Il rumore dei tuoi passi: un libro che rapisce

Dicono che ogni libro contribuisce a renderci persone migliori, a cambiare una parte di noi, a cambiare il modo di intendere e vivere la vita. Dicono che ci sono libri che rimangono per sempre dentro di te. Questo è quello che mi è successo leggendo Il rumore dei tuoi passi di Valentina D’Urbano uscito nel 2012.

Casualmente un giorno ho letto questo libro, non mio tra l’altro, solo perché mi stavo annoiando a dir la verità. Ma è bastata la prima pagina per catapultarmi nel mondo di Beatrice e Alfredo, o come tutti li chiamavano, i “gemelli”. I due però non hanno il sangue in comune, ma bensì qualcosa di più importante: l’amicizia, l’amore, l’odio e la morte.

La storia viene raccontata dal punto di vista di Beatrice, ma per non farci mancare niente Valentina D’Urbano ha scritto anche un secondo libro intitolato “Alfredo” che racconta la stessa storia ma dal punto di vista di Alfredo.

Il luogo in cui si svolge questa storia, che non si può assolutamente solo definire d’amore, non è ben specificato. Da chi ci vive viene chiamato “fortezza”, ma non è altro che un quartiere pieno di case fatiscenti occupate abusivamente da nullatenenti che si sono ritrovati senza lavoro e speranze per il futuro. Beatrice è una di questi, che, nella povertà, è comunque fortunata ad avere dei genitori che la amano e cercano di occuparsi al meglio di lei. Alfredo invece non ha la stessa fortuna. Orfano di madre, si ritrova a vivere con un padre che non fa altro che maltrattare moralmente e fisicamente lui e i suoi fratelli. Ma è proprio in questa triste situazione che i due si incontrano sin da piccoli legando il loro destino in modo indissolubile.

La particolarità di questo racconto è il passaggio continuo tra passato e presente. La storia non è scontata, non mancano i colpi di scena e, le emozioni che provano i protagonisti, vengono trasmesse attraverso le parole forti e dettagliate della scrittrice che riesce ad arrivare fino alla parte più profonda dei nostri sentimenti e della nostra sensibilità. Ammetto infatti di aver pianto leggendo questo libro.

Quindi se volete fuggire per un attimo dalla realtà, se volete provare emozioni forti e se volete conoscere una storia diversa da ciò che siamo abituati, leggete questo libro e perdetevi nella sua bellezza. Vi sorprenderà.

 

Sara Cavallaro

I 12 anni di Blood Diamond, mai stato così attuale

Si è discusso tanto delle grandi interpretazioni dell’attore di fama internazionale Leonardo Di Caprio ma, tra le tante, questa in Blood Diamond è sicuramente nella classifica delle più meritevoli, accompagnato dalla fantastica messa in scena del beninese Djimon Hounsou.

Blood Diamond, diretto da Edward Zwick, non può non colpire, specie rivedendo i fatti più recenti di cronaca che riguardano tanto il nostro continente tanto quello africano.

Incentrato sull’intreccio delle vite del trafficante di diamanti Danny Archer, di un cittadino della Sierra Leone chiamato Solomon Vandy  e della giornalista Maddy Bowen, il film non fa altro che  sbattere in faccia la nuda e cruda realtà di tematiche dell’Africa del ventunesimo secolo.

Un susseguirsi di tragedie, contraddistinte dalla distruzione del villaggio del nostro co-protagonista e con esso il distaccamento dalla sua terra natia, richiamano quel sapore amaro di verità che il regista cerca di farci provare: non mancano atti di mutilazione, uccisioni e forse l’atto più sgradevole, la separazione dei bambini per mano di ribelli. Questi ultimi non faranno altro che, al soldo di multinazionali, alimentare la guerra, estrarre diamanti e obbligare alle armi migliaia di bambini.

Dall’incontro tra i due in avanti il rapporto non farà altro che migliorare, portandoli anche quasi forzatamente a instaurare una vera e propria amicizia.

Il regista sicuramente ci pone di fronte temi importanti che oggi sembra molti abbiano addirittura dimenticato. I motivi delle grandi migrazioni africane verso il vecchio continente, la sofferenza di interi popoli costretti alla miseria, la corsa allo sfruttamento delle risorse.

