Le pagine della nostra vita

Una storia d’amore ostacolata. Voto UvM: 3/5

 

 

 

 

 

Dal titolo originale The Notebook, Le pagine della nostra vita, è un film drammatico sulla storia d’amore tra due adolescenti conosciuti nell’estate dei primi anni 40.

La giovane protagonista Allie arriva nel North Carolina per trascorrere le vacanze nella villa di famiglia.

Qui si innamora del giovane protagonista Noah, suo coetaneo, ma di una classe sociale più bassa.

 

La famiglia di lei e la guerra li separano, ma con il tempo i due protagonisti si ricontrarranno nel posto dove si erano innamorati.

 

Il film è tratto da un romanzo di Nicholas Sparks.                                                                                                                                           Dalila De Benedetto

Chernobyl – La serie

Una serie destinata a diventare un classico. Voto UvM: 4/5

 

 

 

In onda su Sky Atlantic la miniserie Chernobyl, coprodotta da Sky UK e da HBO.

Chernobyl è una drammatizzazione degli eventi intorno al disastro nucleare che avvenne nell’omonima città, in Unione Sovietica, il 26 aprile 1986.

Negli Stati Uniti, dove è già andata interamente in onda, ha stregato critica e pubblico.

La serie è stata molto ben recensita, ha riacceso un certo interesse nei confronti dell’energia nucleare e in particolare di Chernobyl (le richieste per visitare l’area sono in netto aumento) e oggi ha il miglior voto di sempre sul sito IMDb (9,6 su 10).

Il primo episodio di Chernobyl si apre con una scena ambientata due anni dopo il disastro, con un discorso sulle bugie e sul loro costo.

 

Poi, l’espediente del flashback permette di tornare indietro a «due anni e un minuto prima» e già nei primissimi minuti del primo episodio vediamo l’incidente: in piena notte, all’una e 23 minuti e 45 secondi, esplode il reattore 4° della centrale nucleare.

Da lì in poi, la serie racconta soprattutto due punti di vista: quello degli eroi che, spesso inconsapevoli di quello che stava accadendo, cercano di capire e risolvere il problema, e quello di chi ha potere e cerca di nascondere la verità per non compromettere l’immagine dell’Unione Sovietica o per scaricare le responsabilità su qualcun altro.

L‘oggettiva potenza emotiva della storia racconta fin dal principio le cose per le quali è stata più apprezzata: la recitazione, la ricercatezza dei dettagli, la capacità di ricostruire e spiegare con efficacia comunicativa eventi complessi, la fotografia, la capacità di alternare diversi livelli di narrazione, in particolare quello delle vittime ignare e quello dei potenti consapevoli.

Il Guardian ha scritto che la serie sarà destinata a «diventare un classico».

 

Nonostante la miniserie sia co-prodotta da HBO, una società associata ad alcune delle migliori serie tv di sempre, questo successo è una sorpresa.

La lezione di Chernobyl è che non è l’energia nucleare moderna a essere pericolosa, ma le bugie, l’arroganza e la repressione delle critiche.

Le riprese sono durate 16 settimane e sono state fatte per la maggior parte in Lituania, in un quartiere periferico della capitale Vilnius. Successivamente si sono spostate alla centrale di Ignalina, oggi non più in funzione, che era nota anche come “la sorella di Chernobyl” per la sua somiglianza con l’impianto dell’incidente.

Si è parlato anche dell’attendibilità storica della serie, soprattutto in Russia, dove uscirà un’altra serie su Chernobyl che dovrebbe ipotizzare il coinvolgimento della CIA nel disastro.

Diversi giornali e programmi filo-governativi hanno pesantemente criticato la serie per il modo in cui è stata rappresentata l’Unione Sovietica e in particolare la gestione del disastro.

Sono state fatte tante analisi sull’accuratezza storica delle vicende mostrate dalla serie e dei personaggi.

