Pulp Fiction: la strada che porta al nulla

 

Pulp Fiction, un gangster movie in cui i dialoghi sovrastano le armi. Voto UVM: 5/5

 

È con la schermata seguente che Quentin Tarantino decide di aprire il suo secondo film, cambiando la sua vita e quella di tutto il cinema. Pulp Fiction è stato scritto da Tarantino e Roger Avary nel 1993 e solo un anno dopo è arrivato nelle sale di tutto il mondo. Oggi questo cult compie 30 anni ed è tornato in sala in una versione restaurata in 4k.

Frame di “Pulp Fiction” (1994) di Quentin Tarantino. Produzione: Miramax. Distribuzione: Cecchi Gori Distribuzione.

IL CONCETTO DI “CINEMA” PER TARANTINO

Tarantino si nutriva di cinema, ne conosceva ogni sfaccettatura, ed è per questo che ha deciso di mettere insieme quelle poche cose che possedeva: follia, amore e passione, per creare qualcosa di mai visto prima.

Parlare di Pulp Fiction significa essere disposti a cambiare la visione di ciò che noi credevamo fosse “cinema”.
Non esiste più un buono, un brutto o un cattivo ma solo uno sporco e deplorevole cerchio della vita, ricco di crudeltà, violenza ed erotismo.

PULP FICTION: LA TRAMA È COSÌ IMPORTANTE?

Se dovessimo utilizzare una semplice visione oggettiva potremmo classificare Pulp Fiction come un “gangster movie” che cavalca la stessa onda (più romanzata) dell’opera prima di Tarantino: Le iene. Questa visione però è eccessivamente limitante; l’atmosfera gangster è solo il contorno di questo dipinto.

Il film racconta 6 eventi tutti concatenati fra loro e caratterizzati da dialoghi intriganti, riflessivi, divertenti e soprattutto PULP!

Tutte le azioni svolte dai nostri personaggi sono messe in secondo piano. Sono le parole, infatti, ad influenzare i protagonisti (e il pubblico) più che le loro singole gesta, talvolta estreme e grottesche.

Frame di “Pulp Fiction” (1994) di Quentin Tarantino. Produzione: Miramax. Distribuzione: Cecchi Gori Distribuzione.

PERCHÉ LO CHIAMIAMO CULT?

Perché un film confusionario, senza una vera trama e politicamente scorretto è diventato l’emblema dei film cult?

Non esiste una vera risposta, non vi è un significato ovvio che fa di Pulp Fiction una pietra miliare del nostro cinema. Ciò che ha permesso a questo film di spiccare il volo e rubare la scena a tutti gli altri film sono stati i dettagli maniacali e impercettibili che Tarantino ha inserito all’interno della pellicola.

Lo spettatore riesce ad entrare dentro lo schermo, venendo ipnotizzato da qualcosa che con fatica riesce a capire, poiché invisibile all’occhio umano. E anche alla quarta o quinta visione questo film “sputa” dettagli da far accapponare la pelle. Ogni minimo particolare è capace di procurare un “orgasmo visivo” e perpetuo. Per non parlare poi delle scene iconiche entrate nella storia come “Ezechiele 25.17” o il Twist di Vincent e Mia.

Parallelamente alle scene diventate storiche vi sono poi delle imponenti colonne sonore che oggi riconducono tutte a questo film come Misirlou di Dick Dale, You never can tell di Chuck Berry e molte altre…

Frame di “Pulp Fiction”(1994) di Quentin Tarantino. Produzione: Miramax. Distribuzione: Cecchi Gori Distribuzione.

LE MARIONETTE DI QUENTIN TARANTINO

Il talento del nostro regista si fonde in maniera osmotica con la potenza espressiva dei nostri attori. L’impulsività di Ringo e Yolanda (Tim Roth e Amanda Plummer), la divertente stupidità di Vincent Vega (John Travolta), la sadica ironia di Jules Winnfield (Samuel L. Jackson), la sensualità e l’insoddisfazione di Mia Wallace (Uma Thurman) e la determinazione di Butch Coolidge (Bruce Willis) riescono a dare vita ad una messa in scena che raffigura perfettamente il niente.

Proprio così, i nostri attori riescono a dare significato ad un film che non porta a niente, nessun obiettivo, nessun messaggio morale, nessuna investigazione sull’ambito sociale ma vero e proprio intrattenimento strategico ed intelligente.

PULP FICTION È IL FILM PERFETTO?

Cosa può portare un film ad essere considerato perfetto? Ogni risposta sarebbe superflua, non esiste veramente un film perfetto. Ciò che caratterizza Pulp Fiction è l’intelligenza e lo studio che c’è dietro ad ogni scena, ripresa, inquadratura o dialogo. Tarantino dimostra che per quanto gli studi di formazione possano essere importanti, la passione batterà sempre ogni manuale.

È con Pulp Fiction che Quentin ci permette di andare oltre i canoni classici del cinema: l’arte non necessita di un teorema o un postulato ma solo di amore e, questo, ci dimostra Tarantino, non viene insegnato in accademia ma nasce dentro ognuno di noi.

«Ezechiele 25,17. Il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre; perché egli è in verità il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti. E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare e infine a distruggere i miei fratelli. E tu saprai che il mio nome è quello del Signore quando farò calare la mia vendetta sopra di te.»

 

di Pierfrancesco Spanò

Berlinguer: la grande ambizione – L’uomo oltre il politico

Berlinguer: La Grande ambizione
Berlinguer: la grande ambizione racconta la storia di un partito e di un uomo in maniera oggettiva – Voto UVM 4/5

Berlinguer: la grande ambizione è un biopic di Andrea Segre con protagonista Elio Germano. Presentato in anteprima all’apertura della Festa del Cinema di Roma 2024, ha già superato i tre milioni di incassi al box office. Proprio al festival romano, Germano è riuscito a portarsi a casa il premio come miglior attore, a testimonianza dell’ottima interpretazione portata in scena.

La Grande Ambizione: non solo storia, ma anche società

Il film si ambienta fra il 1973 e il 1978, anni dove il Partito Comunista Italiano vive il suo miglior periodo in termini elettorali. Il protagonista è, come suggerisce il titolo, Enrico Berlinguer, segretario del PCI all’indomani del golpe in Cile contro Salvador Allende. In piena guerra fredda, neanche l’Italia vive tempi sereni: è infatti reduce dai movimenti del ‘68, dove studenti e operai si mobilitarono in massa. Ad aggravare la situazione di inizio degli anni ’70 sono le violenze di carattere politico perpetrate dalle organizzazioni terroristiche. Queste continueranno per tutto il decennio, che verrà ricordato come il decennio degli “anni di piombo”. In questa intricata tela sociale, Berlinguer deve anche riuscire a distaccarsi dell’Unione Sovietica, che vede nel suo modello di stato l’unica via per il socialismo.

