano. Fonte: Disney+

È davvero la fine dei supereroi? Lo dice il “merc with a mouth” 

Tuttavia, urge ricordare ai dirigenti Disney che non basta un solo film a risollevare le sorti di un Marvel Cinematic Universe ormai a pezzi. Dopo Avengers: Endgame, sono stati tanti i film che hanno ricevuto recensioni negative sia dalla critica che dal pubblico. Flop al botteghino, fan delusi, universi sempre più espansi e complicati: è davvero la fine dei supereroi?

Se non fosse per l’effetto nostalgia e per alcune citazioni metafumettistiche e metafilmiche (incluse le considerazioni ironiche del personaggio-Deadpool sulla scarsezza artistica dell’attore-Reynolds e i rimandi alla dolce metà di quest’ultimo: Blake Lively), Deadpool & Wolverine altro non sarebbe che una nuova “superhero fatigue” da aggiungere alla lista dei film-flop (o, in questo caso, semi-flop) targati Marvel.

Wolverine e Deadpool in azione
Wolverine e Deadpool in azione. Fonte: Disney+

Un film da guardare a cervello spento? Senti chi parla!

Deadpool & Wolverine è un film che, per certi aspetti, riprende lo stile di Spider-Man: No Way Home: trama fragile e piena di fan-service. Non aggiunge nuovi pezzi al grande puzzle della Marvel. E menomale! Più che un cineuniverso crossmediale ormai sembra aver preso la piega di uno di quei corsi d’aggiornamento in cui non puoi permetterti di saltare un appuntamento. (Per nostra fortuna Deadpool è nato a “casa Fox”).

Nonostante tutto, la Disney non snatura lo stile e le caratteristiche del personaggio-Deadpool, conservando anche quella sua autoconsapevolezza metanarrativa che lo porta a sfondare la cosiddetta quarta parete. Anzi, la Disney porta sul grande schermo un film violento, divertente, scurrile, satiresco. Insomma, vietato ai minori, e la cosa non dispiace affatto!

Deadpool e Wolverine
Deadpool e Wolverine con il nuovo arrivato: Dogpool. Fonte: Disney+

Ryan Reynolds e Hugh Jackman? Una coppia da “sballo”

Pur mantenendo invariato (o quasi) il carattere di Deadpool, l’aggiunta di Wolverine dona al film una nota malinconica. Non è il Logan che ha reso celebre Hugh Jackman. Questo nuovo Wolverine (che non si vergogna ad indossare la tuta degli X-Men!) ha un peso sulle spalle, e con questo non ci ha ancora fatto i conti.

Ryan Reynolds e Hugh Jackman funzionano bene insieme e la loro “diversità”, – caratteriale e professionale, – ha permesso l’osmosi ideale tra i due archi narrativi (perfettamente bilanciati tra loro).

Quello di Shawn Levy è sicuramente uno dei film dell’anno, ottimo per passare una serata spensierata al cinema!

 

Giorgio Maria Aloi

Taormina Film Fest 70: Padre Pio (di Abel Ferrara)

 

Baby raindeer
Padre Pio segna la “redenzione” del regista Abel Ferrara. – Voto UVM 4/5

 

Nel corso della settantesima edizione del Taormina Film Festival abbiamo avuto l’opportunità di assistere alla prima in lingua italiana dell’ultimo film di Abel Ferrara, Padre Pio. Alla proiezione erano presenti il regista e parte del cast, i quali hanno successivamente risposto alle domande dei giornalisti presenti in sala. Durante la presentazione della pellicola, Cristina Chiriac, che nel film recita nei panni di Giovanna, ha ricevuto il premio Nuove Rivelazioni. Si conferma così il sodalizio fra l’attrice e Ferrara, cui film precedenti ha lavorato, fra gli altri, insieme a Willem Dafoe.

