C’era una volta in America: un sogno durato una vita

 

Parthenope
C’era una volta in America: un viaggio tra amore, amicizia e criminalità lungo quarant’anni. Voto UVM: 5/5

 

C’era una volta in America ha da poco compiuto 40 anni dalla sua prima uscita in Italia, nel 1984, tornando al cinema in versione restaurata in 4K.

Il maestro Sergio Leone, definito “l’italiano che inventò l’America”, autore di pellicole del calibro di C’era una volta il West e della famosa Trilogia del dollaro, termina la sua carriera con questo capolavoro senza tempo. Accompagnato dalla magnifica colonna sonora di Ennio Morricone.

C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA: TRAMA

Il film narra la storia di Noodles (Robert De Niro), di Max (James Woods) e dei loro amici, ragazzini ebrei che inizieranno ad avere a che fare con la malavita nella New York degli anni ’20 e i quali ricordi riaffioreranno in vecchiaia, all’arrivo di una misteriosa lettera…

L’INFANZIA DELLA GANG DI MAX E NOODLES

«Guarda, sono le 6 e 34 e io non ho tempo da perdere!»

L’infanzia di Noodles, segnata dalla vita di strada e dalle esperienze negative alle quali deve far fronte, non è di certo ideale. Ciò che fa riflettere però è che quando i personaggi sono piccoli, a volte non si rendono conto di ciò verso cui vanno incontro.

La scelta di rimarcare che, nonostante le azioni mature, i ragazzi rimangano innocenti, viene direttamente dal regista che a proposito mette in scena una delle sequenze, a mio parere, più belle di tutta la storia del cinema: Patsy, uno dei ragazzini che fa parte della gang di Noodles e Max, compra una Charlotte Russa con la panna a Peggy, una ragazzina del quartiere, per cercare di ottenere qualcosa in cambio da lei, ma mentre la aspetta fuori dalla porta si fa ingolosire dal dolce, inizia con l’assaggiare un po’ di panna e finisce con il mangiarlo tutto rimanendo a mani vuote davanti a Peggy, alla quale dirà in modo imbarazzato: “Sarà per un’altra volta”.

C'era una volta in America
Gli amici di Noodles durante la loro infanzia.

LO SGUARDO POETICAMENTE CRUDO DI LEONE

Per l’intera durata del film ci si sente immersi, grazie alla messa in scena impeccabile, alla fluidità data dai movimenti di macchina e dal montaggio, e alla bellezza delle immagini, in un sogno lungo più di quarant’anni.

Per tutti i 240 minuti della pellicola abbiamo la sensazione di vivere un’altra vita, come se stessimo assistendo anche noi in prima persona alle vicende dei personaggi.

Ad ogni modo, tutta l’armonia e la meraviglia viene alternata a momenti di pura violenza e orrore, che riguardano soprattutto le azioni spregevoli dei protagonisti, sia nei confronti delle vittime nell’ambito malavitoso, che delle donne che amano e che non sanno rispettare poiché “figli” della violenza.

Grande critica sociale mossa da parte di Sergio Leone durante tutta l’opera che mostra i più grandi problemi della società americana, raccontandocene la storia e gli sviluppi dagli anni ‘20 agli anni ‘60, passando per il proibizionismo e per le lotte del movimento operaio.

Sergio Leone sul set di “C’era una volta in America”.

IL PASSARE INESORABILE DEL TEMPO E L’IMPORTANZA DEI RICORDI

«Sono le 10 e 25 e non ho più niente da perdere… Un amico tradito non ha scelta, deve sparare».

Verso il finale del film, Max, mittente della misteriosa lettera, incita più volte Noodles ad ucciderlo. L’esortazione a sparare può essere interpretata come una metafora che indica l’essere “costretto” a eliminare i ricordi genuini della giovinezza condivisa dai due dopo essere venuto a conoscenza del tradimento subito. 

La vita del protagonista è ormai stata rubata, per trent’anni, da quello che definiva il suo migliore amico. La donna che amava, i soldi, la fama, gli sono stati sottratti senza possibilità di rimediare.

Nonostante tutto, Noodles decide di fingere di non riconoscere Max, chiamandolo continuamente “Mr. Bailey”, nome della sua nuova identità, e fa come se nulla fosse cambiato rispetto a poco prima della scoperta, come se ormai la giovinezza non appartenesse nemmeno più alla sua vita e non volesse macchiarla ulteriormente.

La spensieratezza mostrataci durante l’infanzia dei personaggi è direttamente proporzionale alla nostalgia provata da Noodles durante la vecchiaia, parte montata intelligentemente in modo discontinuo durante il film cosicché si alternasse con le diverse linee narrative della storia e che rendesse al meglio le sensazioni espresse in modo eccellente da Robert De Niro.

TUTTO TORNA ALLE ORIGINI

C’era una volta in America si conclude nello stesso luogo in cui vediamo Noodles per la prima volta all’inizio del film, in un teatro cinese, che è anche una fumeria d’oppio. Si è fatto un salto indietro al 1933, a subito dopo che Noodles legge su un giornale la notizia che riguarda il colpo in banca della sua gang che lui stesso ha provato a sventare chiamando la polizia. L’inquadratura che chiude il film e sulla quale passeranno i titoli di coda consiste in un primissimo piano di Noodles che sorride, inebriato dall’oppio, che fa quasi nascere nello spettatore il dubbio che tutto ciò che ha visto sia stato solo un “sogno oppiaceo” di Noodles che rappresentava una realtà alternativa nella quale Max non era davvero deceduto durante quel colpo.

L’inquadratura finale con Noodles che sorride.

Consiglio in modo spassionato la visione di questo capolavoro, attualmente disponibile in abbonamento su Now Tv e sui canali premium di Prime Video.

 – Che hai fatto in tutti questi anni, Noodles?
– Sono andato a letto presto. 

 

di Alessio Bombaci

Speak no Evil: un instant ramake in salsa USA che convince

CVLT
Remake in salsa Hollywoodiana della pellicola danese Speak no Evil del 2022, Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti Voto UVM: 4/5

“Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciutiè un thriller psicologico con sfumature horror che, in un crescendo di tensione, sprigiona tutta la sua potenza di pari passo alla crescente interpretazione di James McAvoy. Non privo di qualche difetto, l’opera del regista James Watkins convince ma potrebbe far storcere il naso a chi ha apprezzato la versione danese. Voto UVM: 4/5

Speak no Evil: la trama è fedele alla versione danese?

Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti, condivide buona parte della trama con la versione danese della pellicola. Una famiglia americana in vacanza in Toscana fa la conoscenza di una famiglia inglese molto estroversa. Dopo una gradevole cena e qualche bicchiere di vino, gli inglesi Paddy e Ciara, con a seguito il piccolo Ant, invitano gli americani Ben, Louise e la piccola Agnes a passare un week end nella loro casa immersa nelle campagne inglesi. Dopo un po’ di titubanza, dovuta anche ai loro rapporti familiari ormai logori, la famiglia americana decide di accettare l’invito.

