40 anni dopo la notte di “HALLOWEEN” fa ancora più paura

Sono passati quarant’anni da quando Carpenter dirigeva il primo ‘Halloween – La notte delle streghe‘ ed è proprio alla terrificante pellicola del ’78 che questo nuovo Halloween diretto da David Gordon Green si rifà, distanziandosi completamente dalle pellicole intermediarie che si sono susseguite negli anni.

Se nei film più recenti, infatti, la figura di Michael aveva avuto il volto di Tyler Mane, adesso torna ad essere una figura priva di volto, di parola, estremamente malvagia e potete, l’incarnazione del male nel suo senso più assoluto.

Il nostro Myers dopo la passata strage di Halloween è rinchiuso in un struttura carceraria, da dove, approfittando di un trasferimento, scapperà per dare il via ad un’altra folle notte di sangue e per pareggiare i conti con Laurie Strode (Jamie Lee Curtis).

Quello della Curtis è un ritorno alle origini, così come lo è quello del primo Nick Castle, nei panni di Michael. Un film violento, una violenza esagerata che al tempo stesso è necessaria e riporta la pellicola, dopo tante rivisitazioni negli anni, al suo ‘splendore’ iniziale; merito sicuramente anche del fatto che John Carpenter segue il lavoro questa volta in veste di produttore esecutivo.

Lo stesso regista è inoltre tornato a curare le musiche riproponendo il tema originale della colonna sonora che nel 2016 aveva eseguito a Roma in un inedito tour dal vivo. Intanto le voci che si andavano rincorrendo e che accennavano a una possibile trasposizione del soggetto in una serie tv sono state messe da parte, ma non è da escludere che in futuro il serial killer possa finire su Netflix.

 

 

Benedetta Sisinni

8, il grande ritorno dei Subsonica

Il 12 ottobre è uscito il nuovo album dello storico gruppo italiano rock elettronico i Subsonica.

A distanza di quattro anni dall’uscita del precedente “Una nave nella foresta” e dopo 22 anni di carriera e sette album alle spalle, con 8 i Subsonica ritornano energici e attualissimi sia a livello di tematiche che sound.

Il numero 8 rappresenta non solo il loro ottavo disco ma anche l’infinito, ovvero un cerchio che si chiude per riaprirsi e procedere. E’ quello che rappresenta anche i Subsonica stessi, che dopo una pausa ritornano, cantando “Adesso siamo qui” nella prima traccia intitolata “Jolly Roger”. Traccia che sembra riportarci ai loro inizi, ovvero gli anni ‘90. Momento in cui sono nati e cresciuti, in un ambiente in cui la musica elettronica da underground stava diventando overground, e quindi mainstream. Il gruppo è nato come esperimento di ritmi elettronici, al quale poi sono stati aggiunti dei testi con la voce di Samuel e le parti strumentali del gruppo.

I Subsonica hanno presentato in anteprima il loro nuovo lavoro tramite dark room sparse per diverse città italiane, facendolo ascoltare ad alcuni fan lasciando la tecnologia fuori. E’ stato un modo per riappropriarsi di un momento sacro, ovvero di quando si scartava un vinile e lo si ascoltava in silenzio. Nella loro lunga carriera, nella quale sono usciti i loro dischi migliori basti pensare a Microchip emozionale del ’99 del quale fanno parte Colpo di pistola, Discolabirinto, Tutti i miei sbagli. Contano diverse partecipazioni a Sanremo e premi tra cui l’MTV European Music Awards. Sono riusciti a stare sempre al passo con i tempi mantenendo una loro originalità e stile. 

Dopo l’uscita del loro album nel 2014 decidono di prendersi una pausa, momento in cui sono nati diversi progetti personali solisti e non, decisivi per questo nuovo lavoro nel quale decidono di raccontare di sé e della loro storia. Unica collaborazione musicale del disco è con Willie Peyote, cantautore molto stimato dal gruppo e con il quale vi è una forte sintonia, “L’incubo” infatti risulta forse una delle migliori del disco. Ci si trova davanti l’incertezza sul fare un passo verso l’ignoto necessario per dare vita alle proprie aspirazioni.

