The Danish Girl: Una storia vera raccontata con delicatezza

Nel 2000, David Ebershoff scriveva “The Danish Girl” ispirato alle vite dei due pittori danesi Gerda Wegener e Einar Wegener/Lili Elbe; Quest’ultima identificata come la prima transessuale e che si è sottoposta a interventi chirurgici per cambiare la propria identità sessuale.

Il film del 2015 di Tom Hooper (che ha diretto anche “il Discorso del Re”), adatta cinematograficamente il romanzo, con le dovute licenze e secondo la poetica del regista. Una visione forse edulcorata per alcuni spettatori, ma sicuramente apprezzabile che non ha timore di mostrare delle nudità intere e anche scene con tematiche sessuali esplicite senza cadere nella volgarità o nello squallore (ciò nonostante Negli Stati Uniti è stato vietato ai minori di 17 anni non accompagnati). La fotografia scandisce il passaggio da uomo a donna, partendo da una Copenaghen anni ’20 con toni freddi grigiastri, per arrivare a una Parigi calda e avvolgente dove Lili trova finalmente se stessa.

Sono, però, le emozioni, anche quelle non dette a far “rumore”. Eddie Redmayne riesce a trasmettere le sofferenze interiori di una donna intrappolata nel corpo di un uomo, le sue incertezze, paure, fragilità, capricci e la forza di volontà nel portare a termine questa sua missione. La sua interpretazione delicata e forte allo stesso tempo, è davvero intensa; ma è Alicia Vikander che esalta questa interpretazione (difatti ha vinto un oscar per questo). L’attrice riesce a mostrare tutti gli stati d’animo di una moglie che vede le difficoltà di un marito, che diventa un’ami

ca. Come può una donna accettare tutto questo? Eppure Gerda lo fa con amore incondizionato, un amore che va oltre l’identità sessuale.

Questo film probabilmente farà storcere il naso a chi crede che certe cose siano “contro natura”, ma non fa altro che mostrare la vita di due donne, unite da un legame profondo, in un tempo non molto vicino, ma per certi aspetti nemmeno troppo lontano.

 

Saveria Serena Foti

Loro 2 di Paolo Sorrentino.

Che Sorrentino sia un autore totalmente restio a porsi limiti è ormai noto a tutti, che il suo ultimo intento è quello di piacere in maniera assoluta a tutti anche. Eppure con il suo ultimo lavoro ci ha stupiti, nel bene o nel male, ancora una volta. 

Il 24 aprile 2018 esce nelle sale Loro 1, seguito dalla seconda parte Loro 2, uscito invece il 10 maggio.
Superfluo ricordare chi sia il protagonista della tanto atea pellicola: “Lui”, l’emblema della politica italiana, Silvio Berlusconi.
Non si sapeva cosa aspettarsi da questo film, l’attesa era tanta, le aspettative altissime; ed è proprio per questo che l’esordio è stato il più redditizio per un film di Sorrentino.

A vestire i panni del premier troviamo un camaleontico Toni Servillo; il quale nella seconda parte interpreterà anche Ennio Doris, banchiere di fiducia di Silvio e anche un po’ il suo alter ego come si evince dalla forte scena del colloquio tra i due al tavolo, e dalla scelta del regista di far interpretare entrambi i ruoli dal medesimo attore.
Il film è stato presentato in due parti e si può affermare che la prima parte sia una sorta di lunga introduzione. “Loro 1” è infatti quasi interamente dedicato tutto e tutti coloro che fanno da cornice alla vita politica e privata del cavaliere.
Sesso, droga, soldi, ricerca assoluta e sconsiderato del potere.
Questo è ciò che trapela da questa prima parte, una “lunga macro sequenza” che vede come protagonista Sergio Morra (Riccardo Scamarcio), giovane arrampicate sociale che ha fatto del suo desiderio di conoscere il “capo” il suo primo obbiettivo di vita. Ed ecco allora che tutto diviene un giro di feste, di escort, tutto organizzato ad hoc per catturare la Sua attenzione.

