Serafino Gubbio nell’era della usability

Denuncia pirandelliana contro l’imperante alienazione tecnologica. Voto UvM: 4/5

 

 

 

È uno dei romanzi pirandelliani meno noti al grande pubblico, anno di pubblicazione 1951: “I Quaderni di Serafino Gubbio operatore”.

Eppure il lettore moderno, a distanza di più di cento anni, non può fare a meno di considerarlo estremamente attuale, vedendo tratteggiata nella storia di un operatore cinematografico temporalmente lontano la relazione che ogni nativo digitale del XXI secolo instaura con i propri strumenti tecnologici.

“La mia mano obbediva impassibile alla misura che io imponevo al movimento, più presto, più piano, pianissimo, come se la volontà mi fosse scesa – ferma, lucida, inflessibile – nel polso, e da qui governasse lei sola, lasciandomi libero il cervello di pensare, il cuore di sentire;”.

Era un bravo operatore Serafino Gubbio, preciso, competente, eccessivamente zelante, avrebbe continuato sempre a girare la sua manovella, qualsiasi cosa fosse successa.

Svolgeva il suo compito con quella carica di impersonalità e freddezza che lo legavano indissolubilmente alla macchina da presa, divenuta il “prolungamento del suo braccio”.

Vi ricorda forse qualcosa questo prolungamento? Ma la macchina non lo lasciava, si era impossessata di lui, lo aveva reso un automa incapace di distinguere tra vita e finzione, spettatore inerme e passivo della realtà registrata silenziosamente come fosse un artificio.

Proprio questo rovesciamento del rapporto tra oggetto e soggetto, tra uomo e macchina, appare terribilmente moderno.

“Fu profetico, un secolo fa Pirandello coi suoi Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Quel legame ambiguo e estremo con la macchina, e la confusione tra vero e virtuale ci riguardano molto da vicino. Anzi troppo, da vicino.”

Lo scrive la giornalista e scrittrice Elvira Seminara, che chiarisce efficacemente le modalità e i rischi connessi al largo ricorso alla “usability”, imperante nell’era del web. Secondo la norma ISO, la più importante Organizzazione Internazionale per la Standardizzazione, bisogna intendere con il termine usability il “grado in cui un prodotto può essere usato da particolari utenti per raggiungere certi obiettivi con efficacia, efficienza e soddisfazione in uno specifico contesto d’uso”.

Apparentemente irrilevante, la usability incide profondamente sulla relazione sempre più intima e solida intrecciata con le nostre macchine, che ci dominano ed influenzano in un vicendevole scambio per cui “le usiamo e ne siamo usati”.

Il tipo di legame basato sulla usability è in fondo lo stesso già intuito un secolo fa da Pirandello, efficace, semplice, ma distruttivo, capace di rendere Serafino Gubbio indifferente a tutto, persino alla più atroce violenza.

Per comprendere quale importanza rivesta la usability nella nostra vita quotidiana, basta ricordare che in molte riviste è indicato sopra l’articolo anche il tempo di usability, cioè i minuti che servono per leggerlo, come se l’uso e la qualità del tempo non fossero una scelta personale.

Social dilaganti come Facebook rivelano il dominante controllo psichico esercitato da macchine intelligenti quali smartphones e computers, che non solo interagiscono con noi, ma irrompono persino nella nostra vita privata, indagano sulla nostra personalità, sui nostri desideri, sulle nostre abitudini. Attratti e dipendenti da esse, veniamo apaticamente addomesticati e privati di libertà e spontaneità, in cambio di serenità illusoria e visibilità.

Cediamo inconsapevolmente ad esse parte della nostra umanità e personalità, che vengono ingoiate senza pietà come accadde alla vita e alla voce tristemente spezzata di Serafino Gubbio.

E forse oggi, la società tecno-liquida, dominata da macchine avanzate e pronte a sostituirci, sta rispondendo all’angosciante dubbio espresso da Serafino: “La macchinetta – anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé.”

Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere.”

Giusy Mantarro

C’eravamo tanto amati – Ettore Scola

 

Un racconto dolceamaro dell’Italia all’indomani della Resistenza. Voto UvM: 5/5

 

 

 

 

Italia del dopoguerra.

Antonio lavora come portantino in un ospedale di Roma e nel tempo libero milita nei partiti di sinistra, Nicola è un insegnante di provincia e appassionato di cinema e trova in quest’ultimo la migliore arma politica, Gianni è invece tirocinante in uno studio legale della capitale.

Cosa accomuna questi tre personaggi dal retroterra così diverso? La passione per Luciana, aspirante attrice, ma ben più significativa l’amicizia maturata combattendo fianco a fianco nei giorni della Resistenza.

I tre si ritroveranno tutti assieme quasi trent’anni dopo quando ormai lo scenario nazionale è ben cambiato e gli alti ideali di rivoluzione sociale si sono ormai scontrati col muro della dura realtà quotidiana.

 

 

Se le vite dei primi due non hanno subito grandi rivolgimenti, quella di Gianni è stata la tipica parabola del self made-man, del giovane avvocato che si avvia alla carriera con la speranza di essere diverso dagli altri, salvo poi rivelarsi anche peggio e trasformarsi nel nemico per cui i tre avevano tanto combattuto in passato: un padrone.

In C’eravamo tanto amati la microstoria, quella dei nostri personaggi, si intreccia alla macrostoria, quella delle vicende nazionali ( la resistenza, la liberazione, gli anni del dopoguerra con i cambiamenti politici ed economici), nonché a quella che ormai è la storia del cinema italiano, che il regista omaggia con vari riferimenti.

Notevoli a questo proposito i cameo di Marcello Mastroianni, Federico Fellini e Vittorio de Sica, a cui la pellicola è dedicata. Scola si distacca però dal padre del Neorealismo per diversi aspetti.

Gioca innanzitutto col passaggio dal bianco e nero al colore per raccontare lo scorrere del tempo.

Ferma l’azione per svelare i pensieri dei personaggi e fa parlare questi con lo spettatore proprio come accade a teatro.

Ciò gli è permesso grazie alla bravura magistrale di attori come Nino Manfredi, Aldo Fabrizi, Stefano Satta Flores e un impareggiabile Vittorio Gassman.

 

 

Una satira amara dai dialoghi brillanti sul naufragio del sogno di un’Italia diversa, sulla cultura in mano al perbenismo dominante, su tanta sinistra che stenta a decollare perché frammentata da polemiche sterili e lotte interne, impegnata a fare a botte mentre il ricco si abbevera beato alla fontana del benessere.

Ma …“ il vero nemico sono io- dice Gianni- con me ve la dovete prendere!” Il vero nemico è il fascismo che ancora resiste, che si nasconde dietro l’ombra del sopruso e della corruzione e grida “Io nun Moro”.

Se Gianni e Nicola – il ribelle imborghesito e il radical chic- rappresentano il fallimento degli ideali della Resistenza, una speranza è forse riposta nell’uomo comune, Antonio, nelle rivoluzioni quotidiane scandite dalle note della splendida colonna sonora di Trovajoli.

 

 

Ma forse anche nel cinema, capace di rispecchiare più di ogni altra cosa lo spirito del tempo.

Angelica Rocca

 

Lolita – Vladimir Nabokov

Un libro che ami o che odi, non ci sono vie di mezzo per Lolita. Voto UvM : 5/5

 

 

 

 

Lolita, la ninfetta che fa perdere la testa professor Humbert.

Non appena pubblicato, il libro creò subito scandalo per via della storia che lega i nostri due protagonisti: un uomo maturo innamorato di una bambina di soli 11 anni. Tutto questo va oltre la morale che lega ogni essere umano.

Humbert farà di tutto per avere la sua giovane fanciulla.