Due famiglie a confronto

Speak no Evil gioca sulle differenze nella costruzione della storia per condurci sempre di più in una spirale di paura. Le due famiglie non potrebbero essere più diverse. Ben, Louise e la figlia Agnes vivono dei rapporti familiari tesi. Tra marito e moglie aleggia l’ombra dell’infedeltà di Louise e dei problemi lavorativi di Ben che li ha costretti a trasferirsi in Inghilterra, il tutto reso ancora più complicato dalle ansie della giovane Agnes. Paddy, Ciara e Ant, bambino con difficoltà comunicative dovute ad una malformazione alla lingua, sono apparentemente la famiglia perfetta. Passione, complicità e lavoro di squadra si mescolano ad alcuni strani comportamenti che con il passare dei minuti fanno capire allo spettatore che in Speak no Evil qualcosa non va.

Frame di “Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti”. Regia: James Watkins. Distribuzione: Blumhouse Productions.

 Speak no Evil: un gioco tra opposti

É proprio nei suoi protagonisti e nelle loro interazioni che Speak no Evil trova la sua forza. Paddy (James McAvoy) e Ben (Scoot McNairy) sono diametralmente opposti. L’inglese è un padre severo, tutto d’un pezzo e sicuro di sé, mentre Ben è un uomo pavido ed insicuro. Anche Ciara e Louise sono agli antipodi. Louise è la vera guida della sua famiglia, Ciara è la tipica moglie che cerca di fare di tutto per assecondare il marito. Sono proprio l’incrocio e lo scontro tra le diverse personalità dei protagonisti a muovere la storia e, minuto dopo minuto, a farci capire che dietro l’apparente stranezza si cela qualcosa di oscuro.

Speak no Evil dimostra che è meglio non fidarsi degli sconosciuti 

Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti, svela la sua natura a partire dal secondo atto. Quello che poteva sembrare un semplice weekend tra amici si trasforma presto in incubo per Ben, Louise e Agnes. Ed è proprio dal secondo atto che James McAvoy innalza il livello della sua interpretazione ben al di sopra delle righe di pari passo all’evoluzione del suo personaggio. Paddy si trasforma nel predatore che è sempre stato ed inizia la sua caccia che non risparmia nessuno e che vede in Louise unico baluardo di una famiglia che cade a pezzi ma che necessita di una guida.

Frame di “Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti”. Regia: James Watkins. Distribuzione: Blumhouse Productions.

Il terzo atto convince ma si allontana dall’originale

Il terzo atto è quello che svela tutte le carte del film e che allontana la pellicola di Watkins da quella danese del 2022. Se la versione danese di Speak no Evil manteneva sempre un ritmo volontariamente compassato, la pellicola con protagonista James McAvoy trova nel terzo atto il suo cambio di registro. Tutto si palesa, tutti i dubbi vengono fugati e inizia la ciaccia spietata tipica del genere a cui Hollywood ci ha già abituati. Ed è proprio questa caccia con il suo finale, per certi aspetti fin troppo buono, che potrebbe far storcere il naso a chi apprezzato la pellicola danese. Chi si aspettava un finale cupo ed incerto come quello del film danese potrebbe rimanere deluso. Ma è proprio questo finale figlio di un terzo atto diverso che dà un senso a questo remake uscito appena due anni dopo la pellicola del 2022.

Una regia solida 

La regia di James Watkins è solida e funziona. I primi piani, ed in particolare quelli su James McAvoy, permettono di cogliere le sfumature emotive e l’evoluzione dei protagonisti. Ogni atto è caratterizzato dalla prevalenza di un certo tipo di scenario, che muta con il proseguo della trama. Dalle grandi campagne inglesi ci ritroviamo catapultati in stretti corridoi e stanze buie dove ogni rumore può fare la differenza tra la vita e la morte. La scrittura convince se non per qualche scena che sottolinea fin troppo l’inettitudine di Ben. Il comparto sonoro fa il suo dovere nel caricare la crescente tensione soprattutto nel terzo atto del film.

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               Francesco Pio Magazzù

V per Vendetta: ricordate per sempre il cinque Novembre

V per Vendetta rimane, anche dopo anni, un’opera d’importanza capitale.  Voto UVM: 5/5

V per Vendetta è una delle graphic-novel più famose e importanti di sempre, scritta da Alan Moore e disegnata da David Lloyd. Essa si lega profondamente agli eventi del cinque Novembre. Essendo una data passata da poco, non vedo perché il ricordo, tanto dell’opera, quanto della data, debba col tempo sbiadirsi.

La storia del cinque novembre

Nel 1605, in Inghilterra, un gruppo di cattolici inglesi provò a fare esplodere il Parlamento nel suo primo giorno di lavori, il cinque novembre. Il movente nasce dalle tensioni tra cattolici e anglicani, e in particolare l’intolleranza di Giacomo I verso i primi. Fu per questo che un pugno di uomini, guidati da Guy Fawks, ordì il “complotto delle polveri”, ossia appunto un tentativo di far detonare ingenti quantità di esplosivo sotto il Parlamento inglese mentre il re e i suoi fedeli erano in seduta. Il complotto fallì, poiché Fawks venne catturato dalle guardie la sera prima dell’attuazione, nei sotterranei del parlamento. Il congiurato venne poi torturato per alcuni giorni e, alla fine, cedette e confessò, per poi venire giustiziato insieme ai suoi complici. Nel mentre, Giacomo I decise però di festeggiare il mancato attentato, e così nacque quella che tutt’oggi è la bonfire night.

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Copertina dell’absolute edition di “V per Vendetta”. Fonte: Feltrinelli

V per Vendetta: Un altro cinque novembre

Londra, cinque novembre 1997: la giovane orfana Evey, costretta dalla fame, cerca di adescare degli uomini. Tuttavia, incontrerà degli agenti di polizia, i quali cercheranno di violentarla e ucciderla. A salvarla, però, arriva un misterioso personaggio, avvolto in abiti e mantello nero, e con la maschera di Guy Fawks. Il misterioso salvatore uccide i poliziotti e porta con sé Evey sui tetti di Londra, per mostrarle uno spettacolo unico: l’esplosione del Parlamento inglese. Qui ha inizio la vendetta di V, questo il modo in cui l’uomo mascherato si farà chiamare per tutta la storia; bersaglio di questa vendetta, è tutto il regime fascista che da anni governa l’Inghilterra, stretta nel pungo del partito Norsefire, Fuoco norreno in italiano, il quale prese il potere in seguito alla guerra atomica e alle molteplici crisi che ad essa sono seguite.

La struttura politica del potere

L’organizzazione del partito è così strutturata: leader e capo della nazione, è Adam Susan, il quale governa con l’aiuto del supercomputer Fato. loro sono il vertice della Testa, che si compone di vari organi: Orecchio, Occhio, Bocca e Naso, ognuno con uno specifico compito nella gestione del potere, nella sorveglianza e nella propaganda. A questi, si aggiunge il Dito, la polizia segreta. Contro quest’articolata rete di potere, il terrorista nome in codice “V” combatte la sua guerra: colpirà bersagli specifici, legati al suo oscuro passato, taglierà poco a poco la catena di comando del partito, e lentamente farà crollare la dittatura su sé stessa. Ad aiutarlo rimarrà Evey, che sarà condotta alla Galleria dell’ombra, il rifugio segreto di V, dove verrà istruita proprio da quest’ultimo per assumere sulle spalle un compito più grande di lei.