L’opera (perché solo cosi può essere definita)  in chiusura ci propone un tratto quasi stupefacente del rapporto di due uomini che nella difficoltà mettono da parte i colori della pelle e le origini per salvare ciò a cui tengono di più e il tutto si racchiude proprio nel momento nel quale Vandy porta sulle spalle Archer, nonostante sia lui una tra le tante cause della distruzione della propria terra.

E’ questo infatti che cerca di trasmetterci il regista: una grossa metafora, dalla quale prendere spunto, che forse è la spiegazione ai problemi della nostra distorta società.

Omar Bonavita

A Christmas Carol: il capolavoro di Charles Dickens

Manca poco più di un mese alla festa più bianca dell’anno, fatta di pini e luci colorate un po’ sparse nelle vie della città, e come ogni anno molte persone l’aspettano con animo impaziente. Non tutti però la pensano allo stesso modo, non tutti hanno l’usanza di fare l’albero o di unirsi ai parenti più stretti, e questo ce lo può solo confermare uno che con racconti natalizi ha fatto rivivere alle famiglie la magia del Natale. A scrivere questo “romanzo natalizio” è stato Charles John Huffman Dickens ed è una delle sue opere più famose e popolari. Scritto nel 1843 come Canto di Natale, prendendo come tema principale la società e uno scenario apparentemente felice, posiziona il personaggio principale al di fuori dei riti tradizionali delle feste: un uomo “di poca confidenza” se non con qualche dipendente di lavoro e qualche nipote vicino. Lo scrittore ha voluto evidenziare nel personaggio un vero e proprio “Uomo ricco fuori ma povero dentro

Osservando altri aspetti di questo personaggio noto come Ebenezer Scrooge possiamo notare che queste festività celebrate nella società, erano per lui passate inosservate, come se tutto il suo tempo si potesse contare in denaro. E proprio il denaro gli ha fatto dimenticare il vero spirito di quello che era una volta, un giovane fatto di vita e di speranze. Ma sarà la speranza ad aiutare il vecchio Scrooge a capire ciò che ha dimenticato. Con l’aiuto di 3 spiriti ricorderà infatti, e scoprirà allo stesso tempo, ciò che ha perso e ciò che poteva salvare. Entrando nella nota di critica possiamo dedurre che il personaggio principale a parte essere un uomo d’affari era anche un uomo privo di sentimenti. Il successo se lo era creato nel corso del tempo e per via della società in cui aveva vissuto; una di quelle in cui se nascevi ricco eri fortunato, se nascevi in una famiglia priva anche di cure mediche da lì a poco rimanevi solo un ricordo. Ma non fu esclusivamente questo a spingerlo a chiudersi nella sua avaria bensì anche il continuo successo che lo ha portato dalla madre della lussuria, dove ha completato il processo di menefreghismo.

Lo scrittore dopo aver costruito un personaggio alquanto temuto sia da grandi che da bambini, raffigurandolo come il “GRINCH” di quel secolo, ha fatto notare le varie differenze tra l’Ebenezer “Avaro” e un Ebenezer “Pieno D’animo”, catturando il messaggio natalizio che, almeno a Natale, potremmo essere tutti più benevoli e altruisti con quelli che sono meno agiati di noi. Attraverso la metafora degli spiriti ha fatto infine capire che sono i nostri ricordi passati e quelli che dovremo ancora vivere a doverci interessare, perché solo vivendo veramente potremo avere anche noi il “Natale Futuro”.

Dalila De Benedetto

The Man In the High Castle (l’uomo nell’alto castello)

The man in the high castle è una particolarissima serie Amazon che si articola sullo sfondo di un Novecento distopico che vede le potenze dell’Asse vincitrici della Seconda Guerra Mondiale. Detto cosi, può indubbiamente sembrare molto noioso, le serie a carattere storico di solito non sono proprio ‘leggere’.

Tutto si svolge negli anni ’70, gli Stati Uniti non esistono più, caduti per far posto da un lato all’Impero Giapponese e dall’altro al Reich tedesco. A separare le due potenze (territorialmente parlando) esiste una zona, la zona Grigia, all’interno della quale non vige alcuna giurisdizione e/o regola sociale.