Quest’opera ci fa entrare dentro la mente di un pedofilo e capiamo che questa è una malattia orribile, ma è un’azione involontaria; il lettore prova disgusto ma allo stesso tempo compassione verso il professore.

L’autore, Vladimir Nabokov, ci fa comprendere che l’amore è l’entità più strana al mondo e ti porta a fare cose fuori dall’ordinario andando contro la società in cui vivi.

Ed è proprio il lettore il giudice di questo libro.

                                             Alessia Orsa

Frida Khalo – Una biografia di Frida Khalo.

L’icona femminile più misteriosa e amata di sempre. Voto UvM: 5/5

 

 

 

 

Chi è stata veramente Frida Kahlo? Sicuramente vi sarà capitato di sentir parlare di lei. Frida era la “tipica” donna affascinante, amata da Picasso, Breton, anche da Hollywood…

Hayden Herrera, storica dell’arte, la racconta (Frida Khalo – Una biografia di Frida Khalo, Neri Pozza Editore, pag 416, €18): passioni, dolori, l’arte, l’amore nei suoi dipinti, uno sguardo di un icona femminile più misteriosa ed amata di sempre.

Nata nel 1910 a Coyoacan, precisamente in Messico, la nostra Frida a 18 anni è vittima di un incidente stradale, ma la sua esistenza fu segnata oltre che dalle cicatrici, sopratutto dall’arte pura: oltre alla pittura tradizionale dell’800 dei retablos messicani, la sua ispirazione si basava su Bosch, Bruegel, uomini più importanti del suo periodo.

Nel romanzo, la Herrera,  si sofferma proprio sulla sua sofferta ricerca artistica, ma anche sulla passione amorosa e politica, trasposte tutte sulle sue tele, autoritratti e nature morte sensuali.

Dipinti visionari, ossessivi, antropomorfici, “frutto della doppia personalità di Frida”.

Leggendo ,il lettore può capire fin da subito come questa donna poteva essere  candida ma al tempo stesso feroce o ricca di senso dell’umorismo.

 

 

Ma, nonostante tutto, sofferenze incluse, questa  straordinaria pittrice riusciva a far sorgere il lato positivo ed è con questa frase che inizia a raccontare della sua più grande storia d’amore.

 

Frida Khalo – Una biografia di Frida Khalo un coinvolgimento di storie, testimonianze, lettere, pensieri, eventi, appassionando il lettore sempre di più alla scoperta di una lettura ricca di scoperte e misteri.

La Herrera, riesce a descrivere Frida in un modo perlopiù unico nel suo genere: il suo approfondire sui dipinti, sui cambiamenti che l’hanno resa quest’icona di stile e vita. Una lettura intrigante, Frida Khalo – Una biografia di Frida Khalo è adatto a chi ama le biografie ma anche per chi vuol conoscere il mondo di una donna forte, originale diversa, ma sopratutto l’icona dell’arte.

Carmela Caratozzolo

Il Trono di Spade, The Last Season

La più attesa delle stagioni, ma non la migliore. Voto UvM: 4/5

 

 

 

 

 

 

 

Indubbiamente la stagione più attesa di tutta la saga e di conseguenza la più carica di aspettative da parte dei fan di tutto il mondo.

Il trono di spade infatti è una serie che esiste dal 2011 e vanta milioni di spettatori in tutto il mondo, i quali dal 15 aprile di quest anno erano tutti davanti la tv ad aspettare i classici colpi di scena targati hbo.

Io dal canto mio sapevo che essendo una stagione conclusiva e mancando la penna di George Martin a intrecciare i filoni narrativi non sarebbe stata un granché.

 

 

Tra l’altro fra serie tv e ultime stagioni a mio avviso non scorre buon sangue, basti pensare a Scrubs, How I Met Your Mother, Westworld, Mr Robot e chi più ne ha più ne metta.

Detto ciò, qui abbiamo solo sei episodi della durata di un’ora , un’ora e mezza che teoricamente dovrebbero risolvere domande, dubbi e perplessità circa le più svariate questioni di Westeros che ci portiamo dietro da anni.

