American Crime Story- The People Vs OJ Simpson: quando la TV fa luce su aspetti taciuti

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E’ arrivata in Italia, da quasi un mese, una storia che in America ha letteralmente fatto andare “blew people’s minds” cioè fuori di testa le persone : stiamo parlando di American Crime Story “The People vs OJ Simpson”.
La serie rientra nel genere antologico criminale e racconta il caso di cronaca nera che vede protagonisti l’ex giocatore di football OJ Simpson , l’ex moglie Nicole Brown e un cameriere di nome Ronald Goldman. Gli ultimi due furono trovati morti nel giugno del 1994 all’ingresso della casa di Nicole Brown.
Per una serie di prove trovate dai poliziotti nei dintorni della casa del giocatore questo fu il primo indagato. Il fatto iniziò ad avere grande risonanza mediatica, sopratutto quando fu emesso il mandato di arresto contro OJ e il giocatore, insieme a un amico, scappò sulla sua Ford Bronco in un inseguimento che divenne famosissimo. Una nazione si fermò: la finale della NBA fu trasmessa in un quadratino rispetto alle riprese delle macchine che correvano sulla interstatale 405.
Fu un caso storico sia a livello mediatico che di tematiche, anche se il primo ebbe più influenza. OJ Simpson era un uomo conosciuto, sia per lo sport che per l’interpretazione in “Una pallottola spuntata”,  amato da tutti e di colore per cui, inutile da dire, che la carta del “razzismo” fu immediatamente utilizzata. In quegli anni a Los Angeles scoppiarono rivolte su rivolte, soprattutto per i comportamenti violenti della polizia nei confronti degli afroamericani e il caso Rodney King.
E’ una miniserie che ricostruisce minuziosamente i fatti, il circolo mediatico costruito attorno, ma soprattutto il profilo psicologico dei protagonisti: era questo che il cast stellare voleva trasmettere.
Sarah Paulson (American Horror Story, 12 anni schiavo, Carol) interpreta la procuratrice Marcia Clark “con empatia e nelle sue diverse sfumature” (parole della stessa donna) la quale fu denigrata dai media più per il suo aspetto fisico e per la sua vita privata che per il lavoro compiuto. Era invisa dalla giuria perché appariva schietta e sicura di sé quando stava semplicemente portando avanti la sua tesi cioè che OJ Simpson fosse colpevole e dovesse andare in prigione.
Courtney B. Vance (Law & Order CI , Space Cowboys) interpreta eccelsamente l’inarrestabile John Cochran avvocato di punta del dream team dei difensori di OJ, il quale tenne il caso soprattutto per la questione razziale.
Poi abbiamo Cuba Gooding Jr ( Jerry Maguire, Qualcosa è cambiato, The Butler) nel difficile ruolo di OJ Simpson il quale ha affermato di aver interpretato la parte alternando la convinzione di essere colpevole a quella di innocente, ed il risultato è ottimo.
John Travolta e Robert Schwimmer (Friends, Madagascar) interpretano rispettivamente l’avvocato Robert Shapiro (famoso avvocato delle star) e Robert Kardashian migliore amico di OJ Simpson il quale alla fine abbandonerà l’amico perché convinto fosse colpevole.
L’hanno definito il processo del secolo e questa miniserie potrebbe entrare nella storia ugualmente per la linearità della scrittura, la bravura del cast che riesce a coinvolgere lo spettatore analizzando la psicologia dei personaggi , persone le quali, nella maggioranza, sono ancora vive e vegete ed hanno trascorso quei 9 mesi di processo sotto la lente di ingrandimento dei media, trattati come carne da macello per vendere più copie dei tabloid. L’obiettivo è quello di ricordare che al centro del processo vi è la morte di due persone innocenti, omicidio che passò quasi in secondo piano.
L’esperimento è sicuramente riuscito, 40 minuti di intrigante televisione e buona recitazione. La Paulson e Vance sono incredibili , soprattutto se si tiene conto della notizia che la prima abbia girato contemporaneamente American Crime Story ed American Horror Story Hotel, facendo comprendere appieno il calibro di questa attrice.
Quando vediamo opere televisive come questa ci frulla in testa una domanda venata di amarezza : perché in Italia non riusciamo a girare serie tv di questo livello ?
Arianna De Arcangelis

Essere un samurai: una storia fra onore e dovere

 

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Tasogare Seibei (The Twilight Samurai), è un film del 2002 diretto da Yoji Yamada.

Seibei Iguchi (Hiroyuki Sanada) è un samurai al quale la vita ha proposto una grande sfida. La morte della moglie per tubercolosi lo lascia inerme e da solo a dover badare alla sua famiglia, composta da due figlie e la madre anziana con evidenti segni di demenza senile.

