Il diritto di contare: quando il “limite” è solo nella formula

Nuovo incontro in collaborazione con l’associazione AEGEE-Messina per il cineforum #socialequity: il film della settimana è la pellicola del 2016 di Theodore Melfi, Il diritto di contare (Hidden Figures).

Voto UVM: 5/5; una pellicola che pur trattando tematiche importanti è scorrevole e mai banale

Ispirandosi a tematiche di equità sociale, il film racconta la vera storia di Katherine Johnson (conosciuta anche come Katherine Gobble) che con l’aiuto delle proprie amiche, negli anni ’60, lotta contro le mille discriminazioni subite in ambiente lavorativo (e non) per poter esercitare i propri diritti. Tra tutti, quello di contare: ossia quello di vedersi riconosciute le proprie capacità, il proprio potenziale, ma anche e soprattutto quello di essere considerata al pari dei propri colleghi.

Magistrali le interpretazioni di Taraji P. Henson, Octavia Spencer e Janelle Monáe, affiancate da Kevin Costner, Kirsten Dunst e Jim Parsons.

(paoline.it)

La trama

Il film si apre con un salto negli USA del passato, mostrando una Katherine (Taraji P. Henson) in tenera età che studia presso un istituto per sole persone di colore (termine che con accezione dispregiativa veniva utilizzato per indicare la gente afroamericana). Sono gli anni della segregazione razziale e avranno fine solo decenni dopo. La bambina si distingue per le eccezionali doti matematiche, che le garantiscono di poter studiare nei migliori istituti.

Tornati al presente (nel 1961) Katherine ha trovato occupazione come addetta calcolatrice presso gli uffici della NASA assieme alle amiche Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe). Queste ultime – come la protagonista – aspirano entrambe a degli incarichi più alti ed adatti alle loro capacità ma che tuttavia non riescono a raggiungere, per via delle diffuse discriminazioni razziali dell’epoca.

Una svolta si ottiene in seguito alla promozione della protagonista, ammessa a lavorare per la Space Task Group. Quest’ultima, nata in occasione della “corsa allo spazio” contro i sovietici, mirava a mandare un uomo in orbita prima dei russi, ma come sappiamo, il primato è di questi ultimi che lanciarono in orbita di Yuri Gagarin nel 1961.

Da qui, molte sfide incroceranno i destini delle tre donne, che dovranno fare i conti con un computer IBM 7090 – che minaccerà il lavoro di molte addette del settore calcoli – e con una licenza d’ingegneria ottenibile soltanto frequentando dei corsi (presente in un istituto per soli bianchi).

(blog.screenweek.it)

«Un passo avanti per tutte noi»

La pellicola richiama un periodo di forte sofferenza per tutte le donne nere, riuscendo a mettere in luce una discriminazione subita a trecentosessanta gradi: intanto perché nere e successivamente perché donne. Le oppressioni che si riverberano nella vita di queste tre donne geniali ci mettono di fronte ad un grande quesito: dove saremmo oggi se il talento di molte di queste persone non fosse andato sprecato per stupide e immotivate discriminazioni razziali?

La particolarità di questo film è che, pur essendo ispirato alla lotta per i diritti civili, non ritrae enormi gesti clamorosi ed eroici: si tratta di persone che riescono a farsi strada grazie alle proprie armi e nello specifico quelle della mente.

E non è perché indossiamo le gonne… è perché indossiamo gli occhiali!

Questo è ciò che afferma la protagonista Katherine mentre passeggia col Tenente Jim, il quale mostra alcuni segni d’incertezza all’idea che una donna possa occuparsi di “cose così complicate”.

(comingsoon.it)

I vari volti dell’oppressione

Da qui, si evincono le oppressioni ricevute non solo dagli oppressori bianchi, ma per giunta dagli uomini neri che stanno al loro fianco. Tale caratteristica viene pienamente impersonata dal marito dell’amica Mary, il quale vorrebbe che lei fosse più presente a casa e la intima a non accettare le «concessioni dei bianchi, perché i diritti si dovrebbero pretendere». Una voce molto più radicale, che tuttavia investe il libero arbitrio dell’aspirante ingegnere. Ciò, tuttavia, non la fermerà dallo scegliere la strada più adatta a sé.

E ancora, naturalmente, non manca l’oppressione da parte di altre donne: la responsabile del reparto in cui lavorano le tre addette, interpretata da Kirsten Dunst, abbraccia il proprio ruolo di antagonista bloccando continuamente la strada a Dorothy che aspira a ricevere il ruolo di responsabile permanente.

Molti saranno gli ostacoli, molte le umiliazioni che si porranno sul cammino delle tre matematiche: a partire dalle difficoltà di trovare un bagno per gente di colore, passando per i famosi autobus coi posti a sedere per soli bianchi.

(rsi.ch)

Una valutazione finale

Insomma, un tripudio di tematiche che se non fossero state gestite con la massima serietà ed accuratezza avrebbero potuto mettere a rischio il film: fortunatamente quella che ci è stata servita è una pellicola seria ma leggera, dalla vena ironica (il classico “si ride per non piangere”) che coinvolge, che ci fa entrare nel mondo di una donna afroamericana negli anni ’60.

Riuscendo nell’intento, questo lungometraggio è riuscito a guadagnarsi varie candidature agli Oscar, tra cui quella a Miglior film, a Migliore attrice non protagonista (per Octavia Spencer) e quella a Migliore sceneggiatura non originale.

Una storia non certo facile da raccontare, ma da cui le giovani donne nere di oggi possono trarre ispirazione ed un sospiro di sollievo nel vedersi rappresentate. E questa componente non va affatto sottovalutata.

 

Valeria Bonaccorso

“Ragazzi sto per raccontarvi una storia: quella di come ho conosciuto HIMYM”

Chi non conosce How I Met Your Mother? Vale ancora la pena guardarla o consumare fiumi di inchiostro sulla sitcom più vista e citata negli ultimi vent’anni? Se siete piuttosto scettici, come direbbe il nostro Barney Stinson, la sfida è accettata!

Perché è diversa dalle altre sitcom

Nonostante ci troviamo immersi nelle classiche vicende di un gruppo di cinque amici a New York (una trama che superficialmente potrebbe apparire piuttosto scontata), sono notevoli gli elementi che differenziano questa sitcom dalle altre. Primo fra tutti la geniale dinamicità con cui si intersecano i diversi piani temporali: il background principale è costituito dal racconto che il protagonista Ted Mosby (Josh Radnor) fa nel 2030 ai figli adolescenti su come ha conosciuto la loro madre.

“Ragazzi sto per raccontarvi una storia incredibile: la storia di come ho conosciuto vostra madre” ( 1×1)                                               Fonte: hallofseries.com  

La narrazione torna indietro ai primi anni 2000 in cui abbiamo un Ted – quasi trentenne – alle prese con la ricerca dell’anima gemella e con una carriera da far decollare. Queste vicende si intrecciano con quelle dei suoi quattro amici in un gioco di dilatazioni e contrazioni temporali che alternano flashback e flashforwardUn altro elemento distintivo sono i dialoghi marcati da sarcasmo e ironia, una prontezza di battute argute che lasciano in alcuni tratti un’amara leggerezza, il tutto accompagnato da una ritualità di gesti spesso compiuti dai protagonisti; una dialettica nelle argomentazioni dei vari personaggi che si dimostra di gran lunga superiore rispetto a quella degli “storici rivali” Friends e New Girl.