Ma chi sono Loro? “Loro” sono quelli che contano.
È questa la definizione, la risposta che Sergio darà alla sua spregiudicata compagna di vita e di affari Tamara (Euridice Axen).

In Loro 1, Berlusconi farà la sua comparsa solo nelle ultime scene, in compenso però a lui, alla sua vita, alla sua carriera e al suo rapporto con la moglie sarà interamente dedicata la seconda parte.
A prescindere dalla impeccabile interpretazione di Servillo, la figura del premier è rappresentata in maniera del tutto atipica ma assolutamente fantastica.
È il 2006, Forza Italia non è più al governo, Berlusconi non è più al governo. Questa è proprio la sua preoccupazione più grande, preoccupazione che rivela a tutti coloro che si trovano a parlare con lui, come fosse alla ricerca di un consiglio, di un aiuto.

Sorrentino dipinge Silvio esattamente così, un uomo alla ricerca di qualcosa, di aiuto; non lo attacca politicamente, non lo critica, ne descrive ovviamente tutte le vicende più scomode (note a tutti) eppure lo fa in maniera quasi ironica, pur mantenendosi lontano dall’ esaltarne la figura.
Riesce, grazie ad un geniale lavoro di sceneggiatura, a descrivere la persona politica e al tempo stesso a raccontare il lato umano, il Silvio non solo politico corrotto e spregiudicato, ma uomo tormentato da conflitti interiori, preoccupato dalla freddezza della moglie Veronica Lario ( Elena Sofia Ricci ) che è ormai lontana anni luce da lui e finirà per chiedere il divorzio.

Come dimenticare la scena del litigio tra i due? Un fiume di riflessioni, di verità che sapevano l’uno sull’altro e che hanno il coraggio di rivelarsi solo ora, alla chiusura di quell’ultimo capitolo.

Tirando le somme il film è stato realizzato come forse nessuno si aspettava; la prima parte probabilmente delude un po’ e ci si chiede se tutto quello strafare fosse necessario, ma la seconda parte è una riabilitazione del tutto e poi la figura di Berlusconi è un 10 su 10. Convince. Piace.
La regia è quella inconfondibile del regista partenopeo: cenare straordinari, personaggi che anche se secondari vengono caratterizzati in maniera eccellente ed il tutto viene raccontato con quella tipica malinconia “sorrentiniana” che renderebbe poetica anche la più sciatta delle storie.
Non sarà forse il miglior lavoro del regista, ma è assolutamente da non perdere.

Benedetta Sisinni

J.D. Salinger – Franny e Zooey.

-Sono JD Salinger e ho finto di essere morto …

-Mr Salinger! Non immagina che piacere. Princess Carolyne, una sua fan

-Lasciami indovinare, Il giovane Holden?

-E gli altri naturalmente … Per esempio … Lo Hobbit? 

Bojack Horseman, seconda stagione – J.D. Salinger e Princess Carolyne.

Più o meno succede proprio questo: uno passa la vita a scrivere libri e pubblicare racconti per poi essere ricordato soltanto per un libro, proprio come dimostra questo spezzone tratto da Bojack Horseman.

È stato proprio per questo motivo che ho (finalmente) letto Franny e Zooey, un’opera in cui essenzialmente non accade nulla di concreto: la storia si divede in tre scene principali in cui si susseguono lunghissimi dialoghi che richiamano più un’opera teatrale anziché una narrativa.

Franny Glass, studentessa al college ed ex Bambina Eccezionale di una fortunata trasmissione radiofonica, non riesce più ad accettare le regole della società in cui vive e il desiderio del cambiamento nasce dopo la lettura di un anonimo libricino del XIX secolo: i “Racconti di un pellegrino russo”. In questo testo il protagonista, un pellegrino appunto, si mette alla ricerca della tecnica della preghiera incessante di cui parla la Bibbia, l’unico strumento che consentirebbe un’unione completa con Dio, cosa che affascina la giovane Franny a tal punto da decidere di percorrere la stessa strada per raggiungere uno stato di preghiera continua.

