Contromano il nuovo film di e con Antonio Albanese.

Mario Cavallaro (Antonio Albanese) è il classico italiano medio: un cinquantenne vittima inconsapevole di una vita abitudinaria. Vivere per le abitudini. 
La sveglia puntata tutti i giorni allo stesso orario, lo stesso caffè marocchino sempre uguale al solito bar, il lavoro nel negozio di calze e l’orto sul terrazzo da coltivare.

Ma Mario è soddisfatto di ciò che ha, perché per lui: “è questo il bello, le cose che non cambiano, che rimangono uguali, le abitudini…”.
Quando però il suddetto bar di fiducia viene venduto all’egiziano del kebab, la stabilità del nostro uomo inizia a vacillare per poi crollare definitivamente nel momento in cui si troverà a dover concorrere con l’ambulante Oba (Alex Fondja) che, piazzatosi dinnanzi al suo negozio, svolge la sua stessa attività a prezzi decisamente più allettanti per i clienti.
Ed è a questo punto che l’abitudinario per eccellenza stabilisce come la situazione, divenuta per lui insostenibile, vada assolutamente cambiata.

La soluzione gli si presenta lineare, come affermerà più tardi: “traghetto, Napoli, Tunisi e poi tutta una tirata fino in Senegal.”
Semplicemente decide, dopo un banale rapimento, di riportarlo a casa.
Oba si mostra d’accordo solo nel caso in cui Mario accetterà di riportare in Senegal anche quella che presenta come la sorella, Dalida (Aude Legastelois).
Da qui in poi tutto prenderà una paradossale piega on the road.

Alla sua quarta prova da regista, dopo ben 16 anni lontano dallo star dietro la macchina da presa, Antonio Albanese (qui per l’appunto regista e interprete) torna alla ribalta con una commedia sull’attualissimo tema dell’immigrazione.
La bravura di Albanese sta nell’affrontare tale tema senza la presunzione di volerlo spiegare o giustificare, bensì vuole descriverlo e descriverne gli effetti che immancabilmente opera sulla società, spostando gradualmente l’attenzione sul problema vero e proprio, il razzismo quotidiano che dilaga.

La scelta del profilo del protagonista si mostra azzeccata a tale scopo, in quanto fin dalle prime scene è evidente come Mario non sia altro che un uomo qualunque, uguale a tanti, fondamentalmente tutt’altro che cattivo; la sua reazione ai cambiamenti che si trova davanti non è altro che dettata da fattori sociali esterni comuni a tutti, ad esempio estenuati e martellanti campagne elettorali o più semplicemente dalla paura per ciò che ci appare diverso.
L’infelice soluzione da lui trovata, ovvero quella di “riportarli a casa uno a uno”, è una riflessione satirica su come troppo spesso crediamo di aver solo noi la soluzione giusta; Mario crede infatti non solo di aver trovato la sua personale soluzione al problema ma invita tutti a fare lo stesso per arginarlo completamente.

Una commedia che lascia con l’amaro in bocca e con qualche punto interrogativo in più, una riflessione su una società in continuo divenire. Ma più di tutto questo film è un divertente invito a conoscersi, ad abbattere le inutili barriere culturali che ci siamo creati.

 

Benedetta Sisinni

50 Sfumature di Rosso: (Finalmente) la fine della trilogia (si spera).

 

L’8 febbraio scorso, in Italia, è uscito il terzo capitolo della saga di “50 Sfumature di”.
In questo caso il colore è il rosso, come la rabbia che mi ha scatenato saperlo al primo posto nel box office nazionale dopo solo un weekend di programmazione.

Ogni anno, nel nostro Paese, si è posizionato tra i film più visti e io continuo a chiedermi il motivo.
Sono fautrice del fatto che non bisogna avere pregiudizi su un qualcosa senza averla vista, ma in questo caso credo che si possa fare abbondantemente un’eccezione.