Dopo i fatti in Cile, per timore di una deriva antidemocratica anche in Italia, Berlinguer teorizza la sua grande ambizione, il compromesso storico. Capisce che per arrivare al governo non bastano i consensi, ma è necessaria un’alleanza con gli altri partiti sorti dalla resistenza antifascista. Il quadro politico della prima repubblica è infatti influenzato dalla conventio ad excludendum, una legge non scritta che esclude a priori le forze di sinistra dagli accordi di governo. Berlinguer quindi ambisce all’apertura al fine di instaurare un dialogo con i democristiani, altra principale forza popolare, in carica dalla nascita della repubblica.

Berlinguer: La Grande Ambizione
“Un italiano su tre vota comunista!” – Fonte: esquire.com

Nonostante un attentato fallito da parte dei servizi segreti bulgari, con il quale il film si apre, continua comunque imperterrito per la sua strada. Riuscirà pian piano, come vedremo, a separarsi anche pubblicamente dal giogo di Mosca, affermando il partito come forza democratica. Seguendo il segretario nel suo tragitto, incontriamo altri maggiori esponenti del PCI: Pietro Ingrao, Ugo Pecchioli, Nilde Iotti e molti altri. Questi lo affiancano nelle sue visite alle fabbriche popolari o durante i grandi comizi, credendo in Berlinguer tanto quanto credono nel loro ideale politico comune.

Il film però non ci parla solamente del Berlinguer politico. Accanto alla vita politica, c’è quella privata composta dalle figure della moglie Letizia Laurenti e dei quattro figli Bianca, Maria Stella, Marco e Laura. Il ruolo di Enrico si fa quindi duplice: non solo funzionario maggiore di partito, ma anche padre di famiglia e fedele marito. Purtroppo le due vite sono difficilmente sovrapponibili, con la prima che toglie continuamente spazio all’altra con suo grande rammarico. Nei rapporti con la famiglia però la politica non manca affatto: vengono infatti continuamente dibattuti accadimenti e questioni dell’epoca.

La Grande Ambizione: l’altra Italia di Berlinguer

L’Italia raccontata in Berlinguer – La grande ambizione, quella della “prima repubblica”, è sì lo spaccato di una società diversa dalla nostra, ma che non è troppo distante. La differenza più evidente sta proprio nel coinvolgimento popolare nella politica. Questa è molto più partecipata e sentita rispetto ad oggi, a testimonianza del fatto che il tema dell’affluenza è oggi più centrale che mai. Impressionante è ad esempio la scena finale che mostra il funerale del segretario. Il corteo che si forma per rendergli onore è immenso e anche le emozioni viste in sala testimoniano quanto sia cambiata la situazione.

Berlinguer: La Grande Ambizione
Festa dell’Unità di Firenze, 1975 – Fonte: iodonna.it

Berlinguer, come mostrano le scene, si batte fino all’ultimo per un comunismo dal volto umano, volto a portare il volere dei lavoratori in alto. Quando Andreotti, in occasione della formazione del suo terzo governo spera di convincerlo, lui risponde “non è me che dovete convincere, ma i lavoratori”. Attraverso interviste e testimonianze, il film mostra anche un uomo riservato e profondamente etico, che riuscì a conquistare la fiducia di molti italiani. La pellicola invita a riflettere sulla politica di oggi, sull’assenza di figure di simile statura morale e sulla necessità di rinnovamento della società odierna.

Giuseppe Micari

Il Gladiatore 2 è l’ennesimo flopbuster?

Il Gladiatore
“Il Gladiatore 2 è un’operazione azzardata di cui forse non c’era davvero bisogno, con uno sviluppo piuttosto prevedibile e abusi di cgi, ma al di là degli scivoloni, ha la stoffa di campione d’incassi anche grazie al suo cast stellare.” Voto: 3/5

Ventiquattro anni dopo l’uscita de Il Gladiatore, Ridley Scott consegna al pubblico il seguito del peplum che ha definito la sua carriera e ha ispirato blockbuster del calibro di Troy e videogiochi come God of War, e non per nulla vincitore di 5 premi Oscar nel 2001. 

Si affida a un cast stellare: Paul Mescal, Pedro Pascal, Denzel Washington, Connie Nielsen e Joseph Quinn sono sicuramente nomi di grande attrattiva per il pubblico, infatti Il Gladiatore 2, è uscito solo il 14 novembre scorso ed è già leader dei box office mondiali. Ma c’era davvero bisogno di un sequel?

Sinossi

Anni dopo aver assistito alla tragica morte di Massimo Decimo Meridio per mano  di Commodo, Annone si trova a combattere nel Colosseo come bottino di guerra del generale Acacio, fidato degli imperatori gemelli Geta e Caracalla. Come Massimo, ciò che cerca è la vendetta, e con il destino dell’Impero appeso a un filo, riscopre nel suo passato la forza e l’onore necessari per riportare la gloria di Roma al suo popolo e vincere i giochi di potere dilaganti nella politica imperiale.

Denzel Washington: il suo Macrino è il self made man del sogno americano

In tutta onestà, sembra che ci sia solo un personaggio a muovere davvero la narrazione: il Macrino di Washington è il personaggio più eversivo della pellicola.

Macrino è la personificazione del “sogno di Roma” e parallelamente il self made man del “sogno americano”: partito dalla servitù e arrivato al consolato. Questo parallelismo sottile tra i subdoli giochi di potere della Roma antica e la politica statunitense odierna, effettivamente, aleggia per tutto il film, e l’interpretazione di Washington odora già di Oscar.

Il Gladiatore
Denzel Washington in una scena de “Il Gladiatore 2” di Ridley Scott, Eagle Pictures (2024)

Il Gladiatore 2 : ennesimo “flopbuster” per Ridley Scott?

Per tutto il Gladiatore 2 riecheggia un grido di rivoluzione, ma mai si era vista una rivoluzione tanto semplice: gli imperatori si spodestano praticamente da soli, Annone si convince del suo destino nel tempo di un cambio di scena, Acacio e Lucilla mettono in atto un colpo di stato approssimativo, iniziato e fallito nel giro di pochi frame.

Per il resto, la pellicola è piuttosto prevedibile, tra usi e abusi di CGI nelle scenografie, scimmie mangiatrici di uomini, squali che nuotano nel Colosseo, un Acacio che muore martire alla San Sebastiano, interi eserciti che si fermano ad osservare inermi il duello finale, “legge del più forte” e massime morali. La scelta di rappresentare un oltretomba medievale contrasta col contesto. Vediamo una morte incappucciata raggiungerlo in una sequenza subacquea che, a dire la verità, sembra un p0′ una pubblicità. Forse preferivamo il sogno di Roma quando era ancora un sogno.

Il Gladiatore
Una scena dal film “Il Gladiatore 2” di Ridley Scott (2024)

I veri eroi del Gladiatore 2 stanno dietro la cinepresa

Al di là degli scivoloni, truccatori e costumisti risultano impeccabili e condividono grandi meriti con gli scrittori .

