Milano calibro 9: “E cenere ritorneremo”

Una contorta e malsana fotografia dell’animo umano  – Voto UVM: 5/5

Milano calibro 9, tratto dall’omonima antologia di racconti dello scrittore Giorgio Scerbanenco, è un gangster movie estremamente cupo, con tinte noir ed una componente thriller/giallo che tiene incollati gli spettatori allo schermo durante le convulse vicende del nostro presunto protagonista Ugo Piazza (Gastone Moschin) fino ad un finale magistrale; il tutto in una Milano anni ’70, tetra e costantemente soffocata dal fumo, sia che provenga dalle sigarette, dalle marmitte delle vecchie FIAT, o dalla canna di una pistola.

Scritto e diretto da Fernando di Leoe distribuito dalla Minerva Pictures nel 1972, è attualmente disponibile gratuitamente su RaiPlay.

Ugo Piazza (Gastone Moschin). “Milano Calibro 9” (1972) di Fernando di Leo.

TRAMA

Dopo 3 anni passati in carcere, il malavitoso corriere Ugo Piazza si ritrova tormentato dalla polizia e dagli uomini di un boss della zona, “L’Americano”, entrambi convinti che l’ex-galeotto avesse tenuto per sé i 300.000 dollari che gli furono affidati durante un colpo precedente.

Piazza nega tutte le accuse, ma si vede costretto a lavorare per “L’Americano” che lo vuole tenere sott’occhio: in questa clima di tensione, composto di rapine, sparatorie e  giochi di potere, il nostro protagonista incontra una sua vecchia fiamma, Nelly Bordon (Barbara Bouchet), la quale lavora in un night club.

La passione arde ancora tra i due, i quali decidono di scappare insieme e lasciarsi tutto alle spalle, ma il corriere avrà ancora un’ultima faccenda da sistemare…

LA “TRILOGIA DEL MILIEU”

Gli anni 60-70 del Novecento furono caratterizzati da una massiccia presenza, sia in sala che in libreria, di opere che presentavano (spesso in maniera convincente, molte altre volte in maniera dozzinale) una commistione di generi come il thriller, il giallo, il noir, il poliziesco e l’hard-boiled; gli autori spesso cadevano nella trappola, nel tentativo di umanizzare i propri protagonisti, di romanticizzare figure come criminali assetati di sangue e malavitosi senza scrupoli.

La “Trilogia del Milieu” di Fernando di Leo, composta dai tre film “Milano Calibro 9” (1972), “La mala ordina” (1972) ed “Il Boss” (1973), riesce magistralmente a rappresentare la società criminale senza alcun tipo di ambiguità: ogni singolo personaggio che appare a schermo, che sia un protagonista o un villain, ragiona secondo un intricato sistema di interessi personali, finti valori e passioni sfrenate, dunque non appartiene né ai buoni né ai cattivi.

Il regista non crea un mondo diviso in bianco e nero, ma si sofferma a raccontare la società con crudo cinismo, delineando ogni singolo carattere con infinite sfumature di grigio.

Rocco (Mario Adorf) ed il suo scagnozzo Alfredo (Omero Capanna). “Milano Calibro 9” (1972) di Fernando di Leo.

“CENERE SIAMO…”

Alla calma serafica del protagonista, di Leo contrappone la personalità impulsiva e schietta di Rocco Musco (l’eccezionale Mario Adorf, protagonista del secondo film della trilogia): i due rappresentano una dicotomia costante per tutto il film, due modi completamente antinomici di affrontare la vita, nonostante abbiano in comune più di quello che pensano.

Questa antitesi diventa il “Lietmotiv” della pellicola, che incatena numerose sequenze in cui una coppia di personaggi si scontrano per la loro visione diversa del mondo, come il continuo duello tra il commissario di polizia (nel quale riecheggiano le influenze dei lavori di Elio Petri) ed il suo vice, oppure con il confronto tra la disillusione di Don Vincenzo, e del suo fidato Chino, e l’incomprensibile ottimismo di Piazza.

Il film, come un abile pugile, lavora lo spettatore ai fianchi e lo stordisce imbastendo una narrazione frenetica, che dipinge i personaggi in maniera furba e non lascia tempo per riflettere, per ragionare su cosa stia effettivamente accadendo: il regista delinea una storia intrigante ma piuttosto lineare, nella quale il nostro protagonista si erge a detentore dei valori morali, contrapposti all’avidità dell’Americano, alla follia di Rocco, alla violenza della polizia ed al nichilismo di Don Vincenzo.

Chino (Philippe Leroy), il sicario amico di Ugo. “Milano Calibro 9” (1972) di Fernando di Leo.

“… E CENERE RITORNEREMO”

L’intuizione geniale  di Fernando di Leo sta nel non far dubitare neanche per un momento lo spettatore della presunta innocenza di Piazza: il pubblico la dà per scontata sin dal primo istante, d’altronde è il protagonista di questa storia.

Eppure, della parabola di Ugo Piazza rimarrà soltanto cenere, sparsa sulle strade di una Milano già stracolma di racconti simili: di Leo ci fa assaporare questa spirale di violenza come una sigaretta, una delle tante; intensa, ma che restituisce sul finale un retrogusto amaro in bocca.

Del resto, di cenere sono fatti gli ideali dei nostri personaggi, pronti a rinnegare tutto non appena intravedono la possibilità di guadagno, trasformando miracolosamente l’odio in rispetto, l’onestà in malizia, la passione in tradimento.

<<Tu, quando vedi uno come Ugo Piazza… il cappello ti devi levare!>>

 

 

 

Aurelio Mittoro

Sanremo 2025: le origini del mito vincono a Sanremo

La 75ª edizione del Festival di Sanremo si è conclusa e ha visto trionfare Olly, con la sua Balorda Nostalgia, seguito da Lucio Corsi, con Volevo essere un duro, e Brunori Sas, con L’albero delle noci.

Questi moderni cantori sembrano incarnare, in chiave moderna, archetipi senza tempo: Olly, come un novello Orfeo, canta la tragedia dell’amore perduto e della dipendenza affettiva; Lucio Corsi, simile a un Ercole contemporaneo, affronta le sfide dell’identità e della fragilità; mentre Brunori Sas, come un saggio Dedalo, esplora le paure e dubbi di un padre di fronte le sfide della vita.

Olly/Orfeo – La “balorda nostalgia” della perdita

Dopo la perdita di Euridice, Orfeo si trova intrappolato in un dolore che non riesce a superare. Incapace di immaginare un futuro senza di lei, il musicista mitologico vede la propria esistenza svuotarsi di senso. Il suo amore si trasforma in un’ossessione che lo spinge oltre ogni limite, trascinandolo in una spirale di disperazione. Quella che avrebbe potuto essere una storia di rinascita si tramuta così in una tragedia senza ritorno.

Scende negli Inferi armato solo della sua musica struggente, capace di commuovere dèi e ombre. Il suo viaggio è un atto di speranza e disperazione, mosso dall’illusione di poter riabbracciare l’amata.