Riescono nonostante la leggerezza, ad essere un gruppo che porta avanti temi attuali ed impegnati, restando sempre nelle sottigliezze. Noto nel secondo singolo “Punto Critico”, brano provocatorio nel quale si parla della impreparazione davanti ad un mondo ormai andato avanti fatto di nuove tecnologie e problemi globali. Bottiglie rotte” è stato il loro singolo ufficiale, il quale parla la superficialità e l’incapacità di ascoltare comuni nel mondo di oggi. Le Onde” rappresenta un tributo al loro carissimo amico e maestro di tecniche di registrazione Carlo Rossi, deceduto nel 2015 a seguito di un incidente. Carlo Rossi è stato un riferimento per la musica torinese e italiana. Con “La bontà” i Subsonica chiudono il loro disco con l’interrogativo “A cosa serve la bontà?” lasciandoci senza una risposta chiara, ma che ci fa riflettere.

8 rappresenta un disco che non si è dimenticato del passato ma che ha l’occhio puntato sul presente, sulla realtà che lo circonda ma come ogni altro, proiettato verso il futuro. Riescono a distinguersi e ad essere un gradino più in alto rispetto a molte produzioni italiane, nonostante questo non rappresenti il loro disco migliore. I Subsonica puntano ad essere una luce nell’oscurità, quella che ci fa resistere in un mondo pesante, fatto di notizie strazianti e che vorremmo cancellare. Per questo non bisogna dimenticare la realtà, ma cercare di viverla con leggerezza ed entusiasmo nonostante tutto.

Marina Fulco

Orphan Black: molto più di una semplice serie TV

Vincitrice di numerosi premi e acclamata dalla critica, Orphan Black è una serie fantascientifica televisiva canadese trasmessa dal 30 Marzo 2013 su Space in Canada e su BBC America negli Stati Uniti. E’ ideata da Graeme Manson e John Fawcett ed è composta da cinque stagioni. L’attrice che svolge il ruolo principale è Tatiana Maslany che, grazie al suo talento, è riuscita ad ottenere un Emmy e due Critics’ Choice Award. La sceneggiatura ruota attorno alla vita di Sarah Manning, una ragazza orfana con alle spalle una carriera da criminale. Dopo aver assistito, alla stazione, al suicidio di una donna identica a lei, Beth Childs, la protagonista decide di rubarle l’identità con l’obiettivo di garantire un futuro migliore a se stessa, a sua figlia Kira e al suo fratello adottivo Felix. E’ proprio da questo momento che la vita di Sarah cambia drasticamente: scopre infatti di essere una delle centinaia di cloni sparsi per il mondo, creati tramite il Progetto Leda. Come se non bastasse, qualcuno sta anche cercando di uccidere sia lei, sia gli altri cloni. Decisa ad indagare, Sarah è pronta a rischiare la propria vita per salvare i suoi familiari e i nuovi cloni (primi fra tutti Alison Hendrix e Cosima Niehaus) che conoscerà man mano che la serie andrà avanti.

Orphan Black è molto più di una semplice serie TV: caratterizzata dalla presenza di una forte e determinata donna come protagonista, oltre a regalare sorrisi e pianti a chi la guarda, permette allo spettatore di porsi delle domande a livello etico, sollevando questioni anche sugli effetti morali che la clonazione causa su un essere umano. La clonazione umana è infatti uno degli argomenti più importanti trattati dall’etica: è giusto o meno clonare un individuo? Chi sono gli uomini per manipolare il DNA a loro piacimento? Orphan Black cerca di rispondere a queste domande, soffermandosi su quanto faccia male ad una persona che ha sempre vissuto la sua vita tranquillamente scoprire che in realtà è solo frutto di qualche esperimento genetico. La serie non si ferma a far conoscere solo il dolore psicologico che l’individuo prova, ma mostra anche come la clonazione umana porti con sé il rischio di malattie. Malattie che molto spesso conducono alla morte dei soggetti clonati e che i protagonisti della serie cercano di combattere. Orphan Black è una serie tv molto interessante anche a livello scientifico, in quanto tratta di argomenti come la composizione del DNA, il genoma, le cellule staminali, che potrebbero non esser noti a tutti. Nonostante sia solo una serie tv di fantascienza, tra i personaggi e lo spettatore si crea un legame molto forte.