How I Met Your Mother scatenerà nel corso degli episodi una riflessione su temi esistenziali, tra cui il destino, entità misteriosa e indomabile che “gioca” con i protagonisti: sarà il destino che porterà all’incontro con l’anima gemella o forse è l’universo che invia segnali che non sempre siamo pronti a vedere?

E poi ancora, spicca un simbolismo costruito ad arte. I momenti cruciali e di svolta sono sempre accompagnati dalla pioggia: questa è come se purificasse e cancellasse il superfluo così da permettere di chiarire situazioni che precedentemente apparivano ingarbugliate.

Ted Mosby ( Josh Radnor) consola l’amico Marshall Eriksen ( Jason Segel) – Fonte: hallofseries.com

Insomma una tecnica narrativa di alto livello rispetto all’idea di sitcom a cui siamo abituati.

Perché è ancora attuale? Polemiche e controversie

Durante il primo lockdown tanta gente ha pensato bene di riscoprire il fascino di questa serie e tra questi c’è anche chi si è fiondato alla ricerca del suo tallone d’Achille. Ma, come spesso accade, tutte queste polemiche hanno solamente scatenato l’effetto contrario, facendo tornare How I Met Your Mother tra gli argomenti più gettonati da un po’ di mesi a questa parte.

Le critiche mosse alla serie – sceneggiata da Bays e Thomas – sono state tante: da chi ha attaccato il controverso e attesissimo finale (che non intendiamo svelarvi ma che ha deluso molti fan), fino a chi la definisce come brutta copia della più storica Friends, in quanto riproporrebbe il solito copione dell’allegra combriccola di personaggi stereotipati che se la spassano sullo sfondo di New York e dintorni.

Maschilismo? Ma mi faccia il piacere!

Una su tutte – e forse la più assurda – è l’accusa di maschilismo mossa dall’improbabile popolo di femministe del web. É vero, non mancano le battute poco politically correct (come in qualsiasi commedia che si rispetti), ma di certo questo non è un pretesto per assaltare una sitcom che utilizza termini del linguaggio medio e quotidiano: l’esempio cruciale è il «bitch» di Marshall (Jason Segel) Robin (Cobie Smulders). Perché lo stesso non viene detto ai personaggi maschili?

Semplice: perché “bitch” è un termine prettamente femminile nel dizionario inglese, non maschile. Quindi, care femministe, pensate a riscrivere il vocabolario e non saltate all’assalto di una sitcom solo per l’utilizzo di termini ormai diventati di uso quotidiano nel linguaggio medio.

Infatti, scavando sotto la superficie, come pensate si possa considerare maschilista una serie in cui ci vengono presentati modelli così diversi di donne (a partire dall’intraprendente e indipendente Robin alla più tradizionalista ma furba Lily) senza che su nessuna di loro venga pronunciato un definitivo giudizio moralistico?

Barney Stinson ( Neil Patrick Harris) col suo “Playbook”. Fonte: aminoapps.com

Se c’è forse un personaggio su cui ricade una sentenza è al contrario Barney Stinson ( Neil Patrick Harris), il donnaiolo simpatico ma impenitente che si vanta senza pudore delle sue conquiste compulsive.  È proprio lui che dovrà subire un’evoluzione nel corso del racconto, è lui che dovrà crescere e dire addio ai suoi giochetti da playboy. Come lo farà non saremo noi a svelarvelo.

Il vero amore o l’amore reale?

Ma la polemica che colpisce più profondamente i fan HIMYM è quella per cui la serie sarebbe l’ennesima storia televisiva che porta in scena l’amore malsano, il classico – e pessimo – esempio per un’intera generazione di giovani, cresciuta a pane e false aspettative sull’anima gemella. La strada che porterà Ted (e il pubblico) a conoscere la madre dei suoi figli è lunga e piena di incroci, di segnali d’arresto e importanti deviazioni; una su tutte Robin, il colpo di fulmine e l’amore impossibile della sua vita.

Il giovane architetto è uno di quelli che sogna ad occhi aperti e tenta di progettare la vita tassello per tassello proprio come se si trattasse di un edificio, un ragazzo simpatico, ma a tratti un po’ pesante. Al contrario Robin è più leggera e definita dallo stesso Ted come «fluttuante»: vive e non pianifica, agisce e non sogna, è una donna sarcastica e indipendente che sembra avere come unico obiettivo la carriera. Come possono due persone così diverse avere un amore “sano”?

“E lei era là”: l’incontro di Ted con Robin ( Cobie Smulders). Fonte: insider.com

La loro storia infatti sarà tutt’altro che semplice e priva di peripezie.  Molto più tranquilla e lineare, e per questo esempio di “vero amore” (a detta di qualche dente avvelenato del web) la storia dell’altra coppia, Marshall e Lily (Alyson Hannigan). Ma la realtà non abbonda di rapporti «platoneschi» (come dice nella serie lo stesso protagonista) e storie tormentate alla Ted e Robin, piuttosto che di teneri idilli alla Marshall e Lily?

Ed esiste davvero un amore totalmente sano, se spesso ci si accorge d’amare proprio nel momento in cui l’altro ci fa soffrire?

In realtà i tira e molla di Ted e Robin non fanno che aggiungere pepe a una relazione che altrimenti risulterebbe noiosa e poco coinvolgente agli occhi del pubblico. Del resto è il tipico copione da commedia, dall’antichità fino ad oggi: il protagonista attraversa tanti temporali prima di veder rispuntare il sole.

E nella stupenda costruzione armonica di How met your mother le piogge non mancano, ma nemmeno gli ombrelli!

Una delle scene più iconiche di HIMYM: la folla di ombrelli gialli. Fonte: hallofseries.com

 

Angelica Rocca, Ilenia Rocca

 

Cesare Cremonini e il suo mostro: quando camminare e scrivere ti salvano

Il cantante “eterno adolescente” racconta la sua lotta contro la schizofrenia, la continua frustrazione di non riuscire a dargli un nome, la successiva scoperta e la sconfitta del mostro.

Chi è Cesare Cremonini?

Nasce a Bologna nel 1980, precisamente il 27 marzo. Sviluppa sin da piccino un’innata passione verso la musica classica e all’età di sei anni per la prima volta si approccia al pianoforte, strumento che è diventato il suo miglior amico lungo la sua carriera. Frontman e autore dei pezzi più importanti del gruppo dei Lùnapop nel 1999 e successivamente cantante solista dal 2012 ad oggi. Quant’è strano credere che Cesare Cremonini abbia sofferto di schizofrenia?

Cesare si spoglia di tutte le sue paure e decide di raccontarsi, affermando infine di aver sconfitto quel mostro che lo tormentava e “premeva sul petto” nel 2017. Ne parlerà anche in una canzone nell’album Possibili Scenari: in Nessuno vuole essere Robin (2018) afferma di aver rischiato in qualche modo la vita, come se una pallottola lo avesse sfiorato.

