Buon compleanno alla voce dei Negramaro, Giuliano Sangiorgi

Giuliano Sangiorgi nasce il 24 Gennaio del 1979 a Nardò da mamma Carmelina e papà Gianfranco. Trascorre per un paio di anni la sua vita a Copertino e subito dopo il diploma nel 2000 fonda i Negramaro. Si tuffa immediatamente nel mondo della musica e nel 2005 decide con l’intero gruppo di partecipare al Festival di Sanremo. Da quel momento in poi la band riuscirà a segnare la propria storia all’interno della musica italiana, insieme a grandi successi.

In occasione del suo compleanno, ripercorreremo insieme le canzoni più belle della band salentina.
A voi lettori, buona immersione!

Giuliano Sangiorgi insieme ai Negramaro, fonte: fanpage.it

Mentre tutto scorre (2005)

Grazie a questo brano “senza tempo” i Negramaro inaugurano il proprio successo al Festival di Sanremo nel 2005, facendosi conoscere e amare dal grande pubblico. Nonostante siano stati eliminati già alla terza serata riuscirono ad ottenere il disco di platino per le oltre 50.000 copie vendute. Inoltre, la canzone si fa spazio anche nel film comico La Febbre (2005) di Alessandro D’Alatri.

“tanto poi tu lo sai riuscirei sempre a convincermi che tutto scorre”

 

Mentre tutto scorre: cover. Fonte: youtube.com

Estate (2005)

Quello dei Negramaro, in questo caso, somiglia ad un vero e proprio inno alla libertà dei sentimenti e delle emozioni. Pubblicata nell’estate del 2005, precisamente il 30 giugno, vuole raccontare quei momenti di vita interiore spesso contrastanti che caratterizzano la stagione estiva, quel momento dell’anno che tutti vorremmo non finisse mai. La canzone si è aggiudicata per due mesi il primo posto in classifica, oltre al riconoscimento di rivelazione italiana al Festivalbar.

“in bilico tra tutti i miei vorrei non sento più quell’insensata voglia di equilibrio”

In bilico tra quella voglia di equilibrio e la voglia di lasciarsi andare. Il cantautore si sente intrappolato tra due opposti che non gli permettono di esprimersi e di uscire dalla propria zona comfort. Ma successivamente, lungo il brano, decide di liberarsi e di non mascherare più l’allegria per paura di perderla. Rinuncerà a qualsiasi tipo di insicurezza per lasciarsi andare ad un’estate senza rimpianti, permettendosi di vivere emozioni e sentimenti che prima reprimeva.

I Negramaro. Fonte: newsic.it

Parlami d’amore (2007)

Nata nell’anno 2007 e contenuta nell’album La finestra, alla canzone in riferimento viene attribuita la vittoria del Festivalbar nello stesso anno di pubblicazione diventando anche uno dei tormentoni estivi. Il quarto disco in generale contiene 14 tracce importanti, passate alla storia della musica italiana come dei veri capolavori.

“Fra tutte, quale alternativa sei? Amore…”

La finestra:cover. Fonte: youtube.com

Sei (2012)

L’enigmatica canzone è contenuta nell’album Storia semplice. Il disco ha ottenuto ben tre dischi di platino e oltre 180,000 copie vendute. Misteriosa ed affascinante perché si adatta a diversi contesti e scenari. Alcune volte sembra raccontare una bella storia d’amore, altre volte una relazione che inciampa e non riesce ad andare avanti ed altre ancora la storia di un amore clandestino tra due amici che si innamorano e dopo tanto tempo non si riconoscono più.

Seppur comunque sia difficile decifrare il suo significato a pieno, è altrettanto semplice assaporare il lieto fine delle ultime battute.

“E ho capito che se mi rifletto guardandomi il viso non mi riconosco ma poi un bel sorriso mi taglia la faccia e mi dico sono identico a te. Ehi vuoi cambiarmi…”

Una storia semplice:cover. Fonte: youtube.com

Attenta (2015)

La canzone proviene direttamente dall’album La rivoluzione sta arrivando, in cui i Negramaro mostrano la propria evoluzione e la propria voglia di attuare ogni giorno quella sorta di rivoluzione interna che spinge tutti a reagire nei momenti bui e a mettere la vita al centro di ogni cosa.
Quello che viene raccontato è un bacio che lega i due amanti ad attimi in cui non potranno più ritornare indietro. Un leggero sfiorarsi le labbra in cui l’attrazione e la chimica padroneggia.

Giuliano riprende quindi uno dei momenti più intensi che si possa vivere in una storia d’amore rivelata o segretamente accudita, con una poetica raffinata e continue note vibranti che indagano segrete emozioni.