L’opera da cui questi “film” sono tratti è di livello alquanto mediocre (e sono anche gentile a dire questo), basati su un’idea poco originale. Infatti, per chi non lo sapesse, la saga “più hot” (ma anche no) degli ultimi anni nasce da una fanfiction di Twilight. Converrete con me che comunque le basi non sono delle migliori.
Ammetto di aver visto solo il primo capitolo della saga, e non al cinema, ma in TV per curiosità, per cercare di capire il successo che ha riscosso.
Ebbene, non riesco a capacitarmi perché milioni di persone, soprattutto donne, sono letteralmente impazzite per questi due personaggi. Non è una storia d’amore, ma nemmeno una storia basata sul bondage.
Vedo solo un’accozzaglia di roba condita con dialoghi inconsistenti e delle interpretazioni a caso.

Posso sembrare veramente cattiva a dire certe cose, ma io non andrò a vedere un film del genere al cinema, da donna non posso assolutamente accettare certe cose e non mi sento rappresentata da una ragazza come Anastasia; né tantomeno vorrei al mio fianco un uomo come Christian Grey.
In questa storia non c’è realtà e non c’è morale; non perché ci sono scene di sesso “spinto” (nemmeno quelle ci sono), ma perché vengono calpestati valori come rispetto della persona, meritocrazia, amore, parità tra i sessi e tantissimi altri.
Perché una donna vorrebbe questo? Diciamocelo, se Christian Grey fosse stato un semplice operaio, avrebbe riscosso così tanto successo o lo avrebbero arrestato per stalking o altro?
E mi consola il fatto che sia il terzo e ultimo capitolo.
A meno che non vogliano fare tutta la trilogia con il punto di vista di lui, considerando che “l’autrice” ha riscritto i libri identici, ma con la prospettiva di Grey, vendendo, tra l’altro, milioni di copie, inspiegabilmente secondo me.

Ora vi chiedo, perché ha così successo? Perché io non ho una risposta, spero l’abbiate voi.

Serena Saveria Foti

Puncture

“Puncture” è una pellicola datata 2011 diretta dai registi Adam e Mark Kassen, incentrata sulla figura degli avvocati Mike Weiss e Paul Danzinger.

L’AIDS è un tema abbastanza forte, che forse non è ancora del tutto chiaro.
La prevenzione è più che necessaria e tutti dovrebbero esserne al corrente. In America vi è un elevato numero di persone affette da questo tipo di malattia comprese infermiere o infermieri che nel solo tentativo di eseguire un prelievo, rischiano la vita.

Ed è proprio con un evento analogo che la storia di Mike Weiss (Chris Evans) e Paul Danziger (Mark Kassen)ha inizio. Mike e Paul sono entrambi degli ottimi avvocati che amano il proprio lavoro e sono dediti ad esso. Tuttavia i problemi non mancano.
Paul è in attesa del suo primogenito e per questo è sempre in attesa della fatidica chiamata con conseguente apprensione nei riguardi della moglie, mentre Mike è un tossico dipendente che passa le proprie serate a divertirsi fra alcol, droga e ragazze.
Benché egli sembri essere un ragazzo tutt’altro che affidabile, è sempre dedito al lavoro ed è proprio in quelle serate di baldoria e divertimento sfrenato che, paradossalmente, fa emergere le sue straordinarie qualità come avvocato, arrivando anche ad inscenare un processo con l’aiuto dei sui “conviviali”.

Un giorno Mike e Paul vengono contattati da una cliente, Vicky Rogers (Vinessa Swan). Questa donna si rivela essere un’infermiera (comparsa all’inizio della pellicola) affetta da AIDS dopo essersi punta con un ago a contatto con un paziente affetto dalla suddetta malattia.
I due, grazie alla testimonianza della donna, vengono a conoscenza di un uomo Jeffrey Dancort (Marshall Bell) che ha ideato un ago usa e getta che previene incidenti come quelli capitati a Vicky, ma che, per motivi legati ai costi, nessun ospedale vuole adottare.
Da qui in poi comincerà la battaglia di Mike e Paul per dare giustizia a Vicky e cercare di far utilizzare negli ospedali americani l’ago di Jeffrey nel tentativo di prevenire situazioni analoghe.