I “cloni’’ vengono considerati prima di tutto come singoli individui, persone con sentimenti, interessi e idee diverse gli uni dagli altri: c’è chi è eterosessuale, chi omosessuale e chi transessuale, c’è chi ama la scienza e c’è chi fa il detective. Insomma, se vi siete persi questa fantastica serie tv e avete voglia di recuperarla, questo è il momento giusto. Le cinque stagioni di Orphan Black, terminata nel 2017, sono disponibili in streaming su Netflix. Per apprezzare al meglio il talento dell’attrice, Tatiana Maslany, è consigliata la visione della serie tv in lingua originale.

E voi cosa ne pensate? Vi siete già innamorati di Orphan Black? No? Cosa aspettate? Correte!

https://www.youtube.com/watch?v=d0ck4HrY0ec

 

Beatrice Galati

A Star is born

Recentissima l’uscita nelle sale di questo nuovo remake del vecchio “È nata una stella” del 1937. Bradley Cooper è sia attore protagonista che regista, e per questo esordio dietro la macchina da presa ha scelto come sua prima donna la grande Lady Gaga.

La cantante, che qui interpreta Ally, si spoglia dei suoi eccentrici soliti abiti per tornare semplicemente la Germanotta acqua e sapone che ormai avevamo quasi dimenticato. La storia è sempre quella, semplice e lineare, senza troppi colpi di scena.

Jackson, star del rock ormai al tramonto della sua carriera, incontra una sera la timida cantante esordiente Ally, fa in modo che lei riesca a tirare fuori tutto il suo talento e poi da lì è tutta una scalata verso il successo. Successo di lei. Il nostro uomo invece continuerà la sua caduta libera verso l’abisso. Ovviamente il tutto ha un lato molto romantico, per il rapporto speciale che si creerà tra i due, con contorno di alcool, droga e depressione.

Niente di nuovo insomma. Classici elementi che ritroviamo in qualunque melodramma americano. Nonostante tutto, il film riesce comunque a stupire. Tutto questo è facilmente spiegabile: a catturare totalmente l’attenzione non è la storia, bensì l’interpretazione degli attori.

Che Cooper fosse un attore di qualità era ben risaputo e qui riconferma il suo talento. Una rivelazione è stata invece la pop star, che al suo esordio da protagonista ha lasciato tutti di stucco. Ottima interpretazione, forte e potente che cattura fin dalle prime scene, il ruolo sembra esserle stato cucito addosso. La complicità tra la coppia di attori è palese, ed è anche per questo se l’attenzione si sposta dalla classica storia che è alla base a quella che lega i due. Dunque, un film non eccelso ma bello, ricordiamo che è il primo esordio da regista di Cooper, che supera comunque la prova.

 

Benedetta Sisinni

Marigold Hotel: L’India che non ti aspetti. O forse sì.

L’avanzare dell’età non per tutti è semplice da affrontare, soprattutto quando ci si domanda quale possa essere il proprio “ruolo” in questa fase inevitabile della vita. E’ proprio ciò che accade ai nostri protagonisti, sette personaggi di origine inglese “più in là” con gli anni che, per motivi disparati che possono variare da una semplice ricerca di un posto tranquillo dove poter trascorrere la vecchiaia, a pura necessità, si ritrovano ad essere tutti clienti – pur non conoscendosi fra loro – di un hotel di lusso, sfarzoso, moderno e appena restaurato, dedicato ai clienti della terza età, intitolato “Marigold Hotel”.

Questo hotel, tuttavia, si trova a Jaipur, in India. Così il gruppo senile comprendente Evelyn Greenslade (Judi Dench), casalinga ormai vedova, soffocata dai debiti del marito; Douglas e Jean Ainslie (Bill Nighy e Penelope Wilton ), coniugi ridotti sul lastrico a causa dell’investimento di tutto il loro denaro in progetti lavorativi della figlia; Muriel Donnelly (Maggie Smith) un’ex governante con pregiudizi raziali nei confronti di persone di colore; Madge Hardcastle (Celia Imrie), una donna sola alla ricerca di un nuovo marito; Graham Dashwood (Tom Wilkinson), un giudice improvvisamente ritiratosi in pensione e, infine, Norman Cousins (Ronald Pickup), un uomo che cerca in tutti i modi di ritrovare la propria giovinezza, tentando di conquistare qualche signora per passare una notte di piacere.