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V fa esplodere il parlamento. Fonte: Reddit

Potere, anarchia e simboli in V per Vendetta

V per Vendetta ha una trama molto articolata e stratificata. Segue le vicende di vari personaggi e la vicenda di un sistema politico che lentamente viene portato al collasso. Il potere è il tema centrale della narrazione, forma di oppressione operata dall’autorità politica sui cittadini. Del potere vediamo vari modi di operare: potere sul corpo, biopotere, esercitato nei campi di prigionia del regime potere disciplinare, come quello di Larkhill, fondamentale per la trama. Potere sulle menti, psicopolitica, dei cittadini, che sono sottoposti alla continua propaganda della Bocca, e sono imprigionati quindi in una gabbia mentale; il potere della sorveglianza, in mano a Occhio e Orecchio; il potere esercitato dagli algoritmi, o algocrazia, ossia una dittatura con gli algoritmi. Al vertice della catena di comando troviamo  un uomo che venera un supercomputer. Da contraltare al potere, però, persiste l’anarchia, nel nome della quale si batte V. Essa però, come spiega lo stesso protagonista, non va intesa come assenza di regole o di ordine, l’anarchia è l’assenza di capi. Inoltre, a completare il trittico dei temi principali, c’è anche quello delle idee, e dei simboli a esse legati, e della lotta che in loro nome si è disposti a ingaggiare.

Molto più di un fumetto

Alan Moore non si limita a raccontare la storia di un eroe che si scaglia solitario contro un potere opprimente. Egli cerca proprio di scavare a fondo delle questioni anche di un certo livello, e sulle quali le società umane hanno sempre dibattuto. E ciò avviene anche in altre opere dell’autore, come Watchmen. A mio avviso, potremmo definire i fumetti di Moore come dei “fumetti filosofici“.

 

Alberto Albanese

La creatura di Gyeongseong, ancora qualità dalla Corea del Sud

La Creatura
Un meraviglioso connubio di Horror e Romance. Voto UVM 5/5

La creatura di Gyeongseong è una serie tv sudcoreana sbarcata recentemente su Netflix e che nel 2024 ha presentato la sua seconda stagione. È una serie che ha catturato l’attenzione degli spettatori non solo coreani ma internazionali, in quanto tratta di vari generi quali horror, fantasy, drama storico e romance.

Serie che oltre ad avere vari generi cinematografici tratta temi importanti come l’indipendenza coreana dai giapponesi e la sperimentimentazione umana. La Creatura di Gyeongseong è una di quelle serie che ti regala infinite emozioni, da farti appassionare a 360 gradi. Insegna valori come la libertà, di cui oggi si discute spesso, la famiglia (riportato dal protagonista Jang  Tae-Sang il quale si lega ai suoi dipendenti come fossero membri di una famiglia), l’amore, qui creatosi lentamente tra Jang Tae-Sang e Chae-ok, il segugio che aiuterà il protagonista nelle ricerche di Myeong- Ja, l’amante del generale Ishikawa.

La creatura di Gyeongseong: Trama

Primavera 1945, Gyeongseong (nome storico di Seoul) è sotto l’occupazione giapponese. Jang Tae-Sang, proprietario della Casa dei Tesori d’Oro, il banco dei pegni più redditizio della città, insieme a Yoon Chae-ok, una ragazza alla ricerca della madre scomparsa, affrontano una strana creatura nata dagli esperimenti biologici condotti in segreto nell’ospedale Ongseong. La serie è costellata di scene d’azione, dove si nota come protagonista anche la madre di Chae-ok che poi si rivelerà una creatura terrificante in grado di sprofondare  fino alle viscere della propria vittima. Questa creatura si nutre dei cervelli delle proprie vittime ed è in grado di sterminare anche centinaia di persone allo stesso tempo.

Ma qual è l’origine della creatura? Ebbe tutto inizio tramite un batterio trovato nel sottosuolo coreano di Gyeongseong, preso dai soldati giapponesi e poi analizzato e conservato nell’ospedale di Ongseong. Questo batterio analizzato, poi diverrà un verme acquatico somministrato ai vari prigionieri che avrà delle ripercussioni sui loro corpi. I personaggi principali sono in continua lotta con se stessi quasi sul punto tra la vita e la morte e un continuo cadere di fiori di ciliegio scandisce il loro tempo, freneticamente percorso da emozioni radicate e opposte. Le loro vite sono appese ad un filo teso in grado di spezzarsi facilmente. Jang Tae-Sang ha tempo finché l’ultimo fiore di ciliegio sarà caduto per salvare la sua vita e tutto ciò che gli appartiene.

La Creatura
Fonte: Netflix

Prima Stagione

La prima stagione si basa sulla metamorfosi ma soprattutto vediamo come l’amore di una madre riesce a sopportare di tutto e allo stesso tempo proteggere la figlia amata dandole l’opportunità di vivere ancora. La fantasia di una serie che si mescola con la realtà della vita, tanto che ci si immedesima al tal punto di essere catapultati dentro la serie e vivere quello che sono costretti a sopportare i protagonisti di questa serie fantasy.

Sia nella prima stagione sia nella successiva tutte le situazioni si intrecciano in un’unica scacchiera dove a muoverne le pedine è un solo personaggio, il quale si saprà rivelare complesso, turbolento e con una mente astuta, ma tuttavia in grado di farsi mettere i bastoni fra le ruote facilmente.

Seconda Stagione

Nella seconda stagione vedremo la comparsa di nuovi personaggi, fondamentali per la comprensione delle nuove dinamiche. Inoltre si dà uno sguardo indietro alla stagione precedente, spiegandone i fatti con un’altra prospettiva. Sarà questo duplice punto di vista ottenuto da questo momento, ad arricchire i personaggi e a renderli complessi e particolari. La stagione è un continuo di alti e bassi tra enigmi che riempiono di mistero e suggestione la trama, la quale, sì, cerca di innestare una dose di romance per distaccare il pubblico dall’azione, ma non eccessivamente per non annoiare.

La Creatura
Fonte: Netflix

Le riflessioni de La creatura di Gyeongseong

La conclusione dell’ultima stagione ci porta a dubitare se il nostro protagonista riuscirà a salvare la sua vita e quella delle persone che ama e su cosa succederà alla co-protagonista Chae-ok. Riuscirà a vivere una vita felice con Jang Tae-Sang? Tutto può ancora succedere, quindi non vi resta che guardare questa fortunata serie Netflix che ha appassionato milioni di persone, e scoprirlo.