In mancanza di un catalizzatore forte come il Massimo Decimo Meridio di Russell Crowe, si è giocato molto sulla moltiplicazione: le caratteristiche prima proprie solo di Massimo, sono qui distribuite tra Annone e Acacio. Anche Commodo viene duplicato attraverso Geta e Caracalla. 

Il film è sia speculare che antitetico a quello originale, che finiva nei Campi Elisi con la mano di Massimo che accarezza le spighe di grano, qui invece quel grano è stato raccolto da Annone e simboleggia il passaggio di testimone tra padre e figlio. 

I colori sono ad alto contrasto: dal giallo ocra della Numidia all’oro e al nero che circonda le facce pallide degli imperatori in Senato. La scelta di rappresentare le naumachie che, per davvero, avevano luogo nel Colosseo ai tempi del fasto di Roma e le citazioni intrise di letteratura classica, sono poi delle chicche che, squali a parte, meritano plauso.

Il Gladiatore
(da sinistra) Pedro Pascal e Joseph Quinn in una scena de “Il Gladiatore 2” di Ridley Scott, Eagle Pictures (2024)

C’era davvero bisogno di un sequel de “Il Gladiatore”?

Si tratta di un’operazione azzardata di cui forse non c’era davvero bisogno, ma che si allinea con la tendenza dell’ultima fase della carriera di Scott: con House of Gucci e Napoleon, il regista resta sempre in equilibrio sul sottilissimo confine tra epico e ridicolo volontario. 

Dopotutto, segue anche il vizio più recente tra i prodotti hollywoodiani: l’industria dell’intrattenimento americana non si è mai davvero ripresa dalla “existential crisis” cominciata con la pandemia, che è diventata quella di un modello economico intero e di una Hollywood che prende sempre di più le sembianze di un’industria qualsiasi. Al momento, proporre soggetti nuovi resta un rischio, e perciò si punta sul riproporre nuove avventure di personaggi già noti, di flopbuster in flopbuster.

Ma in fondo, a Hollywood funziona così da sempre, un periodo di crisi è allo stesso tempo conseguenza e premessa di una serie di successi, dopo una vecchia Hollywood ne verrà sempre una nuova e la ricchezza generata dal cinema commerciale, finanzierà quello artistico. 

 

Carla Fiorentino

Longlegs: Un horror disturbante con un inquietante Nicolas Cage

Parthenope
Longlegs, un horror disturbante con un magistrale Nicolas Cage. – Voto UVM: 5/5

Longlegs, l’ultima fatica cinematografica del regista Oz Perkins, è un horror disturbante e a tratti subdolo che si eleva dallo standard del genere anche grazie ai suoi protagonisti. Un ritrovato Nicolas Cage registra un’interpretazione magistrale.

Longlegs: Trama e personaggi

Lee Arker (Maika Monroe), giovane agente dell’ FBI dotata di grande intuito ma di poca esperienza, si trova ad indagare su di una serie di omicidi-suicidi avvenuti nell’Oregon degli anni 90. La dinamica degli omicidi è sempre la stessa: il capofamiglia in un raptus omicida fa fuori tutti prima di togliersi la vita. La costante? Le figlie femmine compiono gli anni il 14 del mese e sul luogo del delitto si ritrovano dei messaggi incomprensibili firmati dal killer Longlegs. Grazie al suo sviluppato intuito Lee riesce a decifrare i messaggi criptati e a segnare una svolta nelle indagini, che la porterà presto a scoprire un profondo e oscuro legame tra lei e il killer, interpretato da Nicolas Cage.

Tra parallelismi e omaggi: Longlegs trova presto la sua autenticità

Longlegs nella sua trama, omaggia grandi pellicole come Il silenzio degli innocenti e Zodiac. Chi è amante del genere non potrà non notare il parallelismo tra la giovane Lee e Clarice, protagonista del cult di Jonathan Demme, interpretata da Jodie Foster. Il Longlegs di Nicolas Cage è per Lee quello che erano Hannibal Lecter e Buffalo Bill per l’agente Clarice. E come non rivedere nei messaggi oscuri del killer ciò che muove Zodiac, il serial killer dello zodiaco. Ma Longlegs è molto di più di un omaggio a grandi pellicole, trova la sua identità in un mix di generi e in una meta-narrazione che va oltre a ciò che vediamo.

Un film disturbante come il killer di Nicolas Cage

La pellicola si prende i suoi tempi per costruire la storia e, minuto dopo minuto, la tensione cresce sempre di più in uno sfondo austero e inospitale. A far crescere la tensione e a rendere disturbante la pellicola ci pensa Nicolas Cage con la sua interpretazione. Che l’attore fosse tornato a recitare a grandi livelli lo si sapeva già dai tempi di “Pig“, ma qui pur con un minutaggio ridotto ci regala una grandissima performance. Il suo killer satanista, disturba lo spettatore sin dalla sua prima apparizione che avviene nel primo minuto del film. I colori del viso quasi albini, la voce tirata e un vestiario da cantante anni 80 si miscelano a delle espressioni facciali che rendono il Longlegs di Nicolas Cage disturbante alla sola vista.

Frame di “Longlegs”. Regia: Oz Perkins. Distribuzione: C2 Motion Picture Group.

Longlegs, quando la regia fa la differenza

Il vero punto di forza nella pellicola di Perkins, oltre le interpretazioni dei suoi protagonisti, è la regia. Il regista ha saputo usare egregiamente la macchina da presa e la fotografia per uscire dello schema dell’horror mainstream. Non sono i Jump scare ad inquietare, ma i piani decentrati, gli zoom lenti e inarrestabili e il sonoro che accompagnano la protagonista Lee ad inquietare lo spettatore e a tenerlo sempre costantemente con la sensazione che stia per accadere qualcosa. I primi piani poi sono fondamentali per mostrare emozioni e stati d’animo come quelli della giovane Lee, che finiscono per inquietare lo spettatore.

Una meta-narrazione celata nell’horror

La pellicola presto mette in mostra l’importante rapporto tra Lee e sua madre e il collegamento di queste con il killer Longlegs. E dietro una storia che nel suo terzo atto prende definitivamente la via dell’horror occulto, si cela una descrizione meta narrativa del rapporto madre e figli. Cosa è disposta a fare una madre per propri figli? C’è un limite o è anche ammesso vendere l’anima al diavolo? E quanti traumi del passato ci portiamo inconsapevolmente per poi tirarli fuori quando meno ce lo aspettiamo? Longlegs è anche questo, una riflessione sull’inconscio umano e sui rapporti d’amore familiari.