Allo stesso modo, il protagonista della canzone di Olly è avvolto da una nostalgia profonda, come se il ritorno a un passato idealizzato potesse colmare il vuoto lasciato dalla perdita, come se la sua identità fosse inscindibilmente legata a un’altra persona.

Tornare a quando ci bastava ridere, piangere, fare l’amore.

Come Orfeo, anche Olly canta per colmare il vuoto lasciato dall’assenza. L’intero testo è un tentativo di evocare la persona amata, proprio come Orfeo prova a riportare Euridice tra i vivi. Ma c’è un tragico dubbio che incombe:

Magari non sarà nemmeno questa sera la sera giusta per tornare insieme.

Questo verso riecheggia il destino di Orfeo, il cui amore è condizionato da un vincolo insormontabile. La scena in cui il protagonista della canzone continua a cercare tracce dell’amata:

Ti cerco ancora in casa quando mi prude la schiena, e metto ancora un piatto in più quando apparecchio a cena.

Qui non c’è un inferno mitologico, ma una casa che risuona di assenze e abitudini spezzate.

 

 

E infine, la rassegnazione:

Magari è già finita, però ti voglio bene ed è stata tutta vita.

Se Orfeo, devastato dal dolore, rinuncia alla vita e si lascia morire cantando, Olly accetta, seppur con sofferenza, che l’amore possa sopravvivere alla fine di una relazione.

Il parallelismo con Orfeo mette in luce il rischio di smarrire se stessi all’interno di una relazione, quando l’altro diventa l’unico riferimento per la propria esistenza.

La canzone esplora con intensità una sorta di dipendenza affettiva, delineando un desiderio insaziabile e mai del tutto soddisfatto. La ripetizione insistente di “vorrei” diventa il simbolo di un bisogno incessante, mentre l’altro viene idealizzato come unica fonte di appagamento. Ne emerge un’illusione pericolosa: quella di un amore vissuto come unico significato dell’esistenza, in un equilibrio fragile tra passione e smarrimento.

Lucio Corsi/Ercole – L’arte di essere invincibili

Nel brano sanremese, Lucio Corsi mette in scena un profondo conflitto interiore, dando voce a una tensione universale: il desiderio di incarnare un modello di forza imposto dalla società e la consapevolezza della propria vulnerabilità. Il protagonista della canzone aspira a essere un “duro”, un individuo invulnerabile e sicuro di sé, sulla scia degli eroi mitologici e degli stereotipi maschili dominanti. Tuttavia, nel corso del brano, il sogno si scontra con la realtà. Alla fine, il personaggio si arrende all’evidenza: l’immagine idealizzata di sé è irraggiungibile. Con un’ammissione sincera, riconosce la propria autenticità, accettando la fragilità come parte integrante della sua identità:

Non sono altro che Lucio.

Il conflitto tra forza e fragilità trova un interessante riflesso nella figura di Ercole, l’eroe della mitologia greca celebre per la sua forza sovrumana e le leggendarie dodici fatiche. Al di là dell’immagine di invincibilità che lo circonda, la sua storia è segnata da sofferenza, senso di colpa e profonde vulnerabilità, rivelando così il lato più umano di un simbolo di potenza assoluta. Nonostante la sua potenza fisica, Ercole è un eroe tormentato, costretto a espiare le proprie colpe e a confrontarsi con il peso del suo destino.

Nonostante il desiderio di apparire forte, il protagonista della canzone ammette:

Però non sono nessuno / Non sono nato con la faccia da duro / Ho anche paura del buio.

Questa confessione mette in luce la discrepanza tra l’immagine desiderata e la realtà personale. Tuttavia, si rende conto che questi modelli non gli appartengono.

Nel momento in cui smette di inseguire un ideale di mascolinità imposto e accetta la propria identità con tutte le sue sfumature, al di là delle aspettative esterne, emerge qui la sua vera forza, evidenziando come essa risiede nell’abbracciare la propria autenticità.

 

           

Brunori Sas/Dedalo – La responsabilità di essere padre

La canzone di Brunori Sas, L’albero delle noci, affronta temi come la paternità, il passare del tempo e le paure legate alla genitorialità. Questi elementi trovano un interessante parallelo nel mito di Dedalo e Icaro, che esplora il rapporto padre-figlio, l’aspirazione e le conseguenze delle proprie scelte.

Nel mito, Dedalo è un abile inventore e artigiano che costruisce ali di cera e piume per sé e per suo figlio Icaro, con l’obiettivo di fuggire dal labirinto in cui sono imprigionati. Questo atto rappresenta il desiderio di un padre di proteggere e guidare il proprio figlio, fornendogli gli strumenti per affrontare il mondo.

Allo stesso modo, Brunori riflette sulla sua esperienza della paternità, esprimendo sia l’amore profondo, che le preoccupazioni legate al crescere un figlio:

Sono passati veloci questi anni feroci / E nel mio cuore di padre il desiderio adesso è chiuso a chiave.

Dedalo avverte Icaro di non volare troppo vicino al sole per evitare che il calore sciolga la cera delle ali, ma Icaro, preso dall’entusiasmo del volo, ignora il consiglio paterno e cade nel mare.

Questo episodio simboleggia le preoccupazioni di un genitore riguardo alle scelte e ai rischi che il proprio figlio potrebbe affrontare. Brunori Sas esprime un sentimento simile quando canta:

Vorrei cantarti l’amore, amore / Il buio che arriva nel giorno che muore / Senza cadere / Nella paura di farti male

Qui, il cantautore desidera proteggere la figlia dalle oscurità della vita, ma riconosce anche la necessità di permettergli di fare le proprie esperienze, senza lasciarsi paralizzare dalla paura.

 

 

Il mito di Dedalo e Icaro evidenzia come le esperienze condivise tra padre e figlio possano portare a una profonda trasformazione personale.

Dopo la perdita di Icaro, Dedalo è costretto a confrontarsi con il dolore e le conseguenze delle proprie azioni. Analogamente, Brunori Sas riflette su come la paternità abbia cambiato la sua percezione della vita e del mondo:

E tutta questa felicità forse la posso sostenere / Perché hai cambiato l’architettura e le proporzioni del mio cuore.

 

Gaetano Aspa

 

Fonte: Post Facebook di Nicole Teghini in data 16/02/2025

 

Sanremo 2025: Giorgia e Annalisa vincono la serata delle cover

Si è conclusa anche la quarta serata del Festival di Sanremo, quella dedicata a duetti e riproposizioni di grandi successi italiani e internazionali. Carlo conti, affiancato da Mahmood e Geppi Cucciari, ha presentato tutti i 29 cantanti in gara in coppia con tanti ospiti: Il Volo, Alessandra Amoroso, Annalisa, Frah Quintale e perfino Topo Gigio. 

Super ospite Roberto Benigni, in apertura con un intervento in cui – prima di annunciare il suo nuovo spettacolo su Rai 1, Il Sogno –  ha scherzato con Conti su Elon Musk, Trump e Giorgia Meloni. Eppure, Carlo Conti aveva dichiarato: “Quest’anno a Sanremo lasceremo spazio alla musica” ossia, che non ci sarebbe stato spazio per la politica”. Era stato chiaro fin da subito l’intento di allontanare temi di attualità, denunce sociali e messaggi politici dal festival e ne abbiamo avuto conferma nelle prime tre serate.