Dunque, colmi di bagagli sia fisici che astratti, i nostri si dirigono verso l’India, senza saltare qualche imprevisto di rito, come un volo in estremo ritardo. Ma le sorprese, di certo, non finiscono qui. Una volta giunti a Jaipur, il Marigold Hotel non si rivelerà essere quello che ci si aspettava: un ambiente fatiscente, rustico, di cattivo gusto e un servizio ben poco organizzato, se non improvvisato, si pone davanti ai nostri protagonisti, ovviamente delusi e disgustati da quella che sarebbe stata la loro dimora durante tutto questo viaggio.

L’avventura indiana è appena cominciata. “Marigold Hotel” (The Best Exotic Marigold Hotel) è un film del 2012 diretto da John Madden. La commedia si basa sul romanzo “These Foolish Things” di Deborah Moggach e pone l’accento sulla questione del progredire degli anni, arrivando all’anzianità dove mille domande attanagliano l’uomo ed un senso di abbandono e inutilità spesso lo circondano. Ed è proprio l’anzianità che prevale e trionfa in questa pellicola, lasciando trasparire il messaggio efficace di un’età avanzata in cui non si è finiti e non si ha smesso di fare, con ancora molte possibilità di fronte a sé, di una vita mai esausta e sempre pronta a sorprendere.

Benché questo possa essere un messaggio puro e lodevole da trasmettere, l’opera di Madden non gli rende giustizia, risultando una commedia a volte piacevole, altre sottotono, che non riesce a farsi comprendere fino in fondo, lasciando lo spettatore un po’ con l’amaro in bocca. Un prodotto che cercava di risaltare grazie anche ad un cast arricchito da alcune “stelle” – da Dev Patel (“The Millionaire”, “Lion”) a Maggie Smith (“Harry Potter”) – ma che, tuttavia, rimane nell’ombra, incapace di trasmettere a pieno le ragioni citate sopra. Complessivamente “Marigold Hotel” si rivela un prodotto discreto, un po’ sotto le aspettative, ma che cerca di porre l’attenzione su un tema mai da trascurare che potrebbe, ad uno spettatore più anziano di chi scrive, suscitare più che semplice “indifferenza”.

Giuseppe Maimone

Un borghese piccolo piccolo: la parabola della classe media

Film del 1976 diretto da Mario Monicelli, Un borghese piccolo piccolo è tratto dall’omonima opera letteraria di Vincenzo Cerami. La vita dell’impiegato ministeriale Giovanni Vivaldi (uno straordinario Alberto Sordi) scorre tra la sicurezza di un lavoro modesto ma sicuro, un altrettanto routinario ménage familiare e modeste aspirazioni.

Alle soglie della pensione il signor Vivaldi coltiva il sogno di “sistemare” il proprio figlio unico, diplomato ragioniere, presso il ministero in cui ha lavorato. Approfittando dell’imminente concorso pubblico, per conseguire il proprio scopo, utilizza l’arma della adulazione e della sottomissione al potente di turno ed agli esponenti dell’apparato politico-burocratico. Per amore del figlio non esita nemmeno ad affiliarsi ad una loggia massonica.

L’idillio immaginato da Giovanni viene sconvolto da un evento drammatico.

Il giorno del concorso, infatti, un evento fortuito, una rapina, una pallottola vagante, determinano la morte del figlio: il significato dell’esistenza del misero impiegato viene irrimediabilmente spezzato.

La moglie di Vivaldi (un’inedita Shelley Winters rubata ai fasti hollywoodiani), appresa fortuitamente la tragica notizia, viene colta da un ictus che la relega paralitica ed afasica in una sedia a rotelle.

Il signor Vivaldi abbandona il ruolo di misero ed ossequioso impiegato per impersonare quello dell’implacabile e spietato vendicatore, come Charles Bronson nel Giustiziere della Notte (1974).

Innumerevoli gli spunti di riflessione. Tra questi, lo sviluppo di un cupo dramma che assume i toni della tragedia greca, laddove le tranquille vicende umane vengono stravolte dall’intervento di un dio o del fato. Il paradosso sta nel fatto che il regista e l’attore principale sono tra i protagonisti assoluti della Commedia all’Italiana, eppure riescono mirabilmente a riprodurre le miserie, le aspirazioni e la rabbia di un uomo e forse di un’intera generazione.