I primi due episodi li definirei ‘carini’, nel senso che sono il prologo alla battaglia della terza puntata in cui tutti pensano di andare a morire e quindi via coi sentimentalismi.

Ci sono scene molto belle, come Brienne di Tarth proclamata cavaliere da Jaime davanti al camino di Grande Inverno, o lo scambio di battute tra Arya e il Mastino sui bastioni delle mura.
Altre scene invece molto banali, come quelle di Jon e Daenerys nata dalla tempesta, regina di questo e di quell’altro, ma che nonostante questo non riesce a ricavarsi un attimo di tempo per dare un bacetto a Jon Snow col dovuto pathos.

Cosi arriviamo al terzo episodio, la battaglia con gli Estranei: un’ora e mezza di ansia.

E qui la prima considerazione riguarda una pessima gestione dei draghi, che avrebbero potuto avere un ruolo cruciale e invece svolazzano tranquilli tra le nuvole manco fosse un film di dumbo.

L’inverno è decisamente arrivato e i primi ad avvertire qualche brivido scuotente sono i poveri Dothraki che muoiono tutti nel giro di un nanosecondo, nonostante Melisandra abbia dato il fuoco (e non a fuoco) a tutte le loro spade in stile Berik della Fratellanza.

 

 

Pensavo che questa mossa poco originale ma efficace, avrebbe consentito ai cari Dothraki di durare qualche minuto in più, arrostire qualche Estraneo tanto per dire ‘Ehi ci siamo anche noi’ … e invece no.

A parte queste piccole défaillance, a cui si associa l’inutilità di Jon Snow che non riesce a tirare neanche uno schiaffo per sbaglio al King della Notte, il resto dell’episodio è un capolavoro di fotografia e sceneggiatura, le colonne sonore scelte a pennello partono con un tempismo impeccabile.

Ma quello che mi ha conquistato è stato il gioco di sguardi tra Bran e il Re della Notte nel finale, davvero emozionante.

Un minuto dopo arriva la banalità di Arya a interrompere la magia del momento: il povero Re della Notte al posto di fare qualcosa di epico, (tipo inchinarsi davanti a Bran o qualunque altra cosa), si smaterializza sotto il colpo mortale della ragazzina, che mostra un talento fuori dal comune nella disciplina del salto in alto.

Ora che il pericolo degli Estranei non esiste più, tutta l’attenzione è rivolta verso il Trono di Spade.

C’è questo piccolo problema che ora Jon è un Targaryen e quindi avrebbe più diritto della Regina dei Draghi a prendere il Trono. Ma ovviamente questo è motivo di forte disappunto per Daenerys, che con molta nonchalance e un solo drago improvvisamente arzillo risolve tutti i suoi problemi (coniugali e non) dando fuoco ad Approdo del Re e a tutti i suoi abitanti.

Il giorno dopo il barbecue è tutto coperto di cenere simil neve, ma l’elemento più eclatante è rappresentato dai dieci minuti di carattere di Verme Grigio, che appena ricevuta la carica di Maestro della Guerra assume un tono minaccioso.
Evidentemente si emoziona e decide che è arrivato il momento per allontanarsi finalmente dall’inerzia che muove le sue decisioni.

Ma questo hype dura il tempo di cinque minuti, fino a quando non ripensa a Missandei e dunque decide di stabilirsi a Naath con tutti i suoi Immacolati.

Migliaia di uomini addestrati a uccidere senza esitazione, che ora suppongo si ritroveranno a coltivare lattughe.

Ad ogni modo, non è la migliore tra le stagioni del Trono di Spade e non è ricca dei colpi di scena e delle situazioni ‘scomode’ a cui siamo abituati.

Il mio consiglio è di guardare questi episodi in maniera un pò più disinteressata, mettendo da parte aspettative e pronostici.