La serie fa ovviamente delle semplificazioni, ma racconta una verità basilare, cioè che il disastro ebbe a che fare più con le bugie, con gli inganni e con il marcio sistema politico sovietico che con l’ingegneria.

Il nuovissimo successo, firmato ancora una volta HBO, non è dunque solo un caso televisivo, ma si intreccia con la vita e con lo svelamento delle verità scomode ma necessarie affinché l’umanità non ripeta certi errori.

Antonio Mulone

Mille splendidi soli – Khaled Hosseini

Una realtà bruta raccontata senza sconti. Voto UvM: 5/5

 

 

 

Mille splendidi soli è il secondo romanzo dello scrittore americano, di origine afghana Khaled Hosseini, scrittore del precedente bestseller Il cacciatore di aquiloni.

La trama del libro Mille splendidi soli è complessa e appassionante, dai tratti molto drammatici. Rivelatrice di una realtà bruta raccontata senza sconti. 

La storia è ambientata in Afghanistan, dapprima a Herat e poi a Kabul. I fatti narrati coprono un tempo molto lungo, dagli anni 70 al 2003. L’intento dello scrittorie è proprio quello di mettere in luce la difficile condizione della donna in quel Paese. dal momento in cui le guerre hanno cominciato a devastare dall’interno quel territorio. 

Il libro racconta proprio la storia di due donne, le cui esistenze dapprima separate e completamente differenti arrivano ad intrecciarsi inesorabilmente, legando il destino di una a quello dell’altra. 

Mariam, figlia illegittima di un ricco possidente di Kabul, il giorno del suo quindicesimo compleanno vede la sua vita sgretolarsi. La madre, Nana, una donna fredda e distante, pende impiccata da un albero della radura in cui si trova la loro casupola. Quando scopre della morte di Nana, il padre chiude la porta in faccia a Mariam per paura dei pettegolezzi che potrebbero nascere, ma allo stesso tempo decide per lei: andrà in sposa a un uomo molto più vecchio. E si trasferirà a Kabul. Rashid, il futuro marito di Mariam, è un uomo rozzo, violento, che la tratta al pari di uno straccio da utilizzare e poi mettere da parte, e lei non può far altro che sopportare.

A Laila, invece, la vita offre molto di più. Suo padre, un uomo di cultura, le permette di frequentare la scuola e punta sul suo futuro. Trascorre la sua infanzia assieme a Tariq, un ragazzino della sua età, un amico speciale, che poi sarà anche qualcosa in più. Ma l’Afghanistan non è più un posto sicuro, e le bombe cadono come foglie su Kabul. Così Tariq parte, lasciando Laila sola. E quando una bomba scende sulla sua casa, la sua vita fa una rapida sterzata.

A tirarla fuori dalle macerie sono i suoi vicini, Mariam e Rashid, che le offrono un tetto e del cibo caldo per rimettersi. Ma Rashid ha altri piani in mente e, dopo che un viaggiatore racconta a Laila della morte del suo amato, lui le propone di sposarlo. Laila non ci pensa nemmeno, e acconsente senza battere ciglio. I binari delle vite di Mariam e Laila s’intersecano così e si fondono, in vie accidentate. Rashid è un bruto, e loro le sue serve.

Laila però scopre di essere incinta di Tariq, che le hanno fatto credere morto.

Alla nascita della bambina Rashid si comporta in maniera violenta, perché desiderava avere un figlio maschio, ed è solo a questo punto della storia che le vite delle due protagoniste si intrecciano veramente, poiché le due donne decidono di scappare per non dover sottostare al potere del loro marito, ma la fuga non riesce e Rashid riesce quasi ad uccidere Laila e la bambina.

La trama del romanzo  Mille splendidi soli di  Khaled Hosseini si complica sempre di più con l’andare delle pagine, ci sono colpi di scena, violenze che si ripetono, speranze che si cercano dentro di sé e un coraggio che si evidenzia sempre con maggiore intensità fino alle ultime battute del libro.

Mille splendidi soli è un romanzo che valorizza l’amicizia e l’amore, che racconta la storia di un popolo sottomesso e di una guerra che porta distruzione.

