Derek, Meredith e Grey’s Anatomy: perché metterlo in play

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Ci sono serie tv e serie tv: drammatiche, ironiche, comiche, sanguinolente; corte, lunghe, che durano dai 20 ai 120 minuti.

Ma una serie tv, per tenerti davvero incollato alla sedia e farti perdere il senso del tempo e dello spazio, deve avere una trama coinvolgente e sconvolgente, una trama che ti lasci sempre con il fiato sospeso, almeno quel tanto che basta per dirti: ’’ok, dormirò in un altro momento’’ e farti così rimettere play sul tuo sito di streaming.

Una di queste serie è Grey’s Anatomy. Al bando gli scettici che dicono che è solo un’enorme cavolata, più lunga di Beautiful e troppo distante dalla realtà: quando inizi a guardarla non puoi più farne a meno. Io, da fan numero uno, sono riuscita a convertire un sacco di persone e a farle diventare tossicodipendenti da Grey’s Anatomy.

Grey’s Anatomy è una serie televisiva statunitense trasmessa dal 2005. È un medical drama incentrato sulla vita della dottoressa Meredith Grey, una tirocinante di chirurgia nell’immaginario Seattle Grace Hospital di Seattle. Il titolo di Grey’s Anatomy gioca sull’omofonia fra il cognome della protagonista, Meredith Grey, e Henry Gray, autore del celebre manuale medico di anatomia Gray’s Anatomy (Anatomia del Gray). Seattle Grace (poi Seattle Grace Mercy West e, ulteriormente, Grey Sloan Memorial Hospital) è invece il nome dell’ospedale nel quale si svolge la serie. I titoli dei singoli episodi sono spesso presi da una o più canzoni.

Tra personaggi che vanno e vengono, che nascono e muoiono, Grey’s Anatomy riesce a lasciare veramente un segno. Durante la progressione della trama, che si svolge in 12 stagioni per un totale di 268 episodi, ognuno di noi può trovare una citazione, una situazione, un momento in cui riconoscersi. Ed io, da studentessa in Medicina, posso dire che (a parte qualche caso assolutamente irreale) è anche molto vicina alla realtà medica. I gesti, i protocolli, il lessico, infatti, sono assolutamente presi dal campo.

Tutti conosciamo Meredith e Derek, sappiamo la loro storia d’amore e chi come me è da 11 anni che sta appresso a loro e ci ha perso cuore, lacrime e vita, sa che non sono solo ‘’Meredith e Derek’’: sono due personaggi pieni di umanità, che fanno e dicono cose che tutti noi abbiamo fatto e detto, anche e soprattutto le peggiori. È questo il segno che contraddistingue tutti i personaggi della serie, dal più importante al meno: l’umanità. Sono esseri umani a 360°, con i difetti e i pregi, con l’egoismo, i sogni, la cattiveria, la gentilezza, la bontà, la forza e la debolezza, le paure e il coraggio.

Ed, a parte l’intramontabile ‘’prendi me, scegli me, ama me’’, il sesso e la tequila, ci vuole poco a capire che Shonda Rimes (l’autrice) voleva andare oltre a tutto questo e insegnare ad accettare argomenti che ancora sono, per la società, tabù.

È una serie tv che vuole insegnare la speranza, il rischio e la speranza che può derivare dal rischio. Che non tutto è come sembra, che una coppia perfetta può spesso scoppiare ma questo non esclude il fatto che si può andare realmente avanti, a qualsiasi età. Che puoi sempre conoscere una persona, che essa sia maschio o femmina.

Vuole abbattere i muri dell’omofobia. Tra i personaggi principali abbiamo una coppia lesbica costituita da una donna omosessuale ed una bisessuale, vuole far capire alle persone che non c’è niente di strano nella transizione, che i transgender sono persone come noi in corpi nei quali stanno troppo stretti.

Vuole insegnare che non esistono barriere di tipo religioso, che la scienza e la religione possono coesistere e convivere, che essere ateo non è sinonimo di essere vuoto. Insegna il perdono, l’amicizia, la lealtà, la sana competizione e quella che ti porta a impazzire perché parte da basi sbagliate.