Il film si apre sul letto di morte della moglie del nostro samurai, accompagnata da una narratrice esterna che ne descrive la vicenda e la situazione circostante, senza alcuna presentazione di norma. Viene introdotto Seibei e la sua routine, che si basa sull’alternanza fra lo studio propedeutico per la sua “professione” di samurai e la sua attività domestica, accudendo le figlie, la madre e lavorando i campi, trovandosi spesso costretto a dover rifiutare inviti dei suoi amici per poter adempiere ai suoi compiti. Questa situazione lo porterà a trascurare sé stesso a tal punto da vestirsi di una tunica vecchia e sgualcita e perfino a non curare la propria igiene, con grande disappunto dei suoi colleghi il quale lo porterà ad avere problemi sul posto di lavoro.

La situazione sembra sfuggirgli di mano quando, in suo soccorso, arriva la giovane e bella Tomoe Linuma (Rie Miyazawa), sua amica d’infanzia, che si propone come aiuto in casa con le faccende domestiche e inizia a intrapendere anche un rapporto, quasi materno, con le figlie. Seibei scopre, dal fratello di Tomoe, che la ragazza è sposata ma è riuscita ad ottenere il divorzio poiché il marito alcolizzato non aveva riguardi nei suoi confronti e spesso la maltrattava. Sarà proprio l’incontro di Saibei con il marito di Tomoe, anch’egli samurai, a cambiare le sorti della sua vita.

Candidato agli Oscar 2002 come Miglior Film Straniero, “Tasogare Seibei” è un film costituito da pregi e da difetti. Benché agli occidentali non sia usuale essere a contatto con film dall’estremo oriente, quest’ultimo riesce, almeno nell’ambito della regia, a compiere un buon lavoro. E’ sicuramente diverso da ciò che ci si possa aspettare, con miseri combattimenti fra samurai (sostanzialmente due), che più sul lato fisico, si concentrano sul lato psicologico e le diverse difficoltà che un uomo solo, indipendentemente che sia un samurai o meno, deve affrontare.

Tuttavia in diversi momenti la pellicola si presenta piuttosto lenta, portando lo spettatore a pensare se determinate scene o alcuni momenti fossero davvero necessari. Nel complesso, il film si presenta bene, non eccessivamente emozionante, ma neppure eccessivamente sottotono. E’ molto utile per comprendere una dimensione lontana dalla nostra che, nonostante nell’era moderna sia stata molto avvicinata al mondo occidentale, è comunque difficile percepire, riconoscendo limiti e analogie di due culture necessariamente diverse.
                           Giuseppe Maimone

Brancaccio – Storie di Mafia Quotidiana

  “Carme’, tu ci sei mai stato in treno?”
“E per andarmene dove?  C’è qualche posto meglio di Palermo?”
Brancaccio è lo sfondo e l’involucro avvolgente di molte storie. Così come delle vite che al suo interno si incrociano. E’ un luogo stantio e sospeso, separato apparentemente dal resto del mondo, dove gli eventi si ripetono seguendo ciascuno il medesimo corso circolare in un’atavica perpetua immobilità. Di recente la Bao Publishing ha curato questa nuova edizione del fumetto, uscita nelle librerie nel mese di febbraio. Al soggetto scritto da Giovanni di Gregorio che ha ottenuto nel 2007, all’epoca della prima pubblicazione, il riconoscimento Attilio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura di un romanzo grafico e il premio Carlo Boscarato, si è aggiunta un’inedita appendice illustrata a colori di Claudio Stassi e una nuova copertina.
Entrambi gli autori, affermati e di fama internazionale, sono nati a Palermo, e già nelle dediche di apertura mettono nero su bianco quel plumbeo senso di nostalgia e di rassegnazione di chi ama la propria terra ma è costretto a lasciarla. Lo stesso destino che in un altro contesto, quello proprio del fumetto e della Palermo della metà degli anni ’90, Nino, l’adolescente protagonista delle illustrazioni, interpreta attraverso il desiderio di partire con il treno che di notte porta nel continente. La fuga verso un futuro diverso e migliore è solo uno degli aspetti che formano l’intreccio delle piccole storie quotidiane che agitano Brancaccio, il quartiere industriale che Pino Puglisi aveva sottratto alla mafia e fatto rivivere grazie alla forza comunicativa delle sue parole prima di venire assassinato nel settembre del 1993. Ma, se la mafia uccide, lo fa anche senza pallottole o bombe: “basta far finta che non ci sia”.
L’esigenza urgente di parlare e raccontare, come Rita Borsellino sottolinea nella prefazione, è la causa che ancora oggi portano avanti Libera, Addio Pizzo ed altre realtà e associazioni che operano nei quartieri della città per contrastare la mentalità mafiosa e interrompere l’immobilità che storie come quelle narrate rappresentano. La  capacità del fumetto di rivolgersi soprattutto ai giovani è interprete efficace di questa esigenza. Le linee dei disegni tracciano con nettezza, come i limiti della ferrovia, i confini di un quartiere schiacciato dalla misera e dalle pieghe dell’omertà: le moto rubate e rivendute nelle officine, le lotte dei cani cresciuti con le bastonate perché imparino ad attaccare, la malasanità e la corruzione negli ospedali, l’acqua che manca per giorni interi, i favoritismi e le mazzette. Dall’altra parte la rivalsa del doposcuola e le figure eroiche che in questa Palermo si incontrano, unite da un filo che le congiunge, ma che finisce per travolgerle:  Nino appunto, un venditore ambulante di panelle, e Angelina.
Il cambiamento può avvenire se non si rinuncia a gridare a gran voce. E ciò vale da sempre per Brancaccio e oltre Brancaccio, come nel titolo della prefazione. Il fumetto è un viaggio intenso e doloroso attraverso i chiaroscuri dei disegni di luoghi che ci sono familiari. E’ un romanzo disegnato che ha ottenuto un ampio consenso da parte dei lettori già nella prima edizione, e che in questa nuova veste torna a parlare di sé, senza smettere di parlare agli altri.
              