                                         Giusi Villa

Se fosse tuo figlio – Nicolò Govoni

 

Dedicare se stessi agli altri. Voto UvM: 5/5

 

 

 

 

 

 

“Se non io, chi?
Se non ora, quando?”
La storia di un ragazzo, cui esempio ci insegna come realizzare i nostri sogni.

 

Già autore di “Bianco come Dio” (recensito qui), Nicolò Govoni torna con un nuovo libro: “Se fosse tuo figlio” pubblicato l’11 giugno di quest’anno ed edito Rizzoli.

Una storia vera fatta di profondo amore e resilienza ci accompagnano lungo il percorso di Nicolò, bellissimo e tortuoso, verso la realizzazione della sua missione.

 

Come già raccontato in altri libri, il ragazzo, oppresso da uno stile di vita preconfezionato e dal vuoto interiore, parte per l’India rurale. Qui i bambini di Davayavu Home si “insediano” nel suo cuore, insegnandogli ad amare.
Dopo la laurea adempie ad una promessa: ”Prendi l’amore che ti abbiamo insegnato e diffondilo nel mondo”.

Da qui ha inizio un’avventura piena di scelte difficili e coraggiose, dove numerosi sentieri si incontreranno su uno sfondo gelido che tornerà a rinascere.

 

Nicolò. 

Dopo quattro anni di Amore in India Nicolò torna a casa, brama di mantenere la promessa fatta ai suoi fratelli. “Diventerò il cambiamento” si ripete, ma l’Europa gli sta “un po’ più stretta”.
Non vede come poter concretizzare il suo sogno e, sulla linea stabilita tempo prima, decide di fare richiesta per una borsa di studio a New York.
Nel frattempo fa volontariato nell’isola greca di Samos.

L’hotspot. 

Ribattezzato Lager d’Europa, il campo non dispone di elettricità. I rifugiati sono costretti a vivere in container o in tende di fortuna nel bosco circostante.

I servizi igienici sono minimi e pile di rifiuti sono sparpagliate qua e là.
La capienza arriva a un massimo di 600 persone ed è largamente superata dalla cifra di 4000 rifugiati. Questo impedisce un normale accesso ai servizi essenziali come le cure mediche e l’alimentazione.

Le condizioni di vita insostenibili generano continue risse.

“Non è in Siria o nelle moschee d’Europa che si coltiva il terrorismo, ma in campi come questo, dove le persone perbene, spaventate, vulnerabili vengono trattate come criminali, dove le loro identità vengono spazzate via giorno dopo giorno.”

I Dreamers. 

Nicolò non tollera i traumi che il campo infligge ai bambini.
Insieme a Sarah, una volontaria come lui, creano la classe dei Dreamers restituendo loro il diritto all’istruzione e un po’ di tranquillità nelle ore del mattino.

Intanto riceve una notizia: gli è stata assegnata una borsa di studio per un’università di New York. Il sogno che ha fin da bambino è ora a portata di mano: che fare? Come abbandonare adesso quei bambini che hanno bisogno di lui?
Nicolò resta. Resta per loro, per i suoi Dreamers.

“La classe ascolta ma, quando viene il momento di ricopiare le lettere sulla carta, realizzo che alcuni di questi bambini sono incapaci anche solo di tenere in mano la matita. Mi trovo davanti a una generazione di potenziali scienziati, artisti, dottori e ingegneri. Il pensiero che i loro talenti possano finire sprecati mi spezza il cuore.”

Via via l’operato di Nicolò diventerà sempre migliore fino a fondare Mazì, la prima scuola per bambini rifugiati.
Qui vengono insegnati inglese, greco, biologia, geografia, storia, cultura europea, musica, arte, falegnameria, danza e informatica.

L’incontro. 

In questo meraviglioso percorso la stella più in alto è forse rappresentata da Hammundi, un bambino rifugiato che ha perso la sua famiglia.

