Conclave: un thriller filosofico-politico sulle debolezze umane

Conclave, un un thriller filosofico e politico sulle debolezze umane. Voto UVM: 5/5

Il regista tedesco Edward Berger, dopo il successo di Niente di nuovo sul fronte occidentale, torna a raccontare l’essere umano e le sue debolezze. Ma se nella pellicola vincitrice di 4 Oscar, la guerra faceva da sfondo, in Conclave è il mondo ecclesiastico ad essere protagonista.

Morto un Papa…

La sede pontificia è vacante, il Papa è morto e i cardinali devono riunirsi il più presto possibile in conclave per eleggere il nuovo pontefice. Ad assicurarsi che tutto proceda secondo la volontà di Dio è il Decano britannico Thomas Lawrence, che presto si renderà conto di quanto ben poco di divino ci possa essere dentro un conclave. A contendersi la guida del Vaticano ci sono diversi cardinali, tutti espressione di una diversa visione della Chiesa. L’italiano ultraconservatore Goffredo Tedesco, il progressista Aldo Bellini, l’africano Joshua Adeneya e l’americano Trembley sono i pretendenti al sacro scranno papale. Sullo sfondo anche lo sconosciuto cardinale sudamericano Vincent Benitez, ordinato in pectore dal Papa in persona mentre era in istanza a Kabul.

Conclave Regia: Edward Berger Distribuzione: Eagle Pictures

Conclave: uno scontro umano e politico

Berger, nell’adattamento del romanzo da cui è tratta la sua pellicola, non risparmia pesanti critiche alla Chiesa. In un contesto sociale in subbuglio, in una Roma assediata dalle bombe, il regista tedesco ci racconta di un conclave animato da strategie politiche e visioni contrastanti. Alcuni cardinali sono pronti a tutto pur di diventare Papa, e il Decano Thomas Lawrence interpretato magistralmente da Ralph Fiennes si troverà ben presto a dover fare i conti con una realtà fatta di essere umani. E come ogni essere umano, anche i cardinali non mancano di segreti, di pensieri e di peccati. D’altronde il papato è anche una figura politica, e i cardinali fanno politica in nome della loro visione di Dio e della Chiesa. Conclave non perde occasione per mostrare i conflitti e le contraddizioni dei cardinali e nel farlo ci pone spesso dei quesiti filosofici.

Quale futuro per la Chiesa?

Ad essere conteso non è solo il ruolo di Papa, ma è anche e soprattutto il futuro della Chiesa. Conclave infatti ci racconta lo scontro filosofico e teologico che da secoli coinvolge la Chiesa e che nel nostro secolo sembra più forte che mai. I fedeli diminuiscono sempre di più, lo scontro di religioni ha raggiunto Roma e i cambiamenti sociali che investono la società non possono più essere ignorati. Quale futuro allora per la Chiesa? Ritornare ad un passato conservatore di protezione o aprirsi alla società contemporanea e ai suoi cambiamenti? Il susseguirsi della votazione e delle fumate nere portano con sé un crescendo di tensione emotiva che tiene il fiato sospeso.

Un cast eccezionale che muove la pellicola

La forza di Conclave sta tutta nel suo eccezionale cast. Accanto ad un magistrale Ralph Fiennes, troviamo Stanley Tucci che interpreta il cardinale progressista Bellini e Sergio Castellitto che dà vita al cardinale italiano ultraconservatore Tedesco. John Litgow nei panni del cardinale Trembley e Isabella Rossellini nei panni di suor Agnes completa un cast d’eccezione che muove e che dà forza alla pellicola di Berger. Sono infatti le interpretazioni a caratterizzare umanamente i cardinali e loro idee e a mostrarci la loro visione della Chiesa. Il contrasto e il confronto nel conclave sono prima di tutto umani, e le varie interpretazioni si muovono all’unisono convincendo e creando quella tensione emotiva che accompagna tutta la pellicola.

Conclave Regia: Edward Berger Distribuzione: Eagle Pictures

Conclave, un finale forse troppo politically correct

Come in Niente di nuovo sul Fronte Occidentale, anche in Conclave il reparto tecnico è eccezionale. Una splendida fotografia e una potente colonna sonora evocativa accompagnano lo spettatore tra i corridoi vaticani e nelle riflessioni dei cardinali. Ancora una volta Berger non lascia niente al caso realizzando un’opera che sul piano tecnico è quasi magistrale. Ma se sul lato tecnico la pellicola non ammette alcuna critica, la scrittura del film è forse la parte dove il regista avrebbe potuto osare di più. Scegliendo di rimanere fedele all’opera letterale da cui è tratta la sceneggiatura, Berger confeziona un finale forse fin troppo politically correte dove manca il coraggio di osare con la stessa forza con la quale è mossa la critica alla Chiesa.

Un thriller filosofico e politico che convince

Nel complesso Conclave è un thriller filosofico e politico che convince. Tra misteri e segreti le solide interpretazioni e la storia raccontata creano una tensione emotiva continua nello spettatore e creano numerosi quesiti filosofici al cui sicuramente ciascuno darà una propria risposta. La pellicola di Berger, pur schierandosi apertamente in una critica non troppo moderata verso gli esseri umani che reggono la Chiesa, non cade nella facile demonizzazione della stessa mostrandoci che al suo interno ci sono diverse scuole di pensiero. Sta poi allo spettatore decidere quale abbracciare, tenendo sempre presente che le divisioni non portano mai a nulla di positivo.

 

Francesco Pio Magazzù

La guerra dei Rohirrim: si torna sempre dove si è stati bene

Rhoirrim
questo film d’animazione in stile anime da un lato rincorre l’epicità dei film di Peter Jackson, dall’altro cade sotto i colpi di una narrazione non sempre eccellente e di un’animazione a dir poco scadente. – Voto UVM 2/5

Tornare dove si è stati bene non è sempre facile, e La guerra dei Rohirrim ne è stata la prova. lo sa Frodo Baggins, tornato nella Contea dopo un viaggio che lo ha cambiato indelebilmente, e lo sa chi ha salutato per l’ultima volta la Terra di Mezzo nel 2014, quando nelle sale uscì Lo Hobbit: La battaglia delle cinque armate. Da allora forse anche noi siamo cambiati, scossi dalla bellezza di quei film, tanto che i tentativi di ritornare nell’universo creato dal professor J.R.R. Tolkien, non sono sempre riusciti nel loro intento di coinvolgerci in nuove storie. Ce lo ha insegnato la controversa serie tv Gli anelli del potere, ce lo conferma questo film d’animazione in stile anime che da un lato rincorre l’epicità dei film di Peter Jackson, dall’altro cade sotto i colpi di una narrazione non sempre eccellente e di un’animazione a dir poco scadente.

Sinossi

La nostra storia prende spunti da alcune appendici scritte da Tolkien per approfondire l’epopea di Helm Mandimartello, nono sovrano del regno di Rohan; un racconto mitologico dunque, che viene arricchito dalla storia di Héra e del suo coraggio nel guidare la resistenza del popolo di Rohan contro i selvaggi Dunlandiani, desiderosi di impossessarsi del trono; tra questi vi è Wulf, amico d’infanzia della protagonista che adesso brama il trono di Rohan e per ottenerlo chiede proprio la mano di Héra. Un’escalation di eventi che ci conduce verso un conflitto su ampia scala, che porterà la protagonista a caricarsi del peso della sua stirpe e del destino del suo regno.