 

Chiara Trifiletti

Julia Roberts: ascesa di una Diva

Consacrata alla celebrità dalla pellicola Pretty Woman, l’attrice statunitense Julia Roberts, che ha incantato generazioni con il suo sorriso e il suo carisma, ha appena celebrato i suoi cinquantasette anni.

Nascita di una promessa

La Roberts nasce il 27 ottobre del 1967 ad Atlanta in Georgia da una famiglia della middle class. Suo padre un rappresentante di aspirapolveri e sua madre una segretaria. Cresce in una famiglia amante del teatro e del modo della recitazione. Al diploma decide di raggiungere suo fratello Eric a New York, che iniziava a muovere i primi passi nella recitazione. Nella Grande Mela la giovane Julia sfila in passerella, lavora in una gelateria e da un calzolaio.

Julia Roberts agli albori della carriera

Incoraggiata da Eric tenta l’audizione per la pellicola Firehouse (1987) di J. Christian Ingvordesen, ottenendo un piccolo ruolo di comparsa. Otterrà invece il ruolo da protagonista in Legami di Sangue, uscito nella sale nel 1989. Recita insieme all’attore italiano Gianfranco Giannini e al fratello Eric. Arriva il decollo della carriera per la giovane attrice e ottiene ruoli via via più rilevanti. A differenza di suo fratello Eric gestisce fama e successo. Eric infatti verrà assorbito dal lusso di Hollywood, mentre al contrario la sorella rimane salda su valori come sobrietà durante le scene, non sentendosi a suo agio in scene di nudo nei film.

Julia recita intanto in Satisfaction (1989), grazie al quale ottiene un ruolo in Fiori d’Acciaio (1989) dove interpreta un personaggio intenso e profondo. Sfiora l’Oscar.

Julia Roberts
Julia Roberts. Fonte: Sky

Il decollo di Julia Roberts e gli anni ’90

Il regista Gary Marshall la sceglie per il ruolo che la consacra al grande pubblico, Pretty Woman, interpretando la parte di una prostituta di cui il miliardario americano, interpretato dal già celebre Richard Geere si innamorerà. Le copertine dei giornali di tutto il mondo mostrano il suo sorriso dolce e spontaneo e al tempo stesso semplice. In questo periodo, diventa protagonista di opere fondamentali come I protagonisti (1992) di Robert Altman, dove dimostra la sua abilità nell’interpretare ruoli complessi. Il thriller Il rapporto Pelican (1993) di Alan J. Pakula, consolida ulteriormente la sua reputazione. La sua collaborazione con registi di prestigio, come Altman e Woody Allen (Tutti dicono I love you, 1996), è un segno della fiducia che il mondo del cinema ripone in lei.

Il 1997 segna un punto di svolta decisivo con la commedia romantica Il matrimonio del mio migliore amico. Julia interpreta una donna che si ritrova a competere per l’amore del suo migliore amico, accanto a Cameron Diaz e Rupert Everett, che offre consigli saggi e spiritosi. Questo film non solo la porta alla ribalta, ma diventa anche un classico del genere.

Il suo successo prosegue con Ipotesi di complotto (1997), Nemicheamiche (1998), una commedia con Susan Sarandon. La chimica tra le due attrici risulta irresistibile e il film diventa un grande successo. Non si può dimenticare il fortunato ritorno con Richard Gere in Se scappi, ti sposo (1999), sempre diretto da Gary Marshall, che consolida ulteriormente il suo status di regina delle commedie romantiche.

Gli anni ’00 e la pausa dai riflettori

Un traguardo fondamentale arriva con l’Oscar per Erin Brockovich – Forte come la verità (2000).  La sua performance potente e carismatica le consente di vincere l’Oscar come miglior attrice protagonista, un riconoscimento che celebra non solo il suo talento, ma anche la sua capacità di rappresentare personaggi forti e resilienti.

Dopo una rinnovata consacrazione dell’Oscar, Julia Roberts si dedica a una serie di progetti ambiziosi. Recita nella commedia I perfetti innamorati (2001), con Catherine Zeta-Jones, e partecipa a blockbuster come Ocean’s Eleven – Fate il vostro gioco (2001) e il suo seguito Ocean’s Twelve (2004), entrambi diretti dal suo amico Steven Soderbergh.

Nel 2003, si trasforma in un’insegnante anticonformista in Mona Lisa Smile di Mike Newell, dove esplora temi di emancipazione femminile e valori tradizionali. Continua a brillare interpretando ruoli versatili come l’amante di Chuck Barris nel film d’esordio alla regia di George Clooney, Confessioni di una mente pericolosa (2003), e una fotografa ambigua in Closer (2004) di Mike Nichols. Dopo un periodo di pausa dalla vita pubblica, Julia riprende la carriera nel 2007 con La guerra di Charlie Wilson di Mike Nichols, affiancata da Tom Hanks.  Continua a esplorare ruoli diversificati, in film come Duplicity (2009) e Mangia, prega, ama (2010), dove affronta tematiche di ricerca interiore e crescita personale.

Julia Roberts
Julia Roberts, Fonte: Lei

Gli anni ’10

Nel 2012, Julia interpreta la Regina Cattiva in Biancaneve di Tarsem Singh, un ruolo che le consente di mostrare una faccia diversa del suo talento. I segreti di Osage County (2013) le frutta nominations come miglior attrice non protagonista ai BAFTA, ai Golden Globes e agli Academy Awards.

Negli anni recenti, Julia continua a collaborare con registi di talento come Jodie Foster e Billy Ray, recitando in film come Money Monster (2016) e riunendosi con Gary Marshall per Mother’s Day (2016). La sua versatilità e il suo impegno la portano a interpretare una madre combattiva in Ben is Back e in Wonder (2017), tratto dal romanzo di R.J. Palacio, che esplora temi di accettazione e amore familiare.

Le prospettive attuali della diva Julia Roberts

Nel 2022, Julia è co-protagonista con George Clooney in Ticket to Paradise, dimostrando ancora una volta di essere una presenza di grande rilievo nel panorama cinematografico moderno. Con una carriera che continua a espandersi, Julia Roberts rimane un simbolo di talento, resilienza e versatilità, incantando il pubblico di generazione in generazione. La sua capacità di affrontare ruoli sfidanti e la sua dedizione al mestiere la rendono una delle attrici più rispettate e amate di tutti i tempi.

 

Marco Prestipino

 

 

Il “Masterclass tour” di Edoardo Leo arriva a Messina con “Non sono quello che sono”

Nel pomeriggio di lunedì 28 ottobre, l’Università degli studi di Messina ha avuto il piacere di ospitare Edoardo Leo per presentare il suo “Masterclass Tour”. Dopo la tappa a Catania, l’attore è arrivato nel messinese dove ha avuto modo di presentare la sua opera intitolata “Non sono quello che sono”. La pellicola ritratta in chiave moderna l’Otello, mirando a sottolineare l’attualità della tragedia shakespeariana.