Hammundi è arrivato in Europa con lo zio e le sue cugine fuggendo dalla guerra.
I traumi si sommano lungo la sua piccola vita: la morte del padre, i bombardamenti, la fuga in Turchia e l’orribile traversata in mare.

Il campo non lo risparmia facendolo cadere nella trappola del fumo e dell’autolesionismo.

Nicolò non riesce a restare a guardare. Lo integra nella classe dei Dreamers prima e denuncia alle autorità la violazione dei suoi diritti poi.

Qui emerge tutto il marcio del sistema, comprendente l’amministrazione dell’hotspot, le grandi ONG e il governo greco.

Numerosi sono i report e le pressioni fatte dal giovane, ma dall’altra parte solo silenzio.

Il libro vuole fungere da denuncia nei confronti di tale indifferenza citando i responsabili, affinchè chi è lontano possa vedere e conoscere le problematiche che affliggono ogni giorno il piccolo universo del campo Samos.

Perchè acquistare questo libro?

 

 

Se credete che questo libro racconti una storia di volontariato vi state sbagliando.
Molto più semplicemente si tratta di una storia di persone vere, che hanno affrontato gli stessi dubbi e che hanno vissuto le stesse speranze che potremmo vivere noi.

La lettura non può che arricchirci, in quanto non finiremmo che conoscere un po’ noi stessi.

È la storia di qualcuno che ce l’ha fatta, e che puoi insegnarci cosa vuol dire amare il proprio sogno fino ad essere folli.

Il ricavato della vendita del libro sarà utilizzato per costruire una scuola per bambini profughi in Turchia.

Angela Cucinotta

Serafino Gubbio nell’era della usability

Denuncia pirandelliana contro l’imperante alienazione tecnologica. Voto UvM: 4/5

 

 

 

È uno dei romanzi pirandelliani meno noti al grande pubblico, anno di pubblicazione 1951: “I Quaderni di Serafino Gubbio operatore”.

Eppure il lettore moderno, a distanza di più di cento anni, non può fare a meno di considerarlo estremamente attuale, vedendo tratteggiata nella storia di un operatore cinematografico temporalmente lontano la relazione che ogni nativo digitale del XXI secolo instaura con i propri strumenti tecnologici.

“La mia mano obbediva impassibile alla misura che io imponevo al movimento, più presto, più piano, pianissimo, come se la volontà mi fosse scesa – ferma, lucida, inflessibile – nel polso, e da qui governasse lei sola, lasciandomi libero il cervello di pensare, il cuore di sentire;”.

Era un bravo operatore Serafino Gubbio, preciso, competente, eccessivamente zelante, avrebbe continuato sempre a girare la sua manovella, qualsiasi cosa fosse successa.

Svolgeva il suo compito con quella carica di impersonalità e freddezza che lo legavano indissolubilmente alla macchina da presa, divenuta il “prolungamento del suo braccio”.

Vi ricorda forse qualcosa questo prolungamento? Ma la macchina non lo lasciava, si era impossessata di lui, lo aveva reso un automa incapace di distinguere tra vita e finzione, spettatore inerme e passivo della realtà registrata silenziosamente come fosse un artificio.

Proprio questo rovesciamento del rapporto tra oggetto e soggetto, tra uomo e macchina, appare terribilmente moderno.

“Fu profetico, un secolo fa Pirandello coi suoi Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Quel legame ambiguo e estremo con la macchina, e la confusione tra vero e virtuale ci riguardano molto da vicino. Anzi troppo, da vicino.”

Lo scrive la giornalista e scrittrice Elvira Seminara, che chiarisce efficacemente le modalità e i rischi connessi al largo ricorso alla “usability”, imperante nell’era del web. Secondo la norma ISO, la più importante Organizzazione Internazionale per la Standardizzazione, bisogna intendere con il termine usability il “grado in cui un prodotto può essere usato da particolari utenti per raggiungere certi obiettivi con efficacia, efficienza e soddisfazione in uno specifico contesto d’uso”.