Vivaldi rappresenta il prototipo di un borghese piccolo piccolo, che ha barattato i propri ideali (lo stesso nel film ha partecipato alla resistenza), la libertà e la dignità in cambio di un modesto posto fisso, di una modesta abitazione e di un altrettanto modesto ma certo futuro per il proprio figlio. Il mancato conseguimento del compenso pattuito per colpa dell’uomo o del destino, trasforma il mite e sottomesso impiegato in una belva assetata di vendetta.

Nell’opera letteraria, e dopo cinematografica, si coglie una capacità di prevedere le trasformazioni della società italiana ed occidentale: la classe media tradita dal sogno di benessere, segnata dalla crisi economica, intimorita dall’immigrazione, sgomenta dal senso di impotenza di fronte al fenomeno delinquenziale, abbandonerà i vecchi strumenti di rappresentanza politica ed erigerà muri, frontiere anteponendo la richiesta di sicurezza e tutela personale ai precedenti ideali.

Renata Cuzzola

Sputnik: Luca Carboni incontra la generazione itpop

Il mondo aspetta una grande festa/ una bomba nucleare./ E noi che ce ne andiamo al mare/ ce ne andiamo al mare

Una navicella spaziale orbita su un pianeta terra occupato da icone pop e dinosauri. L’estate della riviera romagnola si trasferisce in un villaggio vacanze lunare tra ombrelloni, sedie a sdraio, tintarelle ai raggi x e alienazione. La copertina dell’ultima uscita discografica di Luca Carboni (che lui stesso ha disegnato), Sputnik, riproduce le dissonanze contenute nelle nove tracce dell’album. L’immagine rimanda a quella di un LP dei Supertramp del 1975, Crisis? What Crisis?, in cui un ombrellone piantato sul terreno di un paesaggio industriale, nei fumi delle fabbriche, stacca con ironia il piano da una prospettiva edonistica di “grande festa”. Allo stesso modo, in uno spazio di bombe-pop e ristagnanti umori post apocalittici, si apre il disco del cantautore bolognese. Il tema di una giostra perenne e divertimento da cogliere a tutti i costi è cifra caratterizzante di quest’epoca lontana da porti sicuri e incerta sul presente. L’incontro tra il nuovo cantautorato “indie” e il cantore di malinconie anni ’80-‘90 fa di Sputnik un disco che ha l’occhio rivolto all’oggi: la partenza, i figli, l’amore digitale. Ma c’è anche un legame stretto con quel linguaggio che ha attratto le nuove schiere di musicisti che hanno riconosciuto in Luca Carboni l’artista a cui più di tutti gli altri accostarsi.

L’album si presenta quindi come un esperimento collettivo, risultato dalla confluenza di voci diverse del panorama itpop.  Uscito a distanza di tre anni dal precedente Pop Up (2015) e prodotto da Michele Canova Iorfida (che ha collaborato all’intera discografia di Tiziano Ferro, circostanza che emerge qua e là in diversi momenti). Alla stesura dei brani, insieme a Carboni, hanno preso parte Calcutta (Io non voglio), Flavio Pardini, in arte Gazzelle (L’alba), Giorgio Poi (Prima di partire). Ancora più del predecessore, Sputnik va in direzione di un’elettronica trascinante e ballabile che utilizza synth e tastiere. Il titolo è tratto dal nome del satellite russo a forma di CD Sputnik 1 lanciato nel 1957: “sono cresciuto durante la guerra fredda”, ha dichiarato il cantautore, “lo sputnik aveva una forma affascinate. E Yuri Gagarin, primo uomo nello spazio, diceva che la terra vista da lassù era bellissima. Questo disco è la mia vista dall’alto”.  La freschezza della trama sonora è però toccata nei testi da un senso di decisa difficoltà esistenziale.