Questo film, per nulla pretenzioso, cerca di raccontare una storia realmente accaduta cercando di arrivare dritto al punto, senza girarci intorno. Purtroppo, non riesce a farlo in maniera perfetta.
La caratterizzazione dei personaggi lascia un po’ a desiderare, poiché malgrado il protagonista sia, in fondo, principalmente Mike, l’eccessiva focalizzazione su di esso fa passare in secondo piano personaggi, quali lo stesso Paul, che invece avrebbero meritato molta più attenzione e dedizione.
L’interpretazione di Chris Evans (probabilmente una delle migliori) riesce a coinvolgere lo spettatore in maniera disarmante.
Forse l’unico aspetto negativo è proprio il fisico possente dell’attore che, probabilmente, non era fra i più adatti per rappresentare un tossico dipendente.

Il tutto è racchiuso in una buona regia, cali a parte, che completa l’opera.
Il grande rammarico è che in pochi sono a conoscenza di questa pellicola che non esente da difetti riesce comunque a lasciare il segno nella mente dello spettatore e la scarsa pubblicità su di esso non ha certo giovato.
Puncture si rivela essere un discreto tentativo di far emergere un problema sociale abbastanza delicato con l’ausilio di un lodevole cast e una regia ancora da curare in alcuni aspetti, ma che può solo migliorare.

Giuseppe Maimone

In ordine di sparizione: un Tarantino norvegese tra neve e sangue.

Ci troviamo in un piccolo e (apparentemente) tranquillo paesino della Norvegia.

Niels Dickman, uno spalatore di neve appena insignito del premio di cittadino dell’anno, scopre che una banda di narcotrafficanti che indagava sul furto di una partita di cocaina ha ucciso il suo unico figlio a seguito di un equivoco.  Accecato dall’ira, Niels decide di vendicarsi.
Sarà un crescendo di violenza che coinvolgerà personaggi bizzarri e talvolta involontariamente comici, come il “Conte”, un giovane boss nevrotico, vegano convinto esasperato da una ex moglie particolarmente molesta, oppure “Papa”, il capo della mafia serba, un vecchio emigrato freddo e crudele, con un senso della famiglia molto forte, che osserva con una curiosità quasi infantile ciò che ha da offrire la Norvegia.

La caratterizzazione dei personaggi risulta spesso quasi caricaturale e viene sfruttata come un mezzo per fare ironia attraverso lo sconvolgimento degli stereotipi.
In particolare il regista Hans Peter Molland pone l’accento sui pregiudizi sugli stranieri  (si ricorda ad esempio il Conte, che confonde continuamente serbi e albanesi).
Il tema del razzismo è solo uno dei molteplici elementi che hanno portato i critici a parlare di Molland come di un Tarantino norvegese. Basti pensare al gusto per il pulp, al tema della vendetta, ai dialoghi pungenti e sopra le righe, allo sguardo scanzonato, talvolta addirittura straniante, all’attenzione quasi maniacale per i dettagli.

Tutto questo però fa solo da cornice a quello che è il tema principale, ovvero la vendetta.
Per il regista la vendetta, che il vendicatore tipicamente immagina come il trionfo della giustizia, non è altro che un mezzo per perpetuare la violenza. Non è un semplice circolo vizioso, perché da un singolo atto violento, come dalla caduta di una tessera del domino, scaturisce una cascata di conseguenze.
È capace di trasformare il cittadino dell’anno in un killer senza scrupoli, è capace di causare una faida tra la mafia norvegese e i serbi, è capace di rivelare tutti i pregiudizi e le contraddizioni che si celano in un tranquillo paesino scandinavo.
A fare da sfondo alla vicenda vi sono sconfinate distese innevate. Ricorrono le scene in cui il protagonista guida il suo spazzaneve, che libera la strada e lascia dietro di sé un senso di ordine e sicurezza.
Non è casuale che la neve spazzata, solitamente bianchissima e incontaminata, alla fine del film si macchi di sangue, come la coscienza di un uomo che conosce per la prima volta la vendetta.

Nonostante i temi pesanti e fortemente drammatici, il film risulta molto piacevole ed inaspettatamente divertente, grazie anche ad una recitazione degna di nota.
Stellan Skasgård (un meraviglioso Niels Dickman) e Bruno Ganz (che interpreta divinamente il ruolo del boss serbo) non deludono, recitano meravigliosamente come sempre.
Stupisce positivamente la prova di Pål Sverre Hagen, attore poco conosciuto al di fuori dei paesi scandinavi, ma che si dimostra talentuoso almeno quanto i colleghi più noti e che rende il personaggio del Conte assolutamente indimenticabile.
Passando da un’ironia graffiante, ad una regia spudoratamente tarantiniana, ad una colonna sonora particolarmente azzeccata e ad una fotografia mozzafiato, sono innumerevoli gli elementi che rendono In ordine di sparizione una vera perla del cinema scandinavo.