Rohirrim
Héra ne La Guerra dei Rohirrim – © New Line Cinema

La Guerra dei Rohirrim tra alti e bassi

Sulla carta i personaggi di questo racconto mitologico sono tutti interessanti e molti spettatori sicuramente apprezzeranno il buon miscuglio tra fantasy e intrigo politico, unito all’epicità delle battaglie campali. L’approfondimento dei personaggi però non è del tutto convincente, colpa anche della trama che punta su un ritmo più incalzante. La conseguenza è che le scelte, sia dei protagonisti che degli antagonisti, risultano sovente incomprensibili e prive di razionalità per un’avventura piuttosto densa di avvenimenti ma che avrebbe dovuto bilanciare meglio ritmo e approfondimenti dei personaggi.

Rohirrim
La corte di Helm ne La Guerra dei Rohirrim – © New Line Cinema

La Guerra dei Rohirrim: una tecnica altalenante

Il problema principale di questo film, inutile girarci intorno, sono le animazioni gravemente insufficienti e lontane anni luce dalle vette recenti (Spider-Man: un nuovo universo, Arcane o Il gatto con gli stivali 2, n.d.s.). Questo freno tecnico non solo limita la recitazione dei personaggi (movimenti essenziali e legnosi, mimica facciale approssimativa), ma inibisce tante potenzialità espressive di una storia che avrebbe tutte le carte in regola per emozionare, ma che raramente ci riesce . La regia di Kenji Kamiyama pertanto rimane anonima e senza spunti memorabili.

Spezziamo una lancia in favore del comparto artistico. Costumi, sfondi mozzafiato, ambientazioni e armi sembrano davvero provenire dalla trilogia jacksoniana. Le musiche, che riprendono molto quelle del film Il Signore degli Anelli: le due torri, rimangono più che sufficienti per supportare ciò che viene mostrato dalle immagini.

Rohirrim
Héra e Wulf ne La Guerra dei Rohirrim – © New Line Cinema

Il futuro dei Rohirrim

Può preoccupare il fatto che i nomi coinvolti nella sceneggiatura o nella produzione sono proprio quelli di Peter Jackson, Philippa Boyens e Fran Walsh, gli artefici delle due trilogie dedicate alla letteratura del professor Tolkien che si occuperanno anche dei progetti di prossima uscita, come il già annunciato film live-action The Hunt for Gollum. É emerso che Warner Bros. ha investito solo 30 milioni di dollari sul film, velocizzando poi la lavorazione dell’anime per garantire che New Line Cinema non perdesse i diritti sui romanzi di Tolkien, facilitando la spiegazione dell’ insuccesso di questa pellicola. Queste notizie ci lasciano con un po’ di amaro in bocca per ciò che questo film d’animazione sarebbe potuto essere e che purtroppo non è stato. Non ci resta dunque che sperare in un altro viaggio nella Terra di Mezzo.

 

Pietro Minissale

Tropico Del Capricorno, la vacanza mondana di Guè.

Un Album non esaltante, ma comunque posizionato bene tra gli ultimi successi di Guè. Voto UVM 3/5

Esce oggi l’ultimo progetto discografico del rapper Guè, Tropico Del Capricorno, titolo che fa subito pensare al freddo e alla stagione in cui siamo ormai inoltrati. Ci ha voluto, forse, il gentleman del rap introdurre alla sua vacanza invernale?

Il vento dell’Inverno

Veniamo da una serie di album pregni di gangsta-rap e barre distribuite magistralmente su basi old-style create ad’opera d’arte che sono riuscite a risultare sempre accattivanti e attuali. Già da prima dell’annuncio, Guè ci aveva lasciato con grandissime aspettative sul prossimo progetto solista dopo il grande ritorno con i Dogo. Copertina e titolo non hanno potuto far da meno, un titolo e una grafica di un’eleganza imponente.

Tropico Del Capricorno. Copyright: Universal

Tropico Del Capricorno: featurings e brani

Guardando la tracklist troviamo diversi nomi, riconfermati come alcune delle collaborazioni preferite del rapper, da Rose Villain, a Geolier, Ernia e Frah Quintale, e altre sperimentali a dir poco inaudite. Possiamo trovare Artie 5ive, Ele A, Tormento, Chiello. Sembra strano trovare questi featurings variegati, sapendo che non si tratti di un producer album. Esso è un segno evidente di come a Cosimo Fini non sia importato questa volta di seguire al 100% la stessa strategia creativa degli ultimi successi, lasciando spazio a diversi sound della scena attuale italiana. I titoli delle canzoni lasciano intendere che l’album sia più che altro incentrato sul rapporto con il femminile, ovviamente mondano, del rapper. Oltre alla presenza extra di un nuovo capitolo della serie di brani intitolati La G, La U, La E.

In Svizzera con Guè

All’avvio dell’album siamo accolti da nientedimeno che un sample di Pino Daniele, che sembra cadere a fagiolo a commemorare il bluesman napoletano, quest’anno il decimo dalla scomparsa. Oh Mamma Mia è l’inizio della festa a cui Guè ci ha invitati, e per tutto l’album sentiamo il motivo per cui non siamo a sorseggiare Batida de Coco al tropico del Cancro, ma siamo a Ginevra o a Monaco in qualche casinò. Ascoltare le basi dell’album è come lasciare la finestra del casinò socchiusa mentre fuori c’è la tormenta, e ovviamente in sala Guè si fa versare il brandy on the rocks da tre o quattro tipe a tempo di cassa e rullante.

La riconferma dell’Old School anche in Tropico

La presenza degli scratchs non è da sottovalutare. Guè è abbastanza imprevedibile sulla scelta del tipo di base, avendo sempre alternato produzioni completamente moderne ad altre che si affidavano più al boom-bap come negli ultimi album. La scelta di mantenere questi abbellimenti, e lasciare spazio ai deejays, è sempre ben accolta da tutti i fan, ormai. Alcuni brani, specie Nei tuoi Skinny con Frahriprendendo sound ancora più vecchi dei sample anni 80 e 90 delle altre canzoni, forse anni 50 addirittura, ci fanno sognare e riportare ai primi lavori dei dogo ed anche alla fase più rap-reggae del gruppo, costituendo un gran bel viaggione sonoro.

Giusto il paragone con gli altri album?

Dopo aver concluso l’ascolto possiamo sommariamente dire che Tropico del Capricorno sia sicuramente un album meno potente rispetto a un Madreperla o un Fastlife, o a un Guesus, ma sicuramente lontano dall’oblio lirico che ha colpito il nostro Gentleman circa 10 anni fa. E’ probabile che Guè volesse prendersi una pausa dalla scrittura impegnata degli ultimi anni, comprensibile dopotutto. Tropico del Capricorno resta dunque un buon progetto, da ascoltare per staccare la mente dalla tormenta che c’è fuori.

 

Giovanni Calabrò

 

Grendizer U: un ritorno in pompa magna

Grendizer U debutta in Italia coi primi quattro episodi. Voto UVM: 4/5

Era il lontano 1975 quando, dal Giappone, arrivò sugli schermi italiani un personaggio destinato a diventare un simbolo per un’intera generazione: UFO Robot Grendizer, in Italia meglio noto come “Goldrake“. Oggi, a distanza di cinquant’anni, quello stesso personaggio ritorna in tv con una nuova serie remake del 2024, prodotta dallo studio Gaina e adattata in italiano dalla Rai, intitotolata Grendizer U. Diamo quindi il bentornato a Duke Fleed, principe del pianeta Fleed, e al suo leggendario robot.