Il paragone di Edoardo Leo fra la società del tempo e quella odierna

Dopo la presentazione e i saluti istituzionali della magnifica rettrice Giovanna Spatari, è stato mostrato il trailer del film, seguito da una breve introduzione di Leo. L’opera riprende un tema quanto mai attuale: il feminicidio, enfatizzando proprio le figure maschili e la loro mentalità patriarcale. L’attore ha ammesso che avrebbe voluto portare il tour anche nelle scuole, col rischio che il film risultasse troppo violento per quella fascia d’età e fosse quindi forzatamente edulcorato.

“Non sono quello che sono” si focalizza come già detto sulla figura maschile, la quale secondo il regista al giorno d’oggi ignora il problema della violenza e degli abusi di genere. Lo dimostrano le statistiche: ogni giorno in media due donne sono vittime di feminicidio. I protagonisti maschili dell’opera vengono caratterizzati da una mentalità maschilista e patriarcale incline alla gelosia e alla violenza, mostrata allo spettatore con la premeditazione degli omicidi. L’opera ha poi natura popolare: lo scrittore inglese di fatti ideò una tragedia rivolta al popolo e ciò si riflette nel film con l’utilizzo dei dialetti romano e napoletano, ma anche con la collocazione popolare e pseudo-criminale dei personaggi trattati, contesti in cui la logica del possesso della donna è più tipica.

Edoardo Leo parla di Franca Rame. Crediti: UniVersoMe

Maltrattare l’oggetto del proprio amore

Nella tragedia Edoardo Leo sviscera il complicato rapporto tra Otello e Desdemona, la sua amata. L’amore in questione non è naturale, ha più il carattere di un’ossessione. La stessa natura la ritroviamo anche con Iago che non riesce a baciare Emilia senza prima toglierle la sua identità di donna, come accade quando le copre il viso con un hijab. Questa relazione di amore e gelosia che si trasforma pian piano in odio viene ben spiegata nella resa in italiano della celebre citazione shakespeariana:

“La gelosia è un mostro dagli occhi verdi che sputa nel piatto in cui mangia” (riproposizione di Leo in “Non sono quello che sono”)

Per l’adattamento del film il regista ha studiato l’opera in lingua originale, per ricostruire al meglio la contorta psicologia dietro ogni personaggio. Ad esempio Iago, vero antagonista della storia, riesce a usar espedienti manipolatori per ingannare Otello e fargli credere che l’amata e i suoi cari stessero tramando continuamente alle sue spalle. Lo stesso Iago, che nell’opera originale si tace e scompare dai dialoghi, viene tramutato da Leo in un carcerato che il regista ha immaginato da vecchio, uscito di prigione, mentre racconta la vicenda in un programma tv tramite numerosi flashback. Anche il personaggio di Desdemona è particolare: nonostante il rapporto tossico che ha con l’amato, rimane fedele e gli perdona i soprusi e gli scatti d’ira per amore. Anche quando rivela all’amica Emilia che teme per la sua stessa vita, continua ad affermare che “nemmeno per tutto l’oro del mondo tradirebbe il suo uomo”.

Scena del film di Edoardo Leo - Crediti: UniVersoMe
Scena del film di Edoardo Leo – Crediti: UniVersoMe

La rappresentazione dell’abuso

Iconica è la scena della morte di Desdemona, raccontata da Leo come rappresentazione massima del disprezzo e del disgusto che l’uomo può provare nei confronti della donna. Otello, che ha l’occasione per ucciderla tagliandole la gola, preferisce utilizzare una pistola, simboleggiando la distanza che tiene a mantenere anche nel momento dell’omicidio. Il regista, inoltre, imposta un linguaggio che rispecchia sia l’”Otello” originale che il linguaggio d’odio della società dei giorni nostri. L’utilizzo della parola “puttana” per rivolgersi a una qualsiasi donna è ordinario in “Non sono quello che sono” e, spiacevolmente, l’attore sottolinea come sia anche l’insulto più rivolto alle donne al giorno d’oggi. Ciò viaggia parallelamente all’insulto più rivolto verso gli uomini, ovvero “cornuto”, che indica indirettamente la malafede della donna altrui. È tutto un circolo vizioso che fa capo alla cultura del possesso.

A conclusione dell’evento, per sensibilizzare ulteriormente il pubblico sull’argomento, Edoardo Leo ha recitati un pezzo tratto dall’opera di Franca Rame, attrice impegnata in politica, che fu vittima di uno stupro punitivo da parte di esponenti dell’estrema destra nel 1973. Il suo racconto è testimonianza, attraverso il libro del 1981 “Lo stupro e il docufilm dedicato “Processo per stupro” del 1979. Entrambe le opere ebbero un enorme eco nell’opinione pubblica e scossero le coscienze degli Italiani. Fino a meno di 50 anni fa l’uomo violento aveva la possibilità di appellarsi a sistemi come il delitto d’onore o l’adulterio considerato un crimine imputabile solo a donne. In questo racconto Leo si è confrontato a tu per tu con tutti gli spettatori, instaurando un dialogo attivo che ha visto studenti e docenti coinvolti ed entusiasti.

“Non sono quello che sono” di Edoardo Leo sarà nelle sale dal prossimo 14 novembre.

 

Giuseppe Micari

Carla Fiorentino

Parthenope: l’accidental baroque di Sorrentino

Parthenope
Sorrentino in “Parthenope” rappresenta mille sfaccettature, tipologie umane e maschere, in una ricerca quasi antropologica. – Voto UVM: 5/5

Dopo la prima in concorso al Festival di Cannes è nei nostri cinema dallo scorso 24 ottobre il nuovo film di Paolo Sorrentino con Celeste Dalla Porta, Silvio Orlando, Isabella Ferrari, Luisa Ranieri e Gary Oldman.

Parthenope: Sinossi

La bella Parthenope (Celeste Dalla Porta, da adulta con il volto di Stefania Sandrelli), ragazza partorita in mare, è così attraente da conquistare ogni uomo e donna e vive la gioventù in equilibrio tra una dimensione onirica e una realtà dolorosa. Dal 1950 al 2023, passando per il 1974 e il 1982, seguiamo un’epica del femminile senza eroismi, la cronaca del viaggio che è la vita.

Il “viaggio da fermo” di Paolo Sorrentino

Dice il regista: “a Napoli, dove puoi viaggiare stando fermo. Mi sembrava bellissimo questo meccanismo di identificazione fra una donna e la città stessa. ”

«È impossibile essere felici nella città più bella del mondo…».

Parthenope è il suo alter-ego e il riflesso di una Napoli ipnotica quanto problematica. C’è poi un cambio di scenario, che rappresenta l’età adulta della disillusione con i sobborghi della malavita: un presepe di povera gente allo sbando.

In questo film Sorrentino rappresenta mille sfaccettature, tipologie umane e maschere, in una ricerca quasi antropologica. E parallelamente c’è la storia di Napoli: il colera, il Sessantotto, lo scudetto.

I tanti volti dell’amore di Sorrentino

Parthenope vive la vita rincorrendo la poesia, la libertà della gioventù. “Non so niente ma mi piace tutto”, frase che spiazza e che tradisce, nella sua ingenuità, un’incredibile intelligenza.

