Follemente: l’Inside Out italiano di Paolo Genovese

 

L’Inside Out all’italiana. Voto UVM 4/5

Follemente è un film del 2025 diretto da Paolo Genovese (regista di film come “Perfetti Sconosciuti”, “Tutta Colpa Di Freud”, “Supereroi”, “Il Primo Giorno Della Mia Vita”, i due film di “Immaturi”, “I Leoni Di Sicilia” ecc.) e ha un cast corale composto da Edoardo Leo, Pilar Fogliati, Claudio Santamaria, Marco Giallini, Rocco Papaleo, Maurizio Lastrico, Vittoria Puccini, Claudia Pandolfi, Emanuela Fanelli e Maria Chiara Giannetta.

Trama

Conosciamo davvero noi stessi quando prendiamo una decisione? E se dentro di noi esistessero più versioni del nostro io, ognuna con qualcosa da dire?

Follemente è una brillante commedia romantica che va oltre le apparenze, immergendosi nella mente dei due protagonisti, Piero e Lara, svelando i loro pensieri più nascosti e le battaglie interiori che tutti affrontiamo. Dopo essersi conosciuti in un bar, Piero e Lara hanno il loro primo appuntamento a casa di lei. Entrambi hanno voglia di rimettersi in gioco: lei, trentacinquenne, viene dalla relazione con un uomo sposato e cede spesso ad amori senza futuro; lui ha quarant’anni, è fresco di divorzio e di affidamento congiunto della figlia piccola e porta ancora i segni di altre delusioni sentimentali.

I due protagonisti sono guidati dalle rispettive personalità: Piero ascolta le indicazioni del razionale Professore, del romantico Romeo, del passionale Eros e del disincantato Valium; Lara si fa condurre dall’intransigente Alfa, dalla seducente Trilli, dalla sregolata Scheggia e dalla sognatrice Giulietta. La serata, tra imbarazzi, lapsus e contrattempi, parte bene, ma sembra volgere al peggio, anche perché le emozioni di Piero bisticciano tra loro e quelle di Lara non sono da meno. Come andrà a finire? I due riusciranno a mettere da parte il resto e lasciarsi andare? Oppure, complicheranno tutto e l’appuntamento sfumerà?

Il primo appuntamento di Lara e Pietro diventa un teatro di dialoghi irriverenti, teneri, dolci, agitati, e tanto altro ancora. Una folla di gente e di pensieri che turbinano costantemente dentro di noi, a volte in maniera stancante che ci fa desiderare di poter essere “da soli” o di poter spegnere finalmente il cervello.

L’Inside Out all’italiana?

Il paragone tra “Inside Out” e “Follemente” viene spontaneo, ma in realtà Paolo Genovese giura di aver avuto l’idea del film prima che tutti venissero a conoscenza e si innamorassero successivamente dei due successi Disney Pixar incentrati sulle emozioni. La similitudine c’è e forse Genovese ha trovato il modus operandi adatto  per poter parlare della tematica ricorrente nella sua nuova pellicola: gli appuntamenti. Se “Inside Out” parlava delle emozioni e di ciò che accade nella mente umana in linea generica, “Follemente”, invece, mostra ciò che accade nella mente quando si ha un appuntamento al giorno d’oggi.

Mostrando un film alla Inside Out ma concentrandosi solo su un contesto specifico, ha voluto realizzare un film che aveva uno stile teatrale e il montaggio tra le scene dell’appuntamento e delle loro personalità è stato anche ben serrato. Con un tocco così semplice, mostra una chiave di lettura per gli appuntamenti di oggi (i primi) e come sono divenuti difficili e di quanti problemi si creano, quando si vive un appuntamento.

Fonte: comingsoon.it

Follemente, un film dallo stile teatrale

Follemente ha delle similitudini anche con un altro film noto di Paolo Genovese, ossia Perfetti Sconosciuti (film che ha il record di maggior numero di remake realizzati nella storia del cinema). Entrambi i film vogliono essere schietti e sbattere in faccia alcune verità dei rapporti di oggi e come sono cambiati nella società contemporanea. Con la differenza, che uno mira a colpire con una verità dura e cruda e toccando la drammaticità totale; l’altro, invece, vuole divertire senza annoiare e spingere ad un’accurata riflessione.

Altri aspetti in comune sono il fatto che alcuni eventi presenti accadono nella mente e lo stile teatrale adottato per la narrazione, col rischio di risultare leggermente statico. Il film mostra due filoni uniti da un montaggio ben strutturato e ci sono volute ben due sedute di ripresa per realizzare i due filoni. Da una parte, ci sono i due attori protagonisti (Edoardo Leo e Pilar Fogliati) che vivono il loro primo appuntamento e tutta la trama si svolge nell’appartamento di lei. Dall’altra, vengono mostrate le quattro personalità di lui e le quattro personalità di lei nelle loro menti.

Nella prima seduta, i due protagonisti recitavano le loro battute con tanto di suggerimenti delle personalità, provenienti da dietro le quinte, cogliendo opportunamente il momento per dire le loro. Nella seconda, gli interpreti delle loro personalità hanno fatto lo stesso. Ci vuole una certa bravura a cogliere la percezione giusta e su questo sono stati bravi tutti e le loro scene sono unite da un montaggio ben strutturato, che fa il passaggio tra i due filoni in maniera rapida come se stessero giocando a ping pong e senza cascare nella confusione.

 

Fonte: follemente.alcinema.it

Un cast eccezionale

Quando un film riesce, non si può non considerare le interpretazioni e “Follemente” vanta la presenza di un cast italiano composto da attori di un certo livello. Edoardo Leo non ha bisogno di presentazioni, perché ormai è affermatissimo e lascia sempre il segno, in ogni film che fa. Pilar Fogliati si sta affermando sempre di più e in pochi anni, si è dimostrata poliedrica e a suo agio nei ruoli molto vicini ai suoi coetanei.

Ma quelli che non sono da meno sono gli interpreti delle personalità di lui e lei. Nella mente di lui ci sono Claudio Santamaria (il passionale Eros), Marco Giallini (il razionale Professore), Rocco Papaleo (il disincantato Valium), Maurizio Lastrico (il romantico Romeo); mentre, nella mente di lei ci sono Vittoria Puccini (la sognatrice Giulietta), Claudia Pandolfi (l’intransigente Alfa), Emanuela Fanelli (la seducente Trilli) e Maria Chiara Giannetta (la sregolata Scheggia).

La parte divertente sta nelle personalità presenti nelle loro menti, dove attraverso gag, battute e diatribe tra loro su quale delle personalità deve prendere il sopravvento e su cosa l’interlocutore di turno deve dire in quel momento (venendo spesso ignorati da Piero e Lara).

 

Fonte: comingsoon.it

Follemente, una chiave di lettura degli appuntamenti di oggi, tra risate e riflessioni

Genovese ha voluto realizzare una commedia che vuole divertire ed allo stesso tempo, invitare a scavare dentro di sé e avere uno spunto di riflessione sulla propria persona e di come dovrebbe vivere l’appuntamento. Vuole dire essere più rilassati possibile e far vivere quei momenti con serenità, dimostrando che dovrebbe essere la cosa più naturale di questo mondo e soprattutto mostrarsi per ciò che si è, perché tutte le questioni irrisolte e le proprie insicurezze possono essere un auto-sabotaggio e far scappare un’eventuale persona giusta. Bisogna accettare ciò che è successo prima di quel fatidico incontro, trarre una lezione, godersi il presente ed essere naturali, per poter accogliere un possibile futuro (o qualsiasi altra cosa) migliore. A parole sembra facile, ma la visione di Follemente potrebbe dare un input a provare a lasciarsi andare a nuove opportunità (magari nascoste dietro l’angolo).