Altri grandi ospiti di questa quarta serata del Festival di Sanremo sono Benji e Fede e Paolo Kessisoglu insieme alla figlia.

Sanremo
Fonte: Elle

Sanremo 2025: I duetti della quarta serata

Aprono le danze Rose Villain e Chiello con  Fiori rosa, fiori di pesco (Lucio Battisti), seguiti dai Modà con Francesco Renga, insieme sulle note di Angelo (Francesco Renga). Segue Clara insieme ai ragazzi de Il Volo che ci hanno presentato The sound of silence (Simon & Garfunkel) .

Attesissimi Tony Effe e Noemi con Tutto il resto è noia (Franco Califano) e Francesca Michielin con Rkomi in La nuova stella di Broadway (Cesare Cremonini), che – insieme a Achille Lauro ed Elodie, sono le tre coppie di concorrenti che hanno scelto di allearsi per l’occasione. 

Il duetto più insolito, che ha scatenato la curiosità dei più, ha visto Lucio Corsi in un tenero duetto insieme a Topo Gigio su Nel blu dipinto di blu (Domenico Modugno), che gli ha garantito il secondo posto in classifica

Continuano Serena Brancale con Alessandra Amoroso con la celebre If I ain’t got you (Alicia Keys) e ancora Irama con Arisa insieme per Say something (A Great Big World, Christina Aguilera).

Ancora Gaia con Toquinho con La voglia, la pazzia (Toquinho, Ornella Vanoni, Vinicius de Moraes), i The Kolors con Sal Da Vinci con Rossetto e caffè (Sal Da Vinci) poi

Marcella Bella con Twin Violins (Gemelli Lucia) sulle note di L’emozione non ha voce (Adriano Celentano) e Rocco Hunt con Clementino in Yes, I know my way (Pino Daniele)

Si prosegue con Francesco Gabbani con Tricarico su Io sono Francesco (Tricarico) precedono le vincitrici: Giorgia e Annalisa su Skyfall (Adele) 

Continuano Simone Cristicchi con Amara su La cura (Franco Battiato), Sarah Toscano insieme agli Ofenbach con Overdrive (Ofenbach), i Coma_Cose con Johnson Righeira su L’estate sta finendo (Righeira), Joan Thiele accompagnata da Frah Quintale con Che cosa c’è (Gino Paoli), Olly con Goran Bregovic e la Wedding & Funeral Band insieme per Il pescatore (Fabrizio De André).

Sanremo
fonte: Vanity Fair

Due animali da palcoscenico Achille Lauro ed Elodie con Un tributo a Roma: A mano a mano di Riccardo Cocciante e Folle città di Loredana Bertè, che hanno fatto molto parlare di sè.

E ancora Massimo Ranieri con Neri per caso su Quando (Pino Daniele), Willie Peyote con Federico Zampaglione e Ditonellapiaga su Un tempo piccolo (Franco Califano), Brunori Sas con Riccardo Sinigallia e Dimartino su L’anno che verrà (Lucio Dalla).

Chiacchieratissimo Fedez con Marco Masini, con Bella stronza (Marco Masini). Ha portato sul palco anche un pizzico di vita privata, che gli è valsa la terza posizione.

Shablo feat. Guè, Joshua e Tormento insieme a Neffa con Amor de mi vida (Sottotono) e Aspettando il sole (Neffa). Hanno riportato un pò di hip hop di qualità sul palco dell’Ariston.

Concludono Bresh con Cristiano De André nella loro terza performance della serata, dovuta a problemi tecnici nelle prime due.  Ma nonostante tutto, hanno strappato un sorriso agli spettatori. Hanno cantato Crêuza de mä (Fabrizio De André) 

 

Carla Fiorentino

Il Laureato: La rivoluzione come unica via di fuga

L’alienazione di un uomo comune. Voto UVM: 5/5

Il laureato (the graduate) è un film diretto dal grande Mike Nichols nel 1967. Il maestro Nichols si basò sull’omonimo romanzo di Charles Webb del 1963. Il film viene tutt’ora considerato tra i più rivoluzionari degli anni 60 e presenta un cast tanto sperimentale quanto potente e innovativo con Anne Bancroft, Katharine Ross ed un giovanissimo e strabiliante Dustin Hoffman. In oltre come co-protagoniste troviamo le iconiche colonne sonore di Simon & Garfunkel con i brani “The Sound of Silence”, “Mrs. Robinson” e “Scarborough Fair”.

LA TRAMA

Il laureato racconta la vita di Benjamin Braddock (Dustin Hoffman) un neolaureato che, una volta ritornato a casa a Los Angeles dopo il college, si rende conto di non saper cosa fare della sua vita. Egli inizierà ad avvicinarsi a Mrs Robinson (Anne Bancrof) la moglie del socio di suo padre. Inizialmente Benjamin si auto convincerà di star proseguendo la strada corretta ma con il passare del tempo e l’arrivo di Elaine (Katharine Ross), la figlia di Mrs. Robinson, il giovane laureato si sveglierà dal suo limbo e tenterà di prendere in mano la propria vita.

L’ALIENAZIONE INARRESTABILE

Il giovane Benjamin, nonostante sia riuscito a completare il suo percorso di laurea con soddisfazioni e successo, si trova a fare necessariamente i conti con una realtà che, grazie a tutti gli impegni della sua vita, era riuscito a chiudere in un cassetto. La pressione di Benjamin, che lo porterà ad alienarsi con la realtà, non si consuma solo all’interno dei suoi dubbi. La sua pressione si fortifica con la presenza dei suoi genitori e della società, che come delle sanguisughe vogliono succhiare via da lui tutto ciò che non riguarda la fantomatica carriera che dovrebbe perseguire.

I DUE MONDI DI BENJAMIN

Benjamin è costretto a vivere con una maschera pirandelliana con tutte le persone con cui si relaziona, vediamo che lui riesce a mettersi a nudo soltanto tramite la sua piscina, immerso in quella vita blu lui riesce ad alienarsi completamente dal mondo; vediamo esplicitamente come l’acqua riesce a separare i due mondi dove vive Benjamin, e che ogni adolescente è costretto a vivere per poter trovare la propria stabilità ovvero quello sociale, dove è costretto a vivere con le persone con cui si sente a disagio, e quello intimo dove lui può vivere solo senza dover dare conto e ragione a qualcuno.