Apparentemente irrilevante, la usability incide profondamente sulla relazione sempre più intima e solida intrecciata con le nostre macchine, che ci dominano ed influenzano in un vicendevole scambio per cui “le usiamo e ne siamo usati”.

Il tipo di legame basato sulla usability è in fondo lo stesso già intuito un secolo fa da Pirandello, efficace, semplice, ma distruttivo, capace di rendere Serafino Gubbio indifferente a tutto, persino alla più atroce violenza.

Per comprendere quale importanza rivesta la usability nella nostra vita quotidiana, basta ricordare che in molte riviste è indicato sopra l’articolo anche il tempo di usability, cioè i minuti che servono per leggerlo, come se l’uso e la qualità del tempo non fossero una scelta personale.

Social dilaganti come Facebook rivelano il dominante controllo psichico esercitato da macchine intelligenti quali smartphones e computers, che non solo interagiscono con noi, ma irrompono persino nella nostra vita privata, indagano sulla nostra personalità, sui nostri desideri, sulle nostre abitudini. Attratti e dipendenti da esse, veniamo apaticamente addomesticati e privati di libertà e spontaneità, in cambio di serenità illusoria e visibilità.

Cediamo inconsapevolmente ad esse parte della nostra umanità e personalità, che vengono ingoiate senza pietà come accadde alla vita e alla voce tristemente spezzata di Serafino Gubbio.

E forse oggi, la società tecno-liquida, dominata da macchine avanzate e pronte a sostituirci, sta rispondendo all’angosciante dubbio espresso da Serafino: “La macchinetta – anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé.”

Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere.”

Giusy Mantarro

C’eravamo tanto amati – Ettore Scola

 

Un racconto dolceamaro dell’Italia all’indomani della Resistenza. Voto UvM: 5/5

 

 

 

 

Italia del dopoguerra.

Antonio lavora come portantino in un ospedale di Roma e nel tempo libero milita nei partiti di sinistra, Nicola è un insegnante di provincia e appassionato di cinema e trova in quest’ultimo la migliore arma politica, Gianni è invece tirocinante in uno studio legale della capitale.

Cosa accomuna questi tre personaggi dal retroterra così diverso? La passione per Luciana, aspirante attrice, ma ben più significativa l’amicizia maturata combattendo fianco a fianco nei giorni della Resistenza.

I tre si ritroveranno tutti assieme quasi trent’anni dopo quando ormai lo scenario nazionale è ben cambiato e gli alti ideali di rivoluzione sociale si sono ormai scontrati col muro della dura realtà quotidiana.

 

 

Se le vite dei primi due non hanno subito grandi rivolgimenti, quella di Gianni è stata la tipica parabola del self made-man, del giovane avvocato che si avvia alla carriera con la speranza di essere diverso dagli altri, salvo poi rivelarsi anche peggio e trasformarsi nel nemico per cui i tre avevano tanto combattuto in passato: un padrone.

In C’eravamo tanto amati la microstoria, quella dei nostri personaggi, si intreccia alla macrostoria, quella delle vicende nazionali ( la resistenza, la liberazione, gli anni del dopoguerra con i cambiamenti politici ed economici), nonché a quella che ormai è la storia del cinema italiano, che il regista omaggia con vari riferimenti.

Notevoli a questo proposito i cameo di Marcello Mastroianni, Federico Fellini e Vittorio de Sica, a cui la pellicola è dedicata. Scola si distacca però dal padre del Neorealismo per diversi aspetti.

Gioca innanzitutto col passaggio dal bianco e nero al colore per raccontare lo scorrere del tempo.

Ferma l’azione per svelare i pensieri dei personaggi e fa parlare questi con lo spettatore proprio come accade a teatro.

Ciò gli è permesso grazie alla bravura magistrale di attori come Nino Manfredi, Aldo Fabrizi, Stefano Satta Flores e un impareggiabile Vittorio Gassman.