Giorgio Maria Aloi

“Goldrake”: un sequel vibrante, un omaggio riuscito

Goldrake torna con un fumetto francese pieno d'amore per la serie
Goldrake torna con un fumetto francese pieno d’amore per la serie. Voto UVM: 4/5

Quando il robot Grendizer, creato dal mangaka Go Nagai, arrivò in Italia col nome di Goldrake conquistò i cuori di una generazione, che ancora oggi lo ricorda con affetto. Eppure, il nostro non fu il solo Paese europeo che si innamorò del gigante d’acciaio e del suo pilota, Duke Fleed: anche in Francia diversi bambini si ritrovavano davanti alla tv e gridavano “Goldrake, avanti!

Un sentito omaggio

Uno di quei bambini francesi era Xavier Dorison, classe 1972, sceneggiatore di fumetti e ideatore del fumetto Goldrake, pubblicato in Italia a fine 2024 dalle case editrici BD Edizioni e J-pop Manga. Nel nostro autore nacque una grande passione per Goldrake, che è durata fino ad oggi, fino a realizzare, insieme ad altri autori e disegnatori, il volume di cui parliamo. A questa passione viene poi unita la conoscenza della serie originale, dei suoi ritmi narrativi, dei suoi personaggi e dei loro caratteri, tutti elementi fedelmente rispettati dagli autori, i quali riescono a confezionare una storia perfettamente coerente con l’originale nagaiano.

Ritorni inattesi

La storia del fumetto si ambienta un numero indefinito di anni dopo la fine della storia originale. Mentre alcuni astronauti esplorano il lato oscuro della luna, si imbattono in un nuovo vecchio nemico: le armate di Vega, guidate dall’ultimo generale veghiano rimasto, Archen. Egli, affiancanto dai suoi secondi in comando KehosArgaia, attaccat il Giappone sfruttando una nuova e terribile arma: il mostro spaziale Hydragon. La loro condizione per cessare con gli attacchi è semplice: tutti i giapponesi dovranno lasciare il Giappone entro una settimana, o saranno spazzati via. Ricevuto l’ultimatum, l’esercito nipponico guidato dal generale Ota si mette alla ricerca della sola possibilità di vittoria per loro e, forse, per l’intera umanità: il super-robot Goldrake.

Goldrake
Il robot Goldrake si risveglia-Goldrake. Fonte: MangaNerd.it

Un eroe spezzato

Nell’ultimo episodio della serie originale, Actarus e sua sorella Maria erano tornati sul loro pianeta, Fleed, che stava ritornando alla vita dopo la devastazione provacata dall’attacco di Vega. Tuttavia, per Duke sembra non esserci tregua, e la guerra torna ciclicamente nella sua vita, imprigionandolo in un vortice sempre più tragico di morte e distruzione: mentre il principe e i pochi altri abitanti di Fleed si prodigano nella rinascita del pianeta, due dischi spaziali, gli ultimi rimasugli del popolo di Vega, attaccano nuovamente, devastando tutto. Maria stessa subirà gravi ferite, e le vittime civili sono numerose da entrambi i lati; Actarus, dopo essersi battute come una furia, abbandonerà nuovamente Fleed, ormai in rovina, e porterà sua sorella sulla Terra, così che possa essere curata. Una volta fatto questo, il principe esule nasconderà il suo robot e, ormai stremato dalle troppe battaglie e dalle loro conseguenze, si consegnerà all’esercito gaipponese.

Goldrake combatte un'ultima volta per Fleed
L’ultima battaglia per Fleed in Goldrake. Fonte: uBc Fumetti

Pace o vendetta?

Sia Actarus che i veghiani sono stremati, stanchi di una guerra che pare interminabile, e desiderano solo la pace. Tuttavia, se da un lato il nobile principe di Fleed e il vecchio generale Archen sono disposti a trattare, dall’altro troviamo Kehos, assetato di vendetta per la sua famiglia, rimasta uccisa nella battaglia su Fleed. Il dissidio che nasce tra i due veghiani è uno scontro tra due modi diversi di intendere la pace e tra priorità: infatti, per Archen la sopravvivenza degli ultimi membri del suo popolo viene prima di ogni cosa, ed è disposto a trattare pur di raggiungere il suo scopo; Kehos, invece, non riesce a concepire una fine della guerra che non implichi la morte dei suoi nemici, e per lui trattare significa arrendersi, divenire ostaggi del proprio nemico. Kehos si mostra più miope di Archen, ed è disposto anche ad attacchi suicidi pur di vincere.

Ritmi narrativi

Uno degli aspetti migliori del racconto sono i suoi ritmi: la serie originale alternava battaglie frenetiche e tachicardiche con momenti più lenti, “intimi”, come li definisce lo stesso Dorison in una lettera inviata a Nagai. E il fumetto, in questa alternanza perfettamente scandita, non è affatto da meno, e riesce a diventare così una continua giostra di scontri brutali e momenti di breve pace, che servono ai nostri protagonisti per prepararsi alla nuova battaglia, e servono ad Actarus per ritrovare la motivazione a combattere.

Nell’atelier di Goldrake

Uno degli aspetti più belli del fumetto sono le ultime pagine del volume, ricche di retroscena sulla realizzazione dello stesso. Qui possiamo trovare non solo una lettera scritta da Dorison a Nagai in persona, la quale è anche una dichiarazione di intenti, ma sono presenti pure le prime bozze, i primi studi delle varie tavole, sia quelle poi pubblicate, sia anche delle versioni scartate. Insomma, dopo aver letto la storia di Goldrake, possiamo vedere la storia della sua realizzazione, e continuare a immergerci nel suo coinvolgente mondo.

 

Alberto Albanese

 

Milano calibro 9: “E cenere ritorneremo”

Una contorta e malsana fotografia dell’animo umano  – Voto UVM: 5/5

Milano calibro 9, tratto dall’omonima antologia di racconti dello scrittore Giorgio Scerbanenco, è un gangster movie estremamente cupo, con tinte noir ed una componente thriller/giallo che tiene incollati gli spettatori allo schermo durante le convulse vicende del nostro presunto protagonista Ugo Piazza (Gastone Moschin) fino ad un finale magistrale; il tutto in una Milano anni ’70, tetra e costantemente soffocata dal fumo, sia che provenga dalle sigarette, dalle marmitte delle vecchie FIAT, o dalla canna di una pistola.

Scritto e diretto da Fernando di Leoe distribuito dalla Minerva Pictures nel 1972, è attualmente disponibile gratuitamente su RaiPlay.

Ugo Piazza (Gastone Moschin). “Milano Calibro 9” (1972) di Fernando di Leo.

TRAMA

Dopo 3 anni passati in carcere, il malavitoso corriere Ugo Piazza si ritrova tormentato dalla polizia e dagli uomini di un boss della zona, “L’Americano”, entrambi convinti che l’ex-galeotto avesse tenuto per sé i 300.000 dollari che gli furono affidati durante un colpo precedente.

Piazza nega tutte le accuse, ma si vede costretto a lavorare per “L’Americano” che lo vuole tenere sott’occhio: in questa clima di tensione, composto di rapine, sparatorie e  giochi di potere, il nostro protagonista incontra una sua vecchia fiamma, Nelly Bordon (Barbara Bouchet), la quale lavora in un night club.