Una strada che si rivela ardua da percorrere e Franny si viene così a trovare immersa in una profonda crisi spirituale e esistenziale, da cui riuscirà ad uscire solo grazie all’aiuto del fratello maggiore Zooey, il secondo splendido protagonista di questo racconto (abbastanza simile a un certo Holden di vecchia conoscenza).
La conclusione a cui giunge la madre, comunque, vale tutto il libro:

“Non capisco proprio a cosa serva sapere tante cose ed essere tanto intelligenti e così via, se non riuscite a essere felici.”

Attraverso i dialoghi tra i due fratelli, e utilizzando la particolare tecnica dei flashback, Salinger ricostruisce una vera e propria saga familiare: la famiglia Glass, già protagonisti di altri suoi racconti, una famiglia americana media rovinata dal mito del successo.

Un romanzo che analizza nel profondo la psiche giovanile cercando di individuare le ragioni di una ribellione più profonda, che scava un fosso incolmabile tra il passato e il presente. Consigliato a chi considera insignificante, minuscolo e deprimente tutto quello che lo circonda, Franny diventerà lo specchio della propria sofferenza interiore.

“Franny respirò adagio, continuando a tenere l’orecchio appoggiato al ricevitore. Il segnale di libero, naturalmente, seguì la fine della comunicazione; e Franny parve considerarlo bellissimo da ascoltare, quasi fosse il miglior surrogato possibile del silenzio primevo.”

Serena Votano

 

Contromano il nuovo film di e con Antonio Albanese.

Mario Cavallaro (Antonio Albanese) è il classico italiano medio: un cinquantenne vittima inconsapevole di una vita abitudinaria. Vivere per le abitudini. 
La sveglia puntata tutti i giorni allo stesso orario, lo stesso caffè marocchino sempre uguale al solito bar, il lavoro nel negozio di calze e l’orto sul terrazzo da coltivare.

Ma Mario è soddisfatto di ciò che ha, perché per lui: “è questo il bello, le cose che non cambiano, che rimangono uguali, le abitudini…”.
Quando però il suddetto bar di fiducia viene venduto all’egiziano del kebab, la stabilità del nostro uomo inizia a vacillare per poi crollare definitivamente nel momento in cui si troverà a dover concorrere con l’ambulante Oba (Alex Fondja) che, piazzatosi dinnanzi al suo negozio, svolge la sua stessa attività a prezzi decisamente più allettanti per i clienti.
Ed è a questo punto che l’abitudinario per eccellenza stabilisce come la situazione, divenuta per lui insostenibile, vada assolutamente cambiata.

La soluzione gli si presenta lineare, come affermerà più tardi: “traghetto, Napoli, Tunisi e poi tutta una tirata fino in Senegal.”
Semplicemente decide, dopo un banale rapimento, di riportarlo a casa.
Oba si mostra d’accordo solo nel caso in cui Mario accetterà di riportare in Senegal anche quella che presenta come la sorella, Dalida (Aude Legastelois).
Da qui in poi tutto prenderà una paradossale piega on the road.

Alla sua quarta prova da regista, dopo ben 16 anni lontano dallo star dietro la macchina da presa, Antonio Albanese (qui per l’appunto regista e interprete) torna alla ribalta con una commedia sull’attualissimo tema dell’immigrazione.
La bravura di Albanese sta nell’affrontare tale tema senza la presunzione di volerlo spiegare o giustificare, bensì vuole descriverlo e descriverne gli effetti che immancabilmente opera sulla società, spostando gradualmente l’attenzione sul problema vero e proprio, il razzismo quotidiano che dilaga.

La scelta del profilo del protagonista si mostra azzeccata a tale scopo, in quanto fin dalle prime scene è evidente come Mario non sia altro che un uomo qualunque, uguale a tanti, fondamentalmente tutt’altro che cattivo; la sua reazione ai cambiamenti che si trova davanti non è altro che dettata da fattori sociali esterni comuni a tutti, ad esempio estenuati e martellanti campagne elettorali o più semplicemente dalla paura per ciò che ci appare diverso.
L’infelice soluzione da lui trovata, ovvero quella di “riportarli a casa uno a uno”, è una riflessione satirica su come troppo spesso crediamo di aver solo noi la soluzione giusta; Mario crede infatti non solo di aver trovato la sua personale soluzione al problema ma invita tutti a fare lo stesso per arginarlo completamente.