“Ricordati degli angoli di bocca son l’ultimo regalo in cui ti ho persa, stai attenta, stai attenta almeno a te”

Giuliano Sangiorgi nel videoclip di “Attenta”. Fonte: soundsblog.it

Per uno come me (2018)

Tratto dall’album Amore che torni, il brano racconta la storia di due naufraghi che desiderano far capo alla promessa più bella che si possa fare alla persona amata: invecchiare insieme.

È un atto di fede, un testo molto delicato che tende al futuro e mostra una romantica dichiarazione d’amore.

“Amami, anche se non mi conosci, ti prego amami, anche se siamo nascosti. Amami senza dovermi cercare senza sapere da che parte stare”

Amore che torni:cover. Fonte: youtube.com

Avremmo potuto proseguire raccontando ogni singolo brano, continuando anche ad emozionarci e a varcare ancora di più il confine. Avremmo potuto cantare ancora insieme e tingere di rock questa pagina di giornale, continuando ad apprezzare i testi e la voce di Giuliano Sangiorgi, insieme alla musica di tutta la band.

Ma non ci resta che dire Buon compleanno e buona musica Giuliano!

Annina Monteleone

Little Miss Sunshine: viaggio tra uno dei più recenti road movie

 

Little Miss Sunshine: una commedia drammatica senza troppe pretese – Voto UVM: 3/5

 

Quante di noi hanno desiderato da piccole di essere incoronate reginette di bellezza? Così come lo ha sognato la nostra Olive Hoover (Abigail Breslin), protagonista del film Little Miss Sunshine, scelto dall’associazione universitaria Aegee per la maratona del cineforum #methalhealth e di cui noi di Universome vi proponiamo una recensione.

Trama

La piccola Olive Hoover vive ad Albuquerque, città del New Mexico, con la sua famiglia composta dalla madre Sheryl (Toni Collette), il padre Richard (Greg Kinnear), il fratello Dwayne (Paul Dano), il nonno cocainomane Edwin (Alan Arkin) e a cui presto si aggiungerà lo zio Frank (Steve Carell). Quest’ultimo apparirà come un uomo frustrato sia dal punto di vista sentimentale – in seguito ad una relazione con un collega finita male – che dal punto di vista lavorativo: è stato “sbattuto fuori” dall’università in cui svolgeva il ruolo di ricercatore; egli stesso si definirà nel corso del film «lo studioso numero uno di Proust di tutta l’America».

Fonte: Prime Video – la famiglia Hoover

L’elemento centrale della pellicola è la partecipazione della piccola Olive al concorso di bellezza per bambine Little Miss California per il quale la bimba preparerà un numero con l’aiuto dell’eccentrico nonno, ma l’unico mezzo a disposizione per raggiungere l’albergo – in cui si terrà lo show – è un pullmino vintage giallo della Volkswagen e così tutta la famiglia partirà alla volta di Little Miss California.

Ne viene fuori un road movie, senza troppe pretese di esserlo, con tanto di peripezie e di intoppi lungo la via, che più volte tenteranno di far desistere i protagonisti dal continuare il loro viaggio verso la California.

Fonte: Cinematographe.it – gli Hoover durante il viaggio

Caratterizzazione o stereotipizzazione

I protagonisti sono dei personaggi ben caratterizzati se non quasi stereotipati.

Abbiamo l’ossessivo compulsivo Richard Hoover, al limite della sopportazione dello spettatore, che tiene corsi motivazionali per raggiungere il successo ed è anche il motore propulsore delle sane ambizioni della famiglia. Richard divide il mondo tra vincenti e perdenti; a lui sono sconosciute entità quali la fortuna, vista come un alibi per chi “non ce la fa” e il sarcasmo che viene interpretato come un espediente utilizzato dal perdente per demoralizzare il vincente. Poi dalla saggia e realistica moglie Sheryl si passa al cinico ed eccentrico nonno Edwin al quale la piccola Olive è molto legata. Non potevano di certo mancare i “casi umani” all’interno dell’albero genealogico degli Hoover: Dwayne, classico adolescente problematico che odia tutti e che ha fatto il voto del silenzio e infine lo zio Frank da poco uscito da una clinica psichiatrica.

Fonte: The Take – zio Frank e Dwayne

Ma chi è la piccola Olive? Una ragazzina che dall’aspetto esteriore non sembrerebbe avere le sembianze (canoniche e richieste) di una reginetta di bellezza. Porta occhialoni con delle lenti spesse e possiede delle  movenze proprie delle bambine della sua etá, come è giusto che sia, e non di una baby top model; insomma sarà diversa rispetto alle mini Naomi Campbell o Claudia Schiffer che si vedranno nel film.