Le origini di Grendizer

Sebbene UFO Robot sia stato uno dei primi anime (ossia i cartoni giapponesi) a venire trasmesso in Italia, esso è, in verità, la conclusione di una lunga trilogia, iniziata pochi anni prima con un’altra serie divenuta iconica, Mazinga Z, e proseguita poi con Il Grande Mazinga; tutti e tre questi robot sono stati partoriti dalla mente di un autore storico per gli appassionati di fumetti e serie giapponesi, ossia il maestro Go Nagai, creatore di serie e personaggi che hanno fatto la storia dei manga e degli anime (come Devilman, una delle sue opere più famose). Con questo trittico di eroi, il maestro Nagai riuscì a creare un intero filone narrativo, destinato a trovare fortuna nei due decenni successivi: sono i cosiddetti “super-robot“, termine col quale si indicano quelle storie in cui una potente macchina difende l’umanità dagli attacchi di giganteschi mostri.

Il maestro Nagai e Grendizer
Il maestro Nagai e Goldrake- fonte: Corriere della Sera

La trama originale…

La storia originale di Grendizer è in realtà molto semplice: Duke Fleed, principe del pianeta Fleed, scappa dalla sua patria, devastata dalle malvagie armate del Re Vega. Nella fuga, il principe esule porterà con sé una formidabile arma, sulla quale le armate di Vega volevano mettere le mani per soggiogare l’intero universo: il temibile robot chiamato Grendizer. Nel suo viaggio tra le stelle, Duke si schianterà sulla terra, dove sarà adottato dal professor Umon (o dottor Procton, nell’adattamento italiano), dirittore di un centro di ricerche sullo spazio. Tuttavia, le armate di Vega troveranno Duke, che ora si fa chiamare Daisuke Umon (Actarus, per noi italiani), e questi sarà costretto, suo malgrado, a tornare ai comandi del potente robot; ma questa volta non sarà solo nello scontro, perché verrà affiancato da Koji Kabuto (adattato in Alcor), già pilota di Mazinga Z, da Hikaru Makiba (Venusia), e dalla sorella ritenuta dispersa, Maria Fleed, la quale entrerà in scena solo in un secondo momento.

La quadra di eroi di Grendizer U
Il team di eroi di Grendizer U- fonte: Wikipedia

…e la trama reinventata

Grendizer U riprende le stesse premesse della serie originale, ma gioca con esse, le reinventa. La serie remake sostituisce il vecchio impianto narrativo, basato sullo schema del “mostro della settimana”, nel quale ogni episodio era sostanzialmente autoconclusivo, e ci presenta una trama lineare con forte continuità narrativa. I ruoli di alcuni personaggi sono radicalmente cambiati: Hikaru, ad esempio, nella serie originale era la giovane figlia di un proprietario di un ranch, mentre ora è la sacerdotessa di alcune misteriose rovine che sembrano legate a Grendizer; il robot stesso, qui, non è più una semplice macchina particolarmente potente, ma è un autentico dio, il “nume tutelare del pianeta Fleed”, come dicono Duke e altri personaggi. Inoltre, scopriamo che proprio Duke è, suo malgrado, l’involontario responsabile della distruzione del suo pianeta, e il protagonista sente, come anche nella serie originale, tutto il senso di colpa per essere stato l’autore del disastro; così facendo, Grendizer U presenta una mitologia tutta nuova che orbita intorno al potente robot, ma questa ha al suo cuore un tema già presente in altre opere di Nagai: la possibilità, per l’uomo, di diventare dio o demone, dicotomia intorno alla quale ruota la storia di Mazinga Z, di Devilman, ed altre.                                                                                                                                                     Ma la serie non si limita a reinventare personaggi già noti, anzi ne aggiunge di nuovi, andandoli a riprendere da altre versioni di Grendizer: è un esempio la principessa Rubina, promessa sposa di Duke, che altri non è se non la principessa Teronna del mediometraggio UFO Robot Gattaiger, una “forma embrionale” di Goldrake.

Grendizer distrugge il pianeta Fleed
Grendizer, fuori controllo, distrugge Fleed- fonte: Rai 2

Il design

Anche il design è stato modificato e aggiornato, pur restando fedele ai modelli originali. I personaggi umani o umanoidi sono slanciati, mentre il robot è magnifico nel suo aspetto. Alto e massiccio, trasmette quella sensazione di potenza e reverenziale timore che si addice a un “nume tutelare”.

Il potente Grendizer
Grendizer sfoggia un rinnovato aspetto che incute timore- fonte: MegaNerd.it

I primi quattro episodi

Lunedì sei gennaio, alle nove e venti di sera, sono andati in onda i primi quattro episodi adattati e tradotti in italiano. A portare la serie in Italia è stata, come già nel 1975, la Rai. Queste prime puntante fungono da introduzione alla storia, presentano i personaggi principali e i primi scontri tra robot. Bisogna dire, purtroppo, che la qualità delle animazioni non è sempre al meglio, pur restando molto valida. Nel complesso, la serie merita una possibilità. Sia da parte degli affezionati sia di chi non si è mai avvicinato a questo affascinante universo narrativo.

Interstellar: un Trattato sull’Amore che va oltre Spazio e Tempo

Interstellar, il capolavoro fantascientifico di Christopher Nolan è un’opera amata e odiata, tanto divisiva quanto agglomerante. Ormai divenuta iconica per la sua colonna sonora e per i suoi intrecci temporali, la pellicola di Nolan da sempre mette a dura prova lo spettatore. Viaggi nel tempo, tesserati e buchi neri creano una difficoltà oggettiva nel comprendere fino in fondo una scienza che trascende la realtà che oggi conosciamo. Ma Interstellar è qualcosa di più di un film di fantascienza, è una riflessione sulla complessità dell’essere umano ed un trattato su di una delle forze più complesse che muovono l’agire umano oltre lo spazio e il tempo: l’amore.

Un’umanità ormai esausta

Interstellar ci racconta un mondo ormai esausto. In un futuro non ben definito, polvere ed incertezza sono tutto ciò che rimane ad un’umanità stanca e rassegnata ad una vita che presto cesserà. Ma la speranza non è del tutto perduta, degli uomini di scienza stanno cercando in gran segreto una soluzione che possa dare un nuovo futuro al genere umano. Il protagonista Cooper, interpretato da Matthew McConaughey, si unisce a questa ricerca dovendo ben presto affrontare uno dei dilemmi che da sempre incontra l’essere umano. Restare ed agire egoisticamente nei confronti dell’intera umanità assecondando l’amore verso i suoi affetti, come gli chiede la figlia Murphy dopo aver letto il messaggio del suo fantasma, o andare nello spazio profondo per amore di chi ama con la promessa di ritornare.

In Interstellar il fallimento è della ragione

In un’opera come Interstellar dove la scienza è alla base del tutto, è proprio la ragione a fallire. L’uomo più brillante della terra, il professor Brand, non riesce a risolvere l’equazione gravitazionale necessaria per salvare l’intera umanità. Il dottor Mann, il migliore tra gli uomini di scienza mandati nello spazio a cercare una nuova casa, cede alla paura e all’angoscia. Anche Cooper alla fine fallisce ma decide di sacrificarsi per permettere alla dottoressa Brand di raggiungere il pianeta di Edmunds. E Il fallimento della ragione porta l’uomo alla menzogna, la più tipica delle reazioni umane. Ma mentre la ragione e gli uomini di scienza falliscono, l’amore resiste alle distorsioni dello spazio e al tempo e diventa la chiave del tutto.