Giulia Garofalo

I fratelli Sister

Il western non è morto. Voto UvM: 3/5

 

 

 

Fin dal titolo, che richiama il nome “di battaglia” dei due protagonisti, il nuovo film di Jacques Audiard tocca le corde dei rapporti familiari.

Lo fa evidenziando il portato ironico del cognome, Sisters, intrepretati da John C. Reilly e Joaquin Phoenix, una coppia di famigerati e scombinati fratelli assassini dell’Oregon, assoldati da un Commodoro, impegnati a seguire a distanza un investigatore privato un po’ depresso, John Morris (Jake Gyllenhaal).

 

 

Da buon autore cinefilo, Audiard ribadisce quanto sia ancora vivo e vivido il western, e lo fa a partire da quelle che sono state nel corso dei decenni considerate le fasi pionieristiche del genere, da Anthony Mann, a Clint Eastwood a Tommy Lee Jones, tenendo nella mente e negli occhi anche materiale non strettamente western, com’è la l’arte visiva di Paul Thomas Anderson.

Pieno di humor nero e di profondità insospettabili, di caratteri truculenti e avventure memorabili, il western di Audiard riprende i codici del genere per deviarli come un treno impazzito nell’America della corsa all’oro.

In realtà, dopo una lunga parentesi da cercatori d’oro, la storia indaga, nella maniera più complessa possibile, la vita dei Sisters Brothers, dalle profonde contraddizioni che li uniscono, valicando il legame di sangue legato ai rimpianti dell’adolescenza, al what’s next di una condotta il cui esito non potrà che essere la morte o l’essere braccati a vita.

 

 

Momento chiave per la comprensione dei personaggi, è quello del sogno di Eli, che rievoca l’uccisione del padre da parte del fratello Charlie come se fosse uno spettacolo di ombre cinesi.

Racconto che mette alla prova le identità dei suoi protagonisti, le fa vacillare, ne mette in discussione la mascolinità oltre che la maturità; racconto che mina continuamente la necessità di agire fuori dalla legge, o ai suoi margini, a servizio di un padre putativo spietato avendo fatto fuori quello naturale.

I Sisters non sono gli unici ad aver rescisso dalla propria vita la figura paterna, anche Morris e Kermit confessano di aver rotto ogni rapporto con la famiglia d’origine.

Da loro due, svuotati, sradicati, transitano le ipotesi di una società diversa, utopica, antitetica rispetto a quella in cui si muovono i brothers.

Il western non è morto, viva il western.

 

Antonio Mulone

“L’uragano di un batter d’ali” – Sara Tessa

L’incontro tra due persone prende risvolti imprevedibili. Voto UvM: 3/5

 

 

 

 

Può il battito d’ali di una farfalla in Brasile scatenare un uragano in Texas?

E’ questo il principio fondamentale della Teoria del Caos di Edward Norton Lorenz ed è questo il presupposto su cui è costruito questo splendido romanzo.

“L’uragano di un batter d’ali” è la storia nata dall’incontro tra un uomo, Adam Scott e una donna, Sophie Lether, due individui apparentemente opposti, dall’animo complesso e un passato travagliato.

L’incontro tra queste due persone, accomunate da condizioni iniziali estremamente difficili, ha un’evoluzione e dai risvolti assolutamente imprevedibili, spingendo i protagonisti a delle obbligate evoluzioni personali.

“Sensibilità alle condizioni iniziali, imprevedibilità ed evoluzione”.

La nozione di base della Teoria del caos, che si applica perfettamente alle dinamiche di questa sorprendente storia.

Sophie è una giovane donna che ritorna a New York e si rifugia a casa del fratello dopo essere scappata all’ennesima relazione distruttiva, un rapporto malato in cui ha subito violenza verbale e fisica, reduce da un anno passato in un centro di recupero.

Ma Sophie, nonostante le mortificazioni, appare animata da una straordinaria resilienza, che la porta a rimettere insieme i pezzi di una vita vilipesa e distrutta.