 

Un horror diverso per un cinema diverso

Negli ultimi anni il cinema hollywoodiano ha trovato forza nel genere horror. Ma sono fin troppi i film che nonostante le buone intenzioni finiscono per essere qualcosa di visto e rivisto. Trama lineare e nessuna inquietudine, solo adrenalina creata dai numerosi Jump scare ormai facilmente prevedibili. Ed è questa la forza di Longlegs, che sceglie una via più difficile, scelta negli ultimi anni anche da altre pellicole come It Follows e Hereditary. Perkins fa la scelta vincente di scegliere l’inquietudine e il simbolismo come motori della sua pellicola che solo verso la fine del terzo e ultimo atto si ricollega, almeno in parte, ai topos del genere hollywoodiano quali possessione e occultismo.

Frame di “Longlegs”. Regia: Oz Perkins. Distribuzione: C2 Motion Picture Group.

L’horror più spaventoso degli ultimi tempi?

La campagna marketing Usa di Longlegs è stata davvero aggressiva. La pellicola che vede Cage nel ruolo dell’omonimo killer satanista è stata pubblicizzata come l‘horror più spaventoso degli ultimi tempi, ma difficilmente può essere definita in questo modo. Ciononostante va riconosciuta la bellezza dell’operato di Perkins, Cage e Monroe e questa pellicola va riconosciuta come una delle meglio  girate del genere horror degli ultimi anni e come una delle migliori pellicole del 2024.

 

 

Francesco Pio Magazzù

C’era una volta in America: un sogno durato una vita

 

Parthenope
C’era una volta in America: un viaggio tra amore, amicizia e criminalità lungo quarant’anni. Voto UVM: 5/5

 

C’era una volta in America ha da poco compiuto 40 anni dalla sua prima uscita in Italia, nel 1984, tornando al cinema in versione restaurata in 4K.

Il maestro Sergio Leone, definito “l’italiano che inventò l’America”, autore di pellicole del calibro di C’era una volta il West e della famosa Trilogia del dollaro, termina la sua carriera con questo capolavoro senza tempo. Accompagnato dalla magnifica colonna sonora di Ennio Morricone.

C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA: TRAMA

Il film narra la storia di Noodles (Robert De Niro), di Max (James Woods) e dei loro amici, ragazzini ebrei che inizieranno ad avere a che fare con la malavita nella New York degli anni ’20 e i quali ricordi riaffioreranno in vecchiaia, all’arrivo di una misteriosa lettera…

L’INFANZIA DELLA GANG DI MAX E NOODLES

«Guarda, sono le 6 e 34 e io non ho tempo da perdere!»

L’infanzia di Noodles, segnata dalla vita di strada e dalle esperienze negative alle quali deve far fronte, non è di certo ideale. Ciò che fa riflettere però è che quando i personaggi sono piccoli, a volte non si rendono conto di ciò verso cui vanno incontro.

La scelta di rimarcare che, nonostante le azioni mature, i ragazzi rimangano innocenti, viene direttamente dal regista che a proposito mette in scena una delle sequenze, a mio parere, più belle di tutta la storia del cinema: Patsy, uno dei ragazzini che fa parte della gang di Noodles e Max, compra una Charlotte Russa con la panna a Peggy, una ragazzina del quartiere, per cercare di ottenere qualcosa in cambio da lei, ma mentre la aspetta fuori dalla porta si fa ingolosire dal dolce, inizia con l’assaggiare un po’ di panna e finisce con il mangiarlo tutto rimanendo a mani vuote davanti a Peggy, alla quale dirà in modo imbarazzato: “Sarà per un’altra volta”.

C'era una volta in America
Gli amici di Noodles durante la loro infanzia.

LO SGUARDO POETICAMENTE CRUDO DI LEONE

Per l’intera durata del film ci si sente immersi, grazie alla messa in scena impeccabile, alla fluidità data dai movimenti di macchina e dal montaggio, e alla bellezza delle immagini, in un sogno lungo più di quarant’anni.

Per tutti i 240 minuti della pellicola abbiamo la sensazione di vivere un’altra vita, come se stessimo assistendo anche noi in prima persona alle vicende dei personaggi.

Ad ogni modo, tutta l’armonia e la meraviglia viene alternata a momenti di pura violenza e orrore, che riguardano soprattutto le azioni spregevoli dei protagonisti, sia nei confronti delle vittime nell’ambito malavitoso, che delle donne che amano e che non sanno rispettare poiché “figli” della violenza.

Grande critica sociale mossa da parte di Sergio Leone durante tutta l’opera che mostra i più grandi problemi della società americana, raccontandocene la storia e gli sviluppi dagli anni ‘20 agli anni ‘60, passando per il proibizionismo e per le lotte del movimento operaio.

Sergio Leone sul set di “C’era una volta in America”.

IL PASSARE INESORABILE DEL TEMPO E L’IMPORTANZA DEI RICORDI

«Sono le 10 e 25 e non ho più niente da perdere… Un amico tradito non ha scelta, deve sparare».

Verso il finale del film, Max, mittente della misteriosa lettera, incita più volte Noodles ad ucciderlo. L’esortazione a sparare può essere interpretata come una metafora che indica l’essere “costretto” a eliminare i ricordi genuini della giovinezza condivisa dai due dopo essere venuto a conoscenza del tradimento subito. 

La vita del protagonista è ormai stata rubata, per trent’anni, da quello che definiva il suo migliore amico. La donna che amava, i soldi, la fama, gli sono stati sottratti senza possibilità di rimediare.

Nonostante tutto, Noodles decide di fingere di non riconoscere Max, chiamandolo continuamente “Mr. Bailey”, nome della sua nuova identità, e fa come se nulla fosse cambiato rispetto a poco prima della scoperta, come se ormai la giovinezza non appartenesse nemmeno più alla sua vita e non volesse macchiarla ulteriormente.

La spensieratezza mostrataci durante l’infanzia dei personaggi è direttamente proporzionale alla nostalgia provata da Noodles durante la vecchiaia, parte montata intelligentemente in modo discontinuo durante il film cosicché si alternasse con le diverse linee narrative della storia e che rendesse al meglio le sensazioni espresse in modo eccellente da Robert De Niro.

TUTTO TORNA ALLE ORIGINI

C’era una volta in America si conclude nello stesso luogo in cui vediamo Noodles per la prima volta all’inizio del film, in un teatro cinese, che è anche una fumeria d’oppio. Si è fatto un salto indietro al 1933, a subito dopo che Noodles legge su un giornale la notizia che riguarda il colpo in banca della sua gang che lui stesso ha provato a sventare chiamando la polizia. L’inquadratura che chiude il film e sulla quale passeranno i titoli di coda consiste in un primissimo piano di Noodles che sorride, inebriato dall’oppio, che fa quasi nascere nello spettatore il dubbio che tutto ciò che ha visto sia stato solo un “sogno oppiaceo” di Noodles che rappresentava una realtà alternativa nella quale Max non era davvero deceduto durante quel colpo.

L’inquadratura finale con Noodles che sorride.

Consiglio in modo spassionato la visione di questo capolavoro, attualmente disponibile in abbonamento su Now Tv e sui canali premium di Prime Video.