La canzone è volta a raccontare la paura di essere fragili, vista come una spinta attiva su cui combattere per costruire qualcosa di nuovo. All’interno continua a scrivere pensieri molto intimi seguiti dal forte desiderio di cambiare il presente e ricominciare.

fonte: corriere.it

Let them talk

Nella maggior parte dei casi, un individuo che soffre di schizofrenia è accompagnato da voci che gli altri non possono sentire.

Ancora oggi, Cremonini racconta di riuscire a udire quelle strane e inquietanti voci sussurrare dietro il suo orecchio o chiacchierare tra di loro, ma come gli disse il suo psichiatra «Let them talk», lasciali parlare. Di fronte alla sua voglia di raccontarsi e di raccontare il difficile percorso riabilitativo anche ai suoi fan, Cesare decide di scrivere e pubblicare il proprio libro il primo Dicembre 2020 dal titolo Let them talk, chiaro invito rivolto al lettore al fine di entrare nella sua sfera personale e di rivivere insieme a lui ricordi e suggestioni.

“Questo libro non cercherà di raccontare le mie diversità, ciò che mi rende unico per i dolori vissuti o per le fortune e i successi. Al contrario. Questo libro è nato, come tutte le mie canzoni, per far incontrare, e stringersi in un abbraccio, la mia storia con le storie di chi vi entra o ci passa accanto per caso.”

I brani musicali fanno da filo conduttore lungo tutte le 228 pagine.

 

Let them talk: copertina. Fonte: tg24.sky.it

Il mostro

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il cantante ripercorre il lungo viaggio all’interno dei suoi anni più difficili partendo dall’incontro con lo psichiatra che afferma sia avvenuto in maniera casuale dopo aver accompagnato un suo amico. Continua dicendo:

“Poi gli raccontai di me, di quel che provavo. I sintomi crescenti. La sensazione fisica di avere dentro di me una figura a me estranea. Quasi ogni giorno, sempre più spesso, sentivo un mostro premere contro il petto, salire alla gola. Mi pareva quasi di vederlo. E lo psichiatra me lo fece vedere. L’immagine si trova anche su Internet. “È questo?”, mi chiese. Era quello”

Lui lo descrive come un «mostro con gambe corte e appuntite» che imperterrito e senza pace continuava a salire lungo la schiena, il petto e premeva contro la gola. La sensazione era quella di condividere involontariamente ogni giorno la propria vita con una figura orribile e deforme. Quando lo psichiatra mise su carta i suoi incubi e quell’oscura creatura, non ci furono dubbi

“È questo?” chiese.
“Si, è questo” risposi.

Era chiaro, si trattava di schizofrenia. Il disturbo prendeva vita in quel caso come una sorta di allucinazione che veniva dall’interno, un’immagine proveniente dal subconscio dove aveva messo radici e si aggirava quasi come se quella fosse casa sua.

Il mostro della schizofrenia. Fonte: corriere.it

La rinascita

Lo specialista spiega che la causa scatenante della schizofrenia, in quel caso, era data dal lavoro e dallo stress accumulato: i giorni chiusi in studio, lo stile di vita poco sano, due anni di ossessione – che lo stesso cantautore definisce – feroce per la musica.

Superai i cento chili. Non facevo più l’amore, se non da ubriaco. Avevo smesso qualsiasi attività fisica.”

Nella sua intervista, Cremonini afferma che la cura al suo disturbo psichico sia stata la camminata, aver percorso per tanto tempo diversi km in montagna ogni volta che il mostro urlava nelle sue orecchie. E lo racconta così:

“Quando sento il mostro borbottare, mi rimetto in cammino. Su una collina, in montagna. Sono tornato dallo psichiatra alla fine del primo tour negli stadi. Mi ha chiesto se vedevo ancora i mostri. Gli ho risposto di no, ma che ogni tanto li sento chiacchierare. E lui: “Let them talk”…”

 

Annina Monteleone

A Gazzelle, il più Indie di tutti

Nello scrivere seguendo le «intermittenze del cuore» Flavio Pardini, in arte Gazzelle, è riuscito a creare un impero; nello scenario della musica italiana – ora più variegato che mai – la musica indie si fa sempre più preponderante e lui ne è uno degli esponenti più apprezzati. Il cantautore originario della capitale ha incantato milioni di ascoltatori con i suoi brani e la loro magia, mescolando vari stili della grande musica del passato e sintetizzando tutto in semplici melodie e ritornelli orecchiabili: un mix perfetto.

In occasione del suo compleanno, vogliamo rivedere (e ovviamente riascoltare) le canzoni più belle, quelle che l’hanno fatto entrare nelle top playlist di Spotify e soprattutto nella nostra vita.

Di me volevi solo te – Quella te (2016)

Questo brano è stato l’esordio dell’artista: un giovane che cantava nei bar di Roma camuffando il volto, nascondendo gli occhi dietro un paio di occhiali e indossando un cappellino con la visiera. Ha destato subito l’attenzione della critica ed ha cominciato la sua carriera con questa canzone, che poi diventerà parte di “Superbattito”, il suo primo album. 

Quella te è un brano molto anni 90 – come parte della discografia di Flavio – che racconta di una storia d’amore con nostalgia e con un pizzico di rabbia.

Screenshot del video ufficiale, fonte: wikipedia

«Quella te che rideva» potrebbe essere chiunque: potremmo essere noi o potremmo cantarlo a qualcuno; la magia del pezzo sta nel fatto che il soggetto del testo non ha una vera identità, si adatta ai vari momenti e ai vari protagonisti della nostra vita.

E io che come al solito fraintendo – Nero (2017)

Nero è uno dei singoli più ascoltati dell’autore (soprattutto dalla sottoscritta) e sembra essere un urlo di speranza.

Dal titolo non si direbbe, ma in realtà cela la consapevolezza che c’è sempre qualcosa di bello nonostante tutto; di certo Gazzelle non si risparmia nel descrivere le situazioni peggiori e ognuna di queste – ancora una volta – rappresenta qualcosa nella vita di chi la ascolta.

E non crescono i fiori, è vero, dove cammino io // Ma nemmeno è tutto nero

Screenshot del video ufficiale, fonte: wikipedia

La malinconia sfocia in speranza e il ritornello è così orecchiabile da rimanere stabilmente in testa.

Ti ricordi di me? – Scintille (2018)

Il 2018 è l’anno di un artista più maturo e il nuovo disco “Punk” sancisce un periodo molto attivo, con nuove produzioni e con concerti in tutta Italia, ma soprattutto con un massiccio aumento di ascolti.

In Scintille, Gazzelle canta come se stesse guardando se stesso nel passato:

Ti ricordi di me? […] // Io mi ricordo e lo sai, pensavo fosse amore invece erano guai

Screenshot del video ufficiale, fonte: wikipedia

Parla a se stesso o parla a qualcun altro? Beh, sicuramente ad ognuno la sua interpretazione, ma è certo che ogni strofa diventa indelebile dopo averla ascoltata. Delicato ma forte riesce ad adattarsi ad ogni sensazione; brano che durante i suoi concerti ha fatto illuminare gli spalti e cantare a squarciagola tutti gli spettatori, creando un’atmosfera unica.