Fonte: Exibart – la piccola Olive al concorso

Casi umani ma non troppo

Abbiamo parlato di “casi umani” riferendoci ad alcuni di questi personaggi, ma in fondo tutti i protagonisti di Little Miss Sunshine lo sono. In realtà lo siamo un po’ tutti noi con le nostre miserie così come l’intera famiglia Hoover. Nel corso del viaggio e fino alla meta verranno fuori le debolezze di ognuno e salteranno via le corazze di tutti, persino quella del presunto vincente Richard. Non ci sono corsi motivazionali, strategie o schemi mentali che tengano.

La vita, così come il viaggio degli Hoover, è fatta di circostanze e imprevisti. Inutile il dualismo tra vincenti e perdenti. Forse è proprio questo che Little Miss Sunshine vuole insegnarci, nato dall’idea dello sceneggiatore Micheal Arndt di sfatare la logica del perdente.

Ilenia Rocca

Ma che razza di isola è? Alla scoperta del nuovo film di Sibilia

Voto UVM 4/5: Una delle migliori commedie degli ultimi tempi. Diverte e fa riflettere senza annoiare

Sbarcato da più di un mese su Netflix, L’incredibile storia dell’isola delle rose ha raccolto parecchie lodi, ma anche diverse critiche. Noi di UniVersoMe non potevamo perdere l’occasione di svelarvi i segreti del suo successo e dirvi cosa ne pensiamo dell’ultimo film di Sidney Sibilia.

Tra realtà e finzione: l’incredibile trama

Bologna, anni ’60. L’ingegner Giorgio Rosa (Elio Germano), appena laureatosi è un ragazzo inventivo e stravagante che sembra vivere in un mondo a parte e ai limiti della legalità. Proprio perché incapace ad adattarsi, decide di fondare una nazione tutta sua servendosi di un’idea geniale: costruire una piattaforma a 12 km dalla costa di Rimini, fuori dalle acque territoriali italiane. Il suo progetto incontrerà le ire del presidente del consiglio Giovanni Leone (Luca Zingaretti) e del ministro degli interni Franco Restivo (Fabrizio Bentivoglio).

L’incredibile storia dell’isola delle Rose: locandina. Fonte: eHabitat.it

Il film di Sibilia prende spunto da una storia vera: quella della Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose, micronazione durata meno di un anno (dal maggio ’68 al febbraio ’69), dotata di propria bandiera, valuta e governo, fondata dall’ingegner Rosa.

Tuttavia anziché dare una ricostruzione fedele dei fatti, il regista preferisce ispirarsi al romanzo di Walter Veltroni: L’isola e le rose;  infatti ritrae la piattaforma di Rosa come una piccola Woodstock dell’Adriatico  laddove nella realtà storica l’ingegnere, sebbene ostacolato dallo Stato, era mosso più da fini commerciali che politici e il suo intento non era quello di dar vita a una sorta di esperimento utopico. Chi si aspetta una lezione di storia degna di un docu-film rimarrà perciò deluso. Resta invece piacevolmente colpito chi vuole ridere, ma anche riflettere su un’avventura breve ma ancora oggi suggestiva.

La vera Isola delle Rose in una foto d’epoca. Fonte: living.corriere.it

Il film pone diversi interrogativi allo spettatore: perchè le autorità sono state così poco tolleranti nei confronti di questa impresa? Era forse il periodo storico particolarmente caldo a giustificare la bocciatura di ogni iniziativa che inneggiasse alla libertà? 

In effetti la pellicola lascia lo spettatore un po’ con l’amaro in bocca e il rimpianto di non aver passato – neanche un giorno – su quella piattaforma che è ignorata da tanti libri di storia. Discoteca balneare o paradiso utopico, non si doveva star poi così male sull’Isola delle Rose. 

Perché ci piace così tanto l’Isola delle Rose?

Nessun uomo è un’isola, ma ognuno di noi in cuor suo lo desidera. In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, in cui il più piccolo errore di un individuo ricade inevitabilmente su tutti gli altri – in una sorta di catena infinita da fiera dell’est – quale rifugio migliore di un’isola-Stato costruita a misura dei nostri desideri? Tanto più adesso che una malattia contagiosa quale il Covid-19 ci mostra come la società umana sia una grande rete che protegge anche se a volte finisce per soffocare.

L’isola colma di turisti in festa. Fonte: agi.it

Ecco perché simpatizziamo con il protagonista, una sorta di moderno Peter Pan pronto a costruirsi da sé la mitica isola che non c’è. Ancora di più si immedesimano tutti quelli più volte riportati sulla retta via perché troppo eccentrici e sbadati e perciò accusati di “vivere in un mondo tutto loro”. Insomma nel protagonista si ritrovano tutti coloro che sono come strumenti incapaci di andare a tempo col ritmo dell’intera orchestra, a cui non resta che la fuga felice – o peggio – il naufragio.