 

 

Una satira amara dai dialoghi brillanti sul naufragio del sogno di un’Italia diversa, sulla cultura in mano al perbenismo dominante, su tanta sinistra che stenta a decollare perché frammentata da polemiche sterili e lotte interne, impegnata a fare a botte mentre il ricco si abbevera beato alla fontana del benessere.

Ma …“ il vero nemico sono io- dice Gianni- con me ve la dovete prendere!” Il vero nemico è il fascismo che ancora resiste, che si nasconde dietro l’ombra del sopruso e della corruzione e grida “Io nun Moro”.

Se Gianni e Nicola – il ribelle imborghesito e il radical chic- rappresentano il fallimento degli ideali della Resistenza, una speranza è forse riposta nell’uomo comune, Antonio, nelle rivoluzioni quotidiane scandite dalle note della splendida colonna sonora di Trovajoli.

 

 

Ma forse anche nel cinema, capace di rispecchiare più di ogni altra cosa lo spirito del tempo.

Angelica Rocca

 

Lolita – Vladimir Nabokov

Un libro che ami o che odi, non ci sono vie di mezzo per Lolita. Voto UvM : 5/5

 

 

 

 

Lolita, la ninfetta che fa perdere la testa professor Humbert.

Non appena pubblicato, il libro creò subito scandalo per via della storia che lega i nostri due protagonisti: un uomo maturo innamorato di una bambina di soli 11 anni. Tutto questo va oltre la morale che lega ogni essere umano.

Humbert farà di tutto per avere la sua giovane fanciulla.

Quest’opera ci fa entrare dentro la mente di un pedofilo e capiamo che questa è una malattia orribile, ma è un’azione involontaria; il lettore prova disgusto ma allo stesso tempo compassione verso il professore.

L’autore, Vladimir Nabokov, ci fa comprendere che l’amore è l’entità più strana al mondo e ti porta a fare cose fuori dall’ordinario andando contro la società in cui vivi.

Ed è proprio il lettore il giudice di questo libro.

                                             Alessia Orsa

Frida Khalo – Una biografia di Frida Khalo.

L’icona femminile più misteriosa e amata di sempre. Voto UvM: 5/5

 

 

 

 

Chi è stata veramente Frida Kahlo? Sicuramente vi sarà capitato di sentir parlare di lei. Frida era la “tipica” donna affascinante, amata da Picasso, Breton, anche da Hollywood…

Hayden Herrera, storica dell’arte, la racconta (Frida Khalo – Una biografia di Frida Khalo, Neri Pozza Editore, pag 416, €18): passioni, dolori, l’arte, l’amore nei suoi dipinti, uno sguardo di un icona femminile più misteriosa ed amata di sempre.

Nata nel 1910 a Coyoacan, precisamente in Messico, la nostra Frida a 18 anni è vittima di un incidente stradale, ma la sua esistenza fu segnata oltre che dalle cicatrici, sopratutto dall’arte pura: oltre alla pittura tradizionale dell’800 dei retablos messicani, la sua ispirazione si basava su Bosch, Bruegel, uomini più importanti del suo periodo.

Nel romanzo, la Herrera,  si sofferma proprio sulla sua sofferta ricerca artistica, ma anche sulla passione amorosa e politica, trasposte tutte sulle sue tele, autoritratti e nature morte sensuali.

Dipinti visionari, ossessivi, antropomorfici, “frutto della doppia personalità di Frida”.

Leggendo ,il lettore può capire fin da subito come questa donna poteva essere  candida ma al tempo stesso feroce o ricca di senso dell’umorismo.

 

 

Ma, nonostante tutto, sofferenze incluse, questa  straordinaria pittrice riusciva a far sorgere il lato positivo ed è con questa frase che inizia a raccontare della sua più grande storia d’amore.

 

Frida Khalo – Una biografia di Frida Khalo un coinvolgimento di storie, testimonianze, lettere, pensieri, eventi, appassionando il lettore sempre di più alla scoperta di una lettura ricca di scoperte e misteri.