 – Che hai fatto in tutti questi anni, Noodles?
– Sono andato a letto presto. 

 

di Alessio Bombaci

Speak no Evil: un instant ramake in salsa USA che convince

CVLT
Remake in salsa Hollywoodiana della pellicola danese Speak no Evil del 2022, Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti Voto UVM: 4/5

“Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciutiè un thriller psicologico con sfumature horror che, in un crescendo di tensione, sprigiona tutta la sua potenza di pari passo alla crescente interpretazione di James McAvoy. Non privo di qualche difetto, l’opera del regista James Watkins convince ma potrebbe far storcere il naso a chi ha apprezzato la versione danese. Voto UVM: 4/5

Speak no Evil: la trama è fedele alla versione danese?

Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti, condivide buona parte della trama con la versione danese della pellicola. Una famiglia americana in vacanza in Toscana fa la conoscenza di una famiglia inglese molto estroversa. Dopo una gradevole cena e qualche bicchiere di vino, gli inglesi Paddy e Ciara, con a seguito il piccolo Ant, invitano gli americani Ben, Louise e la piccola Agnes a passare un week end nella loro casa immersa nelle campagne inglesi. Dopo un po’ di titubanza, dovuta anche ai loro rapporti familiari ormai logori, la famiglia americana decide di accettare l’invito.

Due famiglie a confronto

Speak no Evil gioca sulle differenze nella costruzione della storia per condurci sempre di più in una spirale di paura. Le due famiglie non potrebbero essere più diverse. Ben, Louise e la figlia Agnes vivono dei rapporti familiari tesi. Tra marito e moglie aleggia l’ombra dell’infedeltà di Louise e dei problemi lavorativi di Ben che li ha costretti a trasferirsi in Inghilterra, il tutto reso ancora più complicato dalle ansie della giovane Agnes. Paddy, Ciara e Ant, bambino con difficoltà comunicative dovute ad una malformazione alla lingua, sono apparentemente la famiglia perfetta. Passione, complicità e lavoro di squadra si mescolano ad alcuni strani comportamenti che con il passare dei minuti fanno capire allo spettatore che in Speak no Evil qualcosa non va.

Frame di “Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti”. Regia: James Watkins. Distribuzione: Blumhouse Productions.

 Speak no Evil: un gioco tra opposti

É proprio nei suoi protagonisti e nelle loro interazioni che Speak no Evil trova la sua forza. Paddy (James McAvoy) e Ben (Scoot McNairy) sono diametralmente opposti. L’inglese è un padre severo, tutto d’un pezzo e sicuro di sé, mentre Ben è un uomo pavido ed insicuro. Anche Ciara e Louise sono agli antipodi. Louise è la vera guida della sua famiglia, Ciara è la tipica moglie che cerca di fare di tutto per assecondare il marito. Sono proprio l’incrocio e lo scontro tra le diverse personalità dei protagonisti a muovere la storia e, minuto dopo minuto, a farci capire che dietro l’apparente stranezza si cela qualcosa di oscuro.

Speak no Evil dimostra che è meglio non fidarsi degli sconosciuti 

Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti, svela la sua natura a partire dal secondo atto. Quello che poteva sembrare un semplice weekend tra amici si trasforma presto in incubo per Ben, Louise e Agnes. Ed è proprio dal secondo atto che James McAvoy innalza il livello della sua interpretazione ben al di sopra delle righe di pari passo all’evoluzione del suo personaggio. Paddy si trasforma nel predatore che è sempre stato ed inizia la sua caccia che non risparmia nessuno e che vede in Louise unico baluardo di una famiglia che cade a pezzi ma che necessita di una guida.

Frame di “Speak no Evil – Non parlare con gli sconosciuti”. Regia: James Watkins. Distribuzione: Blumhouse Productions.

Il terzo atto convince ma si allontana dall’originale

Il terzo atto è quello che svela tutte le carte del film e che allontana la pellicola di Watkins da quella danese del 2022. Se la versione danese di Speak no Evil manteneva sempre un ritmo volontariamente compassato, la pellicola con protagonista James McAvoy trova nel terzo atto il suo cambio di registro. Tutto si palesa, tutti i dubbi vengono fugati e inizia la ciaccia spietata tipica del genere a cui Hollywood ci ha già abituati. Ed è proprio questa caccia con il suo finale, per certi aspetti fin troppo buono, che potrebbe far storcere il naso a chi apprezzato la pellicola danese. Chi si aspettava un finale cupo ed incerto come quello del film danese potrebbe rimanere deluso. Ma è proprio questo finale figlio di un terzo atto diverso che dà un senso a questo remake uscito appena due anni dopo la pellicola del 2022.

Una regia solida 

La regia di James Watkins è solida e funziona. I primi piani, ed in particolare quelli su James McAvoy, permettono di cogliere le sfumature emotive e l’evoluzione dei protagonisti. Ogni atto è caratterizzato dalla prevalenza di un certo tipo di scenario, che muta con il proseguo della trama. Dalle grandi campagne inglesi ci ritroviamo catapultati in stretti corridoi e stanze buie dove ogni rumore può fare la differenza tra la vita e la morte. La scrittura convince se non per qualche scena che sottolinea fin troppo l’inettitudine di Ben. Il comparto sonoro fa il suo dovere nel caricare la crescente tensione soprattutto nel terzo atto del film.

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               Francesco Pio Magazzù

V per Vendetta: ricordate per sempre il cinque Novembre

V per Vendetta rimane, anche dopo anni, un’opera d’importanza capitale.  Voto UVM: 5/5

V per Vendetta è una delle graphic-novel più famose e importanti di sempre, scritta da Alan Moore e disegnata da David Lloyd. Essa si lega profondamente agli eventi del cinque Novembre. Essendo una data passata da poco, non vedo perché il ricordo, tanto dell’opera, quanto della data, debba col tempo sbiadirsi.

La storia del cinque novembre

Nel 1605, in Inghilterra, un gruppo di cattolici inglesi provò a fare esplodere il Parlamento nel suo primo giorno di lavori, il cinque novembre. Il movente nasce dalle tensioni tra cattolici e anglicani, e in particolare l’intolleranza di Giacomo I verso i primi. Fu per questo che un pugno di uomini, guidati da Guy Fawks, ordì il “complotto delle polveri”, ossia appunto un tentativo di far detonare ingenti quantità di esplosivo sotto il Parlamento inglese mentre il re e i suoi fedeli erano in seduta. Il complotto fallì, poiché Fawks venne catturato dalle guardie la sera prima dell’attuazione, nei sotterranei del parlamento. Il congiurato venne poi torturato per alcuni giorni e, alla fine, cedette e confessò, per poi venire giustiziato insieme ai suoi complici. Nel mentre, Giacomo I decise però di festeggiare il mancato attentato, e così nacque quella che tutt’oggi è la bonfire night.