Il film, girato in Puglia nel 2021, ripercorre gli eventi dell’eccidio di San Giovanni Rotondo del 1920. Il massacro, che si inserisce nel più ampio quadro di tensioni politiche e sociali del biennio rosso, ha portato alla morte di 14 persone perlopiù appartenenti al Partito Socialista. Le sofferenze che hanno luogo nel paese vengono ricalcate attraverso scene di vita del santo (incarnato da Shia LaBeouf), perlopiù ambientate nel vicino ma isolato convento dei Frati Minori Cappuccini. In realtà, come ha ricordato Ferrara stesso dopo la proiezione, il film è stato interamente girato nel vicino Monte Sant’Angelo. Le riprese a San Giovanni Rotondo sarebbero state impossibili dato che ad oggi il paese è meta di numerosi pellegrinaggi.

monte san'angelo
Monte sant’Angelo. Fonte: giovannicarrieri.com

Le vicende del paese

Dopo la fine della Grande guerra, i superstiti entrano in paese fra onori e lacrime della comunità. Tuttavia, con l’arrivo dei soldati giungono anche notizie su chi non fa ritorno, fra false speranze per chi è disperso e lutto per i morti accertati. Il marito di Giovanna non si fa vivo: non esiste una lettera che ne certifichi il decesso e fra i compaesani c’è chi la rassicura che ritornerà. Come altre vedove e gente povera, deve lavorare più duramente per garantire i beni primari ai suoi bambini. In un’Italia meridionale post-bellica e latifondista questo equivale però ad oppressione e sfruttamento, contro cui Giovanna e altri membri del Partito Socialista si schierano. Fra questi c’è Luigi, membro di un’importante famiglia del paese ma fermamente ancorato all’ideologia comunista.

Dopo la vittoria dei socialisti alle prime elezioni libere del Paese nel 1920, i proprietari terrieri e i carabinieri vicini a quella che sarà l’ideologia fascista, impediscono ai vincitori di fare ingresso nel municipio. Ne scaturisce una rivolta che porterà al massacro di quattordici persone, perlopiù socialisti.

Cristina Chiriac. Fonte: ANSA.

Le sofferenze di Pio

Parallelamente a queste vicende si svolge la travagliata vita di Padre Pio nel vicino convento dei Frati Cappuccini Minori; il religioso ha numerosi visioni demoniache (rappresentate dalla musica suggestiva di Joe Delia) che tentano di far crollare la sua fede sulla scorta di un passato libidinoso e fragile. La risposta di Pio è la preghiera e un atteggiamento intransigente nei confronti di qualsiasi tipo di provocazione oscura. Le sue giornate sono scandite da canti e adorazioni al Signore e alla Vergine, unico baluardo di resistenza contro le seduzioni di Lucifero (in una scena impersonato da Asia Argento).

Un demone impersonato da Asia Argento. Fonte: Sentieri Selvaggi.

La visione di Ferrara

Nelle intenzioni del regista c’era innanzitutto quello di girare un documentario. Il film non vuole dare un’opinione sulla vita del santo – che è piuttosto controversa – ma un’immagine reale degli accadimenti di quell’anno. Ne viene fuori una rappresentazione che si discosta dal dipingere Pio come una figura sacra ma che ne illumina soprattutto il lato umano, con le sue tentazioni e peccati. Risiede qui dunque la sorprendente performance di Shia LaBeouf, in grado di incarnare queste lacerazioni grazie alla sua riconosciuta espressività. Le due trame si fondono insieme in un’unica visione in cui le sofferenze del frate sono l’allegoria di quelle degli abitanti di San Giovanni Rotondo. Quest’ultimi sono gli oppressi che tentano di ribellarsi all’oppressore, ovvero il fascismo in paese e il demonio per Pio. Non a caso il regista ha deciso di dedicare la pellicola, oltre che alle vittime dell’eccidio, anche al popolo ucraino.

 

Francesco D’Anna

Taormina Film Fest 70: Twisters

Twisters
Disaster movie che valorizza temi e rischi sottovalutati, legati ad eventi catastrofici come i tornado. Voto UVM: 5/5

 

Twisters è un sequel stand-alone e reboot di Twister uscito nel 1996 e diretto da Jan De Bont. Ritorna, dunque, in una nuova versione in cui la regia è a cura di Lee Isaac Chung, regista emergente ai film d’azione; egli è infatti noto per opere intimiste come Minari (2020), vincitore del Golden Globe per il miglior film straniero. La sceneggiatura è scritta da Mark L. Smith mentre la pellicola è prodotta da Patrick Crowley e dal premio Oscar Frank Marshall (Amblin Entertainment), quest’ultimo noto regista e produttore di successi come le saghe di Jurassic Park e Indiana Jones. Per quanto riguarda le riprese principali, sono state girate in Oklahoma e il primo trailer venne diffuso l’11 febbraio durante il Super Bowl LVIII; verrà proiettato nelle sale italiane il 17 luglio 2024.