Interstellar Regia: Christopher Nolan Distribuzione: Warner Bros. Pictures

“L’amore è l’unica cosa che riusciamo a percepire che trascenda dalle dimensioni di tempo e spazio” (Amelia Brand, Interstellar)

In Interstellar è l’amore la vera forza che muove l’agire umano. Ed è la stessa dottoressa Brand (Anne Hathaway), donna di scienza, a ricordare a Cooper l’importanza dell’amore. Una forza non quantificabile, che trascende lo spazio e il tempo, che ci lega a persone lontane anni luce e che supera indenne le distorsioni del buco nero Gargantua. Ed è lo stesso amore a dire ad Amelia di spingersi a ragione fino al pianeta di Edmunds, l’uomo che ama, ed ignorare dati scientifici (rilevatisi falsi) del dottor Mann. Ma ancora una volta la ragione porta la missione verso il fallimento ma sarà l’amore, quello di un padre verso la figlia e quello di una figlia verso il padre, a dare le risposte che la ragione umana non riesce ancora a dare.

“Resta!”

La più grande dimostrazione della forza dell’amore che Interstellar racconta è il legame tra Cooper a sua figlia Murphy. Quando Cooper sceglie di partire per il viaggio interstellare, dandosi dal futuro le indicazioni per raggiungere ciò che resta della Nasa, Murphy è solo una bambina. E come ogni bambina fatica a capire il senso delle scelte razionali del padre, l’amore puro e candido che la lega al padre non le permette di capire l’importanza della missione. Ad alimentare le sue paure c’è anche il messaggio del fantasma che sembra infestare la sua stanza che, grazie alla gravità le comunica un messaggio semplice quanto diretto: Resta!”. Ma il fantasma è proprio Cooper che, disperato per il fallimento della sua missione, chiede al se stesso del passato di restare con chi ama.

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Interstellar Regia: Christopher Nolan Distribuzione: Warner Bros. Pictures

“Non andartene docile in quella buona notte, infuria contro il morire della luce”

Quando tutto sembra ormai perduto, quando Cooper sceglie di abbandonarsi a Gargantua per alleggerire il peso della navicella che porterà la dottoressa Brand sul pianeta di Edmunds, succede l’inaspettato. Cooper si ritrova dentro un tesserato frutto della ragione e della scienza, una struttura a quattro dimensioni (la quarta è il tempo), che rappresenta la libreria della camera da letto di Murphy in tutti i momenti della sua vita. Chi ha creato questa struttura, gli stessi esseri del futuro che hanno posizionato il wormhole, sanno che Murphy è e sarà colei che salverà l’umanità. Ma per salvare l’umanità la Murphy adulta del presente necessita i dati del buco nero per risolvere l’equazione gravitazionale. Dati che solo Cooper può trasmettere alla figlia e che solo grazie all’amore può comprenderne il significato.

È l’amore la chiave di Interstellar 

Dove la ragione e la scienza non possono dare una risposta, l’amore emerge in tutta la sua forza. L’amore verso il padre e la promessa di tornare fatta da Cooper alla figlia, permette a Murphy di capire che il fantasma è sempre stato suo padre. I movimenti dell’orologio diventano dati e numeri, tutto improvvisamente ha senso. Ma il tesserato, la struttura frutto della ragione e della scienza degli esseri del futuro sarebbe stata inutile senza ciò che lega Cooper e Murphy. E infatti, quando Cooper riesce a tornare dalla figlia dopo ben 90 anni (terrestri) dalla partenza, Murphy confessa che sapeva che sarebbe tornato perché il suo papà glielo aveva promesso.

 

InterstellarRegia: Christopher Nolan Distribuzione: Warner Bros. Pictures
Interstellar Regia: Christopher Nolan Distribuzione: Warner Bros. Pictures

Interstellar, un trattato sull’amore 

Ciò che fa Nolan con Interstellar è qualcosa di molto coraggioso. Utilizzando il viaggio spazio-temporale e la fantascienza ci ricorda dell’importanza dell’amore e che probabilmente, quando ci sentiamo perduti, quando la ragione sembra abbandonarci dovremmo dare fiducia all’amore. Non importa se sia l’amore di due amanti, se sia l’amore tra un padre e una figlia, ciò che conta davvero è che questa forza primordiale dentro di noi ha un significato profondo. Ed è per questo che Interstellar è la più umana delle opere, ed è per questo che questa pellicola è un bellissimo trattato sull’amore.

 

Francesco Pio Magazzù

Diamanti: il nuovo Gioiello firmato Ferzan Özpetek

Il 19 Dicembre è arrivato nelle sale l’ultimo attesissimo lavoro del regista turco Ferzan Özpetek, Diamanti, a solo un anno di distanza dal precedente, Nuovo Olimpo, in collaborazione con Netflix. Un film tanto atteso oltre che per un cast meraviglioso anche per Ozpetek diverso dal solito, dedito ad omaggiare la creatività femminile e il cinema mettendo sottosopra la società. 

Trama

Anni ’70, Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella Canova (Jasmine Trinca) sono le proprietarie di una sartoria cinematografica e teatrale a Roma. Le due sorelle sono affiancate da un gruppo di lavoro formato quasi esclusivamente da donne: Fausta (Geppi Cucciari), Eleonora (Lunetta Savino), Giuseppina (Sara Bosi), Nicoletta (Milena Mancini) e Nina, (Paola Minaccioni) la capo sarta. Oltre ai tre film in preparazione, iniziano una collaborazione con una costumista premio Oscar, Bianca Vega (Vanessa Scalera), incaricata di preparare i costumi per il film di un regista, anch’esso premio Oscar (interpretato da Stefano Accorsi). In sartoria lavorano anche Carlotta (Nicole Grimaudo), la tingitrice, e Silvana (Mara Venier), la cuoca. Durante la fase di lavorazione si vanno a conoscere queste donne, ognuna con la propria storia, fatta di fatica e di sacrificio.

Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella Canova (Jasmine Trinca)Fonte: The Space Cinema
Fonte: The Space Cinema

I 18 Diamanti

Per il suo quindicesimo lungometraggio, Özpetek  ha valuto fare le cose in grande. Prodotto da Marco Belardi e distribuito dalla Vision Distribution, il film, basato su alcune esperienze autobiografiche del regista, presenta un cast d’eccezione, composto da ben 18 attrici, alcune delle quali presenti in altri suoi film: Paola Minaccioni e Loredana Cannata sono arrivate alla sesta collaborazione; Milena Vukotic, Elena Sofia Ricci e Luisa Ranieri (che abbiamo visto negli scorsi mesi al cinema anche con Parthenope di Paolo Sorrentino e Modì di Johnny Depp) alla quarta; Jasmine Trinca, Lunetta Savino, Anna Ferzetti e Nicole Grimaudo alla terza; Carla Signoris e Kasia Smutniak alla seconda. Nuove collaborazioni, come Vanessa Scalera (arrivata al successo grazie alla fiction di Rai 1 Imma Tataranni – Sostituto Procuratore), Milena Mancini, Gisella Volodi (che ha collaborato con  Woody Allen e Wes Anderson) e Geppi Cucciari, inserita dal regista nel cast tre settimane dopo la chiusura).