  Eulalia Cambria           

Nuovo Cinema Italiano, la rinascita è in corso

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Mi è capitato, ultimamente, di portare la mia attenzione di assiduo cinefilo ad un fenomeno che dagli  addetti ai lavori è stato ribattezzato come “Il rinascimento del cinema italiano”. Questo fiorente periodo del mercato cinematografico del nostro paese è da collocare soprattutto negli ultimi anni dove le uscite in sala sono state sicuramente variegate e di alto livello. Personalmente mi ritengo fortunato (e anche un po’ bravo dai) nell’essere riuscito a visionare nell’ultimo anno, al cinema, alcune delle pellicole più interessanti che mi hanno fatto ricredere sul livello del cinema italiano e su quello che ancora mi può offrire. Ci tengo quindi a fare una riflessione e il punto della situazione sulle condizioni del cinema nostrano, anche alla luce dei recenti David di Donatello cercando, magari, di consigliarvi la visione dei film più meritevoli. Partiamo.

Il mio ricordo va a, più o meno, un anno fa. Era il 14 maggio del 2015, il giorno del mio compleanno. Decisi di andare al cinema, da solo. Il film che in quel periodo ha attirato la mia attenzione è stato “Il racconto dei racconti”, pellicola diretta da Matteo Garrone. Arrivato al piccolo cinema della mia città, mi resi conto che la sala era completamente vuota. Non c’era nessuno. Subito pensai che tutto questo fosse molto triste, anche se guardare un film al cinema con la sala tutta per me è stata un esperienza straordinaria. Le mie attese per il film erano molto alte: un film italiano fantasy. Bastava questo per far salire l’hype per il film (anche perché ero reduce da una maratona de “Il trono di spade” che un tantino ti fa appassionare al genere). Devo dire che le attese sono state pienamente rispettate. Mi sono trovato davanti un’esperienza cinematografica straordinaria: le storie, i luoghi, i paesaggi e i personaggi erano tutti sconvolgenti. La prima cosa che ho pensato è stata: “Davvero un bel film, e non un bel film per essere un film italiano, ma proprio un bel film.”

Il punto sulla mia, appena nata, riflessione sull’argomento si era incentrato su come Garrone fosse riuscito in questo intento. Ne ho visti di bei film fantasy stranieri, ma questo era diverso. Non faceva il verso ai film americani, ma allo stesso tempo mi dava le stesse emozioni di una grande produzione d’oltreoceano. Garrone era riuscito a prendere un genere come il fantasy e farlo diventare italiano. Non mi trovavo di fronte ad una brutta copia de “Il Signore degli Anelli”, ma di fronte ad una storia italiana (il film infatti è tratto dalle fiabe dell’autore italiano del ‘600 Giambattista Basile) che usava un linguaggio nuovo, il linguaggio italiano. E finalmente ho trovato il punto della mia riflessione. L’Italia è riuscita ha prendere un genere come il fantasy (con tutti i rischi che questo può comportare) e lo ha reso italiano. L’Italia fa i generi cinematografici e li fa bene.