Una commedia che lascia con l’amaro in bocca e con qualche punto interrogativo in più, una riflessione su una società in continuo divenire. Ma più di tutto questo film è un divertente invito a conoscersi, ad abbattere le inutili barriere culturali che ci siamo creati.

 

Benedetta Sisinni

50 Sfumature di Rosso: (Finalmente) la fine della trilogia (si spera).

 

L’8 febbraio scorso, in Italia, è uscito il terzo capitolo della saga di “50 Sfumature di”.
In questo caso il colore è il rosso, come la rabbia che mi ha scatenato saperlo al primo posto nel box office nazionale dopo solo un weekend di programmazione.

Ogni anno, nel nostro Paese, si è posizionato tra i film più visti e io continuo a chiedermi il motivo.
Sono fautrice del fatto che non bisogna avere pregiudizi su un qualcosa senza averla vista, ma in questo caso credo che si possa fare abbondantemente un’eccezione.

L’opera da cui questi “film” sono tratti è di livello alquanto mediocre (e sono anche gentile a dire questo), basati su un’idea poco originale. Infatti, per chi non lo sapesse, la saga “più hot” (ma anche no) degli ultimi anni nasce da una fanfiction di Twilight. Converrete con me che comunque le basi non sono delle migliori.
Ammetto di aver visto solo il primo capitolo della saga, e non al cinema, ma in TV per curiosità, per cercare di capire il successo che ha riscosso.
Ebbene, non riesco a capacitarmi perché milioni di persone, soprattutto donne, sono letteralmente impazzite per questi due personaggi. Non è una storia d’amore, ma nemmeno una storia basata sul bondage.
Vedo solo un’accozzaglia di roba condita con dialoghi inconsistenti e delle interpretazioni a caso.

Posso sembrare veramente cattiva a dire certe cose, ma io non andrò a vedere un film del genere al cinema, da donna non posso assolutamente accettare certe cose e non mi sento rappresentata da una ragazza come Anastasia; né tantomeno vorrei al mio fianco un uomo come Christian Grey.
In questa storia non c’è realtà e non c’è morale; non perché ci sono scene di sesso “spinto” (nemmeno quelle ci sono), ma perché vengono calpestati valori come rispetto della persona, meritocrazia, amore, parità tra i sessi e tantissimi altri.
Perché una donna vorrebbe questo? Diciamocelo, se Christian Grey fosse stato un semplice operaio, avrebbe riscosso così tanto successo o lo avrebbero arrestato per stalking o altro?
E mi consola il fatto che sia il terzo e ultimo capitolo.
A meno che non vogliano fare tutta la trilogia con il punto di vista di lui, considerando che “l’autrice” ha riscritto i libri identici, ma con la prospettiva di Grey, vendendo, tra l’altro, milioni di copie, inspiegabilmente secondo me.

Ora vi chiedo, perché ha così successo? Perché io non ho una risposta, spero l’abbiate voi.

Serena Saveria Foti

Puncture

“Puncture” è una pellicola datata 2011 diretta dai registi Adam e Mark Kassen, incentrata sulla figura degli avvocati Mike Weiss e Paul Danzinger.

L’AIDS è un tema abbastanza forte, che forse non è ancora del tutto chiaro.
La prevenzione è più che necessaria e tutti dovrebbero esserne al corrente. In America vi è un elevato numero di persone affette da questo tipo di malattia comprese infermiere o infermieri che nel solo tentativo di eseguire un prelievo, rischiano la vita.