Sorprese e Garanzie

Inoltre in questo cast straordinario troviamo due nuove leve del cinema italiano, Sara Bosi (scoperta dal regista presso L’Oltarno, l’Accademia di alta formazione del mestiere dell’attore a Firenze) e Aurora Giovinazzo (che abbiamo visto recentemente al cinema con Eterno Visionario diretta da Michele Placido), e la zia Mara Venier (che torna sul grande schermo dopo anni dedicati esclusivamente alla conduzione). Infine non possiamo non citare Stefano Accorsi (che con l’interpretazione del regista premio Oscar Lorenzo è arrivato alla sua collaborazione con Özpetek), Luca Barbarossa (cantautore e conduttore radiofonico, qui nei panni di Lucio, marito di Gabriella), Carmine Recano (conosciuto anche per il ruolo del comandante Massimo in Mare Fuori) e Edoardo Purgatori (conosciuto per il ruolo di Emiliano nella fiction storica di Rai 1 Un medico in famiglia)

Fonte: My Movies
Fonte: My Movies

Altri Contributi

Non mancano presenze importanti anche dal punto di vista musicale. A rendere ancora più magico il film non sono solo le musiche di Giuliano Taviani e Carmelo Travia ma anche tre voci straordinarie. Le abbiamo già visto in altri film del regista: Mina (con Mi sei scoppiato dentro al cuore e L’amore vero), Patty Pravo (con Gli occhi dell’amore) e Giorgia (con Diamanti che accompagna i titoli di coda). Proprio la prima ha suggerito al regista turco il titolo del film attraverso la seguente frase:

“Il diamante è quello che resiste a tutto, come le donne” 

 

Fonte: Style Magazine – Corriere della sera
Fonte: Style Magazine – Corriere della sera

Diamanti oscilla tra riflessione ed emozione

Daiamanti è un film che, per molti aspetti, si contrddistingue nel suo genere. la sceneggiatuera di Deniz Göktürk Kobanbay, i costumi di Stefano Ciammitti, il cast strepitoso già menzionato e le varie tematiche affrontate attraverso il capovolgimento degli stereotipi e i pregiudizi che caratterizzano la società (ancora oggi). Özpetek con questo è riuscito a mettere al centro la personalità di donne diverse. Proprio attraverso la creatività, il coraggio e la determinazione, affrontano il loro destino diventandone protagoniste. Un film emozionante, carico di energia e che stimola emozioni profonde.

 

Rosanna Bonfiglio

 

Mufasa: come il “Cerchio della Vita” iniziò a ruotare

Il mese di dicembre ha ufficialmente aperto la stagione invernale dei grandi attesissimi appuntamenti nelle sale, da Diamanti, l’ultimo capolavoro di Özpetek, a Conclave con il suo cast d’eccezione, fino a Una notte a New York. È al grande universo della Disney però che appartiene uno dei titoli più attesi, si tratta ovviamente di Mufasa che, con un cast di voci eccezionali e una storia perfettamente studiata ed emozionante è riuscito a far breccia nei cuori di grandi e piccini.

Fonte: Walt Disney
Taka e Mufasa cuccioli in una scena del film

Il prequel/sequel che ci meritavamo

La storia si presenta come un prequel e al tempo stesso un sequel del classico d’animazione Disney del 1994 (riproposto in live-action nel 2019) Il Re Leone. Simba e la compagna Nala sono pronti ad affrontare un viaggio attraverso le intemperie che caratterizzano la stagione delle piogge africana e ovviamente non possono rischiare di far intraprendere questa pericolosa avventura anche alla loro piccola Kiara, sarà questo il motivo per cui sarà lasciata in custodia a Timon e Pumbaa e soprattutto al saggio Rafiki che le racconterà la storia di quelle che furono le origini di suo nonno, il grande re Mufasa e di Taka, colui che divenne suo fratello, il “principe” meglio noto come Scar.

È un racconto che riesce a sorprendere anche il pubblico più esperto quello che Rafiki ci porta, un racconto incredibile che ci mostra quanto siano lontane le origini di Mufasa da Milele, la futura Terra del Branco, una storia profonda che ci racconta di un orfano senza neanche una macchia di sangue regale che trova un fratello col quale ne nasce un rapporto così meraviglioso da far venire il magone, sapendo già l’esito finale della loro storia. Di fatto una storia che spiega perfettamente non solo come Taka è diventato Scar ma da cosa è nata la sua sete di potere, nel suo branco, prima di conoscere Mufasa ed affrontare gli “emarginati” era lui ad essere destinato a diventare il re. Le origini di Zazu legate a Sarabi e quelle dello stesso Rafiki completano l’emozionante quadro di grandi rivelazioni.

Mufasa: Dietro le quinte della savana

Reduce dal successo ottenuto nel 2019 con il live-action del lungometraggio animato del 1994 la Casa di Topolino ha ben pensato di realizzare per questo sequel/prequel un film a tutti gli effetti senza far uso dell’animazione né moderna né tantomeno tradizionale. Una decisione che ha scaturito non pochi timori al lancio del film sulla memoria di ciò che fu quel live-action de Il Re Leone, un grande successo. Successo che ha però messo a dura prova la produzione in CGI dei personaggi che a suo tempo non è riuscita a restituire nei volti realistici degli animali le espressioni dei personaggi animati, timori scampati nel momento in cui questo nuovo film ci ha portato a conoscenza dei grandi passi da gigante fatti in pochi anni dalla CGI che ci ha regalato stavolta delle espressioni animali degne, nonostante si trattasse di un film, dell’animazione Disney.

C’é da ricordare come dietro un film del genere vi siano anche delle voci straordinarie, un cast di voci che vede il ritorno di Marco Mengoni nei panni di Simba dopo il live-action del 2019 e anche di Edoardo Leo e di Stefano Fresi nei panni di Timon e Pumbaa e di Elisa (e di Beyoncé nella versione originale) nei panni di Nala, e poi, tra le nuove voci la meravigliosa Elodie nei panni di Sarabi, Luca Marinelli nei panni di Mufasa e Mads Mikkelsen che nella versione originale presta la voce al perfido Kiros e ovviamente tra le varie voci non poteva mancare il commovente tributo a James Earl Jones, la voce originale di Mufasa nel classico del 1994 e nel suo live-action del 2019.

Fonte: Walt Disney
Mufasa e Taka in una scena del film

Un’eco più del 1994 che del 2019

Complici anche i già citati progressi della CGI, questo film si è sorprendentemente e piacevolmente dimostrato molto più legato al classico d’animazione originale che al suo remake live-action, lo dimostrano in primis i caratteri dei vari personaggi come la stravaganza di Rafiki marcata qui quanto nel lungometraggio animato, i tempi comici di Zazu anche questi ultimi molto più fedeli al lungometraggio del 1994 che al suo live-action del 2019 ma soprattutto il sarcasmo di Taka che si manifesta dall’inizio fin proprio alla fine perfettamente fedele e in linea con quello dello Scar originale del capolavoro animato mentre nel live-action assistiamo ad uno Scar profondamente oscuro ed estremamente malvagio, sempre di Rafiki abbiamo poi il legame col suo bastone che, esattamente come in questo film una volta trovato, nel lungometraggio animato non lo lascerà mai mentre nella versione live-action ne farà uso solo alla fine. A farci emozionare poi all’accostamento con l’opera originale abbiamo il legame che si stringe tra Mufasa e Rafiki, la bontà di Mufasa, la nascita della Terra del Branco, la cicatrice di Scar, l’amore tra Mufasa e Sarabi e poi la presenza di Kiros, un villain tanto malefico quanto brillante in puro stile Disney.