Da quel momento mi è capitato di vedere altri film di genere al cinema. Ricordo con piacere il noir politico di Sollima in “Suburra”. Ricordo con tantissimo piacere un film come “Lo chiamavano Jeeg Robot” di uno straordinario Gabriele Mainetti che è riuscito a rendere italiano un genere come il Cinecomic, con una produzione di neanche 2 milioni di euro, a testimonianza che quando si ha un’ idea solida i soldi passano in secondo piano. Ricordo con altrettanto piacere il recente film di Matteo Rovere “Veloce come il vento” che mi ha fatto saltare sulla poltroncina del cinema dall’emozione con un film d’azione/sportivo. Tutti questi film hanno reso generi che a noi sembravano sconosciuti e addirittura inarrivabili come generi “italiani DOP”.

Oltre a questi film di genere ci tengo a consigliare altri film usciti nell’ultimo anno dall’Italia. Se siete fan di Maccio Capatonda apprezzerete tantissimo la sua “fantozziana” commedia “Italiano Medio” che fa una sprezzante critica al nostro paese in pieno stile Maccio. Se amate i film estremamente drammatici di Muccino non perdetevi “Padri e Figlie” con uno straordinario Russel Crowe. Personalmente ho amato anche l’ultimo film del maestro Paolo Sorrentino “Youth – La giovinezza”, un romantico e surreale modo di guardare la terza età. Da guardare anche l’ultimo film del compianto Claudio Caligari “Non essere cattivo” con due giovani attori italiani lanciatissimi in questo momento come Luca Marinelli e Alessandro Borghi. E per finire vorrei consigliare anche “Perfetti sconosciuti”, il film di Paolo Genovese (vincitore quest’anno del David di Donatello come miglior film), non vi troverete davanti la solita commedia italiana. La lista potrebbe essere più lunga ma mi fermo qui.

Insomma direi che di carne al fuoco ce ne è parecchia. Film nuovi, freschi e che attirano il pubblico in sala. Il cinema italiano si prepara ad un nuovo fiorente periodo, grazie anche a chi ha messo le basi in questi ultimi anni. È infatti grazie ai registi e agli autori che negli ultimi anni hanno avuto il coraggio di sperimentare e di azzardare che oggi possiamo guardare al futuro speranzosi. Naturalmente continueremo a vedere nelle sale italiane i cinepanettoni e le commediole-svuotacervello ma la speranza è che il pubblico, piano piano, decida di cambiare sala in favore di film come quelli sopracitati. Il cambiamento è iniziato, sta a noi riempire i cinema italiani e favorire il Made in Italy. Quello di qualità. Quello che ci fa saltare sulle poltroncine. Quello che riesce ad emozionarci e sorprenderci. Quello del Nuovo Cinema Italiano.

Nicola Ripepi

 

Derek, Meredith e Grey’s Anatomy: perché metterlo in play

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Ci sono serie tv e serie tv: drammatiche, ironiche, comiche, sanguinolente; corte, lunghe, che durano dai 20 ai 120 minuti.

Ma una serie tv, per tenerti davvero incollato alla sedia e farti perdere il senso del tempo e dello spazio, deve avere una trama coinvolgente e sconvolgente, una trama che ti lasci sempre con il fiato sospeso, almeno quel tanto che basta per dirti: ’’ok, dormirò in un altro momento’’ e farti così rimettere play sul tuo sito di streaming.

Una di queste serie è Grey’s Anatomy. Al bando gli scettici che dicono che è solo un’enorme cavolata, più lunga di Beautiful e troppo distante dalla realtà: quando inizi a guardarla non puoi più farne a meno. Io, da fan numero uno, sono riuscita a convertire un sacco di persone e a farle diventare tossicodipendenti da Grey’s Anatomy.

Grey’s Anatomy è una serie televisiva statunitense trasmessa dal 2005. È un medical drama incentrato sulla vita della dottoressa Meredith Grey, una tirocinante di chirurgia nell’immaginario Seattle Grace Hospital di Seattle. Il titolo di Grey’s Anatomy gioca sull’omofonia fra il cognome della protagonista, Meredith Grey, e Henry Gray, autore del celebre manuale medico di anatomia Gray’s Anatomy (Anatomia del Gray). Seattle Grace (poi Seattle Grace Mercy West e, ulteriormente, Grey Sloan Memorial Hospital) è invece il nome dell’ospedale nel quale si svolge la serie. I titoli dei singoli episodi sono spesso presi da una o più canzoni.