 

Renata Cuzzola

Nessuno come noi: un tuffo nel passato prima di tuffarsi nello studio

L’estate è finita e con lei gli ultimi attimi di libertà, quindi si torna sui libri a sgobbare … ma non così velocemente. Perché non prendersela ancora un po’ comoda leggendo un libro? 

Io, ad esempio, non ho resistito, ho letto “Nessuno come noi” di Luca Bianchini, ambientato nella Torino degli anni ’80, senza smartphone o connessione, quando si aspettava davanti al telefono fisso pregando che suonasse e gli sms erano bigliettini scambiati in classe. L’autore ci descrive l’ amore giovanile, non ricambiato, di Vincenzo per Caterina. Frequentano la stessa classe, ma lei non sembra quasi accorgersi di lui, se non come amico: la ragazza s’innamora praticamente di tutti tranne che del povero Vincenzo, il quale soffre. Caterina non fa che appoggiarsi emotivamente a Vincenzo per le sue questioni di cuore, chiedendogli continuamente consigli su come fare con i ragazzi. Insomma, quella che oggi chiamiamo comunemente “friendzone”.

A osservare questo strano rapporto tra i due è Spagna, una giovane dark dai buoni sentimenti, per cui io simpatizzo parecchio. Spagna sa cosa prova Vincenzo ed è un’amica fidata che lo consola. Lei fa parte, insieme a Vincenzo e Caterina, di un trio inseparabile che i compagni di scuola chiamano i “Tre cuori in affitto”.

Improvvisamente appare a scuola Romeo, un ragazzo ricco e bello, più che altro prepotente, sconvolgerà il trio conquistando inaspettatamente la fiducia di Vincenzo, lui finirà per aiutare Romeo con la scuola e passerà parecchio tempo a casa sua, la loro amicizia cresce di giorno in giorno, l’unico ostacolo è che Vince non ha nessuna intenzione di invitare Romeo nella sua casa a Nichelino (piccola cittadina torinese), una casa pulita e accogliente ma molto più piccola e povera della casa di Romeo.

La gita scolastica che fanno a Vienna è un capitolo che mostra tutta la bravura di Luca Bianchini capace di ricordare, fin nei minimi dettagli, tutto quello che gli studenti fanno quando sono in gita all’estero.
Al ritorno emerge la consapevolezza che il padre di Romeo ha una storia sentimentale con la sua professoressa d’italiano, Betty Bottone, un amore imprevisto, che fa battere il cuore anche se non dovrebbe.

Come finirà, poi, tra Cate e Vince?

Questo è stato un libro in cui io (ventenne, universitaria) ho vissuto come una narrazione di un mondo lontano che non è fatto di cuoricini scambiati su face book o whatsapp, dove ci si parlava faccia a faccia, o al massimo per lettera. Un libro che, molto probabilmente, i cinquantenni vivranno come un tuffo nel passato.

Una volta chiuso il libro, ci si rende conto di come Luca Bianchini, conosciuto per Io che amo solo te, ha saputo fotografare momenti dell’esistenza di ognuno di noi, momenti in cui abbiamo pensato che un amico o un amore fosse per sempre. È per questo che lo considero un libro degno di successo: perché riesce a raggruppare emozioni che colpiscono tutti quanti, che siano cresciuti negli anni ottanta o che siano cresciuti con lo smartphone.

Serena Votano

La bellezza invisibile della città

Vi capita mai di girovagare per la libreria alla ricerca di un libro da leggere? E ancora, vi capita mai di non sapere proprio decidere tra due libri?