La passione arde ancora tra i due, i quali decidono di scappare insieme e lasciarsi tutto alle spalle, ma il corriere avrà ancora un’ultima faccenda da sistemare…

LA “TRILOGIA DEL MILIEU”

Gli anni 60-70 del Novecento furono caratterizzati da una massiccia presenza, sia in sala che in libreria, di opere che presentavano (spesso in maniera convincente, molte altre volte in maniera dozzinale) una commistione di generi come il thriller, il giallo, il noir, il poliziesco e l’hard-boiled; gli autori spesso cadevano nella trappola, nel tentativo di umanizzare i propri protagonisti, di romanticizzare figure come criminali assetati di sangue e malavitosi senza scrupoli.

La “Trilogia del Milieu” di Fernando di Leo, composta dai tre film “Milano Calibro 9” (1972), “La mala ordina” (1972) ed “Il Boss” (1973), riesce magistralmente a rappresentare la società criminale senza alcun tipo di ambiguità: ogni singolo personaggio che appare a schermo, che sia un protagonista o un villain, ragiona secondo un intricato sistema di interessi personali, finti valori e passioni sfrenate, dunque non appartiene né ai buoni né ai cattivi.

Il regista non crea un mondo diviso in bianco e nero, ma si sofferma a raccontare la società con crudo cinismo, delineando ogni singolo carattere con infinite sfumature di grigio.

Rocco (Mario Adorf) ed il suo scagnozzo Alfredo (Omero Capanna). “Milano Calibro 9” (1972) di Fernando di Leo.

“CENERE SIAMO…”

Alla calma serafica del protagonista, di Leo contrappone la personalità impulsiva e schietta di Rocco Musco (l’eccezionale Mario Adorf, protagonista del secondo film della trilogia): i due rappresentano una dicotomia costante per tutto il film, due modi completamente antinomici di affrontare la vita, nonostante abbiano in comune più di quello che pensano.

Questa antitesi diventa il “Lietmotiv” della pellicola, che incatena numerose sequenze in cui una coppia di personaggi si scontrano per la loro visione diversa del mondo, come il continuo duello tra il commissario di polizia (nel quale riecheggiano le influenze dei lavori di Elio Petri) ed il suo vice, oppure con il confronto tra la disillusione di Don Vincenzo, e del suo fidato Chino, e l’incomprensibile ottimismo di Piazza.

Il film, come un abile pugile, lavora lo spettatore ai fianchi e lo stordisce imbastendo una narrazione frenetica, che dipinge i personaggi in maniera furba e non lascia tempo per riflettere, per ragionare su cosa stia effettivamente accadendo: il regista delinea una storia intrigante ma piuttosto lineare, nella quale il nostro protagonista si erge a detentore dei valori morali, contrapposti all’avidità dell’Americano, alla follia di Rocco, alla violenza della polizia ed al nichilismo di Don Vincenzo.

Chino (Philippe Leroy), il sicario amico di Ugo. “Milano Calibro 9” (1972) di Fernando di Leo.

“… E CENERE RITORNEREMO”

L’intuizione geniale  di Fernando di Leo sta nel non far dubitare neanche per un momento lo spettatore della presunta innocenza di Piazza: il pubblico la dà per scontata sin dal primo istante, d’altronde è il protagonista di questa storia.

Eppure, della parabola di Ugo Piazza rimarrà soltanto cenere, sparsa sulle strade di una Milano già stracolma di racconti simili: di Leo ci fa assaporare questa spirale di violenza come una sigaretta, una delle tante; intensa, ma che restituisce sul finale un retrogusto amaro in bocca.

Del resto, di cenere sono fatti gli ideali dei nostri personaggi, pronti a rinnegare tutto non appena intravedono la possibilità di guadagno, trasformando miracolosamente l’odio in rispetto, l’onestà in malizia, la passione in tradimento.

<<Tu, quando vedi uno come Ugo Piazza… il cappello ti devi levare!>>

 

 

 

Aurelio Mittoro

Sanremo 2025: le origini del mito vincono a Sanremo

La 75ª edizione del Festival di Sanremo si è conclusa e ha visto trionfare Olly, con la sua Balorda Nostalgia, seguito da Lucio Corsi, con Volevo essere un duro, e Brunori Sas, con L’albero delle noci.

Questi moderni cantori sembrano incarnare, in chiave moderna, archetipi senza tempo: Olly, come un novello Orfeo, canta la tragedia dell’amore perduto e della dipendenza affettiva; Lucio Corsi, simile a un Ercole contemporaneo, affronta le sfide dell’identità e della fragilità; mentre Brunori Sas, come un saggio Dedalo, esplora le paure e dubbi di un padre di fronte le sfide della vita.

Olly/Orfeo – La “balorda nostalgia” della perdita

Dopo la perdita di Euridice, Orfeo si trova intrappolato in un dolore che non riesce a superare. Incapace di immaginare un futuro senza di lei, il musicista mitologico vede la propria esistenza svuotarsi di senso. Il suo amore si trasforma in un’ossessione che lo spinge oltre ogni limite, trascinandolo in una spirale di disperazione. Quella che avrebbe potuto essere una storia di rinascita si tramuta così in una tragedia senza ritorno.

Scende negli Inferi armato solo della sua musica struggente, capace di commuovere dèi e ombre. Il suo viaggio è un atto di speranza e disperazione, mosso dall’illusione di poter riabbracciare l’amata.

Allo stesso modo, il protagonista della canzone di Olly è avvolto da una nostalgia profonda, come se il ritorno a un passato idealizzato potesse colmare il vuoto lasciato dalla perdita, come se la sua identità fosse inscindibilmente legata a un’altra persona.

Tornare a quando ci bastava ridere, piangere, fare l’amore.

Come Orfeo, anche Olly canta per colmare il vuoto lasciato dall’assenza. L’intero testo è un tentativo di evocare la persona amata, proprio come Orfeo prova a riportare Euridice tra i vivi. Ma c’è un tragico dubbio che incombe:

Magari non sarà nemmeno questa sera la sera giusta per tornare insieme.

Questo verso riecheggia il destino di Orfeo, il cui amore è condizionato da un vincolo insormontabile. La scena in cui il protagonista della canzone continua a cercare tracce dell’amata:

Ti cerco ancora in casa quando mi prude la schiena, e metto ancora un piatto in più quando apparecchio a cena.

Qui non c’è un inferno mitologico, ma una casa che risuona di assenze e abitudini spezzate.

 

 

E infine, la rassegnazione:

Magari è già finita, però ti voglio bene ed è stata tutta vita.

Se Orfeo, devastato dal dolore, rinuncia alla vita e si lascia morire cantando, Olly accetta, seppur con sofferenza, che l’amore possa sopravvivere alla fine di una relazione.

Il parallelismo con Orfeo mette in luce il rischio di smarrire se stessi all’interno di una relazione, quando l’altro diventa l’unico riferimento per la propria esistenza.

La canzone esplora con intensità una sorta di dipendenza affettiva, delineando un desiderio insaziabile e mai del tutto soddisfatto. La ripetizione insistente di “vorrei” diventa il simbolo di un bisogno incessante, mentre l’altro viene idealizzato come unica fonte di appagamento. Ne emerge un’illusione pericolosa: quella di un amore vissuto come unico significato dell’esistenza, in un equilibrio fragile tra passione e smarrimento.