Ed è proprio con un evento analogo che la storia di Mike Weiss (Chris Evans) e Paul Danziger (Mark Kassen)ha inizio. Mike e Paul sono entrambi degli ottimi avvocati che amano il proprio lavoro e sono dediti ad esso. Tuttavia i problemi non mancano.
Paul è in attesa del suo primogenito e per questo è sempre in attesa della fatidica chiamata con conseguente apprensione nei riguardi della moglie, mentre Mike è un tossico dipendente che passa le proprie serate a divertirsi fra alcol, droga e ragazze.
Benché egli sembri essere un ragazzo tutt’altro che affidabile, è sempre dedito al lavoro ed è proprio in quelle serate di baldoria e divertimento sfrenato che, paradossalmente, fa emergere le sue straordinarie qualità come avvocato, arrivando anche ad inscenare un processo con l’aiuto dei sui “conviviali”.

Un giorno Mike e Paul vengono contattati da una cliente, Vicky Rogers (Vinessa Swan). Questa donna si rivela essere un’infermiera (comparsa all’inizio della pellicola) affetta da AIDS dopo essersi punta con un ago a contatto con un paziente affetto dalla suddetta malattia.
I due, grazie alla testimonianza della donna, vengono a conoscenza di un uomo Jeffrey Dancort (Marshall Bell) che ha ideato un ago usa e getta che previene incidenti come quelli capitati a Vicky, ma che, per motivi legati ai costi, nessun ospedale vuole adottare.
Da qui in poi comincerà la battaglia di Mike e Paul per dare giustizia a Vicky e cercare di far utilizzare negli ospedali americani l’ago di Jeffrey nel tentativo di prevenire situazioni analoghe.

Questo film, per nulla pretenzioso, cerca di raccontare una storia realmente accaduta cercando di arrivare dritto al punto, senza girarci intorno. Purtroppo, non riesce a farlo in maniera perfetta.
La caratterizzazione dei personaggi lascia un po’ a desiderare, poiché malgrado il protagonista sia, in fondo, principalmente Mike, l’eccessiva focalizzazione su di esso fa passare in secondo piano personaggi, quali lo stesso Paul, che invece avrebbero meritato molta più attenzione e dedizione.
L’interpretazione di Chris Evans (probabilmente una delle migliori) riesce a coinvolgere lo spettatore in maniera disarmante.
Forse l’unico aspetto negativo è proprio il fisico possente dell’attore che, probabilmente, non era fra i più adatti per rappresentare un tossico dipendente.

Il tutto è racchiuso in una buona regia, cali a parte, che completa l’opera.
Il grande rammarico è che in pochi sono a conoscenza di questa pellicola che non esente da difetti riesce comunque a lasciare il segno nella mente dello spettatore e la scarsa pubblicità su di esso non ha certo giovato.
Puncture si rivela essere un discreto tentativo di far emergere un problema sociale abbastanza delicato con l’ausilio di un lodevole cast e una regia ancora da curare in alcuni aspetti, ma che può solo migliorare.

Giuseppe Maimone

In ordine di sparizione: un Tarantino norvegese tra neve e sangue.

Ci troviamo in un piccolo e (apparentemente) tranquillo paesino della Norvegia.

Niels Dickman, uno spalatore di neve appena insignito del premio di cittadino dell’anno, scopre che una banda di narcotrafficanti che indagava sul furto di una partita di cocaina ha ucciso il suo unico figlio a seguito di un equivoco.  Accecato dall’ira, Niels decide di vendicarsi.
Sarà un crescendo di violenza che coinvolgerà personaggi bizzarri e talvolta involontariamente comici, come il “Conte”, un giovane boss nevrotico, vegano convinto esasperato da una ex moglie particolarmente molesta, oppure “Papa”, il capo della mafia serba, un vecchio emigrato freddo e crudele, con un senso della famiglia molto forte, che osserva con una curiosità quasi infantile ciò che ha da offrire la Norvegia.