Dustin Hoffman in piscina durante le riprese de Il laureato
Dustin Hoffman in piscina durante le riprese. “Il laureato” (1967) di Mike Nichols. Produzione: Embassy Pictures

MRS ROBINSON: LA PRESUNTA CURA

Come abbiamo già detto, anche se la piscina permette al nostro ragazzo di crearsi una propria vita dove esiste lui e nient’altro che lui, egli stesso si rende conto di non poter vivere in eterno sopra un materassino; ed è qui che entra in gioco la nostra Mrs. Robinson una donna complessa ed intrigante che, per via dell’infelicità del suo matrimonio, riesce ad intrappolare Benjamin all’interno del suo nido di ragno. Inizialmente forse vedeva quel giovane come un passatempo, ma iniziando a vedersi sempre più spesso e confessandosi reciprocamente le proprie frustrazioni, entrambi riescono a trovare nel rispettivo amante la soluzione ai propri mali. Essi sono diventati le loro rispettive medicine. Ma come ogni farmaco prescritto dal medico, le dosi sono necessariamente limitate per non rischiare di avere effetti collaterali opposti. Il segnale divino per far capire ai nostri protagonisti di smettere nel prendere quella pericolosa medicina fu l’arrivo di Elaine. Purtroppo però il foglietto illustrativo dei medicinali non sempre vien letto…

Benjamin e Mrs. Robinson in hotel ne Il laureato
Benjamin e Mrs. Robinson in hotel. “Il laureato” (1967) di Mike Nichols. Produzione: Embassy Pictures

IL GAP GENERAZIONALE E LA RIVOLUZIONE

Benjamin Braddock si fa carico, senza saperlo, della crisi della gioventù in conflitto con le generazioni precedenti. Il giovane laureato non riesce a conformarsi con l’ipocrisia dei propri genitori; egli non riesce a seguire quella strada perché ha bisogno di trovare il suo posto nel mondo. Paradossalmente Benjamin è il ragazzo con la più grande voglia di vivere che però non riesce a sputare fuori o per lo meno non riuscirà mai a farlo da solo. Solo condividendo la sua angoscia con qualcuno riuscirà a farsi strada tra le iene per poter arrivare alla vetta. Elaine, la figlia di Mrs. Robinson, sarà la donna che farà scattare l’allarme dentro Benjamin: finalmente ha capito, lui non potrà morire per mano delle generazioni precedenti, lui vuole diventare il condottiero dei suoi coetanei scaraventando il macigno che imprigionava chissà quanti giovani. Dopo innumerevoli insidie, i 2 giovani innamorati prenderanno il pullman che li porterà verso la rivoluzione.

Benjamin ed Elaine in fuga verso una nuova vita ne Il laureato
Benjamin ed Elaine in fuga verso una nuova vita. “Il laureato” (1967) di Mike Nichols. Produzione: Embassy Pictures

IL MOVIMENTO DEL 68

Precisamente un anno dopo l’uscita in sala del Il laureato, avvengono delle ondate di proteste, principalmente studentesche e operaie, che prenderanno il nome di “Movimento rivoluzionario del 68”. Le proteste si espanderanno a macchia d’olio e dureranno per tutti gli anni 70. La domanda che ci poniamo è, dove fu concepito il malessere giovanile che rivoluzionò gli anni a venire? Sicuramente i fattori politici, economici e sociali non mancarono ma la cosa che più si palesava era la necessità da parte dei giovani di cambiare vita, di staccarsi da quel cordone ombelicale materno che non riescono a riconoscere come proprio ed è in questo contesto che Mike Nichols un anno prima, con “Il laureato” firma la prefazione di una delle più grandi rivoluzioni del secondo dopo guerra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sanremo 2025: ci siamo. Ecco tutto quello che c’è da sapere

CI SIAMO. Uno degli eventi più attesi dell’anno è arrivato: la 75° Edizione del Festival di Sanremo. Sarà un’edizione ricca di novità e sorprese e già sta facendo parlare di sé, tra gossip e per la presenza degli artisti in gara. Ecco tutto quello che c’è da sapere

Quando inizia Sanremo 2025 e dove vederlo?

Dopo cinque edizioni condotte da Amadeus, sul palco dell’Ariston torna Carlo Conti, che aveva già condotto Sanremo per tre volte di fila (dal 2015 al 2017). Durante le cinque serate della manifestazione di quest’anno vedranno in gara 29 cantanti “big”, più 4 nuove proposte. Oltre ai big con le loro canzoni, ci saranno anche tanti ospiti e ci sarà anche spazio per la Serata delle Cover. Il festival della canzone italiana si svolgerà come tradizione in cinque serate, tra l’11 e il 15 febbraio 2024. Sarà possibile seguire il festival di Sanremo in diretta televisiva su Rai 1, in diretta radio su Rai Radio2 e anche in streaming su RaiPlay.

 

fonte: lumsanews.it

I concorrenti: big e nuove proposte

• Achille Lauro con il brano Innocenti giovani
• Gaia con il brano Chiamo io chiami tu
• Coma_Cose con il brano Cuoricini
• Francesco Gabbani con il brano Viva la vita
• Willie Peyote con il brano Grazie ma no grazie
• Noemi con il brano Se t’innamori muori
• Rkomi con il brano Il ritmo delle cose
• Modà con il brano Non ti dimentico
• Rose Villain con il brano Fuorilegge
• Brunori Sas con il brano L’albero delle noci
• Irama con il brano Lentamente
• Clara con il brano Febbre
• Massimo Ranieri con il brano Tra le mani un cuore
• Sarah Toscano con il brano Amarcord
• Fedez con il brano Battito
• Simone Cristicchi con il brano Quando sarai piccola
• Joan Thiele con il brano Eco
• The Kolors con il brano Tu con chi fai l’amore
• Bresh con il brano La tana del granchio
• Marcella Bella con il brano Pelle diamante
• Tony Effe con il brano Damme ‘na mano
• Elodie con il brano Dimenticarsi alle 7
• Olly con il brano Balorda Nostalgia
• Francesca Michielin con il brano Fango in paradiso
• Lucio Corsi con il brano Volevo essere un duro
• Shablo feat Guè, Joshua e Tormento con il brano La mia parola
• Serena Brancale con il brano Anema e core
• Rocco Hunt con il brano Mille vote ancora
• Giorgia con il brano La cura per me

 

E in più ci saranno ben 4 artisti provenienti da Sanremo Giovani: Settembre, Maria Tomba, Alex Wyse e Vale LP e Lil Jolie. I quattro si esibiranno con due sfide a eliminazione nella serata di mercoledì 12, mentre giovedì 13 tra i due rimanenti sarà decretato il vincitore della sezione Nuove Proposte.

Fonte: La Repubblica

Programma e Regolamento

Nella prima serata di martedì 11 si esibiscono tutti i cantanti in gara, votati dalla Giuria Sala stampa, tv e web (alla fine della serata saranno resi noti, in ordine sparso, i primi cinque classificati).
Mercoledì 12 e giovedì 13 i cantanti si esibiranno nuovamente, ma saranno divisi equamente e quindi ci sarà la metà degli artisti in ciascuna serata (la prima metà mercoledì e la seconda giovedì). Saranno tutti valutati in questo caso dal Televoto e dalla Giuria delle Radio (al 50% ciascuno): in ogni sera saranno svelati sempre i primi cinque classificati.
Venerdì 14 i duetti saranno valutati da Televoto (34%), Radio (33%) e Sala stampa (33%) ma quest’anno la graduatoria risultante non influirà sul risultato della finale della sera successiva.
Nella finale di Sabato 15, si esibiranno di nuovo tutti i cantanti. Saranno votati da Televoto (34%), Radio (33%) e Sala stampa (33%). Saranno rivelati a fine serata le posizioni dalla 6 alla 29 e poi i primi cinque classificati in ordine sparso. Questi ultimi saranno rivotati e da lì ci sarà il vincitore.