Lucio Corsi/Ercole – L’arte di essere invincibili

Nel brano sanremese, Lucio Corsi mette in scena un profondo conflitto interiore, dando voce a una tensione universale: il desiderio di incarnare un modello di forza imposto dalla società e la consapevolezza della propria vulnerabilità. Il protagonista della canzone aspira a essere un “duro”, un individuo invulnerabile e sicuro di sé, sulla scia degli eroi mitologici e degli stereotipi maschili dominanti. Tuttavia, nel corso del brano, il sogno si scontra con la realtà. Alla fine, il personaggio si arrende all’evidenza: l’immagine idealizzata di sé è irraggiungibile. Con un’ammissione sincera, riconosce la propria autenticità, accettando la fragilità come parte integrante della sua identità:

Non sono altro che Lucio.

Il conflitto tra forza e fragilità trova un interessante riflesso nella figura di Ercole, l’eroe della mitologia greca celebre per la sua forza sovrumana e le leggendarie dodici fatiche. Al di là dell’immagine di invincibilità che lo circonda, la sua storia è segnata da sofferenza, senso di colpa e profonde vulnerabilità, rivelando così il lato più umano di un simbolo di potenza assoluta. Nonostante la sua potenza fisica, Ercole è un eroe tormentato, costretto a espiare le proprie colpe e a confrontarsi con il peso del suo destino.

Nonostante il desiderio di apparire forte, il protagonista della canzone ammette:

Però non sono nessuno / Non sono nato con la faccia da duro / Ho anche paura del buio.

Questa confessione mette in luce la discrepanza tra l’immagine desiderata e la realtà personale. Tuttavia, si rende conto che questi modelli non gli appartengono.

Nel momento in cui smette di inseguire un ideale di mascolinità imposto e accetta la propria identità con tutte le sue sfumature, al di là delle aspettative esterne, emerge qui la sua vera forza, evidenziando come essa risiede nell’abbracciare la propria autenticità.

 

           

Brunori Sas/Dedalo – La responsabilità di essere padre

La canzone di Brunori Sas, L’albero delle noci, affronta temi come la paternità, il passare del tempo e le paure legate alla genitorialità. Questi elementi trovano un interessante parallelo nel mito di Dedalo e Icaro, che esplora il rapporto padre-figlio, l’aspirazione e le conseguenze delle proprie scelte.

Nel mito, Dedalo è un abile inventore e artigiano che costruisce ali di cera e piume per sé e per suo figlio Icaro, con l’obiettivo di fuggire dal labirinto in cui sono imprigionati. Questo atto rappresenta il desiderio di un padre di proteggere e guidare il proprio figlio, fornendogli gli strumenti per affrontare il mondo.

Allo stesso modo, Brunori riflette sulla sua esperienza della paternità, esprimendo sia l’amore profondo, che le preoccupazioni legate al crescere un figlio:

Sono passati veloci questi anni feroci / E nel mio cuore di padre il desiderio adesso è chiuso a chiave.

Dedalo avverte Icaro di non volare troppo vicino al sole per evitare che il calore sciolga la cera delle ali, ma Icaro, preso dall’entusiasmo del volo, ignora il consiglio paterno e cade nel mare.

Questo episodio simboleggia le preoccupazioni di un genitore riguardo alle scelte e ai rischi che il proprio figlio potrebbe affrontare. Brunori Sas esprime un sentimento simile quando canta:

Vorrei cantarti l’amore, amore / Il buio che arriva nel giorno che muore / Senza cadere / Nella paura di farti male

Qui, il cantautore desidera proteggere la figlia dalle oscurità della vita, ma riconosce anche la necessità di permettergli di fare le proprie esperienze, senza lasciarsi paralizzare dalla paura.

 

 

Il mito di Dedalo e Icaro evidenzia come le esperienze condivise tra padre e figlio possano portare a una profonda trasformazione personale.

Dopo la perdita di Icaro, Dedalo è costretto a confrontarsi con il dolore e le conseguenze delle proprie azioni. Analogamente, Brunori Sas riflette su come la paternità abbia cambiato la sua percezione della vita e del mondo:

E tutta questa felicità forse la posso sostenere / Perché hai cambiato l’architettura e le proporzioni del mio cuore.

 

Gaetano Aspa

 

Fonte: Post Facebook di Nicole Teghini in data 16/02/2025

 

Sanremo 2025: Giorgia e Annalisa vincono la serata delle cover

Si è conclusa anche la quarta serata del Festival di Sanremo, quella dedicata a duetti e riproposizioni di grandi successi italiani e internazionali. Carlo conti, affiancato da Mahmood e Geppi Cucciari, ha presentato tutti i 29 cantanti in gara in coppia con tanti ospiti: Il Volo, Alessandra Amoroso, Annalisa, Frah Quintale e perfino Topo Gigio. 

Super ospite Roberto Benigni, in apertura con un intervento in cui – prima di annunciare il suo nuovo spettacolo su Rai 1, Il Sogno –  ha scherzato con Conti su Elon Musk, Trump e Giorgia Meloni. Eppure, Carlo Conti aveva dichiarato: “Quest’anno a Sanremo lasceremo spazio alla musica” ossia, che non ci sarebbe stato spazio per la politica”. Era stato chiaro fin da subito l’intento di allontanare temi di attualità, denunce sociali e messaggi politici dal festival e ne abbiamo avuto conferma nelle prime tre serate.

Altri grandi ospiti di questa quarta serata del Festival di Sanremo sono Benji e Fede e Paolo Kessisoglu insieme alla figlia.

Sanremo
Fonte: Elle

Sanremo 2025: I duetti della quarta serata

Aprono le danze Rose Villain e Chiello con  Fiori rosa, fiori di pesco (Lucio Battisti), seguiti dai Modà con Francesco Renga, insieme sulle note di Angelo (Francesco Renga). Segue Clara insieme ai ragazzi de Il Volo che ci hanno presentato The sound of silence (Simon & Garfunkel) .

Attesissimi Tony Effe e Noemi con Tutto il resto è noia (Franco Califano) e Francesca Michielin con Rkomi in La nuova stella di Broadway (Cesare Cremonini), che – insieme a Achille Lauro ed Elodie, sono le tre coppie di concorrenti che hanno scelto di allearsi per l’occasione. 

Il duetto più insolito, che ha scatenato la curiosità dei più, ha visto Lucio Corsi in un tenero duetto insieme a Topo Gigio su Nel blu dipinto di blu (Domenico Modugno), che gli ha garantito il secondo posto in classifica

Continuano Serena Brancale con Alessandra Amoroso con la celebre If I ain’t got you (Alicia Keys) e ancora Irama con Arisa insieme per Say something (A Great Big World, Christina Aguilera).

Ancora Gaia con Toquinho con La voglia, la pazzia (Toquinho, Ornella Vanoni, Vinicius de Moraes), i The Kolors con Sal Da Vinci con Rossetto e caffè (Sal Da Vinci) poi

Marcella Bella con Twin Violins (Gemelli Lucia) sulle note di L’emozione non ha voce (Adriano Celentano) e Rocco Hunt con Clementino in Yes, I know my way (Pino Daniele)

Si prosegue con Francesco Gabbani con Tricarico su Io sono Francesco (Tricarico) precedono le vincitrici: Giorgia e Annalisa su Skyfall (Adele) 

Continuano Simone Cristicchi con Amara su La cura (Franco Battiato), Sarah Toscano insieme agli Ofenbach con Overdrive (Ofenbach), i Coma_Cose con Johnson Righeira su L’estate sta finendo (Righeira), Joan Thiele accompagnata da Frah Quintale con Che cosa c’è (Gino Paoli), Olly con Goran Bregovic e la Wedding & Funeral Band insieme per Il pescatore (Fabrizio De André).

Sanremo
fonte: Vanity Fair

Due animali da palcoscenico Achille Lauro ed Elodie con Un tributo a Roma: A mano a mano di Riccardo Cocciante e Folle città di Loredana Bertè, che hanno fatto molto parlare di sè.