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Copertina dell’absolute edition di “V per Vendetta”. Fonte: Feltrinelli

V per Vendetta: Un altro cinque novembre

Londra, cinque novembre 1997: la giovane orfana Evey, costretta dalla fame, cerca di adescare degli uomini. Tuttavia, incontrerà degli agenti di polizia, i quali cercheranno di violentarla e ucciderla. A salvarla, però, arriva un misterioso personaggio, avvolto in abiti e mantello nero, e con la maschera di Guy Fawks. Il misterioso salvatore uccide i poliziotti e porta con sé Evey sui tetti di Londra, per mostrarle uno spettacolo unico: l’esplosione del Parlamento inglese. Qui ha inizio la vendetta di V, questo il modo in cui l’uomo mascherato si farà chiamare per tutta la storia; bersaglio di questa vendetta, è tutto il regime fascista che da anni governa l’Inghilterra, stretta nel pungo del partito Norsefire, Fuoco norreno in italiano, il quale prese il potere in seguito alla guerra atomica e alle molteplici crisi che ad essa sono seguite.

La struttura politica del potere

L’organizzazione del partito è così strutturata: leader e capo della nazione, è Adam Susan, il quale governa con l’aiuto del supercomputer Fato. loro sono il vertice della Testa, che si compone di vari organi: Orecchio, Occhio, Bocca e Naso, ognuno con uno specifico compito nella gestione del potere, nella sorveglianza e nella propaganda. A questi, si aggiunge il Dito, la polizia segreta. Contro quest’articolata rete di potere, il terrorista nome in codice “V” combatte la sua guerra: colpirà bersagli specifici, legati al suo oscuro passato, taglierà poco a poco la catena di comando del partito, e lentamente farà crollare la dittatura su sé stessa. Ad aiutarlo rimarrà Evey, che sarà condotta alla Galleria dell’ombra, il rifugio segreto di V, dove verrà istruita proprio da quest’ultimo per assumere sulle spalle un compito più grande di lei.

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V fa esplodere il parlamento. Fonte: Reddit

Potere, anarchia e simboli in V per Vendetta

V per Vendetta ha una trama molto articolata e stratificata. Segue le vicende di vari personaggi e la vicenda di un sistema politico che lentamente viene portato al collasso. Il potere è il tema centrale della narrazione, forma di oppressione operata dall’autorità politica sui cittadini. Del potere vediamo vari modi di operare: potere sul corpo, biopotere, esercitato nei campi di prigionia del regime potere disciplinare, come quello di Larkhill, fondamentale per la trama. Potere sulle menti, psicopolitica, dei cittadini, che sono sottoposti alla continua propaganda della Bocca, e sono imprigionati quindi in una gabbia mentale; il potere della sorveglianza, in mano a Occhio e Orecchio; il potere esercitato dagli algoritmi, o algocrazia, ossia una dittatura con gli algoritmi. Al vertice della catena di comando troviamo  un uomo che venera un supercomputer. Da contraltare al potere, però, persiste l’anarchia, nel nome della quale si batte V. Essa però, come spiega lo stesso protagonista, non va intesa come assenza di regole o di ordine, l’anarchia è l’assenza di capi. Inoltre, a completare il trittico dei temi principali, c’è anche quello delle idee, e dei simboli a esse legati, e della lotta che in loro nome si è disposti a ingaggiare.

Molto più di un fumetto

Alan Moore non si limita a raccontare la storia di un eroe che si scaglia solitario contro un potere opprimente. Egli cerca proprio di scavare a fondo delle questioni anche di un certo livello, e sulle quali le società umane hanno sempre dibattuto. E ciò avviene anche in altre opere dell’autore, come Watchmen. A mio avviso, potremmo definire i fumetti di Moore come dei “fumetti filosofici“.

 

Alberto Albanese

La creatura di Gyeongseong, ancora qualità dalla Corea del Sud

La Creatura
Un meraviglioso connubio di Horror e Romance. Voto UVM 5/5

La creatura di Gyeongseong è una serie tv sudcoreana sbarcata recentemente su Netflix e che nel 2024 ha presentato la sua seconda stagione. È una serie che ha catturato l’attenzione degli spettatori non solo coreani ma internazionali, in quanto tratta di vari generi quali horror, fantasy, drama storico e romance.

Serie che oltre ad avere vari generi cinematografici tratta temi importanti come l’indipendenza coreana dai giapponesi e la sperimentimentazione umana. La Creatura di Gyeongseong è una di quelle serie che ti regala infinite emozioni, da farti appassionare a 360 gradi. Insegna valori come la libertà, di cui oggi si discute spesso, la famiglia (riportato dal protagonista Jang  Tae-Sang il quale si lega ai suoi dipendenti come fossero membri di una famiglia), l’amore, qui creatosi lentamente tra Jang Tae-Sang e Chae-ok, il segugio che aiuterà il protagonista nelle ricerche di Myeong- Ja, l’amante del generale Ishikawa.

La creatura di Gyeongseong: Trama

Primavera 1945, Gyeongseong (nome storico di Seoul) è sotto l’occupazione giapponese. Jang Tae-Sang, proprietario della Casa dei Tesori d’Oro, il banco dei pegni più redditizio della città, insieme a Yoon Chae-ok, una ragazza alla ricerca della madre scomparsa, affrontano una strana creatura nata dagli esperimenti biologici condotti in segreto nell’ospedale Ongseong. La serie è costellata di scene d’azione, dove si nota come protagonista anche la madre di Chae-ok che poi si rivelerà una creatura terrificante in grado di sprofondare  fino alle viscere della propria vittima. Questa creatura si nutre dei cervelli delle proprie vittime ed è in grado di sterminare anche centinaia di persone allo stesso tempo.

Ma qual è l’origine della creatura? Ebbe tutto inizio tramite un batterio trovato nel sottosuolo coreano di Gyeongseong, preso dai soldati giapponesi e poi analizzato e conservato nell’ospedale di Ongseong. Questo batterio analizzato, poi diverrà un verme acquatico somministrato ai vari prigionieri che avrà delle ripercussioni sui loro corpi. I personaggi principali sono in continua lotta con se stessi quasi sul punto tra la vita e la morte e un continuo cadere di fiori di ciliegio scandisce il loro tempo, freneticamente percorso da emozioni radicate e opposte. Le loro vite sono appese ad un filo teso in grado di spezzarsi facilmente. Jang Tae-Sang ha tempo finché l’ultimo fiore di ciliegio sarà caduto per salvare la sua vita e tutto ciò che gli appartiene.

La Creatura
Fonte: Netflix

Prima Stagione

La prima stagione si basa sulla metamorfosi ma soprattutto vediamo come l’amore di una madre riesce a sopportare di tutto e allo stesso tempo proteggere la figlia amata dandole l’opportunità di vivere ancora. La fantasia di una serie che si mescola con la realtà della vita, tanto che ci si immedesima al tal punto di essere catapultati dentro la serie e vivere quello che sono costretti a sopportare i protagonisti di questa serie fantasy.