Tra personaggi che vanno e vengono, che nascono e muoiono, Grey’s Anatomy riesce a lasciare veramente un segno. Durante la progressione della trama, che si svolge in 12 stagioni per un totale di 268 episodi, ognuno di noi può trovare una citazione, una situazione, un momento in cui riconoscersi. Ed io, da studentessa in Medicina, posso dire che (a parte qualche caso assolutamente irreale) è anche molto vicina alla realtà medica. I gesti, i protocolli, il lessico, infatti, sono assolutamente presi dal campo.

Tutti conosciamo Meredith e Derek, sappiamo la loro storia d’amore e chi come me è da 11 anni che sta appresso a loro e ci ha perso cuore, lacrime e vita, sa che non sono solo ‘’Meredith e Derek’’: sono due personaggi pieni di umanità, che fanno e dicono cose che tutti noi abbiamo fatto e detto, anche e soprattutto le peggiori. È questo il segno che contraddistingue tutti i personaggi della serie, dal più importante al meno: l’umanità. Sono esseri umani a 360°, con i difetti e i pregi, con l’egoismo, i sogni, la cattiveria, la gentilezza, la bontà, la forza e la debolezza, le paure e il coraggio.

Ed, a parte l’intramontabile ‘’prendi me, scegli me, ama me’’, il sesso e la tequila, ci vuole poco a capire che Shonda Rimes (l’autrice) voleva andare oltre a tutto questo e insegnare ad accettare argomenti che ancora sono, per la società, tabù.

È una serie tv che vuole insegnare la speranza, il rischio e la speranza che può derivare dal rischio. Che non tutto è come sembra, che una coppia perfetta può spesso scoppiare ma questo non esclude il fatto che si può andare realmente avanti, a qualsiasi età. Che puoi sempre conoscere una persona, che essa sia maschio o femmina.

Vuole abbattere i muri dell’omofobia. Tra i personaggi principali abbiamo una coppia lesbica costituita da una donna omosessuale ed una bisessuale, vuole far capire alle persone che non c’è niente di strano nella transizione, che i transgender sono persone come noi in corpi nei quali stanno troppo stretti.

Vuole insegnare che non esistono barriere di tipo religioso, che la scienza e la religione possono coesistere e convivere, che essere ateo non è sinonimo di essere vuoto. Insegna il perdono, l’amicizia, la lealtà, la sana competizione e quella che ti porta a impazzire perché parte da basi sbagliate.

Tra gli argomenti principali troviamo anche temi molto attuali quali l’adozione e l’inseminazione artificiale. Viene anche approfondito l’argomento ‘’psicoterapia’’, cercando di trasmettere il messaggio che prendere consapevolezza dei propri problemi e affrontarli con qualcuno che può realmente aiutarti non è una vergogna ma un segno di coraggio.

E che, a prescindere da tutto, negli ospedali si fa tanto sesso e ci sono davvero tantissimi fighi e fighe.

Elena Anna Andronico

Sons of Anarchy, un affresco della vita criminale

 

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Quando verrà il momento, dovrà dire ai miei figli chi sono realmente. Non sono una brava persona. Sono un criminale e un assassino. I miei figli devono crescere odiando la mia memoria.

– Jax Teller

Ricetta per una buona serie Tv: storia interessante, personaggi convincenti e che sia tecnicamente godibile. Di solito, nell’approcciarmi ad una nuova serie, questi sono gli elementi base che mi convincono ad iniziarla o meno. Ma una serie è anche di più. Per convincermi nel proseguire la visione ci sono altri fattori chiave come possono essere le tematiche trattate, l’evoluzione dei personaggi e della trama orizzontale. Questo fa sì che il prodotto che ne esce fuori sia un capolavoro, come un bel quadro. Ecco, partendo da questa semplice premessa, parliamo un po’ di Sons of Anarchy, serie che ho sempre visto (superficialmente) con molta diffidenza.

La storia è ambientata a Charming, una fittizia cittadina della California. Le vicende girano intorno ad un club di motociclisti, appunto il Sons of Anarchy Motorcycle Club, Redwood Original (SAMCRO). I personaggi principali sono il giovane protagonista (Jax) e il patrigno presidente del club (Klay). Le vicende della storia girano per lo più intorno a loro due e intorno a personaggi femminili come Gemma che è sia la moglie di Klay che la madre di Jax e come Tara che è la ragazza di Jax che ha un rapporto di amore e odio con la suocera. Insomma una famiglia piuttosto incasinata. Il club è immischiato nel commercio illegale di armi ed in altre attività criminali. Nel corso delle stagioni vedremo i SAMCRO scontrarsi con altri club rivali, con i vari fornitori d’armi, con la polizia, i federali e con alcune forze politiche che vogliono far progredire la cittadina di Charming.