Non vi dirò quel era la seconda scelta ma sicuramente la prima scelta è stata “Le città invisibili” di Italo Calvino. Ciò che mi convinse fu la “fine del romanzo”, lo scrivo tra virgolette poiché effettivamente leggendolo non c’è una fine univoca ma si vedono finali dappertutto, diceva più o meno così:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Una serie di città reali e città immaginarie raccontate da Marco Polo, frutto dei suoi viaggi e della sua immaginazione, che ogni sera appagano la curiosità dell’Imperatore dei Tartari Kublai Khan. Il dialogo tra questi due si suddivide in 9 capitoli con un’ulteriore divisione interna: 55 città con nomi di donne, suddivise in 11 categorie (dalla città della memoria alle città nascoste). Al suo interno si susseguono evocazioni di luoghi leggendari, contraddizioni umane, follia, le vie dell’immaginazione si intrecciano con quelle della realtà, il lettore vedrà queste città sorgere davanti ai suoi occhi.

Viaggi per rivivere il tuo passato?- era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata così: Viaggi per ritrovare il tuo futuro? E la risposta di Marco:- L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà

Calvino non fa che spingere l’individuo a guardarsi intorno, riflettere sulle persone vicine e far capire che, piuttosto che legarsi passivamente alle persone potenti in maniera uguale, l’individuo deve scegliere con attenzioni chi avere accanto e sapergli dedicare tempo e spazio. E forse prendersi cura di questi ultimi.

Consigliato a chi è alla ricerca di un posto per sé, una città su misura per tutti coloro che hanno il desiderio di scappare dal passato e lasciare che un nuovo futuro prenda piede. Sarà fantastico scoprire come il passato lasciato alle spalle può essere il presente di qualcun altro.

Serena Votano

St. Vincent: una wonder musician

Mentre scrivo la sto ascoltando chiedersi “Am I the only one in the only world?” : è l’inizio di “Rattlesnake” che apre il suo ultimo album “St. Vincent” risalente ormai al 2014.

Annie Clark aka St. Vincent non è l’unica donna al mondo ma è sicuramente un’artista intrigante, polistrumentista e cantautrice mai scontata nei testi e nella composizione musicale.

Ma su tutto: una divinità con la chitarra, e non sto esagerando.
Ci sarà un motivo per cui Dave Grohl l’ha chiamata per cantare “Lithium” nell’unica reunion dei Nirvana alla Rock and Roll Hall of Fame. Con il genio sperimentalista di David Byrne ha inciso un album “Love this giant” e girato il mondo in tour. Fa faville ai festival, unendo performance visiva e musica.
Il figlio di Frank Zappa in una recente intervista ha suggerito a coloro che si vogliono avvicinare al lavoro del padre di ascoltare prima lei, perché gli ricorda il padre per ritmica e cadenze sincopate. Suggerendo la visione di lei in un festival che suona una cover di “Dig a Pony”.

Cover dell’omonimo album “St Vincent”


Tornando all’album, i primi due singoli sono un gioco di chitarra e distorsioni del suono, fornendo essa stessa un elemento ritmico e sensuale.
“Birth in reverse” è un continuo sali e scendi vocale accompagnato da una velocissima coda strumentale.
Inizia “Prince Johnny”  è una canzone d’amore il cui testo è complesso,  si viene trasportati lungo tutta questa storia da una delicata tastiera.
C’è il tripudio di ottoni in “Digital Witness” , che prende in giro la società odierna e la dipendenza dalla tecnologia.
Ma c’è spazio anche per i lenti “I Prefer Your Love” è una intima melodia tra i suoi pezzi più struggenti in assoluto. Il  ritmo serrato e coinvolgente di “Psychopath”.
Nella versione deluxe dell’album troviamo “Pieta” che ad una base serrata di percussioni unisce un coro da chiesa e un testo filosofico.

La mia preferita in assoluto è “Regret” che con quelle percussioni eccita e riempie di energia.
In molti la etichettano come pop in questo suo disco ma io non riesco proprio perché è un miscuglio di generi, è un complesso non catalogabile che riesce a soddisfare tutti.
C’è tutto, garantendo una leggerezza di tocco e chiarezza melodica da fuoriclasse.
Quasi dimenticavo : “St. Vincent” nel 2015 ha vinto un Grammy come “miglior album alternativo”.
La musica di St. Vincent, come lei, è galvanizzante.