Tra gli argomenti principali troviamo anche temi molto attuali quali l’adozione e l’inseminazione artificiale. Viene anche approfondito l’argomento ‘’psicoterapia’’, cercando di trasmettere il messaggio che prendere consapevolezza dei propri problemi e affrontarli con qualcuno che può realmente aiutarti non è una vergogna ma un segno di coraggio.

E che, a prescindere da tutto, negli ospedali si fa tanto sesso e ci sono davvero tantissimi fighi e fighe.

Elena Anna Andronico

Sons of Anarchy, un affresco della vita criminale

 

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Quando verrà il momento, dovrà dire ai miei figli chi sono realmente. Non sono una brava persona. Sono un criminale e un assassino. I miei figli devono crescere odiando la mia memoria.

– Jax Teller

Ricetta per una buona serie Tv: storia interessante, personaggi convincenti e che sia tecnicamente godibile. Di solito, nell’approcciarmi ad una nuova serie, questi sono gli elementi base che mi convincono ad iniziarla o meno. Ma una serie è anche di più. Per convincermi nel proseguire la visione ci sono altri fattori chiave come possono essere le tematiche trattate, l’evoluzione dei personaggi e della trama orizzontale. Questo fa sì che il prodotto che ne esce fuori sia un capolavoro, come un bel quadro. Ecco, partendo da questa semplice premessa, parliamo un po’ di Sons of Anarchy, serie che ho sempre visto (superficialmente) con molta diffidenza.

La storia è ambientata a Charming, una fittizia cittadina della California. Le vicende girano intorno ad un club di motociclisti, appunto il Sons of Anarchy Motorcycle Club, Redwood Original (SAMCRO). I personaggi principali sono il giovane protagonista (Jax) e il patrigno presidente del club (Klay). Le vicende della storia girano per lo più intorno a loro due e intorno a personaggi femminili come Gemma che è sia la moglie di Klay che la madre di Jax e come Tara che è la ragazza di Jax che ha un rapporto di amore e odio con la suocera. Insomma una famiglia piuttosto incasinata. Il club è immischiato nel commercio illegale di armi ed in altre attività criminali. Nel corso delle stagioni vedremo i SAMCRO scontrarsi con altri club rivali, con i vari fornitori d’armi, con la polizia, i federali e con alcune forze politiche che vogliono far progredire la cittadina di Charming.

Una volta iniziata la storia ci rendiamo conto che Sons of Anarchy è molto più complessa di così. I personaggi sono caratterizzati alla perfezione, la loro evoluzione non è mai lasciata al caso. I rapporti che si creano tra di loro sono unici e ben differenziati. La trama orizzontale è credibile e colma di cliffhanger. Il livello recitativo è alto così come l’aspetto tecnico (regia, fotografia, ecc…). Una mezione particolare va fatta alla colonna sonora che accompagna la serie per tutte e sette le stagioni. Guardando Sons of Anarchy si ha una sicurezza: ogni episodio avrà una canzone straordinaria che renderà il tutto più epico.

Sons of Anarchy così nel corso delle stagioni si è rivelata non solo una semplice serie a tinte crime o gangster ma una storia capace di affrontare tematiche quali il rapporto tra padre e figlio, il concetto di famiglia, la moralità delle azioni commesse viste dal punto di vista di un criminale (consapevole di esserlo). Ci saranno personaggi che amerete e personaggi che vorrete morti. Ci saranno momenti emotivamente intensi e che vi faranno riflettere. Ci saranno momenti in cui non vorrete credere ai vostri occhi per come si evolve la vicenda e momenti che rimarranno impressi nella vostra mente, come le frasi diventate ormai un cult.

C’è, a mio avviso, un invisibile filo che collega il primo episodio della prima stagione al finale della serie. Questo filo è rappresentato dal rapporto che c’è tra un padre e un figlio. È il tema più affrontato in tutta la serie. Questo avviene tra Jax e Klay, i loro scontri sono sempre memorabili. Tra Jax e John Teller (padre biologico di Jax morto quando lui era piccolo), attraverso le lettere lasciate da quest’ultimo. Infine tra Jax e i suoi figli, ai quali vuole lasciare un futuro migliore. Ed in fondo è questo quello che mi fa scegliere di vedere una serie Tv e che mi convince a continuarla. Questo invisibile filo, tessuto alla perfezione dagli autori, che alla fine comporrà un bellissimo quadro. Una volta finita la visione vi potrete lentamente allontanare da questo quadro e, ammirandolo nel suo insieme, potrete apprezzare al meglio quel gran capolavoro che è.