Lo sguardo è rivolto alla new wave anni ’80 in un’operazione che strizza l’occhio al tormentone estivo con atteggiamento canzonatorio e aperto insieme al nuovo. Luca Carboni, nel suo tredicesimo album in studio, fa a meno degli strumenti privilegiando suoni campionati. La vivace atmosfera di festa godereccia, come risulta dal singolo pubblicato in anteprima, Una grande festa, attraversa punte di malinconia, “parlare della sfiga proprio non si può/ il dolore e l’ingiustizia non brillano neanche un po’”. Alla esplosiva traccia di apertura segue, 2, inno della vita di coppia, con le sue gioie, ma anche coi suoi momenti di dolore “mi dai capricci e miracoli/ mi dai l’amore a modo tuo”. In amore digitale, scritta insieme ad Alessandro Raina, è l’antenna del wi-fi a stemperare la solitudine, “l’amore c’è ma non si vede/ è più veloce”. Tra i pezzi più riusciti del disco Ogni cosa che tu guardi ha una linea melodica pop che si riveste di un refrain corale. I ricordi del muro e di Alexanderplatz (celebri quelli cantati dall’amico Franco Battiato, con cui Carboni ha inciso qualche anno fa una cover di Silvia lo sai) affiorano ne I film d’amore. Di impatto electro L’alba affronta il tema dei figli che viaggiano per cercare un futuro migliore: “ e vanno giù e tornano giù tra le password e i segreti”. La title track posta alla fine del disco recupera pacatezza e tono confidenziale, prolungandosi per 4 minuti di soffusa e intima confessione. Sputnik si muove così a metà strada tra la piena maturazione autoriale e l’avvicinamento a un universo composto di nuovi elementi: l’astronave che sorvola uno spazio pieno di contraddizioni porta a bordo chi negli anni ’80 era appena nato o doveva ancora nascere. E Carboni ancora ci ricorda, con un lavoro che convince, lieve ma riflessivo al contempo, che “gli esseri umani sono tristi per natura, ma il pop è qui per dimostrarci che non è poi così dura” (Una grande festa).

Eulalia Cambria

“E tu splendi”. L’ultimo romanzo di Giuseppe Catozzella

Dopo due anni fa il suo ritorno con un romanzo, “E tu splendi”, ambientato ad Arigliana, un paesino sulle montagne della Lucania dove Pietro e Nina trascorrono le vacanze con i nonni, un paese dove la vita di ogni giorno si svolge in maniera del tutto immutabile tra la piazza, la casa e la bottega dei nonni; intorno, una piccola comunità il cui destino è stato spezzato da zi’ Rocco, proprietario terriero senza scrupoli che ha condannato il paese alla povertà e all’arretratezza.

La madre di Pietro e Nina è morta qualche anno prima, lasciandoli orfani, eppure il ragazzo non si considera tale. «Io non lo avevo capito che eravamo orfani, un giorno la maestra lo ha detto davanti a tutta la classe, e ci sono rimasto malissimo. Non per la cosa in sé, ma per la parola, che non me l’aspettavo proprio che era per me.» Pietro sente che sua madre non è meno presente di prima, ha solo “traslocato” e gli parla ancora con la sua voce dentro la testa o attraverso bigliettini nascosti qua e là come «Lo sai che tu sei nel cassetto e i sogni sono fuori?»

Un giorno, giocando a calcio con gli altri ragazzini del paese, Pietro perde il pallone dentro la torre che si affaccia sulla piazza, la torre normanna. Andando a recuperarlo, scopre all’interno sette stranieri nascosti, sei adulti e il bambino Josh. La rivelazione scuote l’equilibrio del paese: Chi sono? Cosa vogliono?

Un romanzo che prende in prestito il titolo dalla citazione “T’insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece” del grande artista italiano Pier Paolo Pasolini, che spiega nella Nota dell’autore alla fine del libro, dove, inoltre, scrive che il romanzo è nato da alcune chiacchierate avute con il suo caro amico scrittore Alessandro Leogrande, che vuole ricordare e ringraziare. Un romanzo che si racconta attraverso la voce di un bambino, a tratti infantile e a tratti saggia, un romanzo di ombre e di luce, una luce che rende molto più coraggiosi. Non si fa mai caso al coraggio che il sole ti dà

E quando le cose ti chiamano, ti chiamano. Quando sono lì, sono lì per noi. Non importa se ci sono state per un secondo o da sempre.

 

Serena Votano

Dogman: il ritorno di Matteo Garrone

Marcello (Marcello Fonte) è proprietario di una bottega di toelettatura per cani, il lavoro lo assorbe completamente, così come l’amore per la figlia Alida (Alida Baldari Calabria) e lo strano rapporto di sudditanza che lo lega a Simoncino (Edoardo Pesce), delinquente del quartiere che terrorizza tutti e tiene in pugno Marcello. Dopo l’ennesimo sopruso la volontà del protagonista di riaffermare la propria dignità prevale e il rapporto prende una piega del tutto inaspettata.