Perché convince il film di Sibilia?

Resta a galla, a differenza del progetto di Rosa, la commedia scritta e diretta da Sibilia: un mix perfetto di realtà storica romanzata, comicità e riflessione politica solo accennata e quel goccio di nostalgia che non manca mai in un film ambientato nei mitici anni ’60. La colonna sonora accompagna degnamente quel vento di libertà che il film fa respirare: il nostro protagonista ha l’illuminazione di costruire una piattaforma sul ruggente sottofondo di Hey Joe di Jimi Hendrix.

Cast del film. Fonte: viaggicorriere.it

Convince anche il cast: su tutti Elio Germano si rivela ancora una volta perfetto nei panni del diverso, dell’ingenuo visionario; anche qui sarà un giovane favoloso che sa credere alle proprie aspirazioni pur di cambiare il mondo o «almeno di provarci». La sua performance vanta poi un bolognese impeccabile. A questo proposito anche la scelta di enfatizzare i dialetti rende lo script ancora più divertente.

Forse possiamo storcere il naso (ma anche ridere) davanti al siciliano – per alcuni caricaturale – del bravissimo Fabrizio Bentivoglio: in alcune scene più gangster che uomo di stato. Ma in ogni caso le diverse parlate dei protagonisti creano un mosaico ancor più vivace e variegato.

Nella squadra dello stravagante ingegnere, desta meno simpatia l’amico Orlandini (Leonardo Lidi), viziato figlio di papà che ruba dalle casse dell’azienda di famiglia e fa ricadere la colpa sugli operai calabresi; qui saranno complici i pregiudizi dell’epoca. Tuttavia anche dietro questo personaggio moralmente discutibile si intravede il tocco di Sibilia (già evidente nella trilogia Smetto quando voglio) che ritrae con pregi e difetti personalità a tutto tondo, allontanandosi dal riduttivo schema buoni vs cattivi da happy-ending comedy.

Sicuramente più simpatico e sui generis invece Rudy Neumann (Tom Wlaschiha): apolide rigettato dalla Germania, perché disertore durante la Seconda Guerra Mondiale, sarà accolto a braccia aperte sull’Isola . Di personaggi tedeschi abbondano le commedie di tutti i tempi, ma raramente si esce dallo stereotipo del rigido intellettuale o del generale super severo pronto a impartire ordini di nazista memoria.

Rudy Neumann (Tom Wlaschiha) anima le feste dell’Isola. Fonte: avgmagazine.it

Chi si aspetterebbe invece un PR ante-litteram, un animatore che grida con accento germanico «Benvenuti sull’isola delle rose!»? Neumann è proprio questo e perciò incarna alla perfezione lo spirito di una commedia che non pretende di essere un film storico o ideologico, ma rimane comunque un inno a tutti i diversi, ai senza patria, ai fuori posto, a coloro al di là di tutte le convenzioni e aspettative altrui.

  Angelica Rocca

L’amore proibito che diede origine al mito di Wonder Woman

(La locandina del film – themarysue.com)

Ultimo appuntamento per il cineforum #socialequity in collaborazione con AEGEE-Messina: film della serata sarà Professor Marston and the Wonder Women; pellicola del 2017 diretta da Angela Robinson e basata su una storia vera.

In tema di diritti civili, questo film drammatico-biografico si colloca come “punto di arrivo” di un percorso iniziato settimane fa, ed abbraccia alcuni degli argomenti più dibattuti degli ultimi anni. Inoltre, tratta con estrema delicatezza questioni che – ad oggi – rappresentano motivo di scandalo per la società occidentale.

Voto UVM: 4/5 – film interessante e scorrevole, ma pecca in alcuni punti

La sinossi e i temi trattati

Dominanza, seduzione, sottomissione e condiscendenza. Queste sono le quattro parole che riassumono l’intera carriera – se non la vita – del dottore in psicologia William Moulton Marston (Luke Evans), studioso della teoria DISC, seguace della neo-corrente del femminismo liberale ed intento a creare la prima macchina della verità. È il 1928 quando quest’ultimo, assieme alla moglie e ricercatrice Elizabeth Marston (Rebecca Hall), inizia una relazione poliamorosa con una studentessa che frequenta il suo corso d’insegnamento ad Harvard, Olive Byrne (Bella Heathcote).

Tale rapporto, connotato da un amore vero e sincero, lo avvicinerà presto al mondo del bondage, al punto che ne approfondirà gli aspetti psicologici trasponendoli al contempo all’interno del proprio fumetto: nascerà così la celebre eroina Wonder Woman e la sua immensa eredità.