Ha creato un approccio totalmente nuovo nel suonare la chitarra: unico.
Validissimi anche i lavori degli album precedenti “Strange mercy”, “Actor” e “Marry me”.
La texana itinerante (negli ultimi 10 anni è stata quasi sempre on the road) ha fatto parte della Polyphonic Spree un gruppo di Dallas che unisce alla varietà di voci diversi strumenti, dal trombone al violino dalla tastiera elettrica al corno.
Ha collaborato anche con Sufjan Stevens altro cantautore polistrumentista , anche lui sperimenta moltissimo e il cui lavoro è più che notevole.
Da donna a cui piace sperimentare quest’anno si è cimentata anche nella regia di un corto horror, che in realtà sembra più il teatro dell’assurdo, marcatamente il suo stile.
Fa parte di una antologia chiamata “XX” (nda sono tutte registe donne) presentato al passato Sundance festival.
Ha inciso anche una cover di “Emotional rescue” dei Rolling Stones per il film di Luca Guadagnino “A bigger splash” e lavorato per la colonna sonora del primo corto di Kristen Stewart “Come swim”.

A dicembre in una intervista rilasciata a “Guitar World” ha affermato che il materiale scritto per il nuovo album è “il più profondo e più audace che abbia mai fatto”.
Proprio mercoledì con un divertente video ha annunciato le date del tour che inizierà in Giappone a fine agosto “Fear the future tour” http://https://www.youtube.com/watch?v=eFXq8OU1dNQ


Aspettiamoci dunque di tutto, c’è bisogno di creatività, sperimentazione e sana musica.
Questa donna dagli occhi di cerbiatto e dalla chitarra spiritata non ha sbagliato un colpo fino ad ora.
Intanto ci stuzzica su Instagram con foto dallo studio:

A me viene solo da dire : “Annie ESCILO!”.

Arianna De Arcangelis

Wonder woman – la prima eroina.

C’è una bambina che corre, sta scappando per andare a vedere delle donne allenarsi al combattimento. Questa bambina è Diana (la futura Wonder Woman) e queste donne le Amazzoni.

Dopo anni la Warner Bros e la DC sono riusciti a produrre e mandare in sala Wonder Woman. Tratto dall’omonimo fumetto creato da William Moulton Marston nel 1941, nata come simbolo per le donne. Una delle eroine più famose della storia dei fumetti.

Figlia della regina delle Amazzoni Ippolita e cresciuta sull’isola Paradiso la lascerà quando sulle sue coste cade Steve Trevor un pilota americano, durante la seconda guerra mondiale.
In questa trasposizione cinematografica la cui regista è Patty Jenkins (Monster) e gli sceneggiatori e tutto l’ensemble sono uomini (“It is a man’s world” cantava James Brown) la nostra supereroina, invece, è catapultata durante la prima guerra mondiale e segue la spia Trevor in Inghilterra.
È convinta di poter ristabilire la pace universale trovando Ares e neutralizzandolo una volta per tutte.

La sceneggiatura è scarna, con qualche battuta divertente e d’effetto, la Jenkins però lascia il suo segno con la regia lineare, non puntata tutto sulla fisicità di Diane e delle Amazzoni. La differenza di stile fra chi ha diretto e chi ha sceneggiato è notevole.
Gioca molto sul contrasto fra i principi e gli usi dell’antica Grecia di Diana e quelli della modernità incarnati da Steve Trevor ciò stimolerà sicuramente le giovani menti.  
Il primo tempo è molto coinvolgente, belle le scene di battaglia sulla spiaggia (ndr sono state girate tutte in Italia : spiagge in Campania e le scene di palazzo a Matera e Castel del Monte).
Inizialmente il secondo tempo coinvolge, lo sguardo scioccato e innocente di Diana che si aggira per il fronte, siamo lì con lei e proviamo lo stesso sconforto.
Si allunga troppo lasciando spazio ad un finale un po’ eccessivo.