Quando la luce s’infrange sopra le tue guance – Una canzone che non so (2019)

In “Post-Punk” Flavio arricchisce l’album precedente con quattro canzoni, tra le quali Una canzone che non so. Con un piano d’accompagnamento ed una chitarra che sottolinea i momenti più forti del testo, questo brano ha ottenuto subito grandi consensi.

Il video dà un volto ai protagonisti di questa storia ma le parole sembrano essere quelle di ognuno di noi (pensate o dette almeno una volta nella vita):

Che ti ricordi di me, lo so // Ma solo quando non ti calcolo

Screenshot del video ufficiale, fonte: wikipedia

Sembra quasi cercare una spiegazione per chiudere una storia o per dare un senso ad una rottura; quindi ci pone dalla parte di chi deve capire qualcosa e riapre la possibilità a nuove interpretazioni anche delle proprie esperienze.

E fermati qui e resta così – Scusa (2020)

Quest’ultima uscita è quasi un regalo che ci ha fatto alla conclusione di questo 2020.

Scusa (insieme a Lacri-ma e Destri) è una canzone che sarà parte di un nuovo album di cui non è nota la data di uscita o il titolo ; Gazzelle, in una intervista per Rockol, spiega: «Con le nuove canzoni ho recuperato i Nirvana: volevo fare qualcosa che fosse orientato verso una sorta di grunge, ma in chiave moderna».

Ancora una volta si riconferma il genio di Flavio: Scusa è una poesia; un testo capace di premere quei tasti giusti per emozionare ed eventualmente riaprire delle ferite passate.

Copertina ufficiale, fonte: YouTube

Anche grazie al bellissimo accompagnamento musicale, questo brano ha avuto un successo clamoroso; rimane impresso in mente e forse anche nel cuore di chi la ascolta:

E sarò io, e sarai te // L’unica cosa al mondo da non perdere

 

Cos’altro dire? Avremmo potuto parlare di ogni brano, dello stile che oscilla sempre tra una ballata d’amore e di malinconia, ma che riesce ad estrapolare qualcosa in più ogni volta; riesce a dare tono e forma ad alcune emozioni e lo fa sempre in maniera diversa.

Flavio, ti ringraziamo per tutte le lacrime che ci hai fatto versare e per l’intensità delle cose che ci hai fatto provare; diciamo che nonostante tutto in fin dei conti stiamo bene.

                                                                                                                                  Barbara Granata

 

Luci e ombre de “La regina degli scacchi”: è davvero la serie rivelazione dell’anno?

Voto UVM: 3/5

Miniserie in 7 episodi uscita il 23 ottobre, scritta e diretta da Scott Frank e ispirata al romanzo “The Queen’s Gambit” di Walter Tevis, La regina degli scacchi è la produzione Netflix più chiacchierata ed esaltata da un mese a questa parte. Ma è davvero la rivelazione di cui tutti parlano?

La trama

Tra gli anni ’50 e ’60, Beth Harmon (Anya Taylor-Joy), rimasta orfana di entrambi i genitori, riuscirà a riscattarsi puntando tutto sulla passione per gli scacchi, hobby insolito per una donna dell’epoca. La serie ripercorre la sua storia partendo dalla infanzia tra luci e ombre nell’orfanotrofio: qui inizierà ad assumere tranquillanti, ma farà anche l’incontro decisivo della sua vita con il custode Shaibel (Bill Camp). Sarà lui a farle scoprire il “mondo racchiuso nelle 64 case” della scacchiera.

La piccola Beth assieme al custode Sheibel, figura centrale nella sua formazione. Fonte: AdHoc News Quotidiano.it

Il personaggio

Beth, bambina prodigio e poi affascinante regina degli scacchi, è un personaggio enigmatico e spigoloso, con cui lo spettatore fa fatica a simpatizzare: la sua è un’esistenza al di là del comune, sempre in bilico sugli estremi del successo e della tragedia, proprio come il bianco e il nero che si alternano sulla sua amata scacchiera. E poi c’è anche la personalità: determinata quasi sino alla presunzione, distaccata e composta, caparbia e restia ad accettare la sconfitta; Beth sembra crollare solo assieme alla torre nei rari casi in cui perde una partita e scomporsi poco invece di fronte agli altri drammi della vita.

Ma l’apparenza inganna: la rabbia che si porta dentro, come la avverte il suo mentore Shaibel, è invece tanta ed è proprio questa che la spinge ad avanzare verso la vittoria e a imporsi ai nostri occhi come un’icona di femminilità anche in un mondo prevalentemente maschile come quello degli scacchi.

Beth di fronte al campione internazionale Borgov (Marcin Dorociński). Fonte: telefilm-central.org

Da goffo anatroccolo bullizzato alla High School, Beth si trasforma in un elegante e seducente cigno. Questo tuttavia non porrà fine alla sua solitudine: la Harmon, come qualsiasi eroe, resta in un mondo a parte ed è per questo che immedesimarsi nel suo punto di vista è difficile. Desta forse più simpatia (per quanto personaggio meno centrale) la madre adottiva Alma, con la sue crisi quotidiane tra alcool e Chesterfield e la smania di vivere il qui e ora, in quanto è «l’unica cosa che conta».

Tuttavia la determinazione di Beth nel perseguire l’obiettivo di diventare Gran Maestro degli Scacchi può essere di grande esempio in un’epoca come la nostra, in cui gli stimoli più disparati distraggono facilmente i giovani dalle loro vocazioni più profonde. Insomma un invito a premere sull’acceleratore del nostro talento, rivolto a noi ragazze (e non solo).

Mosse vincenti

Ci sbagliamo però se vediamo nell’emancipazione femminile la chiave per cogliere l’originalità della serie.

Dal grande cinema alle fiction Rai, le sceneggiature abbondano da tempo di storie di riscatto che hanno per protagonista una donna. L’originalità di The queen’s gambit (questo il titolo originale della miniserie che è anche il nome di una celebre mossa scacchistica: il gambetto di donna ) sta però nel calare questo racconto verosimile di rivalsa femminile in un mondo sconosciuto ai più: gli scacchi, gioco spesso considerato noioso e d’élite e rare volte oggetto di romanzi, film e tantomeno serie di successo.

Il montaggio racconta gli scacchi come un gioco di magiche armonie: i pezzi si muovono guidati dalle mani di Beth come se danzassero e l’ombra della scacchiera appare alla piccola protagonista sul soffitto quasi come in un incantesimo. Ma la mossa sicuramente più riuscita e che sicuramente ha fatto più gola agli spettatori è l’ambientazione d’epoca: il meglio degli anni ’50 e ’60 rivive nella colonna sonora che vanta nomi del calibro di Peggy Lee, The Monkees, Donovan, nei colori pastello della scenografia, ma soprattutto nell’eleganza dei vestiti creati su misura dalla costumista Garbiele Binder.

Beth Harmon in look total white. L’outfit è un chiaro rifermento alla Regina Bianca degli scacchi. Fonte: vogue.it

Altra gioia per gli occhi: la fotografia. Soprattutto nel primo episodio i colori fanno da contraltare al vissuto della protagonista: gli ambienti dell’orfanotrofio sono opachi e freddi; fa eccezione la camera del custode illuminata da una più confortante luce calda: è lì che Beth sarà folgorata dalla scacchiera.