Non si lega mai a nessuno, ma tra tutti quelli che la vogliono, la vediamo innamorarsi dell’intelletto e della profondità di tre soli uomini, gli unici a cui, tra l’altro, non si è mai concessa: il fratello Raimondo, il suo mentore e padre putativo, professore Marotta, e lo scrittore John Cheever.

Quest’ultimo, diventa un anello di congiunzione fondamentale tra il male di vivere suo e di Raimondo. “Raimondo vede tutto”, ha una sensibilità fuori dal comune e un’interiorità delicata quanto ingombrante. “Quando sai tutto muori triste e solo, hai conoscenze con l’indicibile”. Lo scrittore e il giovane sono dunque totalmente speculari.

Tra questi due estremi dell’emozione umana, troviamo Marotta, che esprime l’età adulta, la tranquillità in cui si comincia a “vedere”: non si è più tanto impegnati a vivere soltanto, e ci si può permettere il lusso di stare a guardare.

Parthenope
Frame di “Parthenope”. Regia: Paolo Sorrentino. Distribuzione: Piper Film.

La “grande bellezza” di Parthenope

La bellezza è come la guerra: apre le porte”, Cheever delinea la figura di una Parthenope talmente dirompente da sembrare sovrumana e misteriosa.

Il silenzio nei belli è mistero, nei brutti un fallimento”, dice ancora l’autore americano, prevedendo la complessa relazione che collega Parthenope al mondo: la sua carica erotica è anche l’ unica cosa che gli altri riescono a vedere, “le donne belle vengono sempre offese”, perché quando non si concede, viene sminuita. Nessuno sa interpretare i suoi silenzi: “a cosa stai pensando?” è la domanda più frequente, che si ripete in modo quasi assillante per tutto il film, e lei non risponde mai.

Libertà significa Solitudine: il complesso di Parthenope

Le sue scelte “distratte” di libertà, finiscono per farle terra bruciata intorno lasciandola invecchiare da sola: si fa specchio delle dive decadute che ha incontrato nel suo percorso: Flora Malva (Isabella Ferrari), e Greta Cool (Luisa Ranieri), che rappresentano l’inganno dell’apparenza, di chi non vive lo scorrere del tempo e resta bloccato nel proprio passato, rinnegando il mondo che cambia attorno a sé.

La collaborazione di Sorrentino con Saint Laurent per Parthenope

Il costumista del film ha lavorato con Anthony Vaccarello, attuale Direttore creativo di Saint Laurent, qui coinvolto in veste di Costume Artistic Director e produttore, di pari passo con quello del direttore della fotografia e dello scenografo.

“Non sono stati usati capi di repertorio di Saint Laurent: è stato realizzato tutto ex novo. Mi piace dare un colore a un personaggio per caratterizzarlo. Per Parthenope partiamo da colori forti quando è giovane. Nel finale, vanno a scemare, diventando sempre più pallidi.” – Anthony Vaccarello

Questa collaborazione è un chiaro esempio di come il cinema possa collaborare con la moda, forte del suo carattere evocativo, per raccontare una storia.

Frame di “Parthenope”. Regia: Paolo Sorrentino. Distribuzione: Piper Film.

Il gioiello cinematografico di Sorrentino

Questo film propone più volte campi lunghi in cui da Napoli passa su una Parthenope piangente che ci guarda e comincia a ridere mentre i suoni intorno a lei, da ovattati, si fanno sempre più chiari. Alcune volte la camera si sostituisce ai suoi occhi. Altre volte invece, c’è una rottura della quarta parete. In coda alla pellicola, Parthenope ci dice:

«A cosa stavo pensando? L’amore per provare a sopravvivere è stato un fallimento… forse non è così».

Tutta l’estetica del film è volta al bello, all’eccessivo, all’immaginifico. Sorrentino offre molti momenti d’alta cinematografia, come un quadro dal gusto “accidental baroque”: la ragazza in lacrime con i rivoluzionari alla ribalta alle sue spalle.

Colonna Sonora di “Parthenope”

Il film intreccia lingua italiana e inglese: gira il mondo senza muoversi da Napoli, attraverso la musica folk spagnola e la disco portoghese, approda in America con Frank Sinatra, e finisce col cantautorato di Gino Paoli e Cocciante. Centrale, di quest’ultimo, il brano Era già tutto previsto, che racchiude in sé il messaggio della pellicola: era già tutto previsto, bellezza da una parte e dolore dall’altra.

 

di Carla Fiorentino

The Apprentice: il lato di Trump che non vi voleva svelare

The Apprentice non si perde in chiacchiere ed è attuale. Voto UvM: 4/5

 

A poco meno di un mese dalle elezioni presidenziali negli USA, esce nelle sale un film incentrato proprio sulla figura di uno dei due candidati alla Casa Bianca: Donald J. Trump. “The Apprentice – Alle origini di Trump” è stato mostrato in anteprima al Festival di Cannes in quanto concorrente per la prestigiosa Palma d’Oro. L’ambientazione degli anni ’70 e ‘80 lo vede agli albori della sua lunga attività imprenditoriale, interessandosi all’apprendimento dei trucchi del mestiere. L’ex presidente è magistralmente interpretato da Sebastian Stan, conosciuto per l’interpretazione del Soldato d’Inverno nei film Marvel, affiancato da Jeremy Strong nei panni dello spietato Roy Cohn.

Da piccolo gestore immobiliare alla Trump Tower

La storia del film inizia con un Donald irriconoscibile che cerca di barcamenarsi nell’adrenalinica New York. All’ombra del padre, il rude Fred Trump, è poco considerato quando si tratta di chiudere affari. La sua fortuna risiede nell’azienda immobiliare di famiglia, anche se Fred pone poche speranze nel figlio. Il loro rapporto è di fatti per lo più composto da conflitti, soprattutto quando si parla del processo federale in cui la famiglia è coinvolta. In una delle serate dell’alta società newyorkese, fa la conoscenza di Roy Cohn, rinomato avvocato che viene visto come la soluzione ai problemi legali. Roy si presenta apparentemente senza un briciolo di umanità, non sapendo che ciò farà la fortuna di Trump.

Con un po’ di insistenza Donald riesce a diventare suo cliente: l’incontro gli cambierà la vita poiché l’avvocato gli trasmette i propri insegnamenti. Tre spietate regole per vincere nel mondo degli affari, dei processi e della vita che diventeranno un vero e proprio mantra per il costruttore. Il suo primo obiettivo è quello di farsi notare vincendo una grande scommessa: l’acquisizione del Commodore, un lussuoso hotel in rovina, al fine di rilanciare l’economia cittadina. Grazie all’aiuto di Cohn, che non si fa scrupoli di nessun genere, riesce a vincere il processo contro l’azienda. In seguito riesce anche ad ottenere la struttura del Commodore senza tassazione. Questo lo porta ad affermarsi nella scena pubblica come costruttore, come gli piace definirsi, in ascesa nella grande mela.