Adam, schermato dall’apparenza di un uomo forte e di successo, ricco e bellissimo, dotato di un grande fascino, nasconde invece una grande sofferenza interna, uno stato emotivo e sentimentale che ha deliberatamente messo in “stand by”.

Così Adam si impedisce qualsiasi tipo di relazione sentimentale o di un qualsivoglia legame.

Le sue frequentazioni femminili sono prostitute e i suoi unici rapporti sono fugaci, occasionali e basati solo sul sesso nudo e crudo.

Il sesso rappresenta per lui una valvola di sfogo, una fuga dalla vita e al dolore.

Questa situazione di oblio autoindotto ha inizio 5 anni prima quando quando ha scoperto sua moglie incinta a letto con il suo migliore amico.

Quello è stato il punto di svolta, l’inizio della fine, il trampolino verso il baratro.

Ora Adam è un guscio vuoto accompagnato solo dalla sua solitudine, l’unica condizione che gli garantisce il pieno controllo di sè stesso, della sua vita, impermeabile a qualsiasi forma di emozione.

L’incontro tra Adam e Sophie è come la luce che squarcia il buio, improbabile, impossibile eppure inevitabile e deflagrante.

Un incontro che annienta le barriere emotive di entrambi, che scardina i perni su cui entrambi hanno scelto di ricostruire la loro esistenza.
Sophie, spinta dall’istinto da crocerossina”, vuole liberare Adam dai suoi demoni, cerca in tutti i modi di salvarlo da sé stesso ma ne è anche perdutamente innamorata e, mentre lui la sottomette e la piega alle sue condizioni, al suo volere, allo stesso tempo lei si libera dalla sua prigionia auto inflitta, trascende da sé stessa perché Adam è l’unico che riesce a comprenderla e a renderla veramente felice e appagata.

Per Adam, Sophie rappresenta la luce, la sua tenerezza, la sua fragilità e la sua indulgenza lo mettono di fronte alla sua miserabile a malata condizione, e lo spinge a riconsiderare le sue priorità.

“L’uragano di un batter d’ali” è la storia di un amore ineluttabile, che trascende le condizioni iniziali fra i due amanti per dirompere in tutta la sua deflagrante potenza trasformandoli e salvandoli entrambi.

Il romanzo, appartenente al genere Erotic Romance, rappresenta un caso editoriale datato 2013. Nato come opera di self-publishing e distribuito solo in E-Book attraverso la piattaforma Amazon, si è in brevissimo tempo conquistato uno straordinario successo grazie al passaparola fra le lettrici tanto che, nello stesso anno, Sara Tessa ha deciso di “regalare” un’appendice a questo romanzo con “La versione di Adam”, ovvero un racconto più breve nel quale la scrittrice da voce al suo enigmatico e complesso protagonista maschile.

 

Giusi Villa

Storie di Ordinaria Follia – Charles Bukowski

 

42 racconti di “ordinaria follia”. Voto UvM: 5/5

 

 

 

 

Charles Bukowski ci presenta una raccolta di 42 racconti, molte parti sono un racconto della vita disordinata dello scrittore.

Nel libro incontriamo le cosidette minoranze, come prostitute, vagabondi e alcolisti, persone piegate dalla società.

Lo scittore americano come sappiamo è sempre stato un Don Giovanni, egli infatti conquisterà molte donne anche all’interno della storia, ma ognuna di loro per lui rappresenta una storia d’amore, non si sofferma superficialmente solo alla parte fisica.

 

 

Poche sono le persone che riescono a rendere il volgare qualcosa di meraviglioso e Bukowski ne è la prova perfetta.

Alessia Orsa

 

Educare all’arte con ‘Nuovo Cinema Paradiso’

Un film che insegna ad amare l’arte. Voto UvM: 5/5

 

 

 

Esiste un film che ci insegna ad amare il cinema, ad emozionarci, a piangere, a ridere, ad innamorarci, esiste un film capace di dimostrarci che il Cinema, che l’Arte è semplicemente e meravigliosamente Vita.