Sia nella prima stagione sia nella successiva tutte le situazioni si intrecciano in un’unica scacchiera dove a muoverne le pedine è un solo personaggio, il quale si saprà rivelare complesso, turbolento e con una mente astuta, ma tuttavia in grado di farsi mettere i bastoni fra le ruote facilmente.

Seconda Stagione

Nella seconda stagione vedremo la comparsa di nuovi personaggi, fondamentali per la comprensione delle nuove dinamiche. Inoltre si dà uno sguardo indietro alla stagione precedente, spiegandone i fatti con un’altra prospettiva. Sarà questo duplice punto di vista ottenuto da questo momento, ad arricchire i personaggi e a renderli complessi e particolari. La stagione è un continuo di alti e bassi tra enigmi che riempiono di mistero e suggestione la trama, la quale, sì, cerca di innestare una dose di romance per distaccare il pubblico dall’azione, ma non eccessivamente per non annoiare.

La Creatura
Fonte: Netflix

Le riflessioni de La creatura di Gyeongseong

La conclusione dell’ultima stagione ci porta a dubitare se il nostro protagonista riuscirà a salvare la sua vita e quella delle persone che ama e su cosa succederà alla co-protagonista Chae-ok. Riuscirà a vivere una vita felice con Jang Tae-Sang? Tutto può ancora succedere, quindi non vi resta che guardare questa fortunata serie Netflix che ha appassionato milioni di persone, e scoprirlo.

 

Chiara Trifiletti

Julia Roberts: ascesa di una Diva

Consacrata alla celebrità dalla pellicola Pretty Woman, l’attrice statunitense Julia Roberts, che ha incantato generazioni con il suo sorriso e il suo carisma, ha appena celebrato i suoi cinquantasette anni.

Nascita di una promessa

La Roberts nasce il 27 ottobre del 1967 ad Atlanta in Georgia da una famiglia della middle class. Suo padre un rappresentante di aspirapolveri e sua madre una segretaria. Cresce in una famiglia amante del teatro e del modo della recitazione. Al diploma decide di raggiungere suo fratello Eric a New York, che iniziava a muovere i primi passi nella recitazione. Nella Grande Mela la giovane Julia sfila in passerella, lavora in una gelateria e da un calzolaio.

Julia Roberts agli albori della carriera

Incoraggiata da Eric tenta l’audizione per la pellicola Firehouse (1987) di J. Christian Ingvordesen, ottenendo un piccolo ruolo di comparsa. Otterrà invece il ruolo da protagonista in Legami di Sangue, uscito nella sale nel 1989. Recita insieme all’attore italiano Gianfranco Giannini e al fratello Eric. Arriva il decollo della carriera per la giovane attrice e ottiene ruoli via via più rilevanti. A differenza di suo fratello Eric gestisce fama e successo. Eric infatti verrà assorbito dal lusso di Hollywood, mentre al contrario la sorella rimane salda su valori come sobrietà durante le scene, non sentendosi a suo agio in scene di nudo nei film.

Julia recita intanto in Satisfaction (1989), grazie al quale ottiene un ruolo in Fiori d’Acciaio (1989) dove interpreta un personaggio intenso e profondo. Sfiora l’Oscar.

Julia Roberts
Julia Roberts. Fonte: Sky

Il decollo di Julia Roberts e gli anni ’90

Il regista Gary Marshall la sceglie per il ruolo che la consacra al grande pubblico, Pretty Woman, interpretando la parte di una prostituta di cui il miliardario americano, interpretato dal già celebre Richard Geere si innamorerà. Le copertine dei giornali di tutto il mondo mostrano il suo sorriso dolce e spontaneo e al tempo stesso semplice. In questo periodo, diventa protagonista di opere fondamentali come I protagonisti (1992) di Robert Altman, dove dimostra la sua abilità nell’interpretare ruoli complessi. Il thriller Il rapporto Pelican (1993) di Alan J. Pakula, consolida ulteriormente la sua reputazione. La sua collaborazione con registi di prestigio, come Altman e Woody Allen (Tutti dicono I love you, 1996), è un segno della fiducia che il mondo del cinema ripone in lei.

Il 1997 segna un punto di svolta decisivo con la commedia romantica Il matrimonio del mio migliore amico. Julia interpreta una donna che si ritrova a competere per l’amore del suo migliore amico, accanto a Cameron Diaz e Rupert Everett, che offre consigli saggi e spiritosi. Questo film non solo la porta alla ribalta, ma diventa anche un classico del genere.

Il suo successo prosegue con Ipotesi di complotto (1997), Nemicheamiche (1998), una commedia con Susan Sarandon. La chimica tra le due attrici risulta irresistibile e il film diventa un grande successo. Non si può dimenticare il fortunato ritorno con Richard Gere in Se scappi, ti sposo (1999), sempre diretto da Gary Marshall, che consolida ulteriormente il suo status di regina delle commedie romantiche.

Gli anni ’00 e la pausa dai riflettori

Un traguardo fondamentale arriva con l’Oscar per Erin Brockovich – Forte come la verità (2000).  La sua performance potente e carismatica le consente di vincere l’Oscar come miglior attrice protagonista, un riconoscimento che celebra non solo il suo talento, ma anche la sua capacità di rappresentare personaggi forti e resilienti.

Dopo una rinnovata consacrazione dell’Oscar, Julia Roberts si dedica a una serie di progetti ambiziosi. Recita nella commedia I perfetti innamorati (2001), con Catherine Zeta-Jones, e partecipa a blockbuster come Ocean’s Eleven – Fate il vostro gioco (2001) e il suo seguito Ocean’s Twelve (2004), entrambi diretti dal suo amico Steven Soderbergh.

Nel 2003, si trasforma in un’insegnante anticonformista in Mona Lisa Smile di Mike Newell, dove esplora temi di emancipazione femminile e valori tradizionali. Continua a brillare interpretando ruoli versatili come l’amante di Chuck Barris nel film d’esordio alla regia di George Clooney, Confessioni di una mente pericolosa (2003), e una fotografa ambigua in Closer (2004) di Mike Nichols. Dopo un periodo di pausa dalla vita pubblica, Julia riprende la carriera nel 2007 con La guerra di Charlie Wilson di Mike Nichols, affiancata da Tom Hanks.  Continua a esplorare ruoli diversificati, in film come Duplicity (2009) e Mangia, prega, ama (2010), dove affronta tematiche di ricerca interiore e crescita personale.

Julia Roberts
Julia Roberts, Fonte: Lei

Gli anni ’10

Nel 2012, Julia interpreta la Regina Cattiva in Biancaneve di Tarsem Singh, un ruolo che le consente di mostrare una faccia diversa del suo talento. I segreti di Osage County (2013) le frutta nominations come miglior attrice non protagonista ai BAFTA, ai Golden Globes e agli Academy Awards.