La caratterizzazione dei personaggi risulta spesso quasi caricaturale e viene sfruttata come un mezzo per fare ironia attraverso lo sconvolgimento degli stereotipi.
In particolare il regista Hans Peter Molland pone l’accento sui pregiudizi sugli stranieri  (si ricorda ad esempio il Conte, che confonde continuamente serbi e albanesi).
Il tema del razzismo è solo uno dei molteplici elementi che hanno portato i critici a parlare di Molland come di un Tarantino norvegese. Basti pensare al gusto per il pulp, al tema della vendetta, ai dialoghi pungenti e sopra le righe, allo sguardo scanzonato, talvolta addirittura straniante, all’attenzione quasi maniacale per i dettagli.

Tutto questo però fa solo da cornice a quello che è il tema principale, ovvero la vendetta.
Per il regista la vendetta, che il vendicatore tipicamente immagina come il trionfo della giustizia, non è altro che un mezzo per perpetuare la violenza. Non è un semplice circolo vizioso, perché da un singolo atto violento, come dalla caduta di una tessera del domino, scaturisce una cascata di conseguenze.
È capace di trasformare il cittadino dell’anno in un killer senza scrupoli, è capace di causare una faida tra la mafia norvegese e i serbi, è capace di rivelare tutti i pregiudizi e le contraddizioni che si celano in un tranquillo paesino scandinavo.
A fare da sfondo alla vicenda vi sono sconfinate distese innevate. Ricorrono le scene in cui il protagonista guida il suo spazzaneve, che libera la strada e lascia dietro di sé un senso di ordine e sicurezza.
Non è casuale che la neve spazzata, solitamente bianchissima e incontaminata, alla fine del film si macchi di sangue, come la coscienza di un uomo che conosce per la prima volta la vendetta.

Nonostante i temi pesanti e fortemente drammatici, il film risulta molto piacevole ed inaspettatamente divertente, grazie anche ad una recitazione degna di nota.
Stellan Skasgård (un meraviglioso Niels Dickman) e Bruno Ganz (che interpreta divinamente il ruolo del boss serbo) non deludono, recitano meravigliosamente come sempre.
Stupisce positivamente la prova di Pål Sverre Hagen, attore poco conosciuto al di fuori dei paesi scandinavi, ma che si dimostra talentuoso almeno quanto i colleghi più noti e che rende il personaggio del Conte assolutamente indimenticabile.
Passando da un’ironia graffiante, ad una regia spudoratamente tarantiniana, ad una colonna sonora particolarmente azzeccata e ad una fotografia mozzafiato, sono innumerevoli gli elementi che rendono In ordine di sparizione una vera perla del cinema scandinavo.

 

Renata Cuzzola

Nessuno come noi: un tuffo nel passato prima di tuffarsi nello studio

L’estate è finita e con lei gli ultimi attimi di libertà, quindi si torna sui libri a sgobbare … ma non così velocemente. Perché non prendersela ancora un po’ comoda leggendo un libro? 

Io, ad esempio, non ho resistito, ho letto “Nessuno come noi” di Luca Bianchini, ambientato nella Torino degli anni ’80, senza smartphone o connessione, quando si aspettava davanti al telefono fisso pregando che suonasse e gli sms erano bigliettini scambiati in classe. L’autore ci descrive l’ amore giovanile, non ricambiato, di Vincenzo per Caterina. Frequentano la stessa classe, ma lei non sembra quasi accorgersi di lui, se non come amico: la ragazza s’innamora praticamente di tutti tranne che del povero Vincenzo, il quale soffre. Caterina non fa che appoggiarsi emotivamente a Vincenzo per le sue questioni di cuore, chiedendogli continuamente consigli su come fare con i ragazzi. Insomma, quella che oggi chiamiamo comunemente “friendzone”.

A osservare questo strano rapporto tra i due è Spagna, una giovane dark dai buoni sentimenti, per cui io simpatizzo parecchio. Spagna sa cosa prova Vincenzo ed è un’amica fidata che lo consola. Lei fa parte, insieme a Vincenzo e Caterina, di un trio inseparabile che i compagni di scuola chiamano i “Tre cuori in affitto”.