Un cast completamente differente da quello originale

Uno dei personaggi principali è Glen Powell, visto di recente al cinema in Top Gun: Maverick (2022) e Tutti tranne te (2023). Al suo fianco, la candidata ai Golden Globe Daisy Edgar-Jones, divenuta nota grazie alla serie britannica Normal People (2020). Il resto del cast include Anthony Ramos, David Corenswet, Daryl McCormack (Isaiah Jesus nella serie tv Peaky Blinders), Kiernan Shipka (protagonista nella serie tv Le terrificanti avventure di Sabrina), Nik Dodani (Zahid Raja in Atypical) e Maura Tierney, vincitrice nel 2016 di un Golden Globe per la serie televisiva The Affair – Una relazione pericolosa.

La persistenza di una trama avvincente

Lee Isaac Chung con Twisters non ci delude; avvalora questo disaster movie intrecciando una storia d’amore ad un evento catastrofico e drammatico, adatto al clima estivo. Le tre parole chiave sono: instabilità, direzione del vento e umidità. Il film ruota, principalmente, attorno alla figura di una giovane donna, Kate Cooper (Daisy Edgar-Jones), ex cacciatrice di uragani segnata dall’incontro con un tornado dove perse la vita il suo fidanzato, Jeb (Daryl McCormack). Dopo 5 anni, si rifugerà in un ufficio di New York City ma farà ritorno nel settore, grazie alla spinta dell’amico Javi, per testare un avanzato sistema di tracciamento. Il suo rientro si incrocerà con Tyler (Glen Powell), il cosiddetto “domatore di tornado”, influencer noto per le sue imprese spericolate che insieme alla sua squadra non renderà facile la vita alla Storm Par. Ad entrambi verrà messa a dura prova la loro sopravvivenza nel capoluogo di Oklahoma City.

Ma non solo

Tyler: “Le paure non si affrontano; le paure si cavalcano”

Nella totalità della proiezione, dalla durata di 122 minuti, possiamo scorgere: avventura, azione, intensità, potenza drammatica, spirito di iniziativa e collaborazione ma soprattutto aiuto umanitario, nei confronti delle povere vittime di queste tempeste ambientali. Infatti, il film ci evidenzia la paura che rende consapevole il pubblico sulle conseguenze del rapporto incontrollato fra essere umano e natura. Nonostante questo, possiamo anche riscontrare la determinazione nel raggiungimento della sconfitta dei tornado, forte perturbazione atmosferica.

Tyler: Credevate di poter distruggere un tornado?!
Kate Cooper: Non avevamo speranze.
Tyler: Vuoi averne?

Non può mancare il sentimento d’amore

Addentrandoci nella trama di Twisters possiamo intravedere la nascita di un sentimento tra Kate e Tyler. Proprio come le tempeste, il loro inizio fu burrascoso e capriccioso per poi scorgere un cielo sereno tra i due. Nonostante la protagonista fosse scossa dalla perdita del suo precedente compagno, non può sottrarsi allo scatto della scintilla di desiderio con Tyler. Nella scena finale, Kate decide di tornare nella sua splendida New York City ma il segno del destino vuole che, a causa di forti venti, verrà previsto un ritardo sul volo. Ed ecco che, nel momento di questa annunciazione, spunta dietro di se proprio Tyler, pronto a coronare il loro trionfo d’amore, insieme.

 

Stefy Saffioti

La Neve in Fondo al Mare, tra neuropsichiatria e infanzia

La Neve in Fondo al Mare è un romanzo che tratta temi attuali da un punto di vista originale. – Voto UVM: 4/5

 

Il nuovo libro di Matteo Bussola, fumettista e scrittore veronese, già autore di numerosi fortunati libri di narrativa che hanno scalato le classifiche negli anni, è ora sugli scaffali delle librerie, pronto per essere letto da ragazzi e lettori più maturi.