Le complessità di questo dramma sono molte: innanzitutto vi è il sentimento poliamoroso, perno dell’intero lungometraggio; poi abbiamo l’interesse alla pratica bondage. Accanto ai temi appena citati si pone infine quello della discriminazione subita dai protagonisti e dai figli, i quali tuttavia vivevano quella realtà con normalità e felicità. Dalla paura, dalla vergogna, dal tormento subìto per via di tali persecuzioni, nascerà l’intento del protagonista di creare qualcosa che dia un nuovo vigore alla figura della donna e che inviti ciascuna a lottare per i propri diritti: l’opera di Marston si pone così all’interno di un’ottica femminista che ben si conforma agli ideali del creatore.

Due argomenti che meritano di essere trattati con delicatezza, senza toni scandalistici o paternalistici: in tal senso, la Robinson è riuscita a non sfociare nella banalità, mostrando un affetto puro e degno da parte di tutti e tre i personaggi. Un affetto che, dopotutto, si condenserà nel personaggio di Wonder Woman, che rappresenta una fusione delle due donne amate da Marston.

(C’è da notare come il professore nutrisse un profondo rispetto per il mondo femminile, essendo vicino agli ideali di femminismo, nota assolutamente progressista per i tempi in cui la vicenda è ambientata).

(In una scena del film, il professore illustra lo studio della DISC ai propri studenti – newswise.com)

La nascita di Wonder Woman e il rapporto tra i personaggi

Wonder Woman è effettivamente ispirata alla forza d’animo di Elizabeth ed Olive, due caratteri agli antipodi ma che si temperano ed attraggono a vicenda. Da un lato la signora Marston, incarnazione della donna in carriera anni ’20; dall’altro Olive, dolce, ingenua ma determinata. A fare “da ponte” tra le due vi è sicuramente il mite ed ambizioso Bill. Il personaggio risulta abilmente lavorato: dall’interpretazione di Luke Evans si nota la smania di grandezza, la voglia di “strafare” sempre e costantemente tenuta a freno dalla disillusione della moglie.

È proprio quest’ultima a mostrarsi inizialmente indecisa verso il rapporto che si andava creando, nutrendo una gelosia nei confronti del marito che tuttavia non passerà mai. E sarà sempre lei a non volersi “cedere” psicologicamente fino all’ultimo, fin quando non si sarà fatta palese la necessità di stabilità nella loro vita: una stabilità che solo Olive è capace di offrirgli.

Inutile però voler negare l’azzardo della regista nel trattare così tanti temi in soli 90 minuti di film: un approfondimento della loro intesa (soprattutto del momento della nascita di essa) avrebbe garantito una maggiore comprensione dei meccanismi del loro amore, anche ai più restii. Rimane invece in dubbio, osservando il complesso, se fosse vero amore o semplice necessità; necessità di alimentare il fuoco di un matrimonio che andava a spegnersi, forse.

Tuttavia, il pathos delle ultime battute del film lascia intendere che durante gli anni il rapporto sia andato fortemente consolidandosi; questo prospetta effettivamente la possibilità che la relazione fosse quanto più che sincera.

La passione e l’affetto che animano i Marston-Byrne si basano sulle quattro parole sopracitate, così come anche lo stesso personaggio di Wonder Woman. Infatti, sin dai primi capitoli del fumetto, l’eroina è ritratta a dominare, sedurre, sottomettere i propri nemici con sfumature erotiche che suscitarono un enorme scandalo.

(I protagonisti in una scena del film – theguardian.com)

Conclusioni

In ultima analisi, il film rimane intrigante sotto molti punti di vista e senza dubbio è piacevole; tuttavia fallisce in alcuni punti, come se la forte drammaticità non riuscisse a trasmettere l’intensità del sentimento provato dai tre. Da guardare se si cerca qualcosa di scorrevole e se ci si vuole avvicinare a tematiche diverse dal solito.

Valeria Bonaccorso

Il diritto di contare: quando il “limite” è solo nella formula

Nuovo incontro in collaborazione con l’associazione AEGEE-Messina per il cineforum #socialequity: il film della settimana è la pellicola del 2016 di Theodore Melfi, Il diritto di contare (Hidden Figures).

Voto UVM: 5/5; una pellicola che pur trattando tematiche importanti è scorrevole e mai banale

Ispirandosi a tematiche di equità sociale, il film racconta la vera storia di Katherine Johnson (conosciuta anche come Katherine Gobble) che con l’aiuto delle proprie amiche, negli anni ’60, lotta contro le mille discriminazioni subite in ambiente lavorativo (e non) per poter esercitare i propri diritti. Tra tutti, quello di contare: ossia quello di vedersi riconosciute le proprie capacità, il proprio potenziale, ma anche e soprattutto quello di essere considerata al pari dei propri colleghi.