Fonte: Corriere Della Sera

Gli ospiti

Nel corso della prima serata, il superospite sarà Jovanotti A seguire, ci saranno anche la cantante israeliana Noa e la palestinese Mira Awad per cantare Imagine in un invito alla pace. Antonella Clerici e Gerry Scotti affiancheranno Conti.

Mercoledì 12, sono attesi Damiano David, Vittoria Puccini e l’intero cast del nuovo film di Paolo Genovese, Follemente, in uscita il 20 Febbraio. Il cast è composto da Edoardo Leo, Pilar Fogliati, Emanuela Fanelli, Maria Chiara Giannetta, Claudia Pandolfi, Vittoria Puccini, Marco Giallini, Maurizio Lastrico, Rocco Papaleo e Claudio Santamaria. Qui Conti sarà affiancato da Bianca Balti, Cristiano Malgioglio e Nino Frassica.

Nella terza serata di giovedì 13 ci saranno i Duran Duran e il cast della quinta stagione di Mare Fuori. Inoltre, ci sarà un momento dedicato a Iva Zanicchi che riceverà il premio Città di Sanremo. Tre saranno le co-conduttrici accanto a Conti: Miriam Leone, Elettra Lamborghini e Katia Follesa.

Nella quarta serata di giovedì 14, sarà dedicata alle Cover e ai duetti. Mahmood e Geppi Cucciari alla co-conduzione.
Infine, nella finale di sabato 15, è attesa come ospite l’attrice Valeria Scalera e Antonello Venditti riceverà il premio alla carriera. Carlo Conti sarà affiancato da Alessia Marcuzzi e Alessandro Cattelan.

Fonte: SkyTg24

Si preannuncia un’edizione piuttosto interessante e sicuramente ci sarà tanto da vedere. Pronti all’evento musicale italiano più atteso dell’anno ? Appuntamento da martedì 11 Febbraio alle 20:40 su Rai Uno e Radio Due.

Giorgio Maria Aloi

A Complete Unknown merita davvero l’Oscar?

A Complete Unknown
Grande prova attoriale da parte di Timothée Chalamet, ma la scelta minimalista della regia di Mangold risulta in una narrazione priva d’intensità. Ma è davvero degno delle sue nomination agli Oscar? – Voto UVM 3/5

Ė al cinema dallo scorso 23 gennaio A Complete Unknown,  l’attesissimo biopic su Bob Dylan.

Una fatica di durata quinquennale quella di Mangold – basata sul soggetto di Elijah Wald nel libro Dylan Goes Electric! (2015) – ora nominata Best Picture e Best Adapted Screenplay agli Academy Awards.   

Si tratta di uno dei titoli più chiacchierati dell’ultimo anno: vuoi per l’attrattiva del cast (Timothée Chalamet, Elle Fanning, Monica Barbaro), vuoi per la grande campagna promozionale dedicatagli, vuoi per il fascino enigmatico di un’icona come Dylan (nientemeno che uno dei produttori esecutivi del film), e per un’interpretazione che è valsa a Chalamet una nomination ai Golden Globe e ai prossimi Oscar.

Sinossi

New York. 1961. Il ventenne Robert Zimmerman arriva dal Minnesota, per incontrare il suo idolo Woody Guthrie, malato in ospedale, per inserirsi nella scena folk del periodo. Nasce Bob Dylan: mito costruito su mezze verità e reinvenzioni continue, ispirato da due amori tormentati e diventato la voce che ha incendiato gli animi di una generazione stravolgendo la scena folk in un solo iconico momento: Il Newport Folk festival del 1965.

A complete Unknown
una scena di A Complete Unknown di James Mangold (2024) (Searchlight Pictures, The Walt Disney Company Italia)

A Complete Unknown tra alti e bassi

Bob Dylan è notoriamente un tipo enigmatico: “un incrocio tra un chierichetto e un beatnick” come lo definisce una storica recensione del New  York Times del ‘61.

Si parla di un personaggio privo di quei tratti eroici che ci si aspetta dal protagonista di un biopic. E se si unisce una personalità estremamente ermetica ad un ambiente asettico, circondata da personaggi privi di ogni sviluppo, la narrazione cola a picco.

Calato in un’America in fermento che vuole abbattere e ricostruire la sua identità culturale, il film abbonda di indizi storici ricorrendo all’espediente di telegiornali, radio e quotidiani. 

Eppure, osservando il comportamento del protagonista, allo spettatore non arriva mai l’urgenza della lotta sociale che ha mosso la carriera di Dylan. Mentre la si percepisce meglio nelle due protagoniste femminili, emotivamente più coinvolte negli eventi socio-politici del tempo. 

La narrazione scorre lenta e lineare, con pochi dialoghi e ancor meno azione. L’unico momento di picco si ha a un passo dalla fine: il Newport Folk Festival del ‘65. Qui troviamo una scena che sfiora il ridicolo, con un pubblico così furibondo da sembrare una parodia, e vari cazzotti sganciati dietro le quinte nel tentativo di sabotare lo spettacolo. Un exploit d’azione alla spaghetti western totalmente fuori luogo, ma che almeno rende bene l’eccezionalità del momento.  

A Complete Unknown
una scena di A Complete Unknown di James Mangold (2024) (Searchlight Pictures, The Walt Disney Company Italia)

L’amore in A Complete Unknown 

Tormentate vicende sentimentali diventano qui un semplice susseguirsi di eventi di cui il cantautore muove le fila. Ė un flipper infinito tra Joan e Sylvie senza alcun margine evolutivo da parte delle due donne. Bob fa ciò che vuole e nessuno gli chiede spiegazioni. Il problema non sta nell’interpretazione di Monica Barbaro e di Elle Fanning, che sono invece degne di nota, ma sta nella resa cinematografica di dinamiche amorose così complicate.

Un’interpretazione da Oscar

Timothée Chalamet ha dovuto sfoderare la sua poliedricità come mai prima: interprete, voce di ogni traccia presente nella pellicola e co-produttore del film. 

La caratteristica ermetica e ambigua e l’umorismo sfacciato del cantautore sono ciò su cui Chalamet ha puntato di più nella sua interpretazione. Grande lavoro sullo studio della voce, della mimica facciale, della cinesica e dello staging: dal modo in cui tiene la sigaretta a quello in cui suona la sua Fender, alle unghie lunghe solo nella mano destra fino alla postura ricurva e ai suoi famosi “dead eyes”. 

Chiunque salga sul palco e voglia catturare l’attenzione deve essere un po’ strano, la gente non deve smettere di guardarti, devi essere come un incidente d’auto.

A Complete Unknown
una scena di A Complete Unknown di James Mangold (2024) (Searchlight Pictures, The Walt Disney Company Italia)

A Complete Unknown: un’overview sul lavoro di Mangold

Dopo il successo di Walk the Line sulla vita di Johnny Cash, Mangold torna al genere biografico. La fotografia è minimalista, senza movimenti di camera e sequenze elaborate. Vediamo luci fioche e gialle in ambienti interni cupi e ombrosi. L’elemento luminoso non è stato sfruttato granchè, mantenendosi su un’illuminazione d’ambiente priva di personalità. 