Una volta iniziata la storia ci rendiamo conto che Sons of Anarchy è molto più complessa di così. I personaggi sono caratterizzati alla perfezione, la loro evoluzione non è mai lasciata al caso. I rapporti che si creano tra di loro sono unici e ben differenziati. La trama orizzontale è credibile e colma di cliffhanger. Il livello recitativo è alto così come l’aspetto tecnico (regia, fotografia, ecc…). Una mezione particolare va fatta alla colonna sonora che accompagna la serie per tutte e sette le stagioni. Guardando Sons of Anarchy si ha una sicurezza: ogni episodio avrà una canzone straordinaria che renderà il tutto più epico.

Sons of Anarchy così nel corso delle stagioni si è rivelata non solo una semplice serie a tinte crime o gangster ma una storia capace di affrontare tematiche quali il rapporto tra padre e figlio, il concetto di famiglia, la moralità delle azioni commesse viste dal punto di vista di un criminale (consapevole di esserlo). Ci saranno personaggi che amerete e personaggi che vorrete morti. Ci saranno momenti emotivamente intensi e che vi faranno riflettere. Ci saranno momenti in cui non vorrete credere ai vostri occhi per come si evolve la vicenda e momenti che rimarranno impressi nella vostra mente, come le frasi diventate ormai un cult.

C’è, a mio avviso, un invisibile filo che collega il primo episodio della prima stagione al finale della serie. Questo filo è rappresentato dal rapporto che c’è tra un padre e un figlio. È il tema più affrontato in tutta la serie. Questo avviene tra Jax e Klay, i loro scontri sono sempre memorabili. Tra Jax e John Teller (padre biologico di Jax morto quando lui era piccolo), attraverso le lettere lasciate da quest’ultimo. Infine tra Jax e i suoi figli, ai quali vuole lasciare un futuro migliore. Ed in fondo è questo quello che mi fa scegliere di vedere una serie Tv e che mi convince a continuarla. Questo invisibile filo, tessuto alla perfezione dagli autori, che alla fine comporrà un bellissimo quadro. Una volta finita la visione vi potrete lentamente allontanare da questo quadro e, ammirandolo nel suo insieme, potrete apprezzare al meglio quel gran capolavoro che è.

Nicola Ripepi

Recensione “Un Bacio” di Ivan Cotroneo

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Siamo in un piccola cittadina del Nord, precisamente ad Udine, lo sfondo è una scuola che sembra una fabbrica. Arriva un uragano di colori sgargianti : Lorenzo.
 
Lorenzo è un ragazzo rimasto orfano che viene adottato da una coppia piena di buone intenzioni e, a differenza del contesto, accetta la diversità. Lorenzo è estroverso, simpatico, sicuro di sé e della sua omosessualità. Il mondo ostile che lo circonda non intacca la sua fantasia e solarità.
 
Fa amicizia con Blu, una ragazza che tutti odiano e definiscono una facile e con Antonio, un ragazzo taciturno e giocatore di basket che quotidianamente fa i conti con la morte del fratello. I tre emarginati grazie all’amicizia vivranno esperienze uniche, se non entrassero poi in gioco i meccanismi dell’attrazione e della paura del giudizio altrui.
 
Ivan Cotroneo oltre a essere il regista è anche lo sceneggiatore (il film è infatti tratto dal suo omonimo racconto uscito nel 2010) e ha dato nuovamente prova della sua bravura (v. "La kryptonite nella borsa") narrando chiaramente, e anche con l'ironia di alcuni passaggi, le vicende di omofobia e bullismo che spesso accadono nelle scuole e nei sentimenti degli adolescenti.
 
I protagonisti sono tutti e tre ragazzi alla prima esperienza cinematografica e hanno dato prova di avere la stoffa per continuare egregiamente in questo settore.
La colonna sonora è composta volutamente da soli brani musicali, di cui uno appositamente prodotto per questa opera : To the wonders degli STAGS. Poi abbiamo Hurts di Mika, con il quale i ragazzi hanno girato proprio il video della canzone.
E’ un film sulle prime volte, sulla adolescenza, sui problemi che tutti abbiamo affrontato o che ci hanno semplicemente sfiorato.
Sulla accettazione di se stessi prima dell’altro perché spesso ciò che più difficile è guardare dentro di sé ed accettarsi, anzi, per dirla con una strofa della canzone che Lorenzo cita spesso “Don’t hide yourself in regret/ Just love yourself and you’re set/ I’m on the right track baby/ I was born this way” (Born this way – Lady Gaga).