Magistrali le interpretazioni di Taraji P. Henson, Octavia Spencer e Janelle Monáe, affiancate da Kevin Costner, Kirsten Dunst e Jim Parsons.

(paoline.it)

La trama

Il film si apre con un salto negli USA del passato, mostrando una Katherine (Taraji P. Henson) in tenera età che studia presso un istituto per sole persone di colore (termine che con accezione dispregiativa veniva utilizzato per indicare la gente afroamericana). Sono gli anni della segregazione razziale e avranno fine solo decenni dopo. La bambina si distingue per le eccezionali doti matematiche, che le garantiscono di poter studiare nei migliori istituti.

Tornati al presente (nel 1961) Katherine ha trovato occupazione come addetta calcolatrice presso gli uffici della NASA assieme alle amiche Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe). Queste ultime – come la protagonista – aspirano entrambe a degli incarichi più alti ed adatti alle loro capacità ma che tuttavia non riescono a raggiungere, per via delle diffuse discriminazioni razziali dell’epoca.

Una svolta si ottiene in seguito alla promozione della protagonista, ammessa a lavorare per la Space Task Group. Quest’ultima, nata in occasione della “corsa allo spazio” contro i sovietici, mirava a mandare un uomo in orbita prima dei russi, ma come sappiamo, il primato è di questi ultimi che lanciarono in orbita di Yuri Gagarin nel 1961.

Da qui, molte sfide incroceranno i destini delle tre donne, che dovranno fare i conti con un computer IBM 7090 – che minaccerà il lavoro di molte addette del settore calcoli – e con una licenza d’ingegneria ottenibile soltanto frequentando dei corsi (presente in un istituto per soli bianchi).

(blog.screenweek.it)

«Un passo avanti per tutte noi»

La pellicola richiama un periodo di forte sofferenza per tutte le donne nere, riuscendo a mettere in luce una discriminazione subita a trecentosessanta gradi: intanto perché nere e successivamente perché donne. Le oppressioni che si riverberano nella vita di queste tre donne geniali ci mettono di fronte ad un grande quesito: dove saremmo oggi se il talento di molte di queste persone non fosse andato sprecato per stupide e immotivate discriminazioni razziali?

La particolarità di questo film è che, pur essendo ispirato alla lotta per i diritti civili, non ritrae enormi gesti clamorosi ed eroici: si tratta di persone che riescono a farsi strada grazie alle proprie armi e nello specifico quelle della mente.

E non è perché indossiamo le gonne… è perché indossiamo gli occhiali!

Questo è ciò che afferma la protagonista Katherine mentre passeggia col Tenente Jim, il quale mostra alcuni segni d’incertezza all’idea che una donna possa occuparsi di “cose così complicate”.

(comingsoon.it)

I vari volti dell’oppressione

Da qui, si evincono le oppressioni ricevute non solo dagli oppressori bianchi, ma per giunta dagli uomini neri che stanno al loro fianco. Tale caratteristica viene pienamente impersonata dal marito dell’amica Mary, il quale vorrebbe che lei fosse più presente a casa e la intima a non accettare le «concessioni dei bianchi, perché i diritti si dovrebbero pretendere». Una voce molto più radicale, che tuttavia investe il libero arbitrio dell’aspirante ingegnere. Ciò, tuttavia, non la fermerà dallo scegliere la strada più adatta a sé.

E ancora, naturalmente, non manca l’oppressione da parte di altre donne: la responsabile del reparto in cui lavorano le tre addette, interpretata da Kirsten Dunst, abbraccia il proprio ruolo di antagonista bloccando continuamente la strada a Dorothy che aspira a ricevere il ruolo di responsabile permanente.

Molti saranno gli ostacoli, molte le umiliazioni che si porranno sul cammino delle tre matematiche: a partire dalle difficoltà di trovare un bagno per gente di colore, passando per i famosi autobus coi posti a sedere per soli bianchi.

(rsi.ch)

Una valutazione finale

Insomma, un tripudio di tematiche che se non fossero state gestite con la massima serietà ed accuratezza avrebbero potuto mettere a rischio il film: fortunatamente quella che ci è stata servita è una pellicola seria ma leggera, dalla vena ironica (il classico “si ride per non piangere”) che coinvolge, che ci fa entrare nel mondo di una donna afroamericana negli anni ’60.

Riuscendo nell’intento, questo lungometraggio è riuscito a guadagnarsi varie candidature agli Oscar, tra cui quella a Miglior film, a Migliore attrice non protagonista (per Octavia Spencer) e quella a Migliore sceneggiatura non originale.