Su questo scenario si muovono due principali gruppi di personaggi: chi è d’accordo con il Reich Tedesco e chi non lo è. ‘Essere d’accordo’ con il Reich, non significa soltanto prendere parte ai progetti espansionistici del Fuhrer, ma anche sposare lo stile di vita che ne delinea l’ideologia. Abbiamo Rufus Selwell, nei panni dell’Obergruppenführer, sicuramente il mio personaggio preferito, molto dinamico, poco scontato e dalla interpretazione impeccabile. Guardando tra le file giapponesi troviamo un altro bel personaggio, il ministro del commercio, molto simile a quello interpretato da Selwell e sicuramente degno di nota. Poi ci sarà un gruppetto di coraggiosi oppositori che tentano in tutti i modi di fermare i soprusi di questi due nuovi totalitarismi. A capo di questi gruppetti abbiamo Alexa Davalos, Juliana Crane, una giovane ragazza di San Francisco che insieme al compagno Frank Frink (Rupert Evans), si trova invischiata in problemi molto più grandi di lei. Un giorno la sorella di Juliana, Trudy torna a casa con una pellicola cinematografica (ai tempi non avevano youtube). All’ interno di questa pellicola ci sono immagini cosi preziose che alla fine quasi tutto si baserà sul recupero delle bobine.

A possedere un gran numero di film è proprio l’uomo nell alto castello, altra incognita perenne, che sembra muovere i fili della serie sin dall’inizio attraverso queste pellicole. Il primo contrasto di Juliana non è col Reich, ma con la Yakuza, la polizia dell’Impero Giapponese che in pratica calca le orme delle famose SS. Ed è proprio questo contrasto che da inizio alla serie di eventi (prevalentemente drammatici) tra i quali si articola la serie. Se la ‘zona grigia’ fosse un personaggio, sarebbe sicuramente Joe Blake (Luke Kleintank). Io la serie l’ho vista tutta, ma non ho ancora capito da che parte sta. Comincia come spia nazista ma poi perde la sua identità tra il susseguirsi delle vicende. La prima stagione in realtà è un pò povera di eventi, serve a introdurre la seconda, molto più movimentata. L’ideatore di ‘The man in the high castle’ è Frank Spotniz, che però non s’è inventato tutto di sana pianta. Infatti la serie è basata su un romanzo del 1962, ‘La Svastica sul Sole’ di Philip K. Dick. La trama è davvero molto intricata e non avendolo letto, non so quanto fedelmente segua il romanzo. C’è da dire a questo proposito, che è una di quelle serie da guardare quando si ha la mente un più sgombra. In alcuni passaggi è necessario fermarsi per capire bene cosa stia succedendo: ci sono molti riferimenti da una stagione all’altra, quindi l’altro consiglio (per quanto possibile) è guardarla tutta d’un fiato.

https://www.youtube.com/watch?v=BALksOPEOJQ

Giulia Garofalo

40 anni dopo la notte di “HALLOWEEN” fa ancora più paura

Sono passati quarant’anni da quando Carpenter dirigeva il primo ‘Halloween – La notte delle streghe‘ ed è proprio alla terrificante pellicola del ’78 che questo nuovo Halloween diretto da David Gordon Green si rifà, distanziandosi completamente dalle pellicole intermediarie che si sono susseguite negli anni.

Se nei film più recenti, infatti, la figura di Michael aveva avuto il volto di Tyler Mane, adesso torna ad essere una figura priva di volto, di parola, estremamente malvagia e potete, l’incarnazione del male nel suo senso più assoluto.

Il nostro Myers dopo la passata strage di Halloween è rinchiuso in un struttura carceraria, da dove, approfittando di un trasferimento, scapperà per dare il via ad un’altra folle notte di sangue e per pareggiare i conti con Laurie Strode (Jamie Lee Curtis).

Quello della Curtis è un ritorno alle origini, così come lo è quello del primo Nick Castle, nei panni di Michael. Un film violento, una violenza esagerata che al tempo stesso è necessaria e riporta la pellicola, dopo tante rivisitazioni negli anni, al suo ‘splendore’ iniziale; merito sicuramente anche del fatto che John Carpenter segue il lavoro questa volta in veste di produttore esecutivo.