Mi piace definire questi tre personaggi come i tre moschettieri dell’amicizia, come ripete Blu nel film: “l’amicizia ti salva” ; infatti non ci sarà mai nessuno che potrà capirti e coinvolgerti come un vero amico. Come l’amicizia, questo film si infiltra nel nostro cuore e ci soddisfa pienamente.
 

Arianna De Arcangelis

Recensione del libro “Noi siamo Infinito” (Ragazzo da Parete)

Vi è mai capitato di incontrare uno sconosciuto, magari sul treno o alla fermata dell’autobus, e di raccontargli cose che magari non raccontereste nemmeno al vostro migliore amico? Non è più facile parlare con qualcuno che sapete non rincontrerete più?
Charlie, protagonista di Noi Siamo Infinito, affida pensieri e racconti di vita quotidiana, attraverso un serie di lettere, a qualcuno di cui aveva sentito “parlare bene”.
 
Ragazzo da Parete (The perks of being a wallflower, titolo originale), divenuto Noi Siamo Infinito dopo il successo del film, è un romanzo epistolare scritto da Stephen Chbosky e pubblicato nel 1999, che narra, in prima persona, le vicende di Charlie (pseudonimo usato nelle lettere dal protagonista  per non farsi riconoscere) che si affaccia allo spaventoso mondo liceale, ambientato tra il 1991 e 1992.
 
Il titolo “Ragazzo da Parete” (wallflower) si rifà allo stesso Charlie, quel ragazzo che ad una festa non si scatena in pista, ma sta appoggiato ad una parete, scrutando il mondo. Vedremo attraverso i suoi occhi, ascolteremo attraverso le sue orecchie, proveremo i sentimenti  che lui prova nel susseguirsi delle lettere, perchè Charlie non è un tipo che parla, ma che guarda, ascolta e pensa, tanto.
Il linguaggio è semplice, la lettura è scorrevole. Inizieremo a leggere la lettera del 25 Agosto 1991 (la prima), e senza rendercene conto, tra colpi di scena, pianti e risate, ci ritroveremo a quella del 25 Agosto 1992 (l’ultima).
 
Verranno affrontati temi delicati (sesso, droga, omosessualità, suicidio), ma quasi non ce ne accorgeremo, perchè Ragazzo da Parete è scritto con l’ingenuità e l’intelligenza di quel ragazzo sedicenne che sa pensare e capire.
 
Marta Picciotto

Mettiamo in play Orange Is The New Black

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Se dovessi definire in una sola parola Orange Is The New Black? Eccezionale. Caro lettore, sicuramente dopo questa dichiarazione potrai subito pensare "Elisia sei sicura di non aver appena fatto un affermazione azzardata?". Probabilmente si! Ma adesso ti spiegherò subito perché la penso così. (Orange Is The New Black  è una serie televisiva statunitense tratta dal libro autobiografico scritto da Piper Kerman, trasmessa in streaming su Netflix, ideata da Jenji Kohan e prodotta da Lionsgate Television). Tale serie il cui titolo viene abbreviato come " OITNB" è ambientato in un carcere federale femminile, fino ad ora consta di tre stagioni, la data d'uscita della quarta stagione è stata resa nota solo di recente ( 17 giugno 2016).
 
Il tempo e le storie all'interno di ogni episodio sono ben distribuite, non assistiamo a "buchi" nella trama, sbavature o inutili forzature, tutto viene ben spiegato e scorre facendo si che, quei minuti che prima ti sarebbero sembrati infiniti, volino. Tra le modalità con cui vengono narrate le storie è frequente l'uso dei flashback (spesso anche ad inizio puntata), che diventano quasi il punto forte della serie: tramite questi noi conosciamo la storia dei personaggi coinvolti, non solo delle detenute ma anche di chi nel penitenziario ci lavora.

Nel momento in cui "mettiamo in play" noi non vediamo delle storie, viviamo le storie. Riusciamo a giustificare il reato commesso da un personaggio perché è umano. Perché è come noi. Questo tipo di emozione scaturisce dalla forte elaborazione del carattere, complesso, dei personaggi e delle loro storie. Carattere in continua evoluzione. Nulla è statico. Noi cambiamo con loro. E se fin da subito eravamo impazienti di sapere come e perché certi personaggi fossero in prigione, una volta divenuti parte di noi questo non ha più importanza. Conta chi erano e come sono adesso e chi potrebbero essere.