Forzature

Sapevate che il compianto Heath Ledger voleva girare un film basato su “The queen’s gambit”? Un vero peccato che il progetto non sia andato in porto: i tempi più concisi del cinema avrebbero permesso di concentrare una trama che, distribuita invece su 7 episodi, stenta a decollare, rivelandosi a tratti lenta e poco avvincente. Anche l’intreccio è piuttosto monotono: la vita di Beth prosegue tra una vittoria e l’altra mentre alcuni eventi più personali spesso rimangono solo sullo sfondo o vengono narrati con poco coinvolgimento. Altro scoglio che può scoraggiare lo spettatore sono i dialoghi che indugiano troppo sul lessico scacchistico e rischiano di annoiare i più profani del gioco.

Scacco matto

Anya Taylor-Joy (Beth Harmon) davanti alla scacchiera. Fonte: nospoiler.it

La vera rivelazione della serie è invece Anya Taylor Joy nei panni della protagonista: è lei a reggere il gioco comunicando con lo sguardo e la mimica per creare un personaggio intrigante, ma anche impenetrabile e sui generis. Ci auguriamo di rivederla presto anche sul grande schermo: la sua performance posata e allo stesso tempo decisa è perfetta per trame gangster e thriller di tutto rispetto.

 

Angelica Rocca

 

Oltre la notte, un thriller introspettivo per raccontare il terrorismo

In questo 2020 dilaniato dalla pandemia da Coronavirus, non avremmo mai potuto pensare che ci fosse spazio per nuovi attentati terroristici di matrice islamica in alcune città europee. Giorni fa i media ci hanno riportato i fatti di Nizza – già reduce di un attacco nel luglio 2016 – e di Vienna, che fino ad ora non era mai stata colpita.

Rimanendo in tema con i drammatici accadimenti di questi giorni, vi proponiamo la recensione di una pellicola del 2017 del regista Faith Akin “Oltre la notte”, che mostra un’altra faccia del terrorismo, spesso meno nota a molti.

Fonte: Mymovies, Diane Kruger

Trama

Oltre la notte è un film ambientato nell’odierna Germania. La protagonista è Katja (Diane Kruger), una donna tedesca sposata con Nuri (Numan Akar) uomo di origini turche che in passato è stato in carcere per spaccio di stupefacenti. I due hanno un figlio di sei anni di nome Rocco.

Fonte: Panorama, Katja e Nuri (Numan Akar)

La vita di Katja viene sconvolta in una sera, quando percorrendo la strada per andare all’ufficio del marito (in un quartiere turco della città) trova molti poliziotti, transenne e tanta gente accorsa sul posto.

C’è stata un’esplosione proprio lì dove lavora Nuri; sia lui che il figlioletto Rocco sono morti. Katja in poche ore del pomeriggio ha perso praticamente tutto il suo mondo. Dalle prime indagini della polizia tedesca emerge subito che davanti all’ufficio qualcuno ha piazzato e fatto esplodere un ordigno. Purtroppo il passato dell’uomo legato alla droga fa subito pensare agli inquirenti che fosse coinvolto in qualche losco affare o che fosse attivo politicamente o addirittura finanziasse qualche associazione curda. Katja, nonostante il dolore, è più lungimirante. Secondo lei è un attentato di natura xenofoba, probabilmente di matrice neonazista.

La storia vera dietro il film

Il nostro regista, di origini turche, si è ispirato ad alcuni episodi di cronaca nera avvenuti tra gli anni ’90 e i primi 2000 da parte di un’associazione terroristica neonazista e xenofoba, la NSU, ai danni della comunità turca e di alcuni greci residenti in Germania. La polizia tedesca ricercava gli stessi colpevoli nel ristretto giro dei contatti delle vittime e negli ambienti legati al traffico di stupefacenti all’interno di queste stesse comunità, quasi a voler trovare una giustificazione a quelle stragi. Anni dopo la NSU rivendicò la paternità di quegli attacchi.

Originalità

Non siamo davanti alle solite storie di terrorismo, kamikaze e fondamentalismo islamico. Siamo davanti ad un attacco sferzato da gente proveniente dal cuore dell’Europa, una strage di matrice europea quindi da parte di “bianchi; una radice ideologica opposta a quella cui siamo stati abituati nel recente passato.

Non ci troviamo nemmeno davanti al solito thriller, allo scenario da “spionaggio” per andare alla ricerca dei colpevoli. Quello di Oltre la notte è un racconto introspettivo in cui viene messo in evidenza il dolore di una donna colpita dalla grave perdita del marito e del figlio. Non viene quasi per niente in rilievo il profilo psicologico degli autori del fatto, il regista si concentra sul profilo delle vittime e su come Katja (interpretata lodevolmente dalla Kruger) affronta la situazione.

Sempre un thriller sì, ma a sfondo introspettivo.

Fonte: Mymovies

La pellicola si struttura in tre parti: la famiglia, la giustizia, il mare. Un crescendo di suspense durante questi tre episodi; a fiato sospeso vediamo Katja affrontare il lutto, ricercare spiegazioni, chiedere giustizia e a tratti vendetta. Non mancano i colpi di scena ma –sicuramente – gli occhi di un attento osservatore riusciranno anche a cogliere un barlume di speranza che in qualche scena segnerà le vicende drammatiche della nostra protagonista.

Fonte: Movietele.it

Un thriller drammatico tratto da fatti di cronaca che è riuscito a conquistare molti premi cinematografici, tra cui il Golden Globe per il miglio film straniero e la Palma d’oro per la miglior interpretazione femminile a Diane Kruger al Festival di Cannes.

 Ilenia Rocca

 

 

 

 

Omaggio a Sean Connery, 90 anni da James Bond (e non solo)

Ci ha lasciato ieri a 90 anni il James Bond più famoso: Sean Connery. Scozzese doc e fiero indipendentista, l’attore, nato a Edimburgo nel 1930, aveva già dai primi anni 2000 abbandonato il mondo di Hollywood e dintorni, non senza lasciare prima una traccia inconfondibile e personaggi indimenticabili nella storia del cinema.

Il primo amore non si scorda mai: inimitabile 007

Il mio nome è Bond, James Bond

Celebre frase con la quale 007 si presenta per la prima volta

Se chi tardi arriva male alloggia, sicuramente chi arriva per primo si riserva la migliore “fetta di torta”. Forse sarà stata questa la fortuna di Connery: arrivare per primo nel 1962 a ricoprire il ruolo dell’agente segreto più famoso del mondo. O forse sarà stata la sua bravura,  il suo fascino deciso e allo stesso tempo raffinato, il suo essere mascolino senza essere rozzo, ad averlo reso il James Bond per antonomasia.