Lo stesso regista è inoltre tornato a curare le musiche riproponendo il tema originale della colonna sonora che nel 2016 aveva eseguito a Roma in un inedito tour dal vivo. Intanto le voci che si andavano rincorrendo e che accennavano a una possibile trasposizione del soggetto in una serie tv sono state messe da parte, ma non è da escludere che in futuro il serial killer possa finire su Netflix.

 

 

Benedetta Sisinni

8, il grande ritorno dei Subsonica

Il 12 ottobre è uscito il nuovo album dello storico gruppo italiano rock elettronico i Subsonica.

A distanza di quattro anni dall’uscita del precedente “Una nave nella foresta” e dopo 22 anni di carriera e sette album alle spalle, con 8 i Subsonica ritornano energici e attualissimi sia a livello di tematiche che sound.

Il numero 8 rappresenta non solo il loro ottavo disco ma anche l’infinito, ovvero un cerchio che si chiude per riaprirsi e procedere. E’ quello che rappresenta anche i Subsonica stessi, che dopo una pausa ritornano, cantando “Adesso siamo qui” nella prima traccia intitolata “Jolly Roger”. Traccia che sembra riportarci ai loro inizi, ovvero gli anni ‘90. Momento in cui sono nati e cresciuti, in un ambiente in cui la musica elettronica da underground stava diventando overground, e quindi mainstream. Il gruppo è nato come esperimento di ritmi elettronici, al quale poi sono stati aggiunti dei testi con la voce di Samuel e le parti strumentali del gruppo.

I Subsonica hanno presentato in anteprima il loro nuovo lavoro tramite dark room sparse per diverse città italiane, facendolo ascoltare ad alcuni fan lasciando la tecnologia fuori. E’ stato un modo per riappropriarsi di un momento sacro, ovvero di quando si scartava un vinile e lo si ascoltava in silenzio. Nella loro lunga carriera, nella quale sono usciti i loro dischi migliori basti pensare a Microchip emozionale del ’99 del quale fanno parte Colpo di pistola, Discolabirinto, Tutti i miei sbagli. Contano diverse partecipazioni a Sanremo e premi tra cui l’MTV European Music Awards. Sono riusciti a stare sempre al passo con i tempi mantenendo una loro originalità e stile. 

Dopo l’uscita del loro album nel 2014 decidono di prendersi una pausa, momento in cui sono nati diversi progetti personali solisti e non, decisivi per questo nuovo lavoro nel quale decidono di raccontare di sé e della loro storia. Unica collaborazione musicale del disco è con Willie Peyote, cantautore molto stimato dal gruppo e con il quale vi è una forte sintonia, “L’incubo” infatti risulta forse una delle migliori del disco. Ci si trova davanti l’incertezza sul fare un passo verso l’ignoto necessario per dare vita alle proprie aspirazioni.

Riescono nonostante la leggerezza, ad essere un gruppo che porta avanti temi attuali ed impegnati, restando sempre nelle sottigliezze. Noto nel secondo singolo “Punto Critico”, brano provocatorio nel quale si parla della impreparazione davanti ad un mondo ormai andato avanti fatto di nuove tecnologie e problemi globali. Bottiglie rotte” è stato il loro singolo ufficiale, il quale parla la superficialità e l’incapacità di ascoltare comuni nel mondo di oggi. Le Onde” rappresenta un tributo al loro carissimo amico e maestro di tecniche di registrazione Carlo Rossi, deceduto nel 2015 a seguito di un incidente. Carlo Rossi è stato un riferimento per la musica torinese e italiana. Con “La bontà” i Subsonica chiudono il loro disco con l’interrogativo “A cosa serve la bontà?” lasciandoci senza una risposta chiara, ma che ci fa riflettere.

8 rappresenta un disco che non si è dimenticato del passato ma che ha l’occhio puntato sul presente, sulla realtà che lo circonda ma come ogni altro, proiettato verso il futuro. Riescono a distinguersi e ad essere un gradino più in alto rispetto a molte produzioni italiane, nonostante questo non rappresenti il loro disco migliore. I Subsonica puntano ad essere una luce nell’oscurità, quella che ci fa resistere in un mondo pesante, fatto di notizie strazianti e che vorremmo cancellare. Per questo non bisogna dimenticare la realtà, ma cercare di viverla con leggerezza ed entusiasmo nonostante tutto.