La Herrera, riesce a descrivere Frida in un modo perlopiù unico nel suo genere: il suo approfondire sui dipinti, sui cambiamenti che l’hanno resa quest’icona di stile e vita. Una lettura intrigante, Frida Khalo – Una biografia di Frida Khalo è adatto a chi ama le biografie ma anche per chi vuol conoscere il mondo di una donna forte, originale diversa, ma sopratutto l’icona dell’arte.

Carmela Caratozzolo

Il Trono di Spade, The Last Season

La più attesa delle stagioni, ma non la migliore. Voto UvM: 4/5

 

 

 

 

 

 

 

Indubbiamente la stagione più attesa di tutta la saga e di conseguenza la più carica di aspettative da parte dei fan di tutto il mondo.

Il trono di spade infatti è una serie che esiste dal 2011 e vanta milioni di spettatori in tutto il mondo, i quali dal 15 aprile di quest anno erano tutti davanti la tv ad aspettare i classici colpi di scena targati hbo.

Io dal canto mio sapevo che essendo una stagione conclusiva e mancando la penna di George Martin a intrecciare i filoni narrativi non sarebbe stata un granché.

 

 

Tra l’altro fra serie tv e ultime stagioni a mio avviso non scorre buon sangue, basti pensare a Scrubs, How I Met Your Mother, Westworld, Mr Robot e chi più ne ha più ne metta.

Detto ciò, qui abbiamo solo sei episodi della durata di un’ora , un’ora e mezza che teoricamente dovrebbero risolvere domande, dubbi e perplessità circa le più svariate questioni di Westeros che ci portiamo dietro da anni.

I primi due episodi li definirei ‘carini’, nel senso che sono il prologo alla battaglia della terza puntata in cui tutti pensano di andare a morire e quindi via coi sentimentalismi.

Ci sono scene molto belle, come Brienne di Tarth proclamata cavaliere da Jaime davanti al camino di Grande Inverno, o lo scambio di battute tra Arya e il Mastino sui bastioni delle mura.
Altre scene invece molto banali, come quelle di Jon e Daenerys nata dalla tempesta, regina di questo e di quell’altro, ma che nonostante questo non riesce a ricavarsi un attimo di tempo per dare un bacetto a Jon Snow col dovuto pathos.

Cosi arriviamo al terzo episodio, la battaglia con gli Estranei: un’ora e mezza di ansia.

E qui la prima considerazione riguarda una pessima gestione dei draghi, che avrebbero potuto avere un ruolo cruciale e invece svolazzano tranquilli tra le nuvole manco fosse un film di dumbo.

L’inverno è decisamente arrivato e i primi ad avvertire qualche brivido scuotente sono i poveri Dothraki che muoiono tutti nel giro di un nanosecondo, nonostante Melisandra abbia dato il fuoco (e non a fuoco) a tutte le loro spade in stile Berik della Fratellanza.

 

 

Pensavo che questa mossa poco originale ma efficace, avrebbe consentito ai cari Dothraki di durare qualche minuto in più, arrostire qualche Estraneo tanto per dire ‘Ehi ci siamo anche noi’ … e invece no.

A parte queste piccole défaillance, a cui si associa l’inutilità di Jon Snow che non riesce a tirare neanche uno schiaffo per sbaglio al King della Notte, il resto dell’episodio è un capolavoro di fotografia e sceneggiatura, le colonne sonore scelte a pennello partono con un tempismo impeccabile.

Ma quello che mi ha conquistato è stato il gioco di sguardi tra Bran e il Re della Notte nel finale, davvero emozionante.

Un minuto dopo arriva la banalità di Arya a interrompere la magia del momento: il povero Re della Notte al posto di fare qualcosa di epico, (tipo inchinarsi davanti a Bran o qualunque altra cosa), si smaterializza sotto il colpo mortale della ragazzina, che mostra un talento fuori dal comune nella disciplina del salto in alto.