Negli anni recenti, Julia continua a collaborare con registi di talento come Jodie Foster e Billy Ray, recitando in film come Money Monster (2016) e riunendosi con Gary Marshall per Mother’s Day (2016). La sua versatilità e il suo impegno la portano a interpretare una madre combattiva in Ben is Back e in Wonder (2017), tratto dal romanzo di R.J. Palacio, che esplora temi di accettazione e amore familiare.

Le prospettive attuali della diva Julia Roberts

Nel 2022, Julia è co-protagonista con George Clooney in Ticket to Paradise, dimostrando ancora una volta di essere una presenza di grande rilievo nel panorama cinematografico moderno. Con una carriera che continua a espandersi, Julia Roberts rimane un simbolo di talento, resilienza e versatilità, incantando il pubblico di generazione in generazione. La sua capacità di affrontare ruoli sfidanti e la sua dedizione al mestiere la rendono una delle attrici più rispettate e amate di tutti i tempi.

 

Marco Prestipino

 

 

Il “Masterclass tour” di Edoardo Leo arriva a Messina con “Non sono quello che sono”

Nel pomeriggio di lunedì 28 ottobre, l’Università degli studi di Messina ha avuto il piacere di ospitare Edoardo Leo per presentare il suo “Masterclass Tour”. Dopo la tappa a Catania, l’attore è arrivato nel messinese dove ha avuto modo di presentare la sua opera intitolata “Non sono quello che sono”. La pellicola ritratta in chiave moderna l’Otello, mirando a sottolineare l’attualità della tragedia shakespeariana.

Il paragone di Edoardo Leo fra la società del tempo e quella odierna

Dopo la presentazione e i saluti istituzionali della magnifica rettrice Giovanna Spatari, è stato mostrato il trailer del film, seguito da una breve introduzione di Leo. L’opera riprende un tema quanto mai attuale: il feminicidio, enfatizzando proprio le figure maschili e la loro mentalità patriarcale. L’attore ha ammesso che avrebbe voluto portare il tour anche nelle scuole, col rischio che il film risultasse troppo violento per quella fascia d’età e fosse quindi forzatamente edulcorato.

“Non sono quello che sono” si focalizza come già detto sulla figura maschile, la quale secondo il regista al giorno d’oggi ignora il problema della violenza e degli abusi di genere. Lo dimostrano le statistiche: ogni giorno in media due donne sono vittime di feminicidio. I protagonisti maschili dell’opera vengono caratterizzati da una mentalità maschilista e patriarcale incline alla gelosia e alla violenza, mostrata allo spettatore con la premeditazione degli omicidi. L’opera ha poi natura popolare: lo scrittore inglese di fatti ideò una tragedia rivolta al popolo e ciò si riflette nel film con l’utilizzo dei dialetti romano e napoletano, ma anche con la collocazione popolare e pseudo-criminale dei personaggi trattati, contesti in cui la logica del possesso della donna è più tipica.

Edoardo Leo parla di Franca Rame. Crediti: UniVersoMe

Maltrattare l’oggetto del proprio amore

Nella tragedia Edoardo Leo sviscera il complicato rapporto tra Otello e Desdemona, la sua amata. L’amore in questione non è naturale, ha più il carattere di un’ossessione. La stessa natura la ritroviamo anche con Iago che non riesce a baciare Emilia senza prima toglierle la sua identità di donna, come accade quando le copre il viso con un hijab. Questa relazione di amore e gelosia che si trasforma pian piano in odio viene ben spiegata nella resa in italiano della celebre citazione shakespeariana:

“La gelosia è un mostro dagli occhi verdi che sputa nel piatto in cui mangia” (riproposizione di Leo in “Non sono quello che sono”)

Per l’adattamento del film il regista ha studiato l’opera in lingua originale, per ricostruire al meglio la contorta psicologia dietro ogni personaggio. Ad esempio Iago, vero antagonista della storia, riesce a usar espedienti manipolatori per ingannare Otello e fargli credere che l’amata e i suoi cari stessero tramando continuamente alle sue spalle. Lo stesso Iago, che nell’opera originale si tace e scompare dai dialoghi, viene tramutato da Leo in un carcerato che il regista ha immaginato da vecchio, uscito di prigione, mentre racconta la vicenda in un programma tv tramite numerosi flashback. Anche il personaggio di Desdemona è particolare: nonostante il rapporto tossico che ha con l’amato, rimane fedele e gli perdona i soprusi e gli scatti d’ira per amore. Anche quando rivela all’amica Emilia che teme per la sua stessa vita, continua ad affermare che “nemmeno per tutto l’oro del mondo tradirebbe il suo uomo”.

Scena del film di Edoardo Leo - Crediti: UniVersoMe
Scena del film di Edoardo Leo – Crediti: UniVersoMe

La rappresentazione dell’abuso

Iconica è la scena della morte di Desdemona, raccontata da Leo come rappresentazione massima del disprezzo e del disgusto che l’uomo può provare nei confronti della donna. Otello, che ha l’occasione per ucciderla tagliandole la gola, preferisce utilizzare una pistola, simboleggiando la distanza che tiene a mantenere anche nel momento dell’omicidio. Il regista, inoltre, imposta un linguaggio che rispecchia sia l’”Otello” originale che il linguaggio d’odio della società dei giorni nostri. L’utilizzo della parola “puttana” per rivolgersi a una qualsiasi donna è ordinario in “Non sono quello che sono” e, spiacevolmente, l’attore sottolinea come sia anche l’insulto più rivolto alle donne al giorno d’oggi. Ciò viaggia parallelamente all’insulto più rivolto verso gli uomini, ovvero “cornuto”, che indica indirettamente la malafede della donna altrui. È tutto un circolo vizioso che fa capo alla cultura del possesso.

A conclusione dell’evento, per sensibilizzare ulteriormente il pubblico sull’argomento, Edoardo Leo ha recitati un pezzo tratto dall’opera di Franca Rame, attrice impegnata in politica, che fu vittima di uno stupro punitivo da parte di esponenti dell’estrema destra nel 1973. Il suo racconto è testimonianza, attraverso il libro del 1981 “Lo stupro e il docufilm dedicato “Processo per stupro” del 1979. Entrambe le opere ebbero un enorme eco nell’opinione pubblica e scossero le coscienze degli Italiani. Fino a meno di 50 anni fa l’uomo violento aveva la possibilità di appellarsi a sistemi come il delitto d’onore o l’adulterio considerato un crimine imputabile solo a donne. In questo racconto Leo si è confrontato a tu per tu con tutti gli spettatori, instaurando un dialogo attivo che ha visto studenti e docenti coinvolti ed entusiasti.

“Non sono quello che sono” di Edoardo Leo sarà nelle sale dal prossimo 14 novembre.

 

Giuseppe Micari

Carla Fiorentino