E ancora Massimo Ranieri con Neri per caso su Quando (Pino Daniele), Willie Peyote con Federico Zampaglione e Ditonellapiaga su Un tempo piccolo (Franco Califano), Brunori Sas con Riccardo Sinigallia e Dimartino su L’anno che verrà (Lucio Dalla).

Chiacchieratissimo Fedez con Marco Masini, con Bella stronza (Marco Masini). Ha portato sul palco anche un pizzico di vita privata, che gli è valsa la terza posizione.

Shablo feat. Guè, Joshua e Tormento insieme a Neffa con Amor de mi vida (Sottotono) e Aspettando il sole (Neffa). Hanno riportato un pò di hip hop di qualità sul palco dell’Ariston.

Concludono Bresh con Cristiano De André nella loro terza performance della serata, dovuta a problemi tecnici nelle prime due.  Ma nonostante tutto, hanno strappato un sorriso agli spettatori. Hanno cantato Crêuza de mä (Fabrizio De André) 

 

Carla Fiorentino

Il Laureato: La rivoluzione come unica via di fuga

L’alienazione di un uomo comune. Voto UVM: 5/5

Il laureato (the graduate) è un film diretto dal grande Mike Nichols nel 1967. Il maestro Nichols si basò sull’omonimo romanzo di Charles Webb del 1963. Il film viene tutt’ora considerato tra i più rivoluzionari degli anni 60 e presenta un cast tanto sperimentale quanto potente e innovativo con Anne Bancroft, Katharine Ross ed un giovanissimo e strabiliante Dustin Hoffman. In oltre come co-protagoniste troviamo le iconiche colonne sonore di Simon & Garfunkel con i brani “The Sound of Silence”, “Mrs. Robinson” e “Scarborough Fair”.

LA TRAMA

Il laureato racconta la vita di Benjamin Braddock (Dustin Hoffman) un neolaureato che, una volta ritornato a casa a Los Angeles dopo il college, si rende conto di non saper cosa fare della sua vita. Egli inizierà ad avvicinarsi a Mrs Robinson (Anne Bancrof) la moglie del socio di suo padre. Inizialmente Benjamin si auto convincerà di star proseguendo la strada corretta ma con il passare del tempo e l’arrivo di Elaine (Katharine Ross), la figlia di Mrs. Robinson, il giovane laureato si sveglierà dal suo limbo e tenterà di prendere in mano la propria vita.

L’ALIENAZIONE INARRESTABILE

Il giovane Benjamin, nonostante sia riuscito a completare il suo percorso di laurea con soddisfazioni e successo, si trova a fare necessariamente i conti con una realtà che, grazie a tutti gli impegni della sua vita, era riuscito a chiudere in un cassetto. La pressione di Benjamin, che lo porterà ad alienarsi con la realtà, non si consuma solo all’interno dei suoi dubbi. La sua pressione si fortifica con la presenza dei suoi genitori e della società, che come delle sanguisughe vogliono succhiare via da lui tutto ciò che non riguarda la fantomatica carriera che dovrebbe perseguire.

I DUE MONDI DI BENJAMIN

Benjamin è costretto a vivere con una maschera pirandelliana con tutte le persone con cui si relaziona, vediamo che lui riesce a mettersi a nudo soltanto tramite la sua piscina, immerso in quella vita blu lui riesce ad alienarsi completamente dal mondo; vediamo esplicitamente come l’acqua riesce a separare i due mondi dove vive Benjamin, e che ogni adolescente è costretto a vivere per poter trovare la propria stabilità ovvero quello sociale, dove è costretto a vivere con le persone con cui si sente a disagio, e quello intimo dove lui può vivere solo senza dover dare conto e ragione a qualcuno.

Dustin Hoffman in piscina durante le riprese de Il laureato
Dustin Hoffman in piscina durante le riprese. “Il laureato” (1967) di Mike Nichols. Produzione: Embassy Pictures

MRS ROBINSON: LA PRESUNTA CURA

Come abbiamo già detto, anche se la piscina permette al nostro ragazzo di crearsi una propria vita dove esiste lui e nient’altro che lui, egli stesso si rende conto di non poter vivere in eterno sopra un materassino; ed è qui che entra in gioco la nostra Mrs. Robinson una donna complessa ed intrigante che, per via dell’infelicità del suo matrimonio, riesce ad intrappolare Benjamin all’interno del suo nido di ragno. Inizialmente forse vedeva quel giovane come un passatempo, ma iniziando a vedersi sempre più spesso e confessandosi reciprocamente le proprie frustrazioni, entrambi riescono a trovare nel rispettivo amante la soluzione ai propri mali. Essi sono diventati le loro rispettive medicine. Ma come ogni farmaco prescritto dal medico, le dosi sono necessariamente limitate per non rischiare di avere effetti collaterali opposti. Il segnale divino per far capire ai nostri protagonisti di smettere nel prendere quella pericolosa medicina fu l’arrivo di Elaine. Purtroppo però il foglietto illustrativo dei medicinali non sempre vien letto…

Benjamin e Mrs. Robinson in hotel ne Il laureato
Benjamin e Mrs. Robinson in hotel. “Il laureato” (1967) di Mike Nichols. Produzione: Embassy Pictures

IL GAP GENERAZIONALE E LA RIVOLUZIONE

Benjamin Braddock si fa carico, senza saperlo, della crisi della gioventù in conflitto con le generazioni precedenti. Il giovane laureato non riesce a conformarsi con l’ipocrisia dei propri genitori; egli non riesce a seguire quella strada perché ha bisogno di trovare il suo posto nel mondo. Paradossalmente Benjamin è il ragazzo con la più grande voglia di vivere che però non riesce a sputare fuori o per lo meno non riuscirà mai a farlo da solo. Solo condividendo la sua angoscia con qualcuno riuscirà a farsi strada tra le iene per poter arrivare alla vetta. Elaine, la figlia di Mrs. Robinson, sarà la donna che farà scattare l’allarme dentro Benjamin: finalmente ha capito, lui non potrà morire per mano delle generazioni precedenti, lui vuole diventare il condottiero dei suoi coetanei scaraventando il macigno che imprigionava chissà quanti giovani. Dopo innumerevoli insidie, i 2 giovani innamorati prenderanno il pullman che li porterà verso la rivoluzione.

Benjamin ed Elaine in fuga verso una nuova vita ne Il laureato
Benjamin ed Elaine in fuga verso una nuova vita. “Il laureato” (1967) di Mike Nichols. Produzione: Embassy Pictures

IL MOVIMENTO DEL 68

Precisamente un anno dopo l’uscita in sala del Il laureato, avvengono delle ondate di proteste, principalmente studentesche e operaie, che prenderanno il nome di “Movimento rivoluzionario del 68”. Le proteste si espanderanno a macchia d’olio e dureranno per tutti gli anni 70. La domanda che ci poniamo è, dove fu concepito il malessere giovanile che rivoluzionò gli anni a venire? Sicuramente i fattori politici, economici e sociali non mancarono ma la cosa che più si palesava era la necessità da parte dei giovani di cambiare vita, di staccarsi da quel cordone ombelicale materno che non riescono a riconoscere come proprio ed è in questo contesto che Mike Nichols un anno prima, con “Il laureato” firma la prefazione di una delle più grandi rivoluzioni del secondo dopo guerra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sanremo 2025: ci siamo. Ecco tutto quello che c’è da sapere

CI SIAMO. Uno degli eventi più attesi dell’anno è arrivato: la 75° Edizione del Festival di Sanremo. Sarà un’edizione ricca di novità e sorprese e già sta facendo parlare di sé, tra gossip e per la presenza degli artisti in gara. Ecco tutto quello che c’è da sapere

Quando inizia Sanremo 2025 e dove vederlo?