Ora che il pericolo degli Estranei non esiste più, tutta l’attenzione è rivolta verso il Trono di Spade.

C’è questo piccolo problema che ora Jon è un Targaryen e quindi avrebbe più diritto della Regina dei Draghi a prendere il Trono. Ma ovviamente questo è motivo di forte disappunto per Daenerys, che con molta nonchalance e un solo drago improvvisamente arzillo risolve tutti i suoi problemi (coniugali e non) dando fuoco ad Approdo del Re e a tutti i suoi abitanti.

Il giorno dopo il barbecue è tutto coperto di cenere simil neve, ma l’elemento più eclatante è rappresentato dai dieci minuti di carattere di Verme Grigio, che appena ricevuta la carica di Maestro della Guerra assume un tono minaccioso.
Evidentemente si emoziona e decide che è arrivato il momento per allontanarsi finalmente dall’inerzia che muove le sue decisioni.

Ma questo hype dura il tempo di cinque minuti, fino a quando non ripensa a Missandei e dunque decide di stabilirsi a Naath con tutti i suoi Immacolati.

Migliaia di uomini addestrati a uccidere senza esitazione, che ora suppongo si ritroveranno a coltivare lattughe.

Ad ogni modo, non è la migliore tra le stagioni del Trono di Spade e non è ricca dei colpi di scena e delle situazioni ‘scomode’ a cui siamo abituati.

Il mio consiglio è di guardare questi episodi in maniera un pò più disinteressata, mettendo da parte aspettative e pronostici.

Giulia Garofalo

I fratelli Sister

Il western non è morto. Voto UvM: 3/5

 

 

 

Fin dal titolo, che richiama il nome “di battaglia” dei due protagonisti, il nuovo film di Jacques Audiard tocca le corde dei rapporti familiari.

Lo fa evidenziando il portato ironico del cognome, Sisters, intrepretati da John C. Reilly e Joaquin Phoenix, una coppia di famigerati e scombinati fratelli assassini dell’Oregon, assoldati da un Commodoro, impegnati a seguire a distanza un investigatore privato un po’ depresso, John Morris (Jake Gyllenhaal).

 

 

Da buon autore cinefilo, Audiard ribadisce quanto sia ancora vivo e vivido il western, e lo fa a partire da quelle che sono state nel corso dei decenni considerate le fasi pionieristiche del genere, da Anthony Mann, a Clint Eastwood a Tommy Lee Jones, tenendo nella mente e negli occhi anche materiale non strettamente western, com’è la l’arte visiva di Paul Thomas Anderson.

Pieno di humor nero e di profondità insospettabili, di caratteri truculenti e avventure memorabili, il western di Audiard riprende i codici del genere per deviarli come un treno impazzito nell’America della corsa all’oro.

In realtà, dopo una lunga parentesi da cercatori d’oro, la storia indaga, nella maniera più complessa possibile, la vita dei Sisters Brothers, dalle profonde contraddizioni che li uniscono, valicando il legame di sangue legato ai rimpianti dell’adolescenza, al what’s next di una condotta il cui esito non potrà che essere la morte o l’essere braccati a vita.

 

 

Momento chiave per la comprensione dei personaggi, è quello del sogno di Eli, che rievoca l’uccisione del padre da parte del fratello Charlie come se fosse uno spettacolo di ombre cinesi.

Racconto che mette alla prova le identità dei suoi protagonisti, le fa vacillare, ne mette in discussione la mascolinità oltre che la maturità; racconto che mina continuamente la necessità di agire fuori dalla legge, o ai suoi margini, a servizio di un padre putativo spietato avendo fatto fuori quello naturale.

I Sisters non sono gli unici ad aver rescisso dalla propria vita la figura paterna, anche Morris e Kermit confessano di aver rotto ogni rapporto con la famiglia d’origine.

Da loro due, svuotati, sradicati, transitano le ipotesi di una società diversa, utopica, antitetica rispetto a quella in cui si muovono i brothers.

Il western non è morto, viva il western.

 

Antonio Mulone