Nicola Ripepi

Recensione “Un Bacio” di Ivan Cotroneo

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Siamo in un piccola cittadina del Nord, precisamente ad Udine, lo sfondo è una scuola che sembra una fabbrica. Arriva un uragano di colori sgargianti : Lorenzo.
 
Lorenzo è un ragazzo rimasto orfano che viene adottato da una coppia piena di buone intenzioni e, a differenza del contesto, accetta la diversità. Lorenzo è estroverso, simpatico, sicuro di sé e della sua omosessualità. Il mondo ostile che lo circonda non intacca la sua fantasia e solarità.
 
Fa amicizia con Blu, una ragazza che tutti odiano e definiscono una facile e con Antonio, un ragazzo taciturno e giocatore di basket che quotidianamente fa i conti con la morte del fratello. I tre emarginati grazie all’amicizia vivranno esperienze uniche, se non entrassero poi in gioco i meccanismi dell’attrazione e della paura del giudizio altrui.
 
Ivan Cotroneo oltre a essere il regista è anche lo sceneggiatore (il film è infatti tratto dal suo omonimo racconto uscito nel 2010) e ha dato nuovamente prova della sua bravura (v. "La kryptonite nella borsa") narrando chiaramente, e anche con l'ironia di alcuni passaggi, le vicende di omofobia e bullismo che spesso accadono nelle scuole e nei sentimenti degli adolescenti.
 
I protagonisti sono tutti e tre ragazzi alla prima esperienza cinematografica e hanno dato prova di avere la stoffa per continuare egregiamente in questo settore.
La colonna sonora è composta volutamente da soli brani musicali, di cui uno appositamente prodotto per questa opera : To the wonders degli STAGS. Poi abbiamo Hurts di Mika, con il quale i ragazzi hanno girato proprio il video della canzone.
E’ un film sulle prime volte, sulla adolescenza, sui problemi che tutti abbiamo affrontato o che ci hanno semplicemente sfiorato.
Sulla accettazione di se stessi prima dell’altro perché spesso ciò che più difficile è guardare dentro di sé ed accettarsi, anzi, per dirla con una strofa della canzone che Lorenzo cita spesso “Don’t hide yourself in regret/ Just love yourself and you’re set/ I’m on the right track baby/ I was born this way” (Born this way – Lady Gaga).

Mi piace definire questi tre personaggi come i tre moschettieri dell’amicizia, come ripete Blu nel film: “l’amicizia ti salva” ; infatti non ci sarà mai nessuno che potrà capirti e coinvolgerti come un vero amico. Come l’amicizia, questo film si infiltra nel nostro cuore e ci soddisfa pienamente.
 

Arianna De Arcangelis

Recensione del libro “Noi siamo Infinito” (Ragazzo da Parete)

Vi è mai capitato di incontrare uno sconosciuto, magari sul treno o alla fermata dell’autobus, e di raccontargli cose che magari non raccontereste nemmeno al vostro migliore amico? Non è più facile parlare con qualcuno che sapete non rincontrerete più?
Charlie, protagonista di Noi Siamo Infinito, affida pensieri e racconti di vita quotidiana, attraverso un serie di lettere, a qualcuno di cui aveva sentito “parlare bene”.
 
Ragazzo da Parete (The perks of being a wallflower, titolo originale), divenuto Noi Siamo Infinito dopo il successo del film, è un romanzo epistolare scritto da Stephen Chbosky e pubblicato nel 1999, che narra, in prima persona, le vicende di Charlie (pseudonimo usato nelle lettere dal protagonista  per non farsi riconoscere) che si affaccia allo spaventoso mondo liceale, ambientato tra il 1991 e 1992.
 
Il titolo “Ragazzo da Parete” (wallflower) si rifà allo stesso Charlie, quel ragazzo che ad una festa non si scatena in pista, ma sta appoggiato ad una parete, scrutando il mondo. Vedremo attraverso i suoi occhi, ascolteremo attraverso le sue orecchie, proveremo i sentimenti  che lui prova nel susseguirsi delle lettere, perchè Charlie non è un tipo che parla, ma che guarda, ascolta e pensa, tanto.
Il linguaggio è semplice, la lettura è scorrevole. Inizieremo a leggere la lettera del 25 Agosto 1991 (la prima), e senza rendercene conto, tra colpi di scena, pianti e risate, ci ritroveremo a quella del 25 Agosto 1992 (l’ultima).
 