Il rapporto col mentore

Il suo avvocato gli insegna anche come curare la sua immagine, che presto imparerà a elevare sopra ogni cosa attorno a lui, tanto da affermare che l’utilizzo del suo nome per oggetti di lusso o grandi edifici “non ha niente a che vedere con l’ego, semplicemente vende”. La sua vera vocazione si palesa essere quella della figura di spicco più che del grande uomo d’affari che non sbaglia un colpo, anzi tutt’altro. Lo stesso Cohn, colui che l’ha costruito, inizia ad essere fatto da parte.

The Apprentice: Individualismo oltre ogni cosa

Dopo l’apertura della Trump Tower e l’espansione spropositata dei casinò ad Atlantic City iniziano a sorgere i problemi relativi ai mutui accumulati per queste grandi costruzioni. Anche la relazione con la sua prima moglie, Ivana, conosciuta durante una delle tante cene della New York per bene, inizia a scricchiolare. L’avanzamento dell’età e la fama portano Donald a compiere scelte ambigue ed egoistiche: la scarsa considerazione del fratello Fred Jr. porterà alla sua morte, perde interesse in Ivana, costretta a sottoporsi a una mastoplastica, e allontana definitivamente Roy Cohn. Nel film ci sono continui riferimenti ad avvenimenti futuri, come la creazione del motto “Make America Great Again”. Non mancano neanche domande riguardo una eventuale candidatura come presidente.

The Apprentice
Lo stile del maccartista.  Fonte: npcmagazine.it

La figura di Cohn come specchio della società

Per analizzare bene The Apprentice è necessario dare uno sguardo anche al mentore dell’imprenditore. L’avvocato Roy Cohn, seguace del maccartismo, è additato come il diavolo, anche se andrà a creare una creatura ben più spregevole. Come già accennato, il mantra di Donald sono state le determinate tre regole di Cohn: attaccare, attaccare, attaccare, senza dare tregua, negare la verità fino a crearsi la propria verità e infine mai confessare, al fine di risultare sempre vincitore. Tutto questo, unito a qualche trucchetto non propriamente legale, fanno di Roy l’avvocato e il maestro perfetto, ma solo all’apparenza. Dietro i suoi processi contro comunisti e omosessuali, si nasconde un uomo anch’esso omosessuale, che finirà per contrarre l’AIDS negli anni dell’epidemia. La rivelazione del suo lato umano, anche nei confronti del compagno, porterà Trump ad allontanarlo e a ripudiarlo per la sua malattia.

The Apprentice
Roy Cohn interpretato da Jeremy Strong. Fonte: bbc.com

Conclusioni su The Apprentice

La de-umanizzazione di Donald passa dalla liposuzione e dalla chirurgia estetica fino all’abuso della moglie. Questa scena in particolare ha creato problemi nella distribuzione del film stesso, che si pensava fosse ideato per celebrare ancora di più la figura del candidato presidente. Lo stesso Trump ha cercato di oscurarlo, minacciando azioni per vie legali, ma mai effettivamente attuandole. The Apprentice si conclude con il climax della scrittura dei primi libri del magnate, che ormai diventato un uomo copertina si prepara a prendersi il mondo intero con insaziabile ambizione.

 

Giuseppe Micari

Il Robot Selvaggio: tra Artificio e Natura

Il robot selvaggio è un film che unisce sapientemente il classico e l’innovazione
Voto UVM: 5/5

 

Il Robot Selvaggio è un film d’animazione del 2024 targato Dreamworks, scritto e diretto da Chris Sanders (regista di Lilo & Stitch Dragon Trainer). È l’adattamento dell’omonimo libro scritto da Peter Brown.

Il Robot Selvaggio: Trama e personaggi

Il film narra le vicende dell’unità robotica ROZZUM 7134, detta Roz (nella versione italiana la voce è di Esther Elisha). Prodotta dalla Universal Dynamics, quest’unità, così come le altre della linea ROZZUM, è stata programmata per aiutare noi umani a svolgere le più svariate mansioni. Un giorno il mezzo che trasportava Roz e altre unità ROZZUM si schianta su un’isola dalla natura incontaminata. Qui il robot dovrà riuscire a “sopravvivere” in un ambiente per il quale non è stato programmato e, soprattutto, dovrà capire come fare da “madre” a Beccolustro, un’ochetta trovata da Roz stessa a seguito di un incidente. Ad aiutare Roz ci sarà anche la volpe Fink, dapprima interessata a sfruttare il robot per le sue comodità, finendo poi per affezionarsi davvero sia al robot che a Beccolustro.

La nascita di Beccolustro. Fonte: UCI Cinema

Istinto e programmazione

Uno dei temi principali del film è la relazione tra natura e tecnica, entrambe rappresentate nelle loro forme più pure: la foresta incontaminata e il robot. Da un lato, puro istinto di sopravvivenza, dall’altro una macchina che segue pedissequamente un codice preimpostato. Due modi di stare al mondo apparentemente molto diversi, ma in fondo nemmeno troppo, poiché anche gli animali, per la sopravvivenza, seguono quella che Roz definisce la loro programmazione. Ma se il robot è programmato per aiutare gli esseri viventi, gli animali sono programmati per autoconservarsi. Persiste un’importante differenza: gli animali mostrano comunque di sapersi adattare ed essere flessibili. Questo non vale per i robot, i quali, eccezion fatta per Roz, seguono in maniera rigida e inflessibile la loro programmazione, dimostrando di possedere un’intelligenza (artificiale) che dopotutto intelligente non è.

Adattarsi

Roz è un robot costruito apposta per portare a termine l’incarico che gli viene assegnato. Ma il destino le riserva un compito davvero difficile: quello di genitore. La genitorialità però, non è iscritta in nessuna sua programmazione, ed esiste un solo modo per assolverla: adattarsi, come dice una madre opossum incontrata da Roz. Il robot è quindi costretto ad andare oltre la sua programmazione, che comunque rimane alla base della sua personalità, ma non è più un semplice insieme di protocolli. Non è più un’intelligenza artificiale, lineare nei suoi algoritmi, ora diventa quella che potremmo chiamare intelligenza adattiva. Roz non sarà il solo personaggio a seguire questo percorso, anche gli animali impareranno qualcosa da lei, ma di questo non voglio anticipare niente, lascio al lettore il compito di scoprirlo guardando la pellicola.

Roz e Fink cercano di crescere Beccolustro. Fonte: Dreamworks, Universal Pictures

Non Cosa raccontare, ma Come raccontarlo

Fino a qui, il film non pare nulla di nuovo: in effetti, la storia non è così rivoluzionaria. Viene però rappresentata in maniera eccellente e con introspezione immediata. Un ingrediente della pellicola che mantenendo leggerezza e bellezza, porta il giovane spettatore alla facile comprensione e l’adulto alla riflessione. Le animazioni sono una gioia per gli occhi, e sfruttano alcune delle tecniche più recenti che stanno rinnovando l’estetica occidentale dei film d’animazione. A ciò si aggiunge la colonna sonora, di Kris Bowers, la quale si accompagna perfettamente ai momenti principali del film, coinvolgendo lo spettatore nelle scene emotivamente più alte della pellicola. È anche facile ritrovarsi nei personaggi, tutti mossi dal medesimo scopo: trovare il proprio posto, obiettivo un po’ di tutti. Questo film ci ricorda che non è tanto il cosa racconti, ma il come lo racconti a fare la differenza.