La palette del film privilegia colori come il giallo e il beige, e il legno norvegese – trend iconico dell’interior design dell’epoca – domina scenografie storicamente accurate e piacevolissime all’occhio.

La scelta di fare un uso quasi esclusivamente diegetico della musica è coerente col soggetto ma poco funzionale allo storytelling: allo spettatore non viene offerta nessuna hint sulla carica emotiva dei personaggi nei vari momenti della narrazione. Per capire cosa stia succedendo di fronte a lui ad ogni scena, lo spettatore deve contare unicamente sui dialoghi – per giunta anch’essi ridotti all’osso.

A Complete Unknown: Il folk che raggiunge tutti

Il folk che raggiunge tutti” è il vero protagonista dell’opera di James Mangold. Un genere che cambia insieme alla società, che dà voce alle lotte generazionali, e che per questo non può essere limitato ai brani di repertorio, ma deve poter innovarsi. Questa la mission del nostro protagonista, questo il mantra dell’intera opera. La musica di Dylan ci parlava di progresso quando nessuno era disposto a guardare al di là del proprio naso. Fino a quel ‘65 in cui Bob Dylan portò sul palco la sua Fender elettrica e cambiò per sempre la storia della musica. 

 

Conclave: un thriller filosofico-politico sulle debolezze umane

Conclave, un un thriller filosofico e politico sulle debolezze umane. Voto UVM: 5/5

Il regista tedesco Edward Berger, dopo il successo di Niente di nuovo sul fronte occidentale, torna a raccontare l’essere umano e le sue debolezze. Ma se nella pellicola vincitrice di 4 Oscar, la guerra faceva da sfondo, in Conclave è il mondo ecclesiastico ad essere protagonista.

Morto un Papa…

La sede pontificia è vacante, il Papa è morto e i cardinali devono riunirsi il più presto possibile in conclave per eleggere il nuovo pontefice. Ad assicurarsi che tutto proceda secondo la volontà di Dio è il Decano britannico Thomas Lawrence, che presto si renderà conto di quanto ben poco di divino ci possa essere dentro un conclave. A contendersi la guida del Vaticano ci sono diversi cardinali, tutti espressione di una diversa visione della Chiesa. L’italiano ultraconservatore Goffredo Tedesco, il progressista Aldo Bellini, l’africano Joshua Adeneya e l’americano Trembley sono i pretendenti al sacro scranno papale. Sullo sfondo anche lo sconosciuto cardinale sudamericano Vincent Benitez, ordinato in pectore dal Papa in persona mentre era in istanza a Kabul.

Conclave Regia: Edward Berger Distribuzione: Eagle Pictures

Conclave: uno scontro umano e politico

Berger, nell’adattamento del romanzo da cui è tratta la sua pellicola, non risparmia pesanti critiche alla Chiesa. In un contesto sociale in subbuglio, in una Roma assediata dalle bombe, il regista tedesco ci racconta di un conclave animato da strategie politiche e visioni contrastanti. Alcuni cardinali sono pronti a tutto pur di diventare Papa, e il Decano Thomas Lawrence interpretato magistralmente da Ralph Fiennes si troverà ben presto a dover fare i conti con una realtà fatta di essere umani. E come ogni essere umano, anche i cardinali non mancano di segreti, di pensieri e di peccati. D’altronde il papato è anche una figura politica, e i cardinali fanno politica in nome della loro visione di Dio e della Chiesa. Conclave non perde occasione per mostrare i conflitti e le contraddizioni dei cardinali e nel farlo ci pone spesso dei quesiti filosofici.

Quale futuro per la Chiesa?

Ad essere conteso non è solo il ruolo di Papa, ma è anche e soprattutto il futuro della Chiesa. Conclave infatti ci racconta lo scontro filosofico e teologico che da secoli coinvolge la Chiesa e che nel nostro secolo sembra più forte che mai. I fedeli diminuiscono sempre di più, lo scontro di religioni ha raggiunto Roma e i cambiamenti sociali che investono la società non possono più essere ignorati. Quale futuro allora per la Chiesa? Ritornare ad un passato conservatore di protezione o aprirsi alla società contemporanea e ai suoi cambiamenti? Il susseguirsi della votazione e delle fumate nere portano con sé un crescendo di tensione emotiva che tiene il fiato sospeso.

Un cast eccezionale che muove la pellicola

La forza di Conclave sta tutta nel suo eccezionale cast. Accanto ad un magistrale Ralph Fiennes, troviamo Stanley Tucci che interpreta il cardinale progressista Bellini e Sergio Castellitto che dà vita al cardinale italiano ultraconservatore Tedesco. John Litgow nei panni del cardinale Trembley e Isabella Rossellini nei panni di suor Agnes completa un cast d’eccezione che muove e che dà forza alla pellicola di Berger. Sono infatti le interpretazioni a caratterizzare umanamente i cardinali e loro idee e a mostrarci la loro visione della Chiesa. Il contrasto e il confronto nel conclave sono prima di tutto umani, e le varie interpretazioni si muovono all’unisono convincendo e creando quella tensione emotiva che accompagna tutta la pellicola.

Conclave Regia: Edward Berger Distribuzione: Eagle Pictures

Conclave, un finale forse troppo politically correct

Come in Niente di nuovo sul Fronte Occidentale, anche in Conclave il reparto tecnico è eccezionale. Una splendida fotografia e una potente colonna sonora evocativa accompagnano lo spettatore tra i corridoi vaticani e nelle riflessioni dei cardinali. Ancora una volta Berger non lascia niente al caso realizzando un’opera che sul piano tecnico è quasi magistrale. Ma se sul lato tecnico la pellicola non ammette alcuna critica, la scrittura del film è forse la parte dove il regista avrebbe potuto osare di più. Scegliendo di rimanere fedele all’opera letterale da cui è tratta la sceneggiatura, Berger confeziona un finale forse fin troppo politically correte dove manca il coraggio di osare con la stessa forza con la quale è mossa la critica alla Chiesa.

Un thriller filosofico e politico che convince

Nel complesso Conclave è un thriller filosofico e politico che convince. Tra misteri e segreti le solide interpretazioni e la storia raccontata creano una tensione emotiva continua nello spettatore e creano numerosi quesiti filosofici al cui sicuramente ciascuno darà una propria risposta. La pellicola di Berger, pur schierandosi apertamente in una critica non troppo moderata verso gli esseri umani che reggono la Chiesa, non cade nella facile demonizzazione della stessa mostrandoci che al suo interno ci sono diverse scuole di pensiero. Sta poi allo spettatore decidere quale abbracciare, tenendo sempre presente che le divisioni non portano mai a nulla di positivo.