Gal Gadot è la perfetta Diana, sovrasta Chris Pine (Don’t worry darling) solo con lo sguardo, più che nei momenti di battaglia in quelli di quiete e di comprensione di com’è il mondo. È brava assai.
Caricaturali i tre personaggi che li accompagnano, un turco, un disadattato e un indiano. A quest’ultimo la limitata sceneggiatura gli affibbia frasi politically correct. Stereotipata pure la segretaria di Chris Pine, anche se simpatica.
Dulcis in fundo ci sono le amazzoni: splendide donne. Imponenti le scene iniziali dell’isola e dei combattimenti fra queste. E poi Connie Nielsen e Robin Wright nei panni della regina Ippolita e la generalessa Antiope che fanno dire , per citare il mio giornalista del cuore Federico Pontiggia,  “Wonder MILF”.

Wonder woman colpisce positivamente il pubblico e divide la critica (v. i numeri del box office e le valutazioni su Rotten Tomatoes). È già passato alla storia del botteghino in America con un incasso di $100.5 milioni di dollari nel primo weekend.
Chi scrive è cresciuta coi fumetti di Wonder Woman, Valentina e in tv Carmen Sandiego (Netflix la riporterà presto interpretata da Gina Rodriguez) e altre personaggi immaginari femminili però al cinema durante la mia infanzia non ho mai potuto apprezzare un film di questo tipo.
Questo film si sta ponendo come la alternativa per le ragazzine ad un panorama di eroi uomini. È coinvolgente e stilisticamente affascinante.
Le donne però non devono essere solo raffigurate ma anche coinvolte nei lavori, credute nei progetti che propongono. 

Ndr: nel 2016 il 4% erano registe, l’11% sceneggiatrici, 19% produttrici, 14% editrici e uno sconcertante 3% direttrici della fotografia. Ad Hollywood.

Arianna De Arcangelis

Le notti di un sognatore

Era una notte meravigliosa, una notte come forse ce ne possono essere soltanto quando siamo giovani, amabile lettore. Il cielo era così pieno di stelle, così luminoso che, gettandovi uno sguardo, senza volerlo si era costretti a domandare a se stessi: è mai possibile che sotto un cielo simile possa vivere ogni sorta di gente collerica e capricciosa? Anche questa è una domanda da giovani, amabile lettore, molto da giovani, ma voglia il Signore mandarvela il più sovente possibile nell’anima! … Parlando d’ogni sorta di signori capricciosi e collerici, non ho potuto fare a meno di rammentare anche la mia saggia condotta in tutta quella giornata”.

Le notti bianche è tra le opere più apprezzate di Dostoevskij, insieme a Delitto e castigo. Sin dalle prime pagine, si comprende il perché quest’opera è tanto amata, in quanto ogni uomo riesce a identificarsi con la figura del protagonista. Un sognatore, isolato dalla società e della realtà, durante una delle sue solite passeggiate notturne incontra una donna di nome Nasten’ka. Sarà lei a risvegliare in lui il sentimento dell’amore attraverso il suo sguardo complice, le sue parole e le lunghe chiacchierate anche se sfuggenti.

Io sono un sognatore; ho vissuto così poco la vita reale che attimi come questi non posso non ripeterli nei sogni.”

La storia si svolge in 4 notti e un mattino, i protagonisti sono solo due : lui timido ed impacciato riesce ad aprirsi a Nasten’ka mentre, quest’ultima, si sfoga sulla sua vita privata, il suo rapporto con la nonna cieca, l’amore perduto e la sua delusione. Entrambi i protagonisti sono soli, rassegnati, vivono la loro vita ma sono spenti e i loro tratti psicologici sono delineati alla perfezione come solo Dostoevskij riesce a fare.

Il finale è struggente, inaspettato, demolisce un sogno che si configurava all’orizzonte: è lo specchio perfetto di quell’amore che tutti abbiamo provato nella vita. Nato alla fioca luce della piacevolezza del primo sguardo, esploso all’unione delle due anime e poi frantumato sotto i piedi, in quel secondo che non ammette repliche.

Le Notti Bianche è un romanzo dolce, sognante, delicato, che, così come la vita, lascia l’amaro in bocca ma senza cattiveria. Consigliato a tutti i sognatori, a chi non si sente accettato e a disagio nel vivere nella società, a chi si lascia cullare dalla fantasia. A tutti coloro che amano stare al confine tra sogno e realtà.