James Bond (Sean Connery) si presenta per la prima volta nel film “Agente 007 -Licenza di uccidere” – Fonte: wikipedia

Sean Connery ricoprirà questo ruolo in tutti i successivi capitoli della saga dal 1962 al 1967 e il vero e proprio fiasco del suo successore  George Lazenby (Agente 007- Al servizio segreto di sua Maestà, 1969) lo porterà- seppur controvoglia – a tornare ancora una volta, nel 1971, nei panni dell’agente segreto a servizio di sua maestà in Agente 007 – Una cascata di diamanti. Insomma, Connery si sarebbe potuto fermare al ruolo del sex-simbol con licenza da uccidere già dopo Dr. No (titolo originale del primo capitolo della saga), a quella battuta pronunciata con la sigaretta tra i denti e lo sguardo ironico e distaccato ai tavoli del casinò e sarebbe comunque già passato alla storia.

Ma la serietà professionale di Connery lo spinse a vestire altri panni oltre a quelli della spia a bordo dell’Aston Martin.

Tra i tanti, quelli dell’inflessibile poliziotto Jimmy Malone ne Gli intoccabili (1987) di Brian De Palma ( ruolo che gli frutterà il suo unico Oscar in un’immensa carriera), ma anche quelli di personaggi medievali come Robin Hood accanto ad Audrey Hepburn in Robin e Marian (1976), Riccardo cuor di Leone in Robin Hood- Principe dei ladri (1991) al fianco di Kevin Costner e un meno noto re Artù ne Il primo cavaliere (1995).

Un indimenticabile frate intellettuale ne “Il nome della Rosa”

“Addio Guglielmo, sei un pazzo e un arrogante, ma ti voglio bene e non cesserò mai di pregare per te.”

Il saluto di Ubertino da Casale a Guglielmo da Baskerville

Ma il ruolo medievale che forse è rimasto più impresso nei cuori di noi italiani è sicuramente quello di Guglielmo da Baskerville ne Il Nome della Rosa, coproduzione italo-franco-tedesca del 1986, per la regia di Jean-Jacques Annaud.

Il nome della Rosa: locandina. Fonte: amazon.it

Il film è tratto dall’omonimo successo editoriale senza precedenti di Umberto Eco e, pur presentando alcune differenze con la trama del libro, rende con efficacia quell’atmosfera tardo-medievale intrisa di mistero che l’autore ha dipinto nel suo giallo storico. Siamo nel burrascoso inverno del 1327: in un’abbazia benedettina sulle Alpi arrivano il frate francescano Guglielmo da Baskerville e il suo discepolo ancora novizio, Adso da Melk. Tra monaci oscuri e talvolta stravaganti, inquisitori bigotti e personaggi a metà strada “tra il santo e l’eretico”, i nostri protagonisti dovranno sbrogliare la matassa dei delitti che stanno sconvolgendo da qualche tempo la pace del monastero.

Si tratta davvero dell’opera del maligno? Cosa c’entrano queste misteriose morti col filosofo Aristotele? E perché è proibito ridere in questo monastero?

A queste domande cercherà di rispondere Guglielmo da Baskerville con l’aiuto di Adso e di strumenti all’avanguardia – si fa per dire – come un paio di occhiali e la forza dell’intelletto.

Frate Guglielmo da Baskerville con i primi occhiali. Fonte: festivaldelmedioevo.it

In un’età in cui i religiosi preferivano affidarsi al cieco misticismo e mettere a tacere la razionale sete di sapere, Guglielmo da Baskerville è a tutti gli effetti un outsider, un religioso illuminato, un progressista ante-litteram; è lui il vero “visionario”, dalla mente proiettata in avanti rispetto all’oscurantismo dei suoi tempi.

Con il suo freddo charme scozzese – che traspare anche sotto il saio -, i gesti misurati e lo sguardo acuto e intrigante, Sean Connery si rivela perfetto nel dare voce e corpo all’arguto detective francescano partorito dalla penna di Eco: sfido chiunque inizi a leggere oggi il nome della Rosa a non raffigurarsi frate Guglielmo da Baskerville con il volto di Connery.

Il suo è un personaggio affascinante che desta simpatia, ma a volte anche rabbia per l’eccessiva freddezza intellettuale: Guglielmo – come gli rimprovera Adso – «sembra avere pietà più per i libri che per le persone». Tuttavia non possiamo non gioire con lui quando si infiamma davanti alla biblioteca dei benedettini, «un vero tesoro di sapienza e conoscenza».

Adso ( Christian Slater) e Guglielmo nella biblioteca. Fonte: huffingtonpost.it

Pare che l’interpretazione di Guglielmo da Baskerville stesse molto a cuore anche allo stesso Connery, che studiò molto per questo ruolo. Il suo impegno e il suo talento furono infatti premiati con un meritatissimo premio BAFTA.

Versatilità e stile senza pari

Il prof Henry Jones (Sean Connery) che mette in fuga gli uccelli in “Indiana Jones e l’ultima crociata” Fonte: movieworldmap.com

Con Sean Connery se ne va un attore molto versatile, capace di vestire e svestire panni diversi passando dal più classico degli action movies a ruoli da “intellettuale” (si veda anche il simpatico archeologo padre di Harrison Ford in Indiana Jones e l’ultima crociata, 1989), ma anche l’ultimo esempio di virilità forte e allo stesso tempo elegante.

Ha affermato Gina Lollobigida:

“Un uomo semplice, ma elegantissimo, uno stile inconfondibile il suo.”

Uno stile che sicuramente rimpiangeremo.

Angelica Rocca

Roberto Benigni, maestro della risata e della leggerezza

Roberto Benigni, è a lui che dobbiamo alcuni dei ricordi più divertenti ed emozionanti degli ultimi 50 anni del mondo dello spettacolo: Sophia Loren che lo annuncia come vincitore dell’Oscar nel 1999, i suoi racconti strampalati e le sue gag al “David Letterman Show” o al “The Graham Norton Show”, lo scambio di pantaloni con Baudo o l’assalto, con tanto di «Che bella chiappa!», a Raffaella Carrà.

Benigni agli Oscar del 1999 – Fonte: avvenire.it

Per non parlare poi della sua attività di divulgazione culturale tramite la lettura, il commento della Divina Commedia e dei dieci comandamenti (che gli sono valse svariate lauree honoris causa in lettere e filologia). Insomma, l’attore toscano è entrato nei nostri cuori grazie alla sua leggerezza, alla sua ironia e al suo spirito sempre giovane che ci fa ricordare quanto sia bello ridere di gusto.

Proprio oggi, al compimento dei suoi 68 anni, vogliamo omaggiarlo e soprattutto ringraziarlo per alcune delle sue migliori interpretazioni sul grande schermo.

1) Johnny Stecchino (1991)

Se un film in cui recita Benigni è un capolavoro garantito, come può non esserlo ancora di più un film con un “doppio” Benigni? In Johnny Stecchino lo troviamo ad interpretare sia Dante, uno scapestrato autista di scuolabus, sia – appunto – Johnny, boss pentito della mafia di Palermo. A tenere insieme questi due personaggi c’è Maria (Nicoletta Braschi), la moglie del pentito.

Lei, dopo aver incontrato per caso Dante, comincia a ordire un piano per far fuggire il marito da Palermo approfittando dell’incredibile somiglianza tra i due. Il susseguirsi di un equivoco dopo l’altro ci accompagneranno tra le (dis)avventure di Dante a Palermo, ignaro del perché abbia gli occhi di tutti puntati addosso quando cammina per le strade della città.