Verranno affrontati temi delicati (sesso, droga, omosessualità, suicidio), ma quasi non ce ne accorgeremo, perchè Ragazzo da Parete è scritto con l’ingenuità e l’intelligenza di quel ragazzo sedicenne che sa pensare e capire.
 
Marta Picciotto

Mettiamo in play Orange Is The New Black

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Se dovessi definire in una sola parola Orange Is The New Black? Eccezionale. Caro lettore, sicuramente dopo questa dichiarazione potrai subito pensare "Elisia sei sicura di non aver appena fatto un affermazione azzardata?". Probabilmente si! Ma adesso ti spiegherò subito perché la penso così. (Orange Is The New Black  è una serie televisiva statunitense tratta dal libro autobiografico scritto da Piper Kerman, trasmessa in streaming su Netflix, ideata da Jenji Kohan e prodotta da Lionsgate Television). Tale serie il cui titolo viene abbreviato come " OITNB" è ambientato in un carcere federale femminile, fino ad ora consta di tre stagioni, la data d'uscita della quarta stagione è stata resa nota solo di recente ( 17 giugno 2016).
 
Il tempo e le storie all'interno di ogni episodio sono ben distribuite, non assistiamo a "buchi" nella trama, sbavature o inutili forzature, tutto viene ben spiegato e scorre facendo si che, quei minuti che prima ti sarebbero sembrati infiniti, volino. Tra le modalità con cui vengono narrate le storie è frequente l'uso dei flashback (spesso anche ad inizio puntata), che diventano quasi il punto forte della serie: tramite questi noi conosciamo la storia dei personaggi coinvolti, non solo delle detenute ma anche di chi nel penitenziario ci lavora.

Nel momento in cui "mettiamo in play" noi non vediamo delle storie, viviamo le storie. Riusciamo a giustificare il reato commesso da un personaggio perché è umano. Perché è come noi. Questo tipo di emozione scaturisce dalla forte elaborazione del carattere, complesso, dei personaggi e delle loro storie. Carattere in continua evoluzione. Nulla è statico. Noi cambiamo con loro. E se fin da subito eravamo impazienti di sapere come e perché certi personaggi fossero in prigione, una volta divenuti parte di noi questo non ha più importanza. Conta chi erano e come sono adesso e chi potrebbero essere.

Come nella vita fuori dal carcere, dentro questo, assistiamo alla presenza di gruppi culturali diversi che si comportano come "grandi-piccole famiglie" con i loro disguidi, principi e regole. Definirei quasi affascinanti le dinamiche di interazione tra questi gruppi che hanno  bagni separati,  posti precisi a mensa e zone-notte ghettizzate. Un tema d'impatto è quello dell'omosessualità che riesce  ad eclissare,  per la maggioranza, quello che in realtà è il fulcro della trama. Gli autori decidono di trattare questo argomento, perché  attuale nel contesto delle carceri, insieme a quello della sessualità in genere in modo molto forte ed esplicito.
 
Entriamo a Litchfield con Piper Chupman, per poi conoscere tutte le altre detenute con il giusto ruolo e spazio all'interno della serie che, evolvendosi in modo sempre nuovo e sorprendente, rende tutte protagoniste.
 
E se tutti questi motivi non dovessero bastare,  se per caso qualcuno dovesse chiedervi perché abbiate cominciato a vederlo, potreste sempre rispondere "perché me lo ha consigliato Elisia".
 
Elisia Lo Schiavo

Recensione “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” di Enza Negroni

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Sono passati appena vent’anni dall’uscita nelle sale di “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, film tratto dall’omonimo romanzo di Enrico Brizzi. La vicenda riprende la storia realmente accaduta dell’abbandono del noto gruppo musicale Red Hot Chili Peppers da parte del chitarrista John Frusciante, con una revisione tutta italiana.