Dopo cinque edizioni condotte da Amadeus, sul palco dell’Ariston torna Carlo Conti, che aveva già condotto Sanremo per tre volte di fila (dal 2015 al 2017). Durante le cinque serate della manifestazione di quest’anno vedranno in gara 29 cantanti “big”, più 4 nuove proposte. Oltre ai big con le loro canzoni, ci saranno anche tanti ospiti e ci sarà anche spazio per la Serata delle Cover. Il festival della canzone italiana si svolgerà come tradizione in cinque serate, tra l’11 e il 15 febbraio 2024. Sarà possibile seguire il festival di Sanremo in diretta televisiva su Rai 1, in diretta radio su Rai Radio2 e anche in streaming su RaiPlay.

 

fonte: lumsanews.it

I concorrenti: big e nuove proposte

• Achille Lauro con il brano Innocenti giovani
• Gaia con il brano Chiamo io chiami tu
• Coma_Cose con il brano Cuoricini
• Francesco Gabbani con il brano Viva la vita
• Willie Peyote con il brano Grazie ma no grazie
• Noemi con il brano Se t’innamori muori
• Rkomi con il brano Il ritmo delle cose
• Modà con il brano Non ti dimentico
• Rose Villain con il brano Fuorilegge
• Brunori Sas con il brano L’albero delle noci
• Irama con il brano Lentamente
• Clara con il brano Febbre
• Massimo Ranieri con il brano Tra le mani un cuore
• Sarah Toscano con il brano Amarcord
• Fedez con il brano Battito
• Simone Cristicchi con il brano Quando sarai piccola
• Joan Thiele con il brano Eco
• The Kolors con il brano Tu con chi fai l’amore
• Bresh con il brano La tana del granchio
• Marcella Bella con il brano Pelle diamante
• Tony Effe con il brano Damme ‘na mano
• Elodie con il brano Dimenticarsi alle 7
• Olly con il brano Balorda Nostalgia
• Francesca Michielin con il brano Fango in paradiso
• Lucio Corsi con il brano Volevo essere un duro
• Shablo feat Guè, Joshua e Tormento con il brano La mia parola
• Serena Brancale con il brano Anema e core
• Rocco Hunt con il brano Mille vote ancora
• Giorgia con il brano La cura per me

 

E in più ci saranno ben 4 artisti provenienti da Sanremo Giovani: Settembre, Maria Tomba, Alex Wyse e Vale LP e Lil Jolie. I quattro si esibiranno con due sfide a eliminazione nella serata di mercoledì 12, mentre giovedì 13 tra i due rimanenti sarà decretato il vincitore della sezione Nuove Proposte.

Fonte: La Repubblica

Programma e Regolamento

Nella prima serata di martedì 11 si esibiscono tutti i cantanti in gara, votati dalla Giuria Sala stampa, tv e web (alla fine della serata saranno resi noti, in ordine sparso, i primi cinque classificati).
Mercoledì 12 e giovedì 13 i cantanti si esibiranno nuovamente, ma saranno divisi equamente e quindi ci sarà la metà degli artisti in ciascuna serata (la prima metà mercoledì e la seconda giovedì). Saranno tutti valutati in questo caso dal Televoto e dalla Giuria delle Radio (al 50% ciascuno): in ogni sera saranno svelati sempre i primi cinque classificati.
Venerdì 14 i duetti saranno valutati da Televoto (34%), Radio (33%) e Sala stampa (33%) ma quest’anno la graduatoria risultante non influirà sul risultato della finale della sera successiva.
Nella finale di Sabato 15, si esibiranno di nuovo tutti i cantanti. Saranno votati da Televoto (34%), Radio (33%) e Sala stampa (33%). Saranno rivelati a fine serata le posizioni dalla 6 alla 29 e poi i primi cinque classificati in ordine sparso. Questi ultimi saranno rivotati e da lì ci sarà il vincitore.

Fonte: Corriere Della Sera

Gli ospiti

Nel corso della prima serata, il superospite sarà Jovanotti A seguire, ci saranno anche la cantante israeliana Noa e la palestinese Mira Awad per cantare Imagine in un invito alla pace. Antonella Clerici e Gerry Scotti affiancheranno Conti.

Mercoledì 12, sono attesi Damiano David, Vittoria Puccini e l’intero cast del nuovo film di Paolo Genovese, Follemente, in uscita il 20 Febbraio. Il cast è composto da Edoardo Leo, Pilar Fogliati, Emanuela Fanelli, Maria Chiara Giannetta, Claudia Pandolfi, Vittoria Puccini, Marco Giallini, Maurizio Lastrico, Rocco Papaleo e Claudio Santamaria. Qui Conti sarà affiancato da Bianca Balti, Cristiano Malgioglio e Nino Frassica.

Nella terza serata di giovedì 13 ci saranno i Duran Duran e il cast della quinta stagione di Mare Fuori. Inoltre, ci sarà un momento dedicato a Iva Zanicchi che riceverà il premio Città di Sanremo. Tre saranno le co-conduttrici accanto a Conti: Miriam Leone, Elettra Lamborghini e Katia Follesa.

Nella quarta serata di giovedì 14, sarà dedicata alle Cover e ai duetti. Mahmood e Geppi Cucciari alla co-conduzione.
Infine, nella finale di sabato 15, è attesa come ospite l’attrice Valeria Scalera e Antonello Venditti riceverà il premio alla carriera. Carlo Conti sarà affiancato da Alessia Marcuzzi e Alessandro Cattelan.

Fonte: SkyTg24

Si preannuncia un’edizione piuttosto interessante e sicuramente ci sarà tanto da vedere. Pronti all’evento musicale italiano più atteso dell’anno ? Appuntamento da martedì 11 Febbraio alle 20:40 su Rai Uno e Radio Due.

Giorgio Maria Aloi

A Complete Unknown merita davvero l’Oscar?

A Complete Unknown
Grande prova attoriale da parte di Timothée Chalamet, ma la scelta minimalista della regia di Mangold risulta in una narrazione priva d’intensità. Ma è davvero degno delle sue nomination agli Oscar? – Voto UVM 3/5

Ė al cinema dallo scorso 23 gennaio A Complete Unknown,  l’attesissimo biopic su Bob Dylan.

Una fatica di durata quinquennale quella di Mangold – basata sul soggetto di Elijah Wald nel libro Dylan Goes Electric! (2015) – ora nominata Best Picture e Best Adapted Screenplay agli Academy Awards.   

Si tratta di uno dei titoli più chiacchierati dell’ultimo anno: vuoi per l’attrattiva del cast (Timothée Chalamet, Elle Fanning, Monica Barbaro), vuoi per la grande campagna promozionale dedicatagli, vuoi per il fascino enigmatico di un’icona come Dylan (nientemeno che uno dei produttori esecutivi del film), e per un’interpretazione che è valsa a Chalamet una nomination ai Golden Globe e ai prossimi Oscar.

Sinossi

New York. 1961. Il ventenne Robert Zimmerman arriva dal Minnesota, per incontrare il suo idolo Woody Guthrie, malato in ospedale, per inserirsi nella scena folk del periodo. Nasce Bob Dylan: mito costruito su mezze verità e reinvenzioni continue, ispirato da due amori tormentati e diventato la voce che ha incendiato gli animi di una generazione stravolgendo la scena folk in un solo iconico momento: Il Newport Folk festival del 1965.