 

Francesco Pio Magazzù

La guerra dei Rohirrim: si torna sempre dove si è stati bene

Rhoirrim
questo film d’animazione in stile anime da un lato rincorre l’epicità dei film di Peter Jackson, dall’altro cade sotto i colpi di una narrazione non sempre eccellente e di un’animazione a dir poco scadente. – Voto UVM 2/5

Tornare dove si è stati bene non è sempre facile, e La guerra dei Rohirrim ne è stata la prova. lo sa Frodo Baggins, tornato nella Contea dopo un viaggio che lo ha cambiato indelebilmente, e lo sa chi ha salutato per l’ultima volta la Terra di Mezzo nel 2014, quando nelle sale uscì Lo Hobbit: La battaglia delle cinque armate. Da allora forse anche noi siamo cambiati, scossi dalla bellezza di quei film, tanto che i tentativi di ritornare nell’universo creato dal professor J.R.R. Tolkien, non sono sempre riusciti nel loro intento di coinvolgerci in nuove storie. Ce lo ha insegnato la controversa serie tv Gli anelli del potere, ce lo conferma questo film d’animazione in stile anime che da un lato rincorre l’epicità dei film di Peter Jackson, dall’altro cade sotto i colpi di una narrazione non sempre eccellente e di un’animazione a dir poco scadente.

Sinossi

La nostra storia prende spunti da alcune appendici scritte da Tolkien per approfondire l’epopea di Helm Mandimartello, nono sovrano del regno di Rohan; un racconto mitologico dunque, che viene arricchito dalla storia di Héra e del suo coraggio nel guidare la resistenza del popolo di Rohan contro i selvaggi Dunlandiani, desiderosi di impossessarsi del trono; tra questi vi è Wulf, amico d’infanzia della protagonista che adesso brama il trono di Rohan e per ottenerlo chiede proprio la mano di Héra. Un’escalation di eventi che ci conduce verso un conflitto su ampia scala, che porterà la protagonista a caricarsi del peso della sua stirpe e del destino del suo regno.

Rohirrim
Héra ne La Guerra dei Rohirrim – © New Line Cinema

La Guerra dei Rohirrim tra alti e bassi

Sulla carta i personaggi di questo racconto mitologico sono tutti interessanti e molti spettatori sicuramente apprezzeranno il buon miscuglio tra fantasy e intrigo politico, unito all’epicità delle battaglie campali. L’approfondimento dei personaggi però non è del tutto convincente, colpa anche della trama che punta su un ritmo più incalzante. La conseguenza è che le scelte, sia dei protagonisti che degli antagonisti, risultano sovente incomprensibili e prive di razionalità per un’avventura piuttosto densa di avvenimenti ma che avrebbe dovuto bilanciare meglio ritmo e approfondimenti dei personaggi.

Rohirrim
La corte di Helm ne La Guerra dei Rohirrim – © New Line Cinema

La Guerra dei Rohirrim: una tecnica altalenante

Il problema principale di questo film, inutile girarci intorno, sono le animazioni gravemente insufficienti e lontane anni luce dalle vette recenti (Spider-Man: un nuovo universo, Arcane o Il gatto con gli stivali 2, n.d.s.). Questo freno tecnico non solo limita la recitazione dei personaggi (movimenti essenziali e legnosi, mimica facciale approssimativa), ma inibisce tante potenzialità espressive di una storia che avrebbe tutte le carte in regola per emozionare, ma che raramente ci riesce . La regia di Kenji Kamiyama pertanto rimane anonima e senza spunti memorabili.

Spezziamo una lancia in favore del comparto artistico. Costumi, sfondi mozzafiato, ambientazioni e armi sembrano davvero provenire dalla trilogia jacksoniana. Le musiche, che riprendono molto quelle del film Il Signore degli Anelli: le due torri, rimangono più che sufficienti per supportare ciò che viene mostrato dalle immagini.

Rohirrim
Héra e Wulf ne La Guerra dei Rohirrim – © New Line Cinema

Il futuro dei Rohirrim

Può preoccupare il fatto che i nomi coinvolti nella sceneggiatura o nella produzione sono proprio quelli di Peter Jackson, Philippa Boyens e Fran Walsh, gli artefici delle due trilogie dedicate alla letteratura del professor Tolkien che si occuperanno anche dei progetti di prossima uscita, come il già annunciato film live-action The Hunt for Gollum. É emerso che Warner Bros. ha investito solo 30 milioni di dollari sul film, velocizzando poi la lavorazione dell’anime per garantire che New Line Cinema non perdesse i diritti sui romanzi di Tolkien, facilitando la spiegazione dell’ insuccesso di questa pellicola. Queste notizie ci lasciano con un po’ di amaro in bocca per ciò che questo film d’animazione sarebbe potuto essere e che purtroppo non è stato. Non ci resta dunque che sperare in un altro viaggio nella Terra di Mezzo.

 

Pietro Minissale

Tropico Del Capricorno, la vacanza mondana di Guè.

Un Album non esaltante, ma comunque posizionato bene tra gli ultimi successi di Guè. Voto UVM 3/5

Esce oggi l’ultimo progetto discografico del rapper Guè, Tropico Del Capricorno, titolo che fa subito pensare al freddo e alla stagione in cui siamo ormai inoltrati. Ci ha voluto, forse, il gentleman del rap introdurre alla sua vacanza invernale?

Il vento dell’Inverno

Veniamo da una serie di album pregni di gangsta-rap e barre distribuite magistralmente su basi old-style create ad’opera d’arte che sono riuscite a risultare sempre accattivanti e attuali. Già da prima dell’annuncio, Guè ci aveva lasciato con grandissime aspettative sul prossimo progetto solista dopo il grande ritorno con i Dogo. Copertina e titolo non hanno potuto far da meno, un titolo e una grafica di un’eleganza imponente.

Tropico Del Capricorno. Copyright: Universal

Tropico Del Capricorno: featurings e brani

Guardando la tracklist troviamo diversi nomi, riconfermati come alcune delle collaborazioni preferite del rapper, da Rose Villain, a Geolier, Ernia e Frah Quintale, e altre sperimentali a dir poco inaudite. Possiamo trovare Artie 5ive, Ele A, Tormento, Chiello. Sembra strano trovare questi featurings variegati, sapendo che non si tratti di un producer album. Esso è un segno evidente di come a Cosimo Fini non sia importato questa volta di seguire al 100% la stessa strategia creativa degli ultimi successi, lasciando spazio a diversi sound della scena attuale italiana. I titoli delle canzoni lasciano intendere che l’album sia più che altro incentrato sul rapporto con il femminile, ovviamente mondano, del rapper. Oltre alla presenza extra di un nuovo capitolo della serie di brani intitolati La G, La U, La E.

In Svizzera con Guè

All’avvio dell’album siamo accolti da nientedimeno che un sample di Pino Daniele, che sembra cadere a fagiolo a commemorare il bluesman napoletano, quest’anno il decimo dalla scomparsa. Oh Mamma Mia è l’inizio della festa a cui Guè ci ha invitati, e per tutto l’album sentiamo il motivo per cui non siamo a sorseggiare Batida de Coco al tropico del Cancro, ma siamo a Ginevra o a Monaco in qualche casinò. Ascoltare le basi dell’album è come lasciare la finestra del casinò socchiusa mentre fuori c’è la tormenta, e ovviamente in sala Guè si fa versare il brandy on the rocks da tre o quattro tipe a tempo di cassa e rullante.