Come nella vita fuori dal carcere, dentro questo, assistiamo alla presenza di gruppi culturali diversi che si comportano come "grandi-piccole famiglie" con i loro disguidi, principi e regole. Definirei quasi affascinanti le dinamiche di interazione tra questi gruppi che hanno  bagni separati,  posti precisi a mensa e zone-notte ghettizzate. Un tema d'impatto è quello dell'omosessualità che riesce  ad eclissare,  per la maggioranza, quello che in realtà è il fulcro della trama. Gli autori decidono di trattare questo argomento, perché  attuale nel contesto delle carceri, insieme a quello della sessualità in genere in modo molto forte ed esplicito.
 
Entriamo a Litchfield con Piper Chupman, per poi conoscere tutte le altre detenute con il giusto ruolo e spazio all'interno della serie che, evolvendosi in modo sempre nuovo e sorprendente, rende tutte protagoniste.
 
E se tutti questi motivi non dovessero bastare,  se per caso qualcuno dovesse chiedervi perché abbiate cominciato a vederlo, potreste sempre rispondere "perché me lo ha consigliato Elisia".
 
Elisia Lo Schiavo

Recensione “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” di Enza Negroni

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Sono passati appena vent’anni dall’uscita nelle sale di “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, film tratto dall’omonimo romanzo di Enrico Brizzi. La vicenda riprende la storia realmente accaduta dell’abbandono del noto gruppo musicale Red Hot Chili Peppers da parte del chitarrista John Frusciante, con una revisione tutta italiana.

La pellicola si apre su quattro ragazzi che, durante la notte, si intrufolano in una proprietà privata per poter fare un bagno notturno in una piscina. Fra una chiacchierata e l’altra, i quattro si interrogano sulla particolare esperienza che un loro amico, Alex, ha recentemente subito e sul suo relativo cambiamento caratteriale, guardando la sua storia a ritroso per poter analizzare meglio la vicenda. Così facciamo la conoscenza di Alex (Stefano Accorsi) un ragazzo al penultimo anno di liceo appassionato di musica e bassista di un gruppo musicale fondato con i suoi amici. Tornando a casa, subito dopo aver intrattenuto una brevissima conversazione con i suoi genitori (intenti a guardare Nightmare), riceve una telefonata da una certa Adelaide (Violante Placido) chiamata Aidi, al quale propone di vedersi subito dopo per passare un po’ di tempo insieme. Fra varie prove con la band e i molti incontri con Aidi, Alex sembra essere felice. Forte di ciò, il nostro protagonista decide di dare un “senso” al suo rapporto con la ragazza, mettendo in chiaro ciò che prova per lei. Aidi, benché provi un forte sentimento per Alex, decide di chiedere al ragazzo di poter restare solo dei semplici amici con un forte legame, affermando che finora non ne aveva mai avuto uno così forte e preferiva capire che cosa stesse provando. In realtà, Aidi cercherà solo di prendere tempo poiché vi è la possibilità che si trasferisca in America per un po’ di tempo e il rischio di cancellare ciò che è successo con Alex e di farlo soffrire. Questa decisione non viene presa bene dal giovane che interrompe perfino il rapporto di amicizia con Adelaide fino al punto di non salutarsi più quando si incontrano. Tutto ciò lo porterà a fare la conoscenza di Martino (Alessandro Zamattio) che, a detta degli amici di Alex, non avrebbe mai voluto come amico in circostanze normali.

Il film, datato 4 aprile 1996, è interamente ambientato a Bologna (lo si vede e, soprattutto, lo si sente) cercando di concentrarsi sul periodo tardo-adolescenziale di Alex. Il tentativo è quello di voler rappresentare una generazione giovane con i tipici “problemi” di questa età, ma purtroppo non riesce a farlo senza cadere nei classici stereotipi. Tuttavia è da evidenziare la leggerezza dei temi trattati, nonostante alcuni di essi siano abbastanza importanti, senza cadere sul classico “oscuro e duro” al quale, ultimamente, siamo molto abituati a vedere in film di questo genere. In generale il film risulta piacevole, anche se alcune scene o addirittura intere parti potevano essere evitate o modificate. La recitazione non eccelle, ma vi è da considerare che ai tempi furono scelti attori quasi sconosciuti e provenienti dalla stessa Bologna. Sicuramente è un film che si avvicina maggiormente alla generazione precedente che a quella attuale, ma non è difficile trovarne un riscontro in alcune parti. Il lavoro primario che la pellicola svolge è sicuramente l’introspezione psicologica dei personaggi, molto spesso sovrastando la storia e ponendola in secondo piano, ma ciò non è necessariamente un male.

Il film avrà anche spento la sua ventesima candelina, ma anche se marginalmente, indubbiamente ha ancora il suo ruolo e il suo perché in una cinematografia italiana e in una evoluzione generazionale che è ancora in corso.
                                                                                                                                                           
Giuseppe Maimone