Marina Fulco

Orphan Black: molto più di una semplice serie TV

Vincitrice di numerosi premi e acclamata dalla critica, Orphan Black è una serie fantascientifica televisiva canadese trasmessa dal 30 Marzo 2013 su Space in Canada e su BBC America negli Stati Uniti. E’ ideata da Graeme Manson e John Fawcett ed è composta da cinque stagioni. L’attrice che svolge il ruolo principale è Tatiana Maslany che, grazie al suo talento, è riuscita ad ottenere un Emmy e due Critics’ Choice Award. La sceneggiatura ruota attorno alla vita di Sarah Manning, una ragazza orfana con alle spalle una carriera da criminale. Dopo aver assistito, alla stazione, al suicidio di una donna identica a lei, Beth Childs, la protagonista decide di rubarle l’identità con l’obiettivo di garantire un futuro migliore a se stessa, a sua figlia Kira e al suo fratello adottivo Felix. E’ proprio da questo momento che la vita di Sarah cambia drasticamente: scopre infatti di essere una delle centinaia di cloni sparsi per il mondo, creati tramite il Progetto Leda. Come se non bastasse, qualcuno sta anche cercando di uccidere sia lei, sia gli altri cloni. Decisa ad indagare, Sarah è pronta a rischiare la propria vita per salvare i suoi familiari e i nuovi cloni (primi fra tutti Alison Hendrix e Cosima Niehaus) che conoscerà man mano che la serie andrà avanti.

Orphan Black è molto più di una semplice serie TV: caratterizzata dalla presenza di una forte e determinata donna come protagonista, oltre a regalare sorrisi e pianti a chi la guarda, permette allo spettatore di porsi delle domande a livello etico, sollevando questioni anche sugli effetti morali che la clonazione causa su un essere umano. La clonazione umana è infatti uno degli argomenti più importanti trattati dall’etica: è giusto o meno clonare un individuo? Chi sono gli uomini per manipolare il DNA a loro piacimento? Orphan Black cerca di rispondere a queste domande, soffermandosi su quanto faccia male ad una persona che ha sempre vissuto la sua vita tranquillamente scoprire che in realtà è solo frutto di qualche esperimento genetico. La serie non si ferma a far conoscere solo il dolore psicologico che l’individuo prova, ma mostra anche come la clonazione umana porti con sé il rischio di malattie. Malattie che molto spesso conducono alla morte dei soggetti clonati e che i protagonisti della serie cercano di combattere. Orphan Black è una serie tv molto interessante anche a livello scientifico, in quanto tratta di argomenti come la composizione del DNA, il genoma, le cellule staminali, che potrebbero non esser noti a tutti. Nonostante sia solo una serie tv di fantascienza, tra i personaggi e lo spettatore si crea un legame molto forte.

I “cloni’’ vengono considerati prima di tutto come singoli individui, persone con sentimenti, interessi e idee diverse gli uni dagli altri: c’è chi è eterosessuale, chi omosessuale e chi transessuale, c’è chi ama la scienza e c’è chi fa il detective. Insomma, se vi siete persi questa fantastica serie tv e avete voglia di recuperarla, questo è il momento giusto. Le cinque stagioni di Orphan Black, terminata nel 2017, sono disponibili in streaming su Netflix. Per apprezzare al meglio il talento dell’attrice, Tatiana Maslany, è consigliata la visione della serie tv in lingua originale.

E voi cosa ne pensate? Vi siete già innamorati di Orphan Black? No? Cosa aspettate? Correte!

https://www.youtube.com/watch?v=d0ck4HrY0ec

 

Beatrice Galati

A Star is born

Recentissima l’uscita nelle sale di questo nuovo remake del vecchio “È nata una stella” del 1937. Bradley Cooper è sia attore protagonista che regista, e per questo esordio dietro la macchina da presa ha scelto come sua prima donna la grande Lady Gaga.

La cantante, che qui interpreta Ally, si spoglia dei suoi eccentrici soliti abiti per tornare semplicemente la Germanotta acqua e sapone che ormai avevamo quasi dimenticato. La storia è sempre quella, semplice e lineare, senza troppi colpi di scena.