Una storia non certo facile da raccontare, ma da cui le giovani donne nere di oggi possono trarre ispirazione ed un sospiro di sollievo nel vedersi rappresentate. E questa componente non va affatto sottovalutata.

 

Valeria Bonaccorso

“Ragazzi sto per raccontarvi una storia: quella di come ho conosciuto HIMYM”

Chi non conosce How I Met Your Mother? Vale ancora la pena guardarla o consumare fiumi di inchiostro sulla sitcom più vista e citata negli ultimi vent’anni? Se siete piuttosto scettici, come direbbe il nostro Barney Stinson, la sfida è accettata!

Perché è diversa dalle altre sitcom

Nonostante ci troviamo immersi nelle classiche vicende di un gruppo di cinque amici a New York (una trama che superficialmente potrebbe apparire piuttosto scontata), sono notevoli gli elementi che differenziano questa sitcom dalle altre. Primo fra tutti la geniale dinamicità con cui si intersecano i diversi piani temporali: il background principale è costituito dal racconto che il protagonista Ted Mosby (Josh Radnor) fa nel 2030 ai figli adolescenti su come ha conosciuto la loro madre.

“Ragazzi sto per raccontarvi una storia incredibile: la storia di come ho conosciuto vostra madre” ( 1×1)                                               Fonte: hallofseries.com  

La narrazione torna indietro ai primi anni 2000 in cui abbiamo un Ted – quasi trentenne – alle prese con la ricerca dell’anima gemella e con una carriera da far decollare. Queste vicende si intrecciano con quelle dei suoi quattro amici in un gioco di dilatazioni e contrazioni temporali che alternano flashback e flashforwardUn altro elemento distintivo sono i dialoghi marcati da sarcasmo e ironia, una prontezza di battute argute che lasciano in alcuni tratti un’amara leggerezza, il tutto accompagnato da una ritualità di gesti spesso compiuti dai protagonisti; una dialettica nelle argomentazioni dei vari personaggi che si dimostra di gran lunga superiore rispetto a quella degli “storici rivali” Friends e New Girl.

How I Met Your Mother scatenerà nel corso degli episodi una riflessione su temi esistenziali, tra cui il destino, entità misteriosa e indomabile che “gioca” con i protagonisti: sarà il destino che porterà all’incontro con l’anima gemella o forse è l’universo che invia segnali che non sempre siamo pronti a vedere?

E poi ancora, spicca un simbolismo costruito ad arte. I momenti cruciali e di svolta sono sempre accompagnati dalla pioggia: questa è come se purificasse e cancellasse il superfluo così da permettere di chiarire situazioni che precedentemente apparivano ingarbugliate.

Ted Mosby ( Josh Radnor) consola l’amico Marshall Eriksen ( Jason Segel) – Fonte: hallofseries.com

Insomma una tecnica narrativa di alto livello rispetto all’idea di sitcom a cui siamo abituati.

Perché è ancora attuale? Polemiche e controversie

Durante il primo lockdown tanta gente ha pensato bene di riscoprire il fascino di questa serie e tra questi c’è anche chi si è fiondato alla ricerca del suo tallone d’Achille. Ma, come spesso accade, tutte queste polemiche hanno solamente scatenato l’effetto contrario, facendo tornare How I Met Your Mother tra gli argomenti più gettonati da un po’ di mesi a questa parte.

Le critiche mosse alla serie – sceneggiata da Bays e Thomas – sono state tante: da chi ha attaccato il controverso e attesissimo finale (che non intendiamo svelarvi ma che ha deluso molti fan), fino a chi la definisce come brutta copia della più storica Friends, in quanto riproporrebbe il solito copione dell’allegra combriccola di personaggi stereotipati che se la spassano sullo sfondo di New York e dintorni.

Maschilismo? Ma mi faccia il piacere!

Una su tutte – e forse la più assurda – è l’accusa di maschilismo mossa dall’improbabile popolo di femministe del web. É vero, non mancano le battute poco politically correct (come in qualsiasi commedia che si rispetti), ma di certo questo non è un pretesto per assaltare una sitcom che utilizza termini del linguaggio medio e quotidiano: l’esempio cruciale è il «bitch» di Marshall (Jason Segel) Robin (Cobie Smulders). Perché lo stesso non viene detto ai personaggi maschili?

Semplice: perché “bitch” è un termine prettamente femminile nel dizionario inglese, non maschile. Quindi, care femministe, pensate a riscrivere il vocabolario e non saltate all’assalto di una sitcom solo per l’utilizzo di termini ormai diventati di uso quotidiano nel linguaggio medio.

Infatti, scavando sotto la superficie, come pensate si possa considerare maschilista una serie in cui ci vengono presentati modelli così diversi di donne (a partire dall’intraprendente e indipendente Robin alla più tradizionalista ma furba Lily) senza che su nessuna di loro venga pronunciato un definitivo giudizio moralistico?