Serena Votano

“The Big Kahuna”

Di film indipendenti se ne trovano a bizzeffe, specialmente da dopo la miracolosa discesa in terra della piattaforma mistica di nome “Netflix”, ma sono veramente pochi quelli che riescono a rimanere all’altezza degli standard delle grandi produzioni Hollywoodiane nonostante il loro budget molto limitato.
The Big Kahuna (La Grande Occasione) è uno di questi, una piccola, sbiadita e remota stellina lucente in mezzo ad un panorama troppo scuro…

E’ un film del 1999 diretto da John Swanbeck, tratto dalla commedia teatrale Hospitality Suite di Roger Rueff (che sarà anche sceneggiatore della stessa pellicola) che vede protagonisti “solo” tre attori: Danny DeVito, Kevin Spacey e un giovanissimo Peter Facinelli che interpretano il ruolo di tre venditori di lubrificanti industriali per una azienda sempre più sull’orlo del fallimento.
L’unica location utilizzata è una modesta stanza d’albergo di Wichita, Kansas dove i tre hanno organizzato un incontro con un grosso cliente che con il suo ordine potrebbe risollevare le sorti della loro azienda. Il problema è che nessuno di loro conosce il suo volto.

Ogni personaggio è diverso dall’altro e tutto il film ruota proprio attorno ai dialoghi che queste tre personalità tanto diverse riescono a partorire.
Il primo di cui facciamo la conoscenza è Phill Cooper (Danny DeVito) saggio venditore di mezz’età dalla personalità profonda e confusa che rappresenterà uno dei punti chiave di tutto il film. Insieme a Cooper troviamo Bob Walker (Peter Facinelli) giovanissimo venditore, neoassunto, ligio al dovere e fortemente legato alla religione Battista di cui è un fervido credente. L’ultimo ad intervenire è Larry Mann (Kevin Spacey) cinico ed astuto venditore, dotato di un grande sarcasmo che spesso lo spinge ad esagerare nell’uso di parole taglienti, specialmente nei confronti del giovanissimo Bob Walker.

“Be’, guardate, sono allibito! Io non fumo, tu non bevi e Bob non fa pensieri licenziosi sulle altre donne. Messi insieme noi tre siamo praticamente Gesù”

I dialoghi sono la vera perla di questo film, soprattutto se si considera che il tutto si ambienta in una sola, piccola e semplice stanza dalle pareti color kaki di un altrettanto anonimo albergo del Kansas. L’azione è bandita dalle scene, la parola viaggia libera e tocca i temi più disparati, dal senso della vita alla religione, dall’importanza della famiglia al valore dell’amicizia, fino, ovviamente, ai temi più concreti della finanza e del linguaggio imprenditoriale. Tutto si muove sulla linea del confronto/scontro tra Larry e Bob, troppo distanti caratterialmente per vivere una giornata intera gomito a gomito sotto la costante pressione di un cliente che non si palesa; confronto che scoppia nella costante battaglia tra il cinismo dato dall’esperienza di vita del primo e la forte e quasi eccessiva fede religiosa del secondo.

Non è un film che eccelle sotto tutti i punti di vista, anzi, spesso dimostra molte lacune sul piano della regia e della trama in se stessa, ma, nonostante la forte mediocrità dell’organizzazione di base, riesce a mettere in luce le splendide performance dei tre attori che riescono a cucirsi addosso perfettamente i loro ruoli, senza troppi eccessi, in maniera semplice, ma diretta. L’apice del film lo si raggiunge nel finale che riesce a condensare perfettamente il senso di tutta la storia in pochi minuti dalla straordinaria forza d’impatto, dimostrandosi così una perfetta chiosa per un film dalle poche aspettative, ma dai molti punti di riflessione e di indagine interiore.

“Non sentirti in colpa se non sai cosa vuoi fare della tua vita. Le persone più interessanti che conosco a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita. I quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno.”

È un film consigliato a tutti coloro che non hanno paura di mettersi in dubbio, di porre sotto i riflettori del giudizio altrui la propria personalità, i propri difetti e le proprie paure; che sono disposti a cambiare in meglio, a chiedere scusa e ad affrontare i problemi di ogni giorno con spensieratezza, perché, prima o poi, anche loro riusciranno a cogliere la loro grande occasione.

Giorgio Muzzupappa