Il distacco dal precedente live/action

Ben pochi sono invece i legami con il live-action del 2019 dove addirittura Zazu racconterà un aneddoto di Mufasa cucciolo così come Scar che narrerà un avvenimento di Mufasa anche quest’ultimo avvenuto in tenera età nelle Terre del Branco, informazioni anacronistiche rispetto a quanto narrato in questo ultimo prequel, unico elemento che vede effettivamente legati i due film è il rapporto sentimentale di Taka/Scar nei confronti della regina Sarabi e l’accenno che nel live-action del 2019 viene fatto di un precedente scontro tra Taka/Scar e il fratello Mufasa.

Fonte: Walt Disney
Mufasa, Rafiki, Zazu, Taka e Sarabi diretti verso la luce

La perfezione non esiste, neanche in Mufasa

Tuttavia c’è da dire che anche un film così ben costruito presenta i suoi piccoli buchi nell’acqua, se da un lato abbiamo infatti delle meravigliose e nuove rappresentazioni del paesaggio africano e l’originale idea di fare dei leoni bianchi gli antagonisti avversari degli altri leoni “classici” dall’altro abbiamo la strana idea per quanto scenograficamente riuscita di far passeggiare dei leoni su delle montagne non solo innevate ma addirittura colpite da potenti tempeste di neve, idea che ha fatto suscitare non poche domande al pubblico così come le ha fatte scaturire l’idea di aggiungere delle iene ad acclamare Mufasa come il nuovo re tra gli altri animali, proprio le iene, in natura rivali dei leoni e soprattutto antagoniste principali del lungometraggio originale al fianco di Scar (si può presumere che Scar si sia alleato con loro nell’arco di tempo che va dai fatti narrati in questo film all’inizio del lungometraggio originale).

L’elemento di cui più si è risentito però sono senza alcun dubbio le musiche, uno degli elementi che ha da sempre reso Il Re Leone così memorabile sono le musiche, grandi musiche indimenticabili che hanno fatto la Storia e che qui vengono quasi completamente a mancare. Si canta molto anche all’interno di questo film ma trattasi di pezzi facilmente dimenticabili che certamente non lasceranno il segno così come hanno fatto altre melodie di casa Disney, de Il Re Leone nella fattispecie.

Un capolavoro per tutte le età

In ogni caso comunque si tratta questo dell’ennesimo bersaglio perfettamente centrato di casa Disney, un film che al di là dei rimandi al film originale è in grado di emozionare e divertire, un capolavoro per tutte le età, brillante, preciso e straordinario che merita assolutamente di essere visto.

 

Marco Castiglia

Giurato numero 2, il potente addio di Clint Eastwood al cinema

Giurato numero 2 l’ultima pellicola del 94enne Clint Eastwood, è un’ode al grande cinema e una profonda riflessione sul concetto di giustizia. L’addio alla regia di uno dei più grandi registi di sempre.

Giurato numero 2 l’ultima pellicola del 94enne Clint Eastwood, è un’ode al grande cinema e una profonda riflessione sul concetto di giustizia., – Voto UVM: 5/5

Chi è il giurato Numero 2?

Justin Kemp, un futuro papà con un passato da alcolista, è convocato come giurato in quello che sembra essere il processo con il più facile dei verdetti. Un omicidio, quello della giovane Kendall Carter, che non ha alcun segreto. La vittima sembrerebbe essere stata picchiata e gettata in un burrone dopo una violenta discussione con il suo ragazzo, un ex membro pentito di una gang di quartiere. Non sembra esserci alcun ragionevole dubbio per i 12 giurati fin quando Justin, il giurato numero 2, si rende conto che il colpevole della morte della giovane Kendall è proprio lui. La tragedia, avvenuta un anno prima, è frutto di un tragico incidente sotto la pioggia dove ad essere urtata dalla macchina di Justin non è un cervo ma la povera Kendall.

Giurato numero 2 Regia: Clint Eastwood Distribuzione: Gotham Group, Malpaso Productions

Un dilemma morale 

Il giurato numero 2, un giovane in procinto di diventare padre, si trova di fronte al più grande dilemma morale della sua vita. Confessare scagionando l’imputato, dovendo però rinunciare alla sua vita visto anche il passato da alcolista, o mantenere il segreto ma condannare un innocente all’ergastolo? È questo il dilemma che muove la pellicola, l’ennesima pellicola dove Clint Eastwood affronta temi morali e lo fa con il punto di vista della persona comune. Se in “Million Dollar Baby” Clint rifletteva sul senso della vita chiedendosi e chiedendoci con grande coraggio quale fosse la cosa giusta da fare, in Giurato Numero 2 è il significato stesso di giustizia ad essere messo in discussione.

Le riflessioni morali trovano forza nelle immagini di Giurato Numero 2

Nessun elemento è lasciato al caso, ogni immagine ha un significato che va oltre a ciò che vediamo e che contribuisce a rendere la pellicola un’ode al grande cinema. La prima scena ritrae la dea Bendata Themis, dea della giustizia che brandisce in una mano una spada e nell’altra una bilancia, seguita dall’immagine di una donna anch’essa bendata ma questa volta guidata da un uomo. Justin che viene lasciato al buio dalla moglie che spegne la luce, i flashback che ci mostrano chiaramente i punti di vista oggettivi e soggettivi di quello che è successo nella notte della morte della giovane Kendall. Sono tutte immagini pregne di significato che trasmettono allo spettatore enormi spunti di riflessione celati proprio sotto il nostro sguardo a volte distratto.

Giurato numero 2, quando la giustizia è soprattutto umana

Una delle riflessioni più importanti del film è quella sul concetto di giustizia. Il sistema giudiziario americano, prevede la presenza di una giuria che deve valutare se esiste o meno il ragionevole dubbio che l’imputato non sia colpevole. Ed è nella costruzione della giuria che Clint Eastwood mette in discussione la giustizia umana. I 12 membri, Justin compreso, appartengono a ceti e categorie sociali diversi. C’è chi dà più importanza al ruolo in sé più che all’esito del processo, c’è chi non vede l’ora di tornare a casa, chi condanna a priori l’imputato per il suo passato nelle gang e chi si pone il ragionevole dubbio perché non convinto del tutto dalle prove mostrate dall’accusa. Ed è in questo mix sociale e psicologico magistralmente descritto dal Eastwood che Justin, il giurato numero 2, tenta di convincere gli altri giurati dell’esistenza del “ragionevole dubbio”.

La giustizia è bendata, ma spesso lo sono anche le persone

Clint ancora una volta, come già fatto in “Mystic River” e “Flag of our Fathers”, mette in dubbio la capacità di giudizio umana. E questo non lo vediamo solo con la giuria. Il pubblico ministero sotto elezioni che ha bisogno di chiudere velocemente il caso, la polizia che si accontenta della prima spiegazione plausibile, l’opinione pubblica che vuole un colpevole sono esempi emblematici di quanto la giustizia possa essere vittima della miopia umana. Lo stesso Justin, egoisticamente, non agisce per la salvezza dell’innocente ma quanto per trovare un modo di convivere con i suoi sensi di colpa. Ad essere bendate quindi sono anche le persone, le quali però non indossano una benda per essere imparziali ma per scegliere più o meno volutamente cosa non vedere.