Improvvisamente appare a scuola Romeo, un ragazzo ricco e bello, più che altro prepotente, sconvolgerà il trio conquistando inaspettatamente la fiducia di Vincenzo, lui finirà per aiutare Romeo con la scuola e passerà parecchio tempo a casa sua, la loro amicizia cresce di giorno in giorno, l’unico ostacolo è che Vince non ha nessuna intenzione di invitare Romeo nella sua casa a Nichelino (piccola cittadina torinese), una casa pulita e accogliente ma molto più piccola e povera della casa di Romeo.

La gita scolastica che fanno a Vienna è un capitolo che mostra tutta la bravura di Luca Bianchini capace di ricordare, fin nei minimi dettagli, tutto quello che gli studenti fanno quando sono in gita all’estero.
Al ritorno emerge la consapevolezza che il padre di Romeo ha una storia sentimentale con la sua professoressa d’italiano, Betty Bottone, un amore imprevisto, che fa battere il cuore anche se non dovrebbe.

Come finirà, poi, tra Cate e Vince?

Questo è stato un libro in cui io (ventenne, universitaria) ho vissuto come una narrazione di un mondo lontano che non è fatto di cuoricini scambiati su face book o whatsapp, dove ci si parlava faccia a faccia, o al massimo per lettera. Un libro che, molto probabilmente, i cinquantenni vivranno come un tuffo nel passato.

Una volta chiuso il libro, ci si rende conto di come Luca Bianchini, conosciuto per Io che amo solo te, ha saputo fotografare momenti dell’esistenza di ognuno di noi, momenti in cui abbiamo pensato che un amico o un amore fosse per sempre. È per questo che lo considero un libro degno di successo: perché riesce a raggruppare emozioni che colpiscono tutti quanti, che siano cresciuti negli anni ottanta o che siano cresciuti con lo smartphone.

Serena Votano

La bellezza invisibile della città

Vi capita mai di girovagare per la libreria alla ricerca di un libro da leggere? E ancora, vi capita mai di non sapere proprio decidere tra due libri?

Non vi dirò quel era la seconda scelta ma sicuramente la prima scelta è stata “Le città invisibili” di Italo Calvino. Ciò che mi convinse fu la “fine del romanzo”, lo scrivo tra virgolette poiché effettivamente leggendolo non c’è una fine univoca ma si vedono finali dappertutto, diceva più o meno così:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Una serie di città reali e città immaginarie raccontate da Marco Polo, frutto dei suoi viaggi e della sua immaginazione, che ogni sera appagano la curiosità dell’Imperatore dei Tartari Kublai Khan. Il dialogo tra questi due si suddivide in 9 capitoli con un’ulteriore divisione interna: 55 città con nomi di donne, suddivise in 11 categorie (dalla città della memoria alle città nascoste). Al suo interno si susseguono evocazioni di luoghi leggendari, contraddizioni umane, follia, le vie dell’immaginazione si intrecciano con quelle della realtà, il lettore vedrà queste città sorgere davanti ai suoi occhi.

Viaggi per rivivere il tuo passato?- era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata così: Viaggi per ritrovare il tuo futuro? E la risposta di Marco:- L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà

Calvino non fa che spingere l’individuo a guardarsi intorno, riflettere sulle persone vicine e far capire che, piuttosto che legarsi passivamente alle persone potenti in maniera uguale, l’individuo deve scegliere con attenzioni chi avere accanto e sapergli dedicare tempo e spazio. E forse prendersi cura di questi ultimi.

Consigliato a chi è alla ricerca di un posto per sé, una città su misura per tutti coloro che hanno il desiderio di scappare dal passato e lasciare che un nuovo futuro prenda piede. Sarà fantastico scoprire come il passato lasciato alle spalle può essere il presente di qualcun altro.

Serena Votano

St. Vincent: una wonder musician

Mentre scrivo la sto ascoltando chiedersi “Am I the only one in the only world?” : è l’inizio di “Rattlesnake” che apre il suo ultimo album “St. Vincent” risalente ormai al 2014.

Annie Clark aka St. Vincent non è l’unica donna al mondo ma è sicuramente un’artista intrigante, polistrumentista e cantautrice mai scontata nei testi e nella composizione musicale.