A complete Unknown
una scena di A Complete Unknown di James Mangold (2024) (Searchlight Pictures, The Walt Disney Company Italia)

A Complete Unknown tra alti e bassi

Bob Dylan è notoriamente un tipo enigmatico: “un incrocio tra un chierichetto e un beatnick” come lo definisce una storica recensione del New  York Times del ‘61.

Si parla di un personaggio privo di quei tratti eroici che ci si aspetta dal protagonista di un biopic. E se si unisce una personalità estremamente ermetica ad un ambiente asettico, circondata da personaggi privi di ogni sviluppo, la narrazione cola a picco.

Calato in un’America in fermento che vuole abbattere e ricostruire la sua identità culturale, il film abbonda di indizi storici ricorrendo all’espediente di telegiornali, radio e quotidiani. 

Eppure, osservando il comportamento del protagonista, allo spettatore non arriva mai l’urgenza della lotta sociale che ha mosso la carriera di Dylan. Mentre la si percepisce meglio nelle due protagoniste femminili, emotivamente più coinvolte negli eventi socio-politici del tempo. 

La narrazione scorre lenta e lineare, con pochi dialoghi e ancor meno azione. L’unico momento di picco si ha a un passo dalla fine: il Newport Folk Festival del ‘65. Qui troviamo una scena che sfiora il ridicolo, con un pubblico così furibondo da sembrare una parodia, e vari cazzotti sganciati dietro le quinte nel tentativo di sabotare lo spettacolo. Un exploit d’azione alla spaghetti western totalmente fuori luogo, ma che almeno rende bene l’eccezionalità del momento.  

A Complete Unknown
una scena di A Complete Unknown di James Mangold (2024) (Searchlight Pictures, The Walt Disney Company Italia)

L’amore in A Complete Unknown 

Tormentate vicende sentimentali diventano qui un semplice susseguirsi di eventi di cui il cantautore muove le fila. Ė un flipper infinito tra Joan e Sylvie senza alcun margine evolutivo da parte delle due donne. Bob fa ciò che vuole e nessuno gli chiede spiegazioni. Il problema non sta nell’interpretazione di Monica Barbaro e di Elle Fanning, che sono invece degne di nota, ma sta nella resa cinematografica di dinamiche amorose così complicate.

Un’interpretazione da Oscar

Timothée Chalamet ha dovuto sfoderare la sua poliedricità come mai prima: interprete, voce di ogni traccia presente nella pellicola e co-produttore del film. 

La caratteristica ermetica e ambigua e l’umorismo sfacciato del cantautore sono ciò su cui Chalamet ha puntato di più nella sua interpretazione. Grande lavoro sullo studio della voce, della mimica facciale, della cinesica e dello staging: dal modo in cui tiene la sigaretta a quello in cui suona la sua Fender, alle unghie lunghe solo nella mano destra fino alla postura ricurva e ai suoi famosi “dead eyes”. 

Chiunque salga sul palco e voglia catturare l’attenzione deve essere un po’ strano, la gente non deve smettere di guardarti, devi essere come un incidente d’auto.

A Complete Unknown
una scena di A Complete Unknown di James Mangold (2024) (Searchlight Pictures, The Walt Disney Company Italia)

A Complete Unknown: un’overview sul lavoro di Mangold

Dopo il successo di Walk the Line sulla vita di Johnny Cash, Mangold torna al genere biografico. La fotografia è minimalista, senza movimenti di camera e sequenze elaborate. Vediamo luci fioche e gialle in ambienti interni cupi e ombrosi. L’elemento luminoso non è stato sfruttato granchè, mantenendosi su un’illuminazione d’ambiente priva di personalità. 

La palette del film privilegia colori come il giallo e il beige, e il legno norvegese – trend iconico dell’interior design dell’epoca – domina scenografie storicamente accurate e piacevolissime all’occhio.

La scelta di fare un uso quasi esclusivamente diegetico della musica è coerente col soggetto ma poco funzionale allo storytelling: allo spettatore non viene offerta nessuna hint sulla carica emotiva dei personaggi nei vari momenti della narrazione. Per capire cosa stia succedendo di fronte a lui ad ogni scena, lo spettatore deve contare unicamente sui dialoghi – per giunta anch’essi ridotti all’osso.

A Complete Unknown: Il folk che raggiunge tutti

Il folk che raggiunge tutti” è il vero protagonista dell’opera di James Mangold. Un genere che cambia insieme alla società, che dà voce alle lotte generazionali, e che per questo non può essere limitato ai brani di repertorio, ma deve poter innovarsi. Questa la mission del nostro protagonista, questo il mantra dell’intera opera. La musica di Dylan ci parlava di progresso quando nessuno era disposto a guardare al di là del proprio naso. Fino a quel ‘65 in cui Bob Dylan portò sul palco la sua Fender elettrica e cambiò per sempre la storia della musica. 

 

Conclave: un thriller filosofico-politico sulle debolezze umane

Conclave, un un thriller filosofico e politico sulle debolezze umane. Voto UVM: 5/5

Il regista tedesco Edward Berger, dopo il successo di Niente di nuovo sul fronte occidentale, torna a raccontare l’essere umano e le sue debolezze. Ma se nella pellicola vincitrice di 4 Oscar, la guerra faceva da sfondo, in Conclave è il mondo ecclesiastico ad essere protagonista.

Morto un Papa…

La sede pontificia è vacante, il Papa è morto e i cardinali devono riunirsi il più presto possibile in conclave per eleggere il nuovo pontefice. Ad assicurarsi che tutto proceda secondo la volontà di Dio è il Decano britannico Thomas Lawrence, che presto si renderà conto di quanto ben poco di divino ci possa essere dentro un conclave. A contendersi la guida del Vaticano ci sono diversi cardinali, tutti espressione di una diversa visione della Chiesa. L’italiano ultraconservatore Goffredo Tedesco, il progressista Aldo Bellini, l’africano Joshua Adeneya e l’americano Trembley sono i pretendenti al sacro scranno papale. Sullo sfondo anche lo sconosciuto cardinale sudamericano Vincent Benitez, ordinato in pectore dal Papa in persona mentre era in istanza a Kabul.

Conclave Regia: Edward Berger Distribuzione: Eagle Pictures

Conclave: uno scontro umano e politico

Berger, nell’adattamento del romanzo da cui è tratta la sua pellicola, non risparmia pesanti critiche alla Chiesa. In un contesto sociale in subbuglio, in una Roma assediata dalle bombe, il regista tedesco ci racconta di un conclave animato da strategie politiche e visioni contrastanti. Alcuni cardinali sono pronti a tutto pur di diventare Papa, e il Decano Thomas Lawrence interpretato magistralmente da Ralph Fiennes si troverà ben presto a dover fare i conti con una realtà fatta di essere umani. E come ogni essere umano, anche i cardinali non mancano di segreti, di pensieri e di peccati. D’altronde il papato è anche una figura politica, e i cardinali fanno politica in nome della loro visione di Dio e della Chiesa. Conclave non perde occasione per mostrare i conflitti e le contraddizioni dei cardinali e nel farlo ci pone spesso dei quesiti filosofici.

Quale futuro per la Chiesa?

Ad essere conteso non è solo il ruolo di Papa, ma è anche e soprattutto il futuro della Chiesa. Conclave infatti ci racconta lo scontro filosofico e teologico che da secoli coinvolge la Chiesa e che nel nostro secolo sembra più forte che mai. I fedeli diminuiscono sempre di più, lo scontro di religioni ha raggiunto Roma e i cambiamenti sociali che investono la società non possono più essere ignorati. Quale futuro allora per la Chiesa? Ritornare ad un passato conservatore di protezione o aprirsi alla società contemporanea e ai suoi cambiamenti? Il susseguirsi della votazione e delle fumate nere portano con sé un crescendo di tensione emotiva che tiene il fiato sospeso.