Benigni è magistrale nel caratterizzare alla perfezione entrambi i personaggi: Dante, così ingenuo e gentile e Johnny, così rude e crudele.

E poi, chi avrebbe immaginato che rubare una banana a Palermo fosse così pericoloso?

Benigni nei panni di Johnny – Fonte: roberto-benigni.com

2) Il mostro (1994)

Benigni interpreta, come spesso accade nei suoi film, un vinto dalla vita. Lo troviamo infatti nei panni di Loris, un quarantenne disoccupato che tira avanti rubacchiando qualcosa qua e là e facendo dei lavoretti saltuari. Nella zona in cui abita Loris sono ormai alcuni anni che un serial killer, definito “il mostro”, perpetra una serie di efferati omicidi che hanno come bersaglio giovani e belle donne.

Per un malinteso nato durante una festa, Loris verrà sospettato di essere il mostro. La polizia comincerà dunque a investigare su di lui e incaricherà la poliziotta Jessica (ancora Nicoletta Braschi) di avvicinarlo per studiare da vicino le sue mosse. Ne nascerà un’esilarante commedia in cui i doppi sensi e le sfortunate coincidenze la fanno da padrone, e noi vi consigliamo di seguirla fino alla fine per conoscere la sorte del povero Loris.

Loris in una scena del film – Fonte: taxidrivers.it

3) La vita è bella (1997)

Senza tanti giri di parole è il capolavoro di Benigni. L’attore veste i panni di Guido, un libraio di origine ebraica sposato con Dora (la solita Nicoletta Braschi). Dal loro amore nasce Giosuè e la loro famiglia vive felice nonostante il periodo delle persecuzioni fasciste. Questo fino al 1944, quando vengono deportati in un lager.

È a questo punto che l’ingegno del padre si mette in moto: per proteggere il figlio dall’orrore dei campi di concentramento fa credere al bambino che siano stati scelti per partecipare a un gioco a punti, in cui il premio finale è un carro armato vero. Vincitore di 3 premi Oscar (miglior attore protagonista, miglior film straniero e miglior colonna sonora), è stato da alcuni criticato per la leggerezza con cui tratta uno dei capitoli più bui della storia. In realtà sta proprio qui la sua forza, far ricordare che ci può essere del buono in ogni situazione e che la purezza di un bambino non dovrebbe mai essere infangata dagli sbagli dei grandi.

Guido e la sua famiglia. Fonte: rbcasting.com

La lista dei suoi capolavori è veramente lunga tra cinema (basti pensare alla collaborazione con Troisi di cui abbiamo parlato in questo articolo), teatro e televisione. Qualsiasi mezzo decida di usare, noi ci auguriamo che continui a entrare nelle nostre vite per portare un po’ di buon umore come solo lui sa fare. In fondo siamo del parere che ancora nessuno sia in grado di raccogliere la sua eredità. Nessun attore infatti, ad oggi, gli somiglia “pe’ niente”.

Davide Attardo

I rap-conti della buonanotte del professor Murubutu

Da oggi si dorme un’ora in più; mettere indietro di 60 minuti l’orologio renderà la notte più lunga e il nostro risveglio con la luce.

Ed è proprio la notte, spaventosa e affascinante che da sempre fa da ispiratrice ai grandi artisti; ai giorni nostri nessuno meglio del Rapper-Prof Alessio Mariani, in arte Murubutu ne capisce l’essenza e ce la sa descrivere.

Il suo disco Tenebra è la notte ed altri racconti di buio e crepuscoli, racchiude con delicatezza e realismo tutto ciò che notte rappresenta. Da solo o con dei featuring d’eccezione, il professore riuscirà a pieno nel suo intento; noi abbiamo scelto solo cinque delle sue canzoni-poesie, il resto sta a voi.

1) Eh, qua è tutto uguale, per questo è perfetto – La notte di San Lorenzo

La notte di San Lorenzo è un brano che racconta una storia d’amore finita; ma, dietro questa apparente banalità, riesce ad incastrare magistralmente i temi del desiderio, della meraviglia e della nostalgia. 

La capacità di meravigliarsi, di provare un sentimento stupore inatteso e straordinario è senza dubbio fondamentale per essere felici.  Questa capacità così importante viene appresa durante l’infanzia; sono proprio le esperienze precoci e l’amore dei genitori a permetterci di diventare adulti capaci di meravigliarsi.

In questa canzone, Murubutu ci fa viaggiare attraverso il cielo stellato di una notte estiva in Sila vista proprio dagli occhi di un bambino. Cosi un « grappolo di case appese sul tirreno» diventa «un mondo intero» dove i protagonisti crescono felici.

Fonte: pagina Facebook Ernesto Anderle – la notte e la spensieratezza

Io sto ancora qui scalzo, felice come in quei giorni
Fra i monti, io ho sempre quella stessa età

con questo verso si conclude l’ultima strofa; e il protagonista – divenuto ormai adulto – guarda il mondo con occhi diversi ma conservando ancora intatta quella capacita così intima di sentire la magia della vita.

2) Uno scrittore accende il lume e inizia la bugia – Occhiali da luna

Occhiali da luna ci trasporta in un’atmosfera cittadina notturna in cui tutti intorno dormono e uno scrittore trova la propria dimensione esistenziale. Così l’artista, libero dalle pressioni e dalle costrizioni che la vita in società impone, si «gode questo limbo in cui non serviranno trucchi».

Di notte riesce ad entrare in contatto con se stesso, con le proprie emozioni ed è cosi che il buio diventa una guida perché «Quando c’è buio vedo tutto più chiaro».

Fonte: pagina Facebook Ernesto Anderle – Lo scrittore durante la notte 

Questo pezzo è quasi un’autobiografia; Murubutu ha affermato di  riuscire a scrivere tra le due e le tre del mattino e tramite questo brano riesce a spiegarci come il suo problema nel prendere sonno viene convertito in arte.

3) Per sentirla vicina, occorre averne un poco dentro – Wordsworth

Wordsworth è una poesia dedicata alla luna. Lei «regina del firmamento», che con la sua luce ha illuminato le notti dell’umanità ben prima dell’invenzione delle lampadine o della scoperta del fuoco, diventa musa di Murubutu e di Caparezza.

Il titolo del pezzo fa riferimento a William Wordsworth, poeta ottocentesco inglese che ha dedicato diverse poesie alla luna (tra cui la famosa Paesaggio Lunare). In realtà non si rifà semplicemente all’autore ma all’intero periodo romantico, richiamandone diverse tematiche trattate anche da altri scrittori come Leopardi o Foscolo ma anche da pittori come Friederich o dai filosofi Schelling e Fichte, tutti citati nella canzone.

Fonte: pagina Facebook Ernesto Anderle – vari autori del passato e del presente (tra i quali Caparezza a destra)

I temi chiave del brano sono: la meraviglia davanti all’infinito, la sensazione di piccolezza nei confronti della grandezza della natura, la contrapposizione tra io finito e natura, non solo come opposti ma come parti dello stesso infinito. La canzone si dirama tra citazioni passate ed immagini nuove, in un brano che diventa un ottimo connubio tra sonorità moderne e temi letterari intramontabili.