Jackson, star del rock ormai al tramonto della sua carriera, incontra una sera la timida cantante esordiente Ally, fa in modo che lei riesca a tirare fuori tutto il suo talento e poi da lì è tutta una scalata verso il successo. Successo di lei. Il nostro uomo invece continuerà la sua caduta libera verso l’abisso. Ovviamente il tutto ha un lato molto romantico, per il rapporto speciale che si creerà tra i due, con contorno di alcool, droga e depressione.

Niente di nuovo insomma. Classici elementi che ritroviamo in qualunque melodramma americano. Nonostante tutto, il film riesce comunque a stupire. Tutto questo è facilmente spiegabile: a catturare totalmente l’attenzione non è la storia, bensì l’interpretazione degli attori.

Che Cooper fosse un attore di qualità era ben risaputo e qui riconferma il suo talento. Una rivelazione è stata invece la pop star, che al suo esordio da protagonista ha lasciato tutti di stucco. Ottima interpretazione, forte e potente che cattura fin dalle prime scene, il ruolo sembra esserle stato cucito addosso. La complicità tra la coppia di attori è palese, ed è anche per questo se l’attenzione si sposta dalla classica storia che è alla base a quella che lega i due. Dunque, un film non eccelso ma bello, ricordiamo che è il primo esordio da regista di Cooper, che supera comunque la prova.

 

Benedetta Sisinni

Marigold Hotel: L’India che non ti aspetti. O forse sì.

L’avanzare dell’età non per tutti è semplice da affrontare, soprattutto quando ci si domanda quale possa essere il proprio “ruolo” in questa fase inevitabile della vita. E’ proprio ciò che accade ai nostri protagonisti, sette personaggi di origine inglese “più in là” con gli anni che, per motivi disparati che possono variare da una semplice ricerca di un posto tranquillo dove poter trascorrere la vecchiaia, a pura necessità, si ritrovano ad essere tutti clienti – pur non conoscendosi fra loro – di un hotel di lusso, sfarzoso, moderno e appena restaurato, dedicato ai clienti della terza età, intitolato “Marigold Hotel”.

Questo hotel, tuttavia, si trova a Jaipur, in India. Così il gruppo senile comprendente Evelyn Greenslade (Judi Dench), casalinga ormai vedova, soffocata dai debiti del marito; Douglas e Jean Ainslie (Bill Nighy e Penelope Wilton ), coniugi ridotti sul lastrico a causa dell’investimento di tutto il loro denaro in progetti lavorativi della figlia; Muriel Donnelly (Maggie Smith) un’ex governante con pregiudizi raziali nei confronti di persone di colore; Madge Hardcastle (Celia Imrie), una donna sola alla ricerca di un nuovo marito; Graham Dashwood (Tom Wilkinson), un giudice improvvisamente ritiratosi in pensione e, infine, Norman Cousins (Ronald Pickup), un uomo che cerca in tutti i modi di ritrovare la propria giovinezza, tentando di conquistare qualche signora per passare una notte di piacere.

Dunque, colmi di bagagli sia fisici che astratti, i nostri si dirigono verso l’India, senza saltare qualche imprevisto di rito, come un volo in estremo ritardo. Ma le sorprese, di certo, non finiscono qui. Una volta giunti a Jaipur, il Marigold Hotel non si rivelerà essere quello che ci si aspettava: un ambiente fatiscente, rustico, di cattivo gusto e un servizio ben poco organizzato, se non improvvisato, si pone davanti ai nostri protagonisti, ovviamente delusi e disgustati da quella che sarebbe stata la loro dimora durante tutto questo viaggio.

L’avventura indiana è appena cominciata. “Marigold Hotel” (The Best Exotic Marigold Hotel) è un film del 2012 diretto da John Madden. La commedia si basa sul romanzo “These Foolish Things” di Deborah Moggach e pone l’accento sulla questione del progredire degli anni, arrivando all’anzianità dove mille domande attanagliano l’uomo ed un senso di abbandono e inutilità spesso lo circondano. Ed è proprio l’anzianità che prevale e trionfa in questa pellicola, lasciando trasparire il messaggio efficace di un’età avanzata in cui non si è finiti e non si ha smesso di fare, con ancora molte possibilità di fronte a sé, di una vita mai esausta e sempre pronta a sorprendere.