Lo sfondo è quello della degradata periferia romana, la storia è liberamente ispirata ad uno dei casi di cronaca nera più duri, la vicenda a tutti nota del Canaro della Magliana.

Il regista Matteo Garrone, ha chiarito che questo film non vuole essere una narrazione di come avvenne quel delitto ma si tratta di uno spunto per una nuova vicenda, che si basa principalmente su una riflessione a riguardo delle vite dei personaggi, dei loro pensieri, della genesi della vendetta che verrà progettata da Marcello. E’ il lato psicologico a venir messo a fuoco.

Marcello è un uomo buono, inoffensivo, vittima di soprusi da parte di Simoncino ma al tempo stesso benvoluto dalla gente del quartiere, innamorato dei cani, del suo lavoro, della figlia, ma non di se stesso. La sua esasperazione nasce da questo odio verso la propria condizione, condizione in cui però è lui stesso a mettersi ogni giorno subendo ancora e ancora. Ed è allora che esplode tutta la sua brutalità, violenta e crudele ma che non porterà a nulla, non risolve i suoi conflitti interiori.

L’interpretazione di Marcello Fonte è indecrivibile: il suo volto, la fisicità, l’espressione buona ma triste non avrebbero potuto rendere giustizia migliore al protagonista; Garrone come sempre si concentra sui volti e come sempre la scelta è stata impeccabile. Non per nulla il reggino Fonte si è aggiudicato il premio come migliore attore al Festival di Cannes 2018. E’ un film reale ma al tempo stesso astratto, come fosse atemporale, fuori da tutto. Le ambientazioni sono quasi sempre buie, l’atmosfera triste e violenta, il tutto accompagnato da un sentimento di paura e una malinconia lacerante.

Al tempo stesso una carica di suspence ti fa rimanere con gli occhi incollati allo schermo, il cuore che ogni nuova scena ha un balzo perche sai che qualunque cosa potrebbe accadere. Che dire? Garrone con questo suo ultimo lavoro si è superato, è pefetto sotto tutti i punti di vista. Anche la violenza che pervade viene raccontata e descritta con una tale bravura da renderla assolutamente indispensabile alla buona riuscita del racconto.

 

Benedetta Sisinni

The Danish Girl: Una storia vera raccontata con delicatezza

Nel 2000, David Ebershoff scriveva “The Danish Girl” ispirato alle vite dei due pittori danesi Gerda Wegener e Einar Wegener/Lili Elbe; Quest’ultima identificata come la prima transessuale e che si è sottoposta a interventi chirurgici per cambiare la propria identità sessuale.

Il film del 2015 di Tom Hooper (che ha diretto anche “il Discorso del Re”), adatta cinematograficamente il romanzo, con le dovute licenze e secondo la poetica del regista. Una visione forse edulcorata per alcuni spettatori, ma sicuramente apprezzabile che non ha timore di mostrare delle nudità intere e anche scene con tematiche sessuali esplicite senza cadere nella volgarità o nello squallore (ciò nonostante Negli Stati Uniti è stato vietato ai minori di 17 anni non accompagnati). La fotografia scandisce il passaggio da uomo a donna, partendo da una Copenaghen anni ’20 con toni freddi grigiastri, per arrivare a una Parigi calda e avvolgente dove Lili trova finalmente se stessa.

Sono, però, le emozioni, anche quelle non dette a far “rumore”. Eddie Redmayne riesce a trasmettere le sofferenze interiori di una donna intrappolata nel corpo di un uomo, le sue incertezze, paure, fragilità, capricci e la forza di volontà nel portare a termine questa sua missione. La sua interpretazione delicata e forte allo stesso tempo, è davvero intensa; ma è Alicia Vikander che esalta questa interpretazione (difatti ha vinto un oscar per questo). L’attrice riesce a mostrare tutti gli stati d’animo di una moglie che vede le difficoltà di un marito, che diventa un’ami

ca. Come può una donna accettare tutto questo? Eppure Gerda lo fa con amore incondizionato, un amore che va oltre l’identità sessuale.

Questo film probabilmente farà storcere il naso a chi crede che certe cose siano “contro natura”, ma non fa altro che mostrare la vita di due donne, unite da un legame profondo, in un tempo non molto vicino, ma per certi aspetti nemmeno troppo lontano.

 

Saveria Serena Foti