Una profonda riflessione sulla giustizia

Se in “Richard Jwell” il protagonista cerca di dimostrare di essere innocente, ricercando una coincidenza tra giustizia dei tribunali e sociale, in Giurato Numero 2 la giustizia è astratta e si scinde come un atomo inesorabilmente. A quanti interessa davvero che sia fatta giustizia? D’altronde l’imputato ha un passato violento e Justin è solo un padre di famiglia vittima di una serie di tristi coincidenze. Ed è qui che c’è la vera riflessione del film, ciò che è giusto non sempre coincide con la verità e la giustizia dei tribunali non sempre coincide con la giustizia sociale. Giurato numero 2 è un film che riflette sulle scelte, sulla giustizia con un finale duro ma che vede il trionfo della cosa giusta da fare, qualsiasi sia il suo prezzo anche contro la nostra volontà.

Giurato numero 2 Regia: Clint Eastwood Distribuzione: Gotham Group, Malpaso Productions
Giurato numero 2 Regia: Clint Eastwood Distribuzione: Gotham Group, Malpaso Productions

Un cast stellare diretto magistralmente

Il cast di Giurato Numero 2 vanta attori del calibro di Toni Colette (pubblico ministero), J.K Simmons con un ruolo piccolo ma interpretato con tutta la potenza di questo attore e Nicholas Hoult nei panni di Justin e Zoey Deutch che interpreta la moglie. Il film è diretto magistralmente da un 94enne Clint Eastwood che ha ormai raggiunto l’olimpo dei registi di Hollywood. Una pellicola lucida, che non si perde mai e con un comparto tecnico perfetto. Clint Eastwood lascia probabilmente il cinema con l’ennesima opera potente che investe lo spettatore di emozioni contrastanti e che lasciano un segno indelebile e quella domanda ormai ricorrente: Cosa avrei fatto io al suo posto?

 

Francesco Pio Magazzù

Wicked: Defying Gravity diventerà un modo di dire universale

Wicked
Voto UVM: 4/5 – finalmente sono due donne a prendersi la scena dall’inizio alla fine. Una lezione che il cinema deve reimparare è che se si crea qualcosa che sia davvero un evento per le donne, si faranno sicuramente sentire.

Record al box office per  Wicked, diretto da Jon M. Chu (Crazy & Rich, Sognando a New York – In the Heights), uno dei musical più amati e simbolo di una generazione, che il novembre scorso ha debuttato sul grande schermo come uno dei principali eventi cinematografici e culturali del 2024. È prevista l’uscita del secondo capitolo nel novembre 2025.

Sinossi

Prima dell’arrivo di Dorothy Gale la storia di Oz vede protagoniste Cynthia Erivo (Harriet, The Color Purple di Broadway) e Ariana Grande – per la seconda volta al cinema dopo Don’t Look Up (2021) – nei ruoli di Elphaba, studentessa modello, che cerca la sua strada camminando instancabilmente sotto il peso del pregiudizio, e Galinda, una fanciulla frizzante e popolare, adornata dal privilegio e dell’ambizione. Le due giovani donne stringono un’amicizia tanto improbabile quanto profonda che le porta all’incontro col leggendario Mago di Oz e con gli schemi corrotti del suo regno. Si troveranno di fronte a una scelta e al compimento dei loro destini come la Strega Buona del Sud e la Strega Cattiva dell’Ovest tipiche della fiaba classica.

Wicked: un classico tra librerie, teatri e cinema

I libri che compongono la serie di Oz sono quaranta, detti i “famous forty”, oltre a questi c’è una miriade di materiali “paralleli”, canonici e non-canonici. Quella di Wicked è una storia alternativa, nata come romanzo “apocrifo” di Gregory Maguire nel 1995 e diventato nel 2003 un musical pluri-premiato scritto da Winnie Holzman e Stephen Schwartz. Negli ultimi vent’anni si è affermato come un classico di Broadway e della West End.

In questo adattamento cinematografico, rispetto al musical, alcune scene chiariscono meglio il flusso degli eventi e la personalità dei protagonisti. Chu ha dichiarato che la sua volontà era quella di dare ai personaggi lo spazio che in palcoscenico non gli era stato concesso. La sceneggiatura sonora del film include sia alcuni successi della pièce originale, sia nuovi brani ineditiIn omaggio al musical, il regista Jon M Chu ha inserito Idina Menzel e Kristin Chenoweth in una sequenza nella Città di Smeraldo.

Wicked
Cynthia Erivo in una scena di “Wicked” di Jon M. Chu (Universal Pictures 2024)

Le donne in Wicked: la magia di Ariana Grande e Cynthia Erivo  

Come promesso dalle tentacolari campagne pubblicitarie per Wicked, Cynthia Erivo e Ariana Grande sono il centro della narrazione: finalmente sono due donne a prendersi la scena dall’inizio alla fine e ogni errante principe o potente mago è meramente di supporto. Questo film è incentrato sulle donne, è una lezione che il cinema deve reimparare: se si crea qualcosa che sia davvero un evento per le donne, si faranno sicuramente sentire. “Barbie” lo ha largamente dimostrato l’anno scorso.

Galinda bilancia l’aspetto comico slapstick con la sua natura di mean girl, che emerge nei momenti centrali del racconto. La Erivo sceglie invece un approccio naturalistico: offre alla sua Elphaba un arco emotivo coerente e sempre crescente. Grande lavoro la loro rappresentazione visiva: contrassegnate dai colori rosa e verde, spiccavano in mezzo al blu delle divise degli altri studenti. 

Divise uguali ma ognuno diverso: Wicked racconta anche, attraverso il cinismo mascherato degli studenti mastichini, temi forti del nostro tempo: il razzismo, il bullismo, l’abilismo e la sfida individuale dell’autodeterminazione. 

Wicked

L’imperialismo di Smeraldo: il male è arrivato ad Oz

Se in questa storia la cattiva non è la strega, l’antagonista è proprio il mago di Oz, qui simbolo della mentalità autoritaria. Delega il lavoro sporco agli altri e sottomette gli animali privandoli della libertà di parlare e pensare. Abbiamo un mago con tendenze quasi totalitariste, qui tratteggiato da Jeff Goldblum in una sequenza coreografica visivamente impeccabile. Anche il personaggio del Dottor Dillamond, l’unico insegnante animale rimasto ad Oz, è vittima di questo clima oppressivo e, si sa, in tempi di difficoltà, si cerca sempre qualcuno da incolpare: in questo caso il bersaglio sono tutti gli animali come lui. 

<<Uno dei benefici di ingabbiare un animale è che non impara mai a parlare>>.

Si presenta come uno dei personaggi più interessanti,coerenti e, per assurdo, umani del film – oltre che un esempio di buon uso della CGI e degli effetti speciali in generale, oggi fin troppo spesso abusati. 

Wicked
Cynthia Erivo e Ariana Grande al Super Bowl durante il press tour di “Wicked” di Jon M. Chu (Universal Pictures 2024)

 

“Il rosa sta bene col verde”: Wicked è il marketing at it’s finest

Universal ha collaborato con oltre 400 marchi aziendali per creare decine di prodotti, l’Empire State Building è stato illuminato di rosa e verde – i colori ormai distintivi delle due streghe – Cynthia Erivo e Ariana Grande hanno fatto tappa alle Olimpiadi estive di Parigi in cosplay di Elphaba e Galinda, e Wicked è approdato anche negli intermezzi del Super Bowl. 

È rischioso per i grandi rivenditori scommettere su un primo film. Di solito, questo livello di campagna è riservato ai titoli di franchising. Viviamo in un ambiente in cui la monocultura non basta, bisogna essere ovunque si trovino le persone nei loro percorsi di consumo. È stato tutto meticolosamente progettato dal direttore marketing della Universal Michael Moses, la cui missione con Wicked era quella di essere “appena al di sotto dell’odioso“: dice a Variety che “Defying Gravity” diventerà un modo di dire in tutte le lingue del mondo.