La riconferma dell’Old School anche in Tropico

La presenza degli scratchs non è da sottovalutare. Guè è abbastanza imprevedibile sulla scelta del tipo di base, avendo sempre alternato produzioni completamente moderne ad altre che si affidavano più al boom-bap come negli ultimi album. La scelta di mantenere questi abbellimenti, e lasciare spazio ai deejays, è sempre ben accolta da tutti i fan, ormai. Alcuni brani, specie Nei tuoi Skinny con Frahriprendendo sound ancora più vecchi dei sample anni 80 e 90 delle altre canzoni, forse anni 50 addirittura, ci fanno sognare e riportare ai primi lavori dei dogo ed anche alla fase più rap-reggae del gruppo, costituendo un gran bel viaggione sonoro.

Giusto il paragone con gli altri album?

Dopo aver concluso l’ascolto possiamo sommariamente dire che Tropico del Capricorno sia sicuramente un album meno potente rispetto a un Madreperla o un Fastlife, o a un Guesus, ma sicuramente lontano dall’oblio lirico che ha colpito il nostro Gentleman circa 10 anni fa. E’ probabile che Guè volesse prendersi una pausa dalla scrittura impegnata degli ultimi anni, comprensibile dopotutto. Tropico del Capricorno resta dunque un buon progetto, da ascoltare per staccare la mente dalla tormenta che c’è fuori.

 

Giovanni Calabrò

 

Grendizer U: un ritorno in pompa magna

Grendizer U debutta in Italia coi primi quattro episodi. Voto UVM: 4/5

Era il lontano 1975 quando, dal Giappone, arrivò sugli schermi italiani un personaggio destinato a diventare un simbolo per un’intera generazione: UFO Robot Grendizer, in Italia meglio noto come “Goldrake“. Oggi, a distanza di cinquant’anni, quello stesso personaggio ritorna in tv con una nuova serie remake del 2024, prodotta dallo studio Gaina e adattata in italiano dalla Rai, intitotolata Grendizer U. Diamo quindi il bentornato a Duke Fleed, principe del pianeta Fleed, e al suo leggendario robot.

Le origini di Grendizer

Sebbene UFO Robot sia stato uno dei primi anime (ossia i cartoni giapponesi) a venire trasmesso in Italia, esso è, in verità, la conclusione di una lunga trilogia, iniziata pochi anni prima con un’altra serie divenuta iconica, Mazinga Z, e proseguita poi con Il Grande Mazinga; tutti e tre questi robot sono stati partoriti dalla mente di un autore storico per gli appassionati di fumetti e serie giapponesi, ossia il maestro Go Nagai, creatore di serie e personaggi che hanno fatto la storia dei manga e degli anime (come Devilman, una delle sue opere più famose). Con questo trittico di eroi, il maestro Nagai riuscì a creare un intero filone narrativo, destinato a trovare fortuna nei due decenni successivi: sono i cosiddetti “super-robot“, termine col quale si indicano quelle storie in cui una potente macchina difende l’umanità dagli attacchi di giganteschi mostri.

Il maestro Nagai e Grendizer
Il maestro Nagai e Goldrake- fonte: Corriere della Sera

La trama originale…

La storia originale di Grendizer è in realtà molto semplice: Duke Fleed, principe del pianeta Fleed, scappa dalla sua patria, devastata dalle malvagie armate del Re Vega. Nella fuga, il principe esule porterà con sé una formidabile arma, sulla quale le armate di Vega volevano mettere le mani per soggiogare l’intero universo: il temibile robot chiamato Grendizer. Nel suo viaggio tra le stelle, Duke si schianterà sulla terra, dove sarà adottato dal professor Umon (o dottor Procton, nell’adattamento italiano), dirittore di un centro di ricerche sullo spazio. Tuttavia, le armate di Vega troveranno Duke, che ora si fa chiamare Daisuke Umon (Actarus, per noi italiani), e questi sarà costretto, suo malgrado, a tornare ai comandi del potente robot; ma questa volta non sarà solo nello scontro, perché verrà affiancato da Koji Kabuto (adattato in Alcor), già pilota di Mazinga Z, da Hikaru Makiba (Venusia), e dalla sorella ritenuta dispersa, Maria Fleed, la quale entrerà in scena solo in un secondo momento.

La quadra di eroi di Grendizer U
Il team di eroi di Grendizer U- fonte: Wikipedia

…e la trama reinventata

Grendizer U riprende le stesse premesse della serie originale, ma gioca con esse, le reinventa. La serie remake sostituisce il vecchio impianto narrativo, basato sullo schema del “mostro della settimana”, nel quale ogni episodio era sostanzialmente autoconclusivo, e ci presenta una trama lineare con forte continuità narrativa. I ruoli di alcuni personaggi sono radicalmente cambiati: Hikaru, ad esempio, nella serie originale era la giovane figlia di un proprietario di un ranch, mentre ora è la sacerdotessa di alcune misteriose rovine che sembrano legate a Grendizer; il robot stesso, qui, non è più una semplice macchina particolarmente potente, ma è un autentico dio, il “nume tutelare del pianeta Fleed”, come dicono Duke e altri personaggi. Inoltre, scopriamo che proprio Duke è, suo malgrado, l’involontario responsabile della distruzione del suo pianeta, e il protagonista sente, come anche nella serie originale, tutto il senso di colpa per essere stato l’autore del disastro; così facendo, Grendizer U presenta una mitologia tutta nuova che orbita intorno al potente robot, ma questa ha al suo cuore un tema già presente in altre opere di Nagai: la possibilità, per l’uomo, di diventare dio o demone, dicotomia intorno alla quale ruota la storia di Mazinga Z, di Devilman, ed altre.                                                                                                                                                     Ma la serie non si limita a reinventare personaggi già noti, anzi ne aggiunge di nuovi, andandoli a riprendere da altre versioni di Grendizer: è un esempio la principessa Rubina, promessa sposa di Duke, che altri non è se non la principessa Teronna del mediometraggio UFO Robot Gattaiger, una “forma embrionale” di Goldrake.

Grendizer distrugge il pianeta Fleed
Grendizer, fuori controllo, distrugge Fleed- fonte: Rai 2

Il design

Anche il design è stato modificato e aggiornato, pur restando fedele ai modelli originali. I personaggi umani o umanoidi sono slanciati, mentre il robot è magnifico nel suo aspetto. Alto e massiccio, trasmette quella sensazione di potenza e reverenziale timore che si addice a un “nume tutelare”.

Il potente Grendizer
Grendizer sfoggia un rinnovato aspetto che incute timore- fonte: MegaNerd.it

I primi quattro episodi

Lunedì sei gennaio, alle nove e venti di sera, sono andati in onda i primi quattro episodi adattati e tradotti in italiano. A portare la serie in Italia è stata, come già nel 1975, la Rai. Queste prime puntante fungono da introduzione alla storia, presentano i personaggi principali e i primi scontri tra robot. Bisogna dire, purtroppo, che la qualità delle animazioni non è sempre al meglio, pur restando molto valida. Nel complesso, la serie merita una possibilità. Sia da parte degli affezionati sia di chi non si è mai avvicinato a questo affascinante universo narrativo.