Trama, temi, personaggi di La Neve in Fondo al Mare

La storia è narrata dalla voce ed attraverso il punto di vista di Caetano, il padre dell’adolescente Tommy. I due si trovano in un reparto ospedaliero di neuropsichiatria infantile, perché Tommy soffre di anoressia nervosa. A questa situazione fa riferimento uno dei temi fondamentali del libro: Il rapporto genitori-figli, il quale è trattato attraverso pochi ma interessantissimi personaggi, di cui ne vediamo alcuni.

Abbiamo Franco, il “padre manager”, uomo sulla mezza età che incarna le idee ed il modo di esprimersi dell’italiano medio delle vecchie generazioni. In apparenza estremamente superficiale, schietto, ed insensibile nei confronti della figlia Marika, autolesionista. Eppure, sarà attraverso la sua voce che l’autore ci regala una delle immagini più belle ed efficaci del libro…

 

-Scoprire la profondità della tristezza di un figlio, a neanche sedici anni, è come trovare qualcosa in un posto in cui non te lo saresti mai aspettato. In cui proprio non dovrebbe esserci. (Franco)

-Che vuoi dire? (Caetano)

-Tipo, non so. Come trovare la neve in fondo al mare.

Insieme a Franco e Caetano (unici padri nel reparto) troviamo Amelia, che dà tutta sé stessa per aiutare la figlia Eva, sofferente di bulimia. Poi ancora Giulia in compagnia del figlio Giacomo, giovanissima star del web in declino, che non riesce a tornare alla “vita normale” dopo la fine del lockdown.

È proprio il lockdown un altro elemento fondamentale della vicenda: I dolori dei ragazzi sembrano tutti legati alla quarantena. Ed è così che Matteo Bussola (l’autore) tratta i drammi dell’isolamento spostando l’attenzione su una fascia della popolazione spesso ignorata dai media. sugli adolescenti. Sull’impatto che mesi e mesi di restrizioni abbiano avuto su ragazzi e ragazze in un’età così fragile, “a cui il virus fa il solletico”, ma che si trovano costretti a “salvare gli adulti. I figli che devono salvare i genitori.”

Oltre quanto detto, i temi trattati sono attualissimi (la vicenda stessa ha luogo nel presente) e innumerevoli, condensati in appena centottanta pagine.  Si viene a formare un romanzo breve ma intenso e reso scorrevole dal linguaggio elegante dell’autore.

 

La neve in fondo al mare
Il nuovo libro di Matteo Bussola già in cima alle classifiche. Fonte: Instagram @matteo.bussola

Lingua, stile del romanzo e struttura di La Neve in Fondo al Mare

Il racconto è strutturato in un intreccio: Gli eventi del presente vengono alternati ad episodi dell’infanzia di Tommy, il tutto, come detto, sempre dal punto di vista del padre, che costituisce la voce narrante del romanzo.

La sintassi è semplice, generalmente formata da periodi brevi, tenuti insieme da legami paratattici o di giustapposizione. Solo raramente, nelle parti del testo in cui lo stile vuole essere più ricercato, la sintassi si fa più distesa e complessa, ma sempre senza appesantire troppo la lettura.

Sono frequenti invece i dialoghi, attraverso i quali l’autore caratterizza e fa esprimere i personaggi.

Così parla per esempio Franco:

“Ormai una diagnosi non la si nega a nessuno, per questo hanno tutte le malattie del mondo. E se non imparano a leggere sono dislessici, e se non sanno le tabelline hanno la cosa, là, come si chiama, la discalcolosi.”

Sempre attraverso i dialoghi si riproduce il gergo giovanile, che l’autore riesce bene a rappresentare attraverso i prestiti dall’inglese (cringe, skippo, follower) e le espressioni tipiche dei giovani di oggi (“non so, fra”, “un botto di like”).

“Ma la roba buffa non è tanto la mia, perciò di norma, se ci capito su, skippo. Niente di personale” (Tommy)

Infine, Matteo Bussola arricchisce la sua prosa con diversi elementi poetici. In particolare, il testo è ricco di similitudini, di cui si è già dato un esempio sopra “[…] come trovare la neve in fondo al mare”, espressione che, tra l’altro, dà il titolo al romanzo.

 

 

Francesco Malavenda