Ma su tutto: una divinità con la chitarra, e non sto esagerando.
Ci sarà un motivo per cui Dave Grohl l’ha chiamata per cantare “Lithium” nell’unica reunion dei Nirvana alla Rock and Roll Hall of Fame. Con il genio sperimentalista di David Byrne ha inciso un album “Love this giant” e girato il mondo in tour. Fa faville ai festival, unendo performance visiva e musica.
Il figlio di Frank Zappa in una recente intervista ha suggerito a coloro che si vogliono avvicinare al lavoro del padre di ascoltare prima lei, perché gli ricorda il padre per ritmica e cadenze sincopate. Suggerendo la visione di lei in un festival che suona una cover di “Dig a Pony”.

Cover dell’omonimo album “St Vincent”


Tornando all’album, i primi due singoli sono un gioco di chitarra e distorsioni del suono, fornendo essa stessa un elemento ritmico e sensuale.
“Birth in reverse” è un continuo sali e scendi vocale accompagnato da una velocissima coda strumentale.
Inizia “Prince Johnny”  è una canzone d’amore il cui testo è complesso,  si viene trasportati lungo tutta questa storia da una delicata tastiera.
C’è il tripudio di ottoni in “Digital Witness” , che prende in giro la società odierna e la dipendenza dalla tecnologia.
Ma c’è spazio anche per i lenti “I Prefer Your Love” è una intima melodia tra i suoi pezzi più struggenti in assoluto. Il  ritmo serrato e coinvolgente di “Psychopath”.
Nella versione deluxe dell’album troviamo “Pieta” che ad una base serrata di percussioni unisce un coro da chiesa e un testo filosofico.

La mia preferita in assoluto è “Regret” che con quelle percussioni eccita e riempie di energia.
In molti la etichettano come pop in questo suo disco ma io non riesco proprio perché è un miscuglio di generi, è un complesso non catalogabile che riesce a soddisfare tutti.
C’è tutto, garantendo una leggerezza di tocco e chiarezza melodica da fuoriclasse.
Quasi dimenticavo : “St. Vincent” nel 2015 ha vinto un Grammy come “miglior album alternativo”.
La musica di St. Vincent, come lei, è galvanizzante.

Ha creato un approccio totalmente nuovo nel suonare la chitarra: unico.
Validissimi anche i lavori degli album precedenti “Strange mercy”, “Actor” e “Marry me”.
La texana itinerante (negli ultimi 10 anni è stata quasi sempre on the road) ha fatto parte della Polyphonic Spree un gruppo di Dallas che unisce alla varietà di voci diversi strumenti, dal trombone al violino dalla tastiera elettrica al corno.
Ha collaborato anche con Sufjan Stevens altro cantautore polistrumentista , anche lui sperimenta moltissimo e il cui lavoro è più che notevole.
Da donna a cui piace sperimentare quest’anno si è cimentata anche nella regia di un corto horror, che in realtà sembra più il teatro dell’assurdo, marcatamente il suo stile.
Fa parte di una antologia chiamata “XX” (nda sono tutte registe donne) presentato al passato Sundance festival.
Ha inciso anche una cover di “Emotional rescue” dei Rolling Stones per il film di Luca Guadagnino “A bigger splash” e lavorato per la colonna sonora del primo corto di Kristen Stewart “Come swim”.

A dicembre in una intervista rilasciata a “Guitar World” ha affermato che il materiale scritto per il nuovo album è “il più profondo e più audace che abbia mai fatto”.
Proprio mercoledì con un divertente video ha annunciato le date del tour che inizierà in Giappone a fine agosto “Fear the future tour” http://https://www.youtube.com/watch?v=eFXq8OU1dNQ


Aspettiamoci dunque di tutto, c’è bisogno di creatività, sperimentazione e sana musica.
Questa donna dagli occhi di cerbiatto e dalla chitarra spiritata non ha sbagliato un colpo fino ad ora.
Intanto ci stuzzica su Instagram con foto dallo studio:

A me viene solo da dire : “Annie ESCILO!”.

Arianna De Arcangelis