 

Carla Fiorentino

La Stanza Accanto: Almodóvar porta delicatezza al cinema

La Stanza Accanto(The Room Next Door) è un film del 2024 scritto e diretto da Pedro Almodóvar, con protagoniste Tilda Swinton e Julianne Moore. Oltre loro due, sono presenti anche John Turturro, Alessandro Nivola, Juan Diego Botto, ecc.

Il film è il primo lungometraggio del regista in lingua inglese ed è tratto dal romanzo Attraverso La Vita di Sigrid Nunez. E’ stato proiettato in anteprima lo scorso Settembre all’81a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica Di Venezia, dove si è aggiudicato Il Leone D’Oro come Miglior Film. E’ arrivato in sala lo scorso 5 Dicembre.

Trama

Martha (Tilda Swinton) e Ingrid (Julianne Moore) erano due grandissime amiche ma un brutto litigio le ha portate ad allontanarsi, rimanendo distanti per moltissimi anni. Nel frattempo, entrambe hanno avuto carriere piuttosto brillanti. Ingrid è diventata un’autrice di successo ed ora ha pubblicato un nuovo libro, dove espone la sua paura della morte. Martha è divenuta una reporter di guerra, ma ora è affetta da un cancro alla cervice in fase terminale.

Il suo cancro potrebbe essere trattabile con una terapia sperimentale, ma non priva di sofferenze e non senza il rischio che porti comunque alla morte. Tuttavia Martha ha già deciso di morire e vorrebbe una morte rapida ed indolore, con una pillola comprata sul dark web. Non vorrebbe morire da sola e visto che non ha un rapporto ideale con la figlia, chiede alla sua ex-amica Ingrid (che è andata a trovarla in ospedale appena ha saputo della condizione di Martha) aiuto per il suicidio assistito. Le due amiche dovranno andare in una casa del bosco e Ingrid dovrà alloggiare nella stanza accanto a quella di Martha, mentre quest’ultima compirà l’atto estremo una volta avvertito l’arrivo del momento di “abbandonare il party”.

Nonostante la titubanza, Ingrid accetterà la proposta e trascorrerà gli ultimi attimi con la sua amica storica. Nell’accordo, è previsto che Ingrid troverà chiusa la porta della stanza di Martha, quando arriverà il momento.

Almodóvar non si smentisce mai (e va bene così)

Almodóvar è il più grande cineasta spagnolo di tutti i tempi e questo riconoscimento è pienamente meritato. Nel corso della sua carriera, il suo modo di fare cinema si è evoluto, seguendo ed adattandosi ai cambiamenti della società, mantenendo sempre una certa lucidità. La sua carriera si può considerare piuttosto variegata e i suoi film hanno fatto compiuto passaggi dalla trasgressione alla riflessione autobiografica, come il suo stile registico che è sempre stato contrastato, provocatorio, impulsivo o riflessivo (o addirittura ha compreso tutte queste caratteristiche).

Si è sempre discostato dalla normalità, tanto da considerarla quasi inaccettabile, avendo la capacità di raccontare  mondi estremamente complessi con intelligenza, ma soprattutto senza giudizio. Anzi, spesso aggiungendo delicatezza e sensibilità, Almodóvar riesce sempre a far entrare in empatia il pubblico con i personaggi dei suoi film e a far comprendere le loro azioni.

Con La Stanza Accanto, ha messo in risalto la sua capacità riflessiva e toccando una tematica, di cui si percepisce la sua sensibilità ad essa

Pedro Almodovar
Pedro Almodovar. Fonte: Gaeta

Il ritorno di Almodóvar in versione “riflessiva”, delicata ed empatica

“La Stanza Accanto” si può considerare uno dei migliori film di Almodóvar , dove quest’ultimo torna nella sua versione più riflessiva e delicata con un film (il primo del regista girato completamente in inglese) semplicemente toccante, struggente e capace di entrare dentro l’anima. Il suo obiettivo è quello di sensibilizzare, far riflettere e soprattutto far commuovere lo spettatore (e l’obiettivo è stato pienamente raggiunto) su una tematica così delicata come l’eutanasia.

Con una regia calma e delicata e con un ritmo che ricorda un po’ lo stile di Hitchcock, parla dell’eutanasia e della morte in tutte le sue sfumature. Ma attenzione, lui non vuole solo sensibilizzare lo spettatore all’eutanasia, ma far comprendere le motivazioni (altra caratteristica di Almodóvar)  di una delle due protagoniste e mostrare la bellezza e il valore della vita, senza cascare nella malinconia, attraverso Martha e Ingrid.

Martha ed Ingrid si abbracciano
Martha ed Ingrid si abbracciano. Fonte: Everyeye

Tilda Swinton e Julianne Moore da Oscar

Le due protagoniste, rimaste lontane per tanto tempo per poi ritrovarsi, condividono i momenti che accompagnano verso l’eutanasia. Da una parte, c’è una donna che ne ha passate tante e lotta contro una malattia che la sta divorando e preferisce una morte rapida ed indolore, al posto di una lenta e dolorosa. In tutto questo, viaggia attraverso i ricordi senza cascare nella malinconia e far capire il valore della vita, anche se la sua si sta spegnendo. Dall’altra, invece, c’è un’altra donna che lotta tra la paura della morte e i dubbi morali sull’appoggiare o no l’amica storica o lasciarla nelle sofferenze, però allo stesso tempo, sa di essere quella conferma per lei di aver vissuto quella vita. Tilda Swinton e Julianne Moore sono state bravissime e hanno mostrato un’alchimia pazzesca nelle scene. Le loro interpretazioni , varranno probabilmente la candidatura agli Oscar.

Martha ed Ingrid
Martha ed Ingrid. Fonte MovieDigger

Il significato metaforico della Stanza Accanto e il senso della vita

Il titolo del film fa pensare semplicemente ad una stanza effettiva accanto ad altre e vista la trama si può pensare semplicemente a questo, ma in realtà durante la visione si percepisce ben altro e rientra nel linguaggio cinematografico e nel movente di Almodóvar.

Ci sono significati letterari e metaforici nel film. Si racconta l’esplorazione di un rapporto intimo e l’importanza di una connessione umana indipendentemente da quello che il passato ha lasciato. In questo caso, il rapporto tra due amiche, fatto di ricordi e confidenze. Nonostante siano state lontane fisicamente, sono rimaste unite da un filo conduttore. Le strade delle due amiche si intrecciano di nuovo e andranno entrambe, nella stessa direzione ma con motivazioni diverse. La Stanza Accanto è un’opera delicata che tratta una tematica toccante, ma è anche un’inno alla bellezza e al senso della vita.

Un contrasto di significati

Nonostante il tema dell’eutanasia e della morte, il film è più luminoso di quanto si pensi ed invita anche ad apprezzare la vita e tutto quello che ha da offrire, fino alla fine. E’ giusto godersela, così com’è giusto il diritto di avere una morte dignitosa. La Stanza Accanto è una riflessione al tempo colorata e trattenuta, elegante e disperata, asciutta e commovente, sui momenti prima arrivare ad aprire l’ultima porta, vederla chiudersi, e varcare l’altra parte.

Uno dei migliori film dell’anno.

 

Giorgio Maria Aloi