Conclusioni su Il Robot Selvaggio

In conclusione, Il Robot Selvaggio vale il prezzo del biglietto, anche già solo per il comparto tecnico, il quale è un vero spettacolo. Inoltre, c’è tanto altro da dire sul film, che volutamente ho omesso proprio per non rovinare la visione a chi volesse recuperarlo. La pellicola ha tanto da dire un po’ a chiunque, come ogni opera d’arte degna di tale nome dovrebbe riuscire a fare.

 

 

Alberto Albanese

Megalopolis: il “film della vita” di Coppola è Cinema ma non convince

Megalopolis
Un film che dal punto visivo coinvolge e che con un linguaggio particolare vuole lanciare un messaggio, ma lo fa con ritmo discontinuo e risultando anche “fuori tempo” Voto: 3/5

 

Megalopolis è un film del 2024 scritto, autofinanziato, prodotto e diretto da Francis Ford Coppola (regista di film come Apocalypse Now, o la trilogia de Il Padrino). È stato presentato in anteprima al Festival di Cannes tenutosi lo scorso Maggio e anche di recente, al Festival Del Cinema Di Roma, dove ha rilasciato una stupenda intervista.

Il cast è composto da Adam Driver, Giancarlo Esposito, Nathalie Emmanuel, Aubrey Plaza, Laurence Fishburne, Dustin Hoffman, Shia LaBeouf, Jon Voight.

Trama

Cesar Catilina (Adam Driver) è una delle persone più importanti di New Rome, affermato architetto che ha vinto il Premio Nobel per aver inventato il Megalon, un materiale capace di far avere una visione futura della città, che appare piuttosto rivoluzionaria. È ingiustamente accusato di aver avuto un ruolo nel suicidio della moglie dal procuratore distrettuale Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito). Quest’ultimo è divenuto sindaco e vuole ostacolare a tutti i costi il progetto architettonico di Cesar, che consiste nell’utilizzo del Megalon per restaurare la città e costruire Megalopolis, per mantenere una visione conservatrice e non lasciare che la città progredisca. Cesar ha l’appoggio di suo zio Hamilton Crassus III (Jon Voight), mentre suo cugino Clodio (Shia LaBeouf) cerca di ostacolarlo con una campagna politica. Julia (Nathalie Emmanuel) è la figlia del sindaco, diverrà presto l’amante di Cesar e questo la porterà a ritrovarsi combattuta tra quest’ultimo e suo padre Franklyn.

In tutto questo, la città sta arrivando sempre di più verso la decadenza.

Megalopolis, osare alla maniera di Francis Ford Coppola

Nel bene e nel male, Francis sa come fare il regista e il suo tocco ha dato una svolta non indifferente alla storia del cinema. Appartenente alla categoria di registi che hanno formato la nuova Hollywood (la stessa dove si annoverano anche Steven Spielberg, Martin Scorsese, Stanley Kubrick), Coppola è sempre stato un uomo che adora fare cinema e nonostante abbia avuto diverse difficoltà nella vita e non tutti i suoi film siano stati dei successi, non si è mai arreso e ha sempre voluto osare o sperimentare alla regia, uscendo sempre a testa alta. La sua passione per il cinema si vede dai suoi prodotti e dal suo stile osmotico. I suoi film uniscono intelletto, bellezza, stile ed emozione e riescono a toccare sia la mente che il cuore, con un tocco che include sia la poetica che la drammaticità e che garantisce uno spettacolo visivo e sentimentale.

Anche nel “peggiore” dei suoi film si percepisce ciò e che non è infallibile lo ha dimostrato ora nel suo “film della vita”: Megalopolis.

Megalopolis
Veduta di New Rome.  Fonte: Eagle Pictures

 

Il Caso “Megalopolis”

In un’epoca difficile come questa, il cinema sembra che punti più sui guadagni che sulla comunicazione. Questo non sta a significare che sia un male ed è giusto che ci siano i prodotti d’intrattenimento (che possono essere anche questi di qualità), ma non si deve perdere la vera magia del cinema e l’amore per esso.

Registi come Coppola hanno un problema, ossia sono rimasti ancorati a vecchie tradizioni (nobilissime) senza adeguarsi alla contemporaneità. Ciò porta le case di distribuzioni a non scommettere tanto su di loro, il che rende assurdo che il regista de Il Padrino faccia fatica a lavorare e che debba autofinanziarsi un progetto verso cui credeva tantissimo. Investire diverso tempo e molti soldi per il “lavoro della vita” può portare ad un grande risultato, ma solo perché si parla di Coppola non significa che sia per forza un capolavoro.

Megalopolis
Cesar Catilina (Adam Driver). Fonte: Eagle Pictures

“Megalopolis” è cinema con la C maiuscola, ma capace di far discutere

Megalopolis è cinema con la C maiuscola, una di quelle pellicole che comunicano messaggi con un linguaggio non troppo semplice ed estetica ricercata. E’ palese che il regista ci tenesse a realizzare una pellicola che avesse idee sue personali da inserire nei personaggi. Una denuncia alla società contemporanea su tutti i fronti, rappresentata qui come un’antica Roma che fa fatica ad adeguarsi ai tempi che corrono. L’odissea che ha dovuto affrontare Coppola nella realizzazione del suo progetto viene raccontato con una favola metaforica. Anche il personaggio di Cesar ha delle similitudini con Coppola stesso, è un uomo che ha una grande visione che non viene compresa da tutti.  Un uomo che deve fare i conti con il tempo che scorre e con la difficoltà di adeguatezza che lo contraddistingue. Megalopolis è una pellicola che mostra una visione del futuro già passata e quindi “fuori tempo”.

La trama del film è semplice, ci si può fare un’idea sugli ideali del regista, ma è lontano dall’essere definito un capolavoro. Alcuni errori sono stati commessi, come un ritmo discontinuo e con una mancata cura nella scrittura di qualche personaggio.

Un film forse già vecchio

Se da una parte si può considerare una storia che rispecchia il regista, con la sua visione e il suo stato d’animo, dall’altra questo mancato adattamento ai tempi che corrono hanno reso Megalopolis un film già “vecchio” ancor prima che uscisse, perché la visione sul futuro è una visione già passata. Megalopolis è un film destinato a far dividere e a far discutere, perché non sarà compreso da tutti, naturalmente. C’è chi lo definirà un capolavoro e chi invece, un pasticcio confusionario con delle scene che sfiorano anche il trash, in alcuni momenti.

Ma lo si può anche considerare un film che attira l’attenzione e che riesce trasmettere qualcosa, notando tuttavia anche difetti che stonano con la pellicola, su alcuni fronti.

 

 

Giorgio Maria Aloi