La regia è quella del grande regista siciliano Giuseppe Tornatore, anno 1988, il film è destinato a divenire una delle colonne portanti della storia del Cinema italiano, anche grazie alle musiche di Ennio Morricone.

Il suo titolo, noto a molti, è Nuovo Cinema Paradiso.

Il Cinema Paradiso, unica occasione di svago per gli abitanti del paesino siciliano Giancaldo, prende vita e diviene motivo ispiratore dell’intera pellicola, è ciò che scandisce le vite dei protagonisti, è ciò che ne le lega indissolubilmente le storie.

Nella cabina di questo cinema, alla fine degli anni 40’, in un’Italia ancora devastata dalla guerra, il piccolo Totò, bambino particolarmente vivace ed intelligente, incontra Alfredo, il cinematografo, uomo apparentemente cinico e scorbutico, ma capace di donare affetto e saggezza.

 

 

Quell’uomo, quel luogo, quelle pellicole, quella forma d’Arte che è il cinema divengono ben presto per Totò, divenuto orfano di padre, il suo principale ed unico punto di riferimento.

È qui che fin dalla tenera età egli impara a meravigliarsi dinnanzi a una pellicola, incontrando i grandi del cinema, da Charlie Chaplin a Luchino Visconti, che conosce la potenza dell’amore, tra delusioni e proibizioni, che sperimenta personalmente la fatica e il rischio del lavoro, ma anche la gratitudine e la soddisfazione per aver contribuito alla felicità di un intero paese.

In tutto questo egli è sicuramente guidato da Alfredo, che tuttavia non insegna a Totò soltanto come proiettare le pellicole, tagliarle e sistemarle. Ciò che Totò riceve da Alfredo è una vera e propria testimonianza, che racchiude in sé la necessità di nutrirsi di meraviglia, di arte, di avventura, di Amore per dare un senso alla propria vita.

“Qualunque cosa farai, amala, come amavi la cabina del paradiso quando eri picciriddu”, questa la testimonianza di Alfredo, pienamente compresa da Totò solo al momento della loro separazione, necessaria affinché egli si riconosca pienamente come erede.

 

 

Ogni movimento autentico dell’ereditare presuppone infatti il trauma dell’abbandono, del sentirsi “spogli”, “mancanti”.

Non è un caso che l’eredità acquisita al momento della morte dell’anziano sia una pellicola, composta da tutti i frammenti dei film che la censura moralistica del prete del paese aveva impedito venissero proiettati.

Essa trasmette proprio la passione del bacio, la forza dell’amore, l’irruenza dell’abbraccio, che nessuna censura può pensare di oscurare.

Totò, divenuto adulto, emozionandosi dinnanzi a questa pellicola, scopre di essere diventato quello che era già da sempre stato, fa proprio quello che era già suo da sempre e che forse, da buon maestro, Alfedro aveva già visto ben prima di lui.

Specialmente in quest’ultima scena, lo spettatore, che non può che sentirsi rapito dalla delicatezza e dalla potenza con cui Tornatore narra la storia di Totò, finisce per immedesimarsi del tutto nel protagonista.

 

 

Ognuno di noi scopre che quella meraviglia, quelle lacrime, quella gioia e quella stretta al cuore avvertite da Totò dinnanzi alla pellicola lasciatagli da Alfredo sono le stesse che noi abbiamo provato durante la visione di Nuovo Cinema Paradiso.

Ed è proprio in un coinvolgimento e in una compenetrazione tali che risiedono la grandezza e l’unicità di questo film, che rivela chiaramente come l’arte, in ogni sua forma, e le sorprendenti emozioni che essa è in grado di suscitare accomunino straordinariamente tutti gli esseri umani.

Ogni spettatore negli occhi di Totò non potrà che riconoscere la luce di colui che ha fatto esperienza della bellezza, non potrà che sperare che anche i propri occhi si riempiano sempre più spesso di quella luce che è potentissima vita.