La pellicola si apre su quattro ragazzi che, durante la notte, si intrufolano in una proprietà privata per poter fare un bagno notturno in una piscina. Fra una chiacchierata e l’altra, i quattro si interrogano sulla particolare esperienza che un loro amico, Alex, ha recentemente subito e sul suo relativo cambiamento caratteriale, guardando la sua storia a ritroso per poter analizzare meglio la vicenda. Così facciamo la conoscenza di Alex (Stefano Accorsi) un ragazzo al penultimo anno di liceo appassionato di musica e bassista di un gruppo musicale fondato con i suoi amici. Tornando a casa, subito dopo aver intrattenuto una brevissima conversazione con i suoi genitori (intenti a guardare Nightmare), riceve una telefonata da una certa Adelaide (Violante Placido) chiamata Aidi, al quale propone di vedersi subito dopo per passare un po’ di tempo insieme. Fra varie prove con la band e i molti incontri con Aidi, Alex sembra essere felice. Forte di ciò, il nostro protagonista decide di dare un “senso” al suo rapporto con la ragazza, mettendo in chiaro ciò che prova per lei. Aidi, benché provi un forte sentimento per Alex, decide di chiedere al ragazzo di poter restare solo dei semplici amici con un forte legame, affermando che finora non ne aveva mai avuto uno così forte e preferiva capire che cosa stesse provando. In realtà, Aidi cercherà solo di prendere tempo poiché vi è la possibilità che si trasferisca in America per un po’ di tempo e il rischio di cancellare ciò che è successo con Alex e di farlo soffrire. Questa decisione non viene presa bene dal giovane che interrompe perfino il rapporto di amicizia con Adelaide fino al punto di non salutarsi più quando si incontrano. Tutto ciò lo porterà a fare la conoscenza di Martino (Alessandro Zamattio) che, a detta degli amici di Alex, non avrebbe mai voluto come amico in circostanze normali.

Il film, datato 4 aprile 1996, è interamente ambientato a Bologna (lo si vede e, soprattutto, lo si sente) cercando di concentrarsi sul periodo tardo-adolescenziale di Alex. Il tentativo è quello di voler rappresentare una generazione giovane con i tipici “problemi” di questa età, ma purtroppo non riesce a farlo senza cadere nei classici stereotipi. Tuttavia è da evidenziare la leggerezza dei temi trattati, nonostante alcuni di essi siano abbastanza importanti, senza cadere sul classico “oscuro e duro” al quale, ultimamente, siamo molto abituati a vedere in film di questo genere. In generale il film risulta piacevole, anche se alcune scene o addirittura intere parti potevano essere evitate o modificate. La recitazione non eccelle, ma vi è da considerare che ai tempi furono scelti attori quasi sconosciuti e provenienti dalla stessa Bologna. Sicuramente è un film che si avvicina maggiormente alla generazione precedente che a quella attuale, ma non è difficile trovarne un riscontro in alcune parti. Il lavoro primario che la pellicola svolge è sicuramente l’introspezione psicologica dei personaggi, molto spesso sovrastando la storia e ponendola in secondo piano, ma ciò non è necessariamente un male.

Il film avrà anche spento la sua ventesima candelina, ma anche se marginalmente, indubbiamente ha ancora il suo ruolo e il suo perché in una cinematografia italiana e in una evoluzione generazionale che è ancora in corso.
                                                                                                                                                           
Giuseppe Maimone
 
 

Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick

Quando l’uomo si crede onnipotente, la natura gli ricorda chi comanda.
Anno 1850. Lo scrittore Herman Menville (Ben Whishaw), non ancora molto celebre nonostante i suoi recenti successi letterari , si reca alla dimora di Thomas Nickerson ( Brendan Gleeson), un vecchio “baleniere” ormai ritirato a vita privata, nella speranza di riuscire a strappare dalla sua bocca una storia, taciuta ormai da troppo tempo, diventata quasi leggenda, nel tentativo di poter scrivere quello che potrebbe senza dubbio diventare il suo manoscritto più celebre. Tuttavia l’anziano baleniere è irremovibile e non intende raccontar nulla, nonostante gli fosse stata offerta un’importante somma. Grazie all’aiuto della moglie, la stessa signora Nickerson (Michelle Fairley), il giovane scrittore è pronto ad imbrattare la carta con l’inchiostro che sancirà l’inizio di una storia mai raccontata fino ad allora.
La pellicola si incentra sulle figure di Owen Chase (Chris Hemsworth), un giovane proveniente da una famiglia di agricoltori (e per questo mal considerato dai suoi colleghi) con l’incarico di rivestire il ruolo di Primo Ufficiale sulla baleniera Essex, ed il Capitano della stessa, George Pollard (Benjamin Walker), proveniente dalla famiglia più importante della città, inesperto e arrogante. Sarà proprio il grado di quest’ultimo a creare attrito fra i due, poiché il “posto” da Capitano era stato promesso da tempo a Owen, ma il buon nome della famiglia Pollard prevarrà non dando importanza alla mancanza di esperienza di George. Fra i loro uomini vi era un giovane mozzo alla sua prima esperienza , ovvero proprio Thomas, che ai tempi, aveva solo 14 anni (nella veste da ragazzo è interpretato da Tom Holland). L’obiettivo: tornare con 2000 barili di olio di balena. Nonostante i successi iniziali, l’equipaggio della Essex si ritroverà a faticare per trovare altre balene, così il Capitano Pollard e il Primo Ufficiale Chase fissano un incontro con un ex capitano di baleniere di origini spagnole (Jordi Mollà) che racconta loro di essersi spinto a ovest delle coste dell’Ecuador, dove vi erano branchi di balene e dove tutto stava andando per il verso giusto, finché non arrivò la balena più grande che lui avesse mai visto, di un particolare colore bianco, che decimò il suo equipaggio. Pollard e Chase, non dando molto credito alle parole del ex Capitano, si dirigeranno proprio lì, dove la loro spedizione e conseguentemente anche la loro vita, cambieranno per sempre.
Il “tentativo” di Ron Howard di voler raccontare i fatti realmente accaduti che portarono lo scrittore Herman Menville ad ispirarsi per la stesura del capolavoro Moby Dick è ammirevole e, sicuramente, ben riuscito. Le ambientazioni risultano quasi protagoniste, curate in maniera peculiare. La storia segue il suo corso in maniera naturale, anche se in alcuni casi risulta un po’ lenta, soprattutto in un punto specifico. E’ lodevole lo sforzo fisico impiegato dagli attori, riuscendo a dimagrire in maniera impressionante, ma meno curato quello psicologico, in quanto solo pochi di loro sono riusciti a trasmettere un vero e proprio “smarrimento” derivato dalle peripezie da loro subite. In generale il film risulta molto azzeccato, ma se fosse stato curato in maniera più chirurgica, come nel caso della psiche dei personaggi, sarebbe sicuramente diventato un maggiore successo di quanto non lo sia già.

Giuseppe Maimone

Suburra

Tra le uscite più attese durante il CinemaDays figura “Suburra”, diretto da Stefano Sollima e basato sull’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini. Ambientato nel periodo precedente la caduta del governo Berlusconi, il regista decide di scandire drammaticamente il tempo dividendo gli avvenimenti in più giornate. Attorno a un grande evento, la trasformazione di Ostia nella Las Vegas d’Italia, si intrecciano le vicende dei tre protagonisti. Numero 8, giovane boss di Ostia, che incarna lo spirito ribelle restio ad attenersi alle rigide “leggi” della malavita. Filippo Malgradi, parlamentare corrotto e dalla vita dissoluta, pronto ad usare la sua posizione per garantire i propri interessi. Ed infine Manfredi Anacleti, capo di un clan di zingari disposto a tutto per ottenere un posto nella criminalità che conta. A colorare le loro vicende il regista inserisce una serie di personaggi minori ma decisivi; Viola, la tossica compagna di Numero 8, Sabrina, giovane escort di fiducia di Malgradi, emblemi del vizio e della lussuria, e Sebastiano, organizzatore di feste vip che si ritrova in un gioco più grande di lui. Su tutti aleggia l’ombra del temuto quanto rispettato Samurai, ex componente della Banda della Magliana, interpretato da un serafico Claudio Amendola, che si adopera per mantenere l’ordine e la pace tra i clan. 130 minuti per avere una panoramica della malavita della capitale, passando attraverso il contrasto tra le nuove potenze emergenti e i vecchi baluardi della criminalità in lotta per il rispetto degli antichi codici. Entrambi si richiamano ad una terza potenza, la politica, che finisce per ridursi a un mero sfondo di scontri in cui non si risparmia il sangue. Film da vedere per un pubblico medio che ha voglia di immergersi in questo spaccato di realtà. Da segnalare le interpretazioni di un sorprendente Claudio Amendola, ineccepibile nella serietà del suo ruolo, e di Pierfrancesco Favino, che da personalità al suo personaggio forse un po’ troppo stereotipato. Unica nota negativa è a volte l’eccessiva approssimazione di alcune storie (soprattutto le dimissioni di un cardinale) e un finale che si presta a non troppo chiare interpretazioni.