Un cast eccezionale che muove la pellicola

La forza di Conclave sta tutta nel suo eccezionale cast. Accanto ad un magistrale Ralph Fiennes, troviamo Stanley Tucci che interpreta il cardinale progressista Bellini e Sergio Castellitto che dà vita al cardinale italiano ultraconservatore Tedesco. John Litgow nei panni del cardinale Trembley e Isabella Rossellini nei panni di suor Agnes completa un cast d’eccezione che muove e che dà forza alla pellicola di Berger. Sono infatti le interpretazioni a caratterizzare umanamente i cardinali e loro idee e a mostrarci la loro visione della Chiesa. Il contrasto e il confronto nel conclave sono prima di tutto umani, e le varie interpretazioni si muovono all’unisono convincendo e creando quella tensione emotiva che accompagna tutta la pellicola.

Conclave Regia: Edward Berger Distribuzione: Eagle Pictures

Conclave, un finale forse troppo politically correct

Come in Niente di nuovo sul Fronte Occidentale, anche in Conclave il reparto tecnico è eccezionale. Una splendida fotografia e una potente colonna sonora evocativa accompagnano lo spettatore tra i corridoi vaticani e nelle riflessioni dei cardinali. Ancora una volta Berger non lascia niente al caso realizzando un’opera che sul piano tecnico è quasi magistrale. Ma se sul lato tecnico la pellicola non ammette alcuna critica, la scrittura del film è forse la parte dove il regista avrebbe potuto osare di più. Scegliendo di rimanere fedele all’opera letterale da cui è tratta la sceneggiatura, Berger confeziona un finale forse fin troppo politically correte dove manca il coraggio di osare con la stessa forza con la quale è mossa la critica alla Chiesa.

Un thriller filosofico e politico che convince

Nel complesso Conclave è un thriller filosofico e politico che convince. Tra misteri e segreti le solide interpretazioni e la storia raccontata creano una tensione emotiva continua nello spettatore e creano numerosi quesiti filosofici al cui sicuramente ciascuno darà una propria risposta. La pellicola di Berger, pur schierandosi apertamente in una critica non troppo moderata verso gli esseri umani che reggono la Chiesa, non cade nella facile demonizzazione della stessa mostrandoci che al suo interno ci sono diverse scuole di pensiero. Sta poi allo spettatore decidere quale abbracciare, tenendo sempre presente che le divisioni non portano mai a nulla di positivo.

 

Francesco Pio Magazzù

La guerra dei Rohirrim: si torna sempre dove si è stati bene

Rhoirrim
questo film d’animazione in stile anime da un lato rincorre l’epicità dei film di Peter Jackson, dall’altro cade sotto i colpi di una narrazione non sempre eccellente e di un’animazione a dir poco scadente. – Voto UVM 2/5

Tornare dove si è stati bene non è sempre facile, e La guerra dei Rohirrim ne è stata la prova. lo sa Frodo Baggins, tornato nella Contea dopo un viaggio che lo ha cambiato indelebilmente, e lo sa chi ha salutato per l’ultima volta la Terra di Mezzo nel 2014, quando nelle sale uscì Lo Hobbit: La battaglia delle cinque armate. Da allora forse anche noi siamo cambiati, scossi dalla bellezza di quei film, tanto che i tentativi di ritornare nell’universo creato dal professor J.R.R. Tolkien, non sono sempre riusciti nel loro intento di coinvolgerci in nuove storie. Ce lo ha insegnato la controversa serie tv Gli anelli del potere, ce lo conferma questo film d’animazione in stile anime che da un lato rincorre l’epicità dei film di Peter Jackson, dall’altro cade sotto i colpi di una narrazione non sempre eccellente e di un’animazione a dir poco scadente.

Sinossi

La nostra storia prende spunti da alcune appendici scritte da Tolkien per approfondire l’epopea di Helm Mandimartello, nono sovrano del regno di Rohan; un racconto mitologico dunque, che viene arricchito dalla storia di Héra e del suo coraggio nel guidare la resistenza del popolo di Rohan contro i selvaggi Dunlandiani, desiderosi di impossessarsi del trono; tra questi vi è Wulf, amico d’infanzia della protagonista che adesso brama il trono di Rohan e per ottenerlo chiede proprio la mano di Héra. Un’escalation di eventi che ci conduce verso un conflitto su ampia scala, che porterà la protagonista a caricarsi del peso della sua stirpe e del destino del suo regno.

Rohirrim
Héra ne La Guerra dei Rohirrim – © New Line Cinema

La Guerra dei Rohirrim tra alti e bassi

Sulla carta i personaggi di questo racconto mitologico sono tutti interessanti e molti spettatori sicuramente apprezzeranno il buon miscuglio tra fantasy e intrigo politico, unito all’epicità delle battaglie campali. L’approfondimento dei personaggi però non è del tutto convincente, colpa anche della trama che punta su un ritmo più incalzante. La conseguenza è che le scelte, sia dei protagonisti che degli antagonisti, risultano sovente incomprensibili e prive di razionalità per un’avventura piuttosto densa di avvenimenti ma che avrebbe dovuto bilanciare meglio ritmo e approfondimenti dei personaggi.

Rohirrim
La corte di Helm ne La Guerra dei Rohirrim – © New Line Cinema

La Guerra dei Rohirrim: una tecnica altalenante

Il problema principale di questo film, inutile girarci intorno, sono le animazioni gravemente insufficienti e lontane anni luce dalle vette recenti (Spider-Man: un nuovo universo, Arcane o Il gatto con gli stivali 2, n.d.s.). Questo freno tecnico non solo limita la recitazione dei personaggi (movimenti essenziali e legnosi, mimica facciale approssimativa), ma inibisce tante potenzialità espressive di una storia che avrebbe tutte le carte in regola per emozionare, ma che raramente ci riesce . La regia di Kenji Kamiyama pertanto rimane anonima e senza spunti memorabili.

Spezziamo una lancia in favore del comparto artistico. Costumi, sfondi mozzafiato, ambientazioni e armi sembrano davvero provenire dalla trilogia jacksoniana. Le musiche, che riprendono molto quelle del film Il Signore degli Anelli: le due torri, rimangono più che sufficienti per supportare ciò che viene mostrato dalle immagini.

Rohirrim
Héra e Wulf ne La Guerra dei Rohirrim – © New Line Cinema

Il futuro dei Rohirrim

Può preoccupare il fatto che i nomi coinvolti nella sceneggiatura o nella produzione sono proprio quelli di Peter Jackson, Philippa Boyens e Fran Walsh, gli artefici delle due trilogie dedicate alla letteratura del professor Tolkien che si occuperanno anche dei progetti di prossima uscita, come il già annunciato film live-action The Hunt for Gollum. É emerso che Warner Bros. ha investito solo 30 milioni di dollari sul film, velocizzando poi la lavorazione dell’anime per garantire che New Line Cinema non perdesse i diritti sui romanzi di Tolkien, facilitando la spiegazione dell’ insuccesso di questa pellicola. Queste notizie ci lasciano con un po’ di amaro in bocca per ciò che questo film d’animazione sarebbe potuto essere e che purtroppo non è stato. Non ci resta dunque che sperare in un altro viaggio nella Terra di Mezzo.

 

Pietro Minissale