Giusy Mantarro

AUT AUT (1843) di Sören Kierkegaard

La vita etica e la vita estetica secondo Kierkegaard. Voto UvM: 4/5

 

 

Aut Aut, del filosofo Sören Kierkegaard, considerato il padre dell’esistenzialismo, si presenta come una lettera dal tono informale in cui un personaggio fittizio, Wilhelm, che incarna la figura del bravo lavoratore e padre di famiglia, illustra al suo amico i vantaggi della vita etica, improntata all’assunzione della responsabilità e al rispetto del dovere, su quella estetica, incentrata sulla fuga dalla noia e sulla ricerca del godimento.

«Cosa vuol dire vivere esteticamente e cosa vuol dire vivere eticamente?»

Estetica è indifferenza, essere tutto e niente, et et in base alle contingenze del momento, signore assoluto nella vita del Don Giovanni; è un continuo vestire e svestire molteplici maschere in un vorticoso carnevale in cui ci si nasconde persino a sé stessi.

 

 

Etica invece è quello stile di vita che ha il coraggio, l’energia e la serietà di porre l’assolutezza della scelta. Aut aut. O questo o quello. Non et et.

Γνῶθι σαυτόν, conosci te stesso, recita appunto il detto delfico accolto da Socrate di cui l’autore si proclama erede, esponente come lui di una filosofia che sia capace di tornare per strada, sandali ai piedi, a interrogare nuovamente non lo Spirito, la Sostanza, l’Idea eterna, ma l’individuo, il singolo uomo.

 

 

Diventa te stessopartorisci te stesso dice inveceKierkegaard perché «[…] la più ricca personalità non è nulla prima di aver scelto sé stessa […].»

Attraverso una serie di temi tipici della filosofia kierkegaardiana, tra cui spicca la disperazione e una dialettica che si gioca sui termini momento/continuità, eccezione/ regola, casualità/universalità, infinità/ finito, eterno/temporalità , il filosofo sarà in grado di ribaltare tutti i miti e i cardini del vivere estetico, primo su tutti quello dell’eroe, l’uomo al di fuori d’ogni norma, l’eccezione.

«Uno può conquistare regni e paesi senza essere un eroe, un altro invece nel signoreggiare il suo carattere può rivelarsi un eroe […] Ciò che importa è il modo in cui agisce» ed ancora «Il vero uomo eccezionale è il vero uomo comune».

Se Aut aut si distingue nettamente da altre opere filosofiche coeve, è perché il problema che tratta è di urgenza esistenziale e non esclusivamente speculativa.

A Kierkegaard non interessa costruire un sistema.

Il suo pensiero, ancor prima di quello di Nietzsche, è reazione antihegeliana per eccellenza in quanto si pone intenzionalmente il più lontano possibile dalla pura e astratta teoresi, dalla ricerca metafisica del principio infinito e più prossimo alla vita concreta, all’esistenza determinata dell’individuo in quanto persona.

Non a caso la scrittura stessa non ha niente della classica prosa scientifico-filosofica.

Aut aut è invece una lettera ricca di metafore ed esempi di vita quotidiana e non, un’opera scorrevole che non suona ostica nemmeno ad un lettore della contemporaneità se non su alcuni punti.

Che dire infatti dell’esaltazione del matrimonio come necessaria tappa in cui si attua l’ideale del vivere etico? E della condanna di qualsiasi altro tipo di legame o sentimento amoroso che non si inquadri nei rigidi contorni di questo?

Appare invece di una democraticità quasi moderna la concezione etica che valorizza ogni uomo in quanto dotato di un particolare talento e capace di realizzare sé stesso attraverso il lavoro – «L’etica […] dice: ogni uomo ha un mestiere» – in opposizione alla visione aristocratica dell’esteta che gioca sul contrasto svilente individuo eccezionale/massa.

Spicca inoltre per bellezza e poesia la rappresentazione della donna come ancora di salvezza, come colei che è capace di riconciliare l’uomo al finito, alla temporalità e alla vita vera.

Angelica Rocca