Diva Famà e Alessia Edvige Attivissimo

La ragazza del treno – Paula Hawkins

Quando un modesto thriller diventa un successo editoriale

Devo essere sincero: la pubblicità al giorno d’oggi ha un ruolo fondamentale nella vendita di un libro come di un qualsiasi altro prodotto. Dopo aver letto tutto d’un fiato questo libro, da cui ero stato catturato per la mole di pubblicità, posso affermare che le intenzioni c’erano, ma si sono perse strada “scrivendo”.
Una breve sinossi offerta dal sito della Piemme:
La vita di Rachel non è di quelle che vorresti spiare. Vive sola, non ha amici, e ogni mattina prende lo stesso treno, che la porta dalla periferia di Londra al suo grigio lavoro in città. Quel viaggio sempre uguale è il momento preferito della sua giornata. Seduta accanto al finestrino, può osservare, non vista, le case e le strade che scorrono fuori e, quando il treno si ferma puntualmente a uno stop, può spiare una coppia, un uomo e una donna senza nome che ogni mattina fanno colazione in veranda. Un appuntamento cui Rachel, nella sua solitudine, si è affezionata. Li osserva, immagina le loro vite, ha perfino dato loro un nome: per lei, sono Jess e Jason, la coppia perfetta dalla vita perfetta. Non come la sua.
Ma una mattina Rachel, su quella veranda, vede qualcosa che non dovrebbe vedere. E da quel momento per lei cambia tutto. La rassicurante invenzione di Jess e Jason si sgretola, e la sua stessa vita diventerà inestricabilmente legata a quella della coppia. Ma che cos’ha visto davvero Rachel?

Poco dopo la sua pubblicazione è divenuto un best seller negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, con oltre 3 milioni di copie vendute solo negli USA.Ha debuttato alla numero uno nella lista dei best sellers del New York Times, rimanendovi per 13 settimane.Indubbiamente con queste premesse chiunque sarebbe tentato all’acquisto,il romanzo in se ha tutto:scritto perfettamente(tradotto molto bene) ed una storia narrata da 3 punti di vista diversi oltre quello di Rachel.
Sembra tutto perfetto o quasi,diciamo che il romanzo cade,e lo fa molto male,dove proprio non doveva.
I motivi principali sono due:
I personaggi
Il finale
I personaggi della vicenda sono poco caratterizzati,a parte Rachel la protagonista,gli altri sono un pò lasciati alla semplice parte delle comparse.Questo potrebbe essere accettabile se la storia fosse narrata solo dal punto di vista di Rachel,ma quando si leggono gli altri due punti di vista si ha l’impressione di avere a che fare con dei fantasmi privi di qualsiasi pensiero,inoltre i vari punti di vista non offrono una nuova prospettiva sui fatti,ma una semplice ripetizione.Sembra quasi che siano stati inseriti in modo forzato,un altro problema che hanno i personaggi è quello di essere dei luoghi comuni,ossia le donne deboli ed indifese “schiave” di un uomo,che è lo stesso per tutte e tre,e la classica figura del disoccupato schiavo dell’alcol.
Il finale,sinceramente mi aspettavo molto di più dal finale,speravo di non aver intuito tutto già a meta del libro,di per se non molto grande(circa 300 pagine).Un finale che non soddisfa a pieno le aspettative che crea sin dall’inizio,si crea così una parabola discendente che porta il romanzo ad affondare nel finale.
È impossibile dire che io sia rimasto soddisfatto totalmente da questo romanzo,spezzo una lancia a favore della Hawkins perchè è il suo romanzo di esordio e posso solo sperare in futuro che il suo secondo lavoro sia più profondo,dai personaggi al finale.
Il romanzo nel suo complesso lo consiglio vivamente,tenendo conto però dei problemi già espressi,perchè a parte quelli si rivela un’ottima e veloce lettura.

Alberto Lombardo