4) Il sole non c’è, là fuori è notte e il buio impera – La vita dopo la notte

In La vita dopo la notte, Murubutu racconta una storia d’amore senza tempo e senza fine.

Con la sua capacità di storytelling ci porta ad immaginare una giovane coppia che dopo la grande guerra si innamora e prova a costruire – in modo molto tradizionale – la propria vita: «lui con le sue mani, ne eresse le basi poi i piani, le travi» per la sua «sposa vestita a festa; radiosa, pudica e fresca».

Fonte: pagina Facebook Ernesto Anderle – Vittorio e Donata in via Pascal

La loro vita diventerà poesia, di cui il professore riuscirà a cogliere i dettagli più belli così come quelli più cupi e in soli quattro minuti ci farà rivivere l’amore dei nonni, il calore del loro abbraccio e il freddo del loro abbandono.

Sai non temo anche se tremo
Sai che credo che staremo sempre insieme senza avere età

5) Maremoto sensoriale – Le notti bianche

Citando Dostoevskij e rappando con Claver Gold, il Prof riesce ad esprimere la superiorità del sogno rispetto alla realtà.

Le notti bianche – così come il celebre e omonimo libro russo – racchiude l’ebrezza del sogno e sottolinea come questo sia il motore delle nostre emozioni e delle nostre azioni durante il giorno.

Racconta la storia di un incontro; il desiderio si veste da donna e il sognatore non è altro che un uomo che la cerca e se ne innamora senza mai averla vista. Lui, come tutti noi,  ha il pensiero fisso di conoscere ciò che c’è di più nascosto e sconosciuto.

Con la consapevolezza che «sarebbe rimasto d’incanto dopo tanta ricerca», l’uomo sceglie la luce della luna per cercarla e «dopo averla cercata tutte le notti, dopo quel giorno» si accorge che «non esiste realtà che resti all’altezza del sogno».

Tutto d’un tratto le sensazioni vengono interrotte
Più che svanite direi lenite o del tutto ridotte

 

Quindi, qualunque sia il nostro modo di vivere la notte, Murubutu riesce a descriverlo e lo rende poesia. Storie in versi che ci sembra di aver vissuto o di aver immaginato almeno una volta e, per quanto possa fare paura, un’ora in più del 2020 non sarà tanto brutta; soprattutto se trascorsa ad ascoltare questo disco.

Che dire Prof, ci ha insegnato la realtà e lo ha fatto con grande stile.

Barbara Granata e Lorenzo La Scala

#OttobreRosa: Allacciate le cinture, una commedia drammatica al femminile

In queste settimane dedicate alla campagna di sensibilizzazione per la prevenzione e la cura del cancro al seno, noi di UniVersoMe ne stiamo trattando ogni aspetto; nell’ambito della rubrica Recensioni abbiamo scelto il film Allacciate le cinture, pellicola proiettata nel 2014 nelle sale italiane e diretta dal regista italo-turco Ferzan Ozpetek.

Trama

Questa commedia drammatica – genere tipico del regista – racconta la storia di Elena (Kasia Smutniak), una giovane barista leccese che a cavallo tra gli anni ’90 e i primi del 2000 ha una relazione con Antonio (Francesco Arca), il fidanzato della sua migliore amica Silvia.

Antonio ed Elena sono dei personaggi un po’ stereotipati ma allo stesso tempo molto diversi tra loro: rozzo, razzista e omofobo lui; indipendente, acculturata e progressista lei.

Fonte: la Repubblica – Elena e Antonio 

L’azione cinematografica subisce un’evoluzione repentina. Dai primi passi della loro relazione, vi è poi uno stacco temporale e le scene giungono subito ad un prossimo futuro in cui vediamo i due personaggi sposati con figli (precisamente un bambino e una bambina). Elena adesso è socia del suo migliore amico Fabio e i due gestiscono un bar.

Le vicende di Elena

Tralasciando le tecniche cinematografiche tanto care ad Ozpetek, come ad esempio l’intersecazione di differenti piani temporali presente anche in questa pellicola, ciò che andremo ad analizzare è la vicenda che coinvolge la protagonista più o meno a metà film.

Elena casualmente si sottopone ad uno screening mammografico e le viene diagnosticato il cancro al seno.

Il regista dedica metà del suo lavoro al racconto della malattia della protagonista e del modo in cui lei la affronterà.

Elena non si abbatte subito, cerca di condurre una vita normale e di trattenere a morsi la sua quotidianità. Fa finta di niente, non mostra un minimo tentennamento neanche quando si dovrà aprire davanti alla sua famiglia raccontando cosa le sta succedendo e le terapie alle quali si dovrà sottoporre.

Ben presto però gli effetti della chemio si scagliano su di lei, ed Elena a questo punto non può più far finta che tutto sia normale (come faceva quando non era ancora a conoscenza di quel mostro si era depositato nel suo seno). Neanche Antonio può continuare a rimanere chiuso in sé stesso e nel suo dolore.

Fonte: La Gazzetta dello Sport – Elena (Kasia Smutniak)

La loro figlia comincia a capire che la madre sta male e che forse potrebbe non vederla crescere; le fa quindi delle foto. Vuole imprigionarvi il ricordo del viso.

Ozpetek – che è un maestro nel racconto sul grande schermo delle vicende umane – stavolta si concentra sul cancro e su come esso si ripercuote anche tra gli affetti e nella quotidianità della persona che ne soffre. Tutto cambia, le piccole attività non sono più le stesse, anche andare dal parrucchiere è differente; quando Maricla “un’ amica” di Antonio si offre di «farle i capelli», Elena rifiuta:  non ha più bisogno di pieghe, tinte e tagli, sa benissimo che molto presto diventerà calva e avrà – piuttosto – bisogno di una parrucca.

Fonte: La Gazzetta dello Sport, Maricla la parrucchiera (Luisa Ranieri) ed Elena

La giovane donna non viene lasciata da sola nel suo percorso contro la malattia. Forse il messaggio che cerca di veicolare il regista è proprio questo: l’importanza del contatto umano e delle relazioni in un momento così delicato.

Ognuno, nel piccolo mondo di Elena, a proprio modo le è vicino: dall’eccentrica zia all’apparente cinica madre, dall’amorevole amico Fabio alla singolare compagna di letto d’ospedale Egle che condivide la sua stessa sofferenza. Infine c’è Antonio: il loro rapporto oscilla tra alti e bassi, ma forse è l’unico che riesce a trasmettere ad Elena quella tenerezza e quell’ affetto di cui lei ha bisogno, che riesce a farla sentire desiderata nonostante le trasformazioni che il suo corpo sta subendo a causa delle cure.

 

Una storia, quella raccontata in Allacciate le cinture, che mostra purtroppo un dramma che colpisce l’universo femminile; un genere del tutto particolare, la commedia drammatica – come già sottolineato – in cui i tratti di ironia non sono affatto marginali, a differenza di quanto si potrebbe pensare, nemmeno nelle scene in cui si manifesta tutto il dolore di Elena.

Ilenia Rocca