Benché questo possa essere un messaggio puro e lodevole da trasmettere, l’opera di Madden non gli rende giustizia, risultando una commedia a volte piacevole, altre sottotono, che non riesce a farsi comprendere fino in fondo, lasciando lo spettatore un po’ con l’amaro in bocca. Un prodotto che cercava di risaltare grazie anche ad un cast arricchito da alcune “stelle” – da Dev Patel (“The Millionaire”, “Lion”) a Maggie Smith (“Harry Potter”) – ma che, tuttavia, rimane nell’ombra, incapace di trasmettere a pieno le ragioni citate sopra. Complessivamente “Marigold Hotel” si rivela un prodotto discreto, un po’ sotto le aspettative, ma che cerca di porre l’attenzione su un tema mai da trascurare che potrebbe, ad uno spettatore più anziano di chi scrive, suscitare più che semplice “indifferenza”.

Giuseppe Maimone

Un borghese piccolo piccolo: la parabola della classe media

Film del 1976 diretto da Mario Monicelli, Un borghese piccolo piccolo è tratto dall’omonima opera letteraria di Vincenzo Cerami. La vita dell’impiegato ministeriale Giovanni Vivaldi (uno straordinario Alberto Sordi) scorre tra la sicurezza di un lavoro modesto ma sicuro, un altrettanto routinario ménage familiare e modeste aspirazioni.

Alle soglie della pensione il signor Vivaldi coltiva il sogno di “sistemare” il proprio figlio unico, diplomato ragioniere, presso il ministero in cui ha lavorato. Approfittando dell’imminente concorso pubblico, per conseguire il proprio scopo, utilizza l’arma della adulazione e della sottomissione al potente di turno ed agli esponenti dell’apparato politico-burocratico. Per amore del figlio non esita nemmeno ad affiliarsi ad una loggia massonica.

L’idillio immaginato da Giovanni viene sconvolto da un evento drammatico.

Il giorno del concorso, infatti, un evento fortuito, una rapina, una pallottola vagante, determinano la morte del figlio: il significato dell’esistenza del misero impiegato viene irrimediabilmente spezzato.

La moglie di Vivaldi (un’inedita Shelley Winters rubata ai fasti hollywoodiani), appresa fortuitamente la tragica notizia, viene colta da un ictus che la relega paralitica ed afasica in una sedia a rotelle.

Il signor Vivaldi abbandona il ruolo di misero ed ossequioso impiegato per impersonare quello dell’implacabile e spietato vendicatore, come Charles Bronson nel Giustiziere della Notte (1974).

Innumerevoli gli spunti di riflessione. Tra questi, lo sviluppo di un cupo dramma che assume i toni della tragedia greca, laddove le tranquille vicende umane vengono stravolte dall’intervento di un dio o del fato. Il paradosso sta nel fatto che il regista e l’attore principale sono tra i protagonisti assoluti della Commedia all’Italiana, eppure riescono mirabilmente a riprodurre le miserie, le aspirazioni e la rabbia di un uomo e forse di un’intera generazione.

Vivaldi rappresenta il prototipo di un borghese piccolo piccolo, che ha barattato i propri ideali (lo stesso nel film ha partecipato alla resistenza), la libertà e la dignità in cambio di un modesto posto fisso, di una modesta abitazione e di un altrettanto modesto ma certo futuro per il proprio figlio. Il mancato conseguimento del compenso pattuito per colpa dell’uomo o del destino, trasforma il mite e sottomesso impiegato in una belva assetata di vendetta.

Nell’opera letteraria, e dopo cinematografica, si coglie una capacità di prevedere le trasformazioni della società italiana ed occidentale: la classe media tradita dal sogno di benessere, segnata dalla crisi economica, intimorita dall’immigrazione, sgomenta dal senso di impotenza di fronte al fenomeno delinquenziale, abbandonerà i vecchi strumenti di rappresentanza politica ed erigerà muri, frontiere anteponendo la richiesta di sicurezza e tutela personale ai precedenti ideali.

Renata Cuzzola