Barney Stinson ( Neil Patrick Harris) col suo “Playbook”. Fonte: aminoapps.com

Se c’è forse un personaggio su cui ricade una sentenza è al contrario Barney Stinson ( Neil Patrick Harris), il donnaiolo simpatico ma impenitente che si vanta senza pudore delle sue conquiste compulsive.  È proprio lui che dovrà subire un’evoluzione nel corso del racconto, è lui che dovrà crescere e dire addio ai suoi giochetti da playboy. Come lo farà non saremo noi a svelarvelo.

Il vero amore o l’amore reale?

Ma la polemica che colpisce più profondamente i fan HIMYM è quella per cui la serie sarebbe l’ennesima storia televisiva che porta in scena l’amore malsano, il classico – e pessimo – esempio per un’intera generazione di giovani, cresciuta a pane e false aspettative sull’anima gemella. La strada che porterà Ted (e il pubblico) a conoscere la madre dei suoi figli è lunga e piena di incroci, di segnali d’arresto e importanti deviazioni; una su tutte Robin, il colpo di fulmine e l’amore impossibile della sua vita.

Il giovane architetto è uno di quelli che sogna ad occhi aperti e tenta di progettare la vita tassello per tassello proprio come se si trattasse di un edificio, un ragazzo simpatico, ma a tratti un po’ pesante. Al contrario Robin è più leggera e definita dallo stesso Ted come «fluttuante»: vive e non pianifica, agisce e non sogna, è una donna sarcastica e indipendente che sembra avere come unico obiettivo la carriera. Come possono due persone così diverse avere un amore “sano”?

“E lei era là”: l’incontro di Ted con Robin ( Cobie Smulders). Fonte: insider.com

La loro storia infatti sarà tutt’altro che semplice e priva di peripezie.  Molto più tranquilla e lineare, e per questo esempio di “vero amore” (a detta di qualche dente avvelenato del web) la storia dell’altra coppia, Marshall e Lily (Alyson Hannigan). Ma la realtà non abbonda di rapporti «platoneschi» (come dice nella serie lo stesso protagonista) e storie tormentate alla Ted e Robin, piuttosto che di teneri idilli alla Marshall e Lily?

Ed esiste davvero un amore totalmente sano, se spesso ci si accorge d’amare proprio nel momento in cui l’altro ci fa soffrire?

In realtà i tira e molla di Ted e Robin non fanno che aggiungere pepe a una relazione che altrimenti risulterebbe noiosa e poco coinvolgente agli occhi del pubblico. Del resto è il tipico copione da commedia, dall’antichità fino ad oggi: il protagonista attraversa tanti temporali prima di veder rispuntare il sole.

E nella stupenda costruzione armonica di How met your mother le piogge non mancano, ma nemmeno gli ombrelli!

Una delle scene più iconiche di HIMYM: la folla di ombrelli gialli. Fonte: hallofseries.com

 

Angelica Rocca, Ilenia Rocca

 

Cesare Cremonini e il suo mostro: quando camminare e scrivere ti salvano

Il cantante “eterno adolescente” racconta la sua lotta contro la schizofrenia, la continua frustrazione di non riuscire a dargli un nome, la successiva scoperta e la sconfitta del mostro.

Chi è Cesare Cremonini?

Nasce a Bologna nel 1980, precisamente il 27 marzo. Sviluppa sin da piccino un’innata passione verso la musica classica e all’età di sei anni per la prima volta si approccia al pianoforte, strumento che è diventato il suo miglior amico lungo la sua carriera. Frontman e autore dei pezzi più importanti del gruppo dei Lùnapop nel 1999 e successivamente cantante solista dal 2012 ad oggi. Quant’è strano credere che Cesare Cremonini abbia sofferto di schizofrenia?

Cesare si spoglia di tutte le sue paure e decide di raccontarsi, affermando infine di aver sconfitto quel mostro che lo tormentava e “premeva sul petto” nel 2017. Ne parlerà anche in una canzone nell’album Possibili Scenari: in Nessuno vuole essere Robin (2018) afferma di aver rischiato in qualche modo la vita, come se una pallottola lo avesse sfiorato.

La canzone è volta a raccontare la paura di essere fragili, vista come una spinta attiva su cui combattere per costruire qualcosa di nuovo. All’interno continua a scrivere pensieri molto intimi seguiti dal forte desiderio di cambiare il presente e ricominciare.

fonte: corriere.it

Let them talk

Nella maggior parte dei casi, un individuo che soffre di schizofrenia è accompagnato da voci che gli altri non possono sentire.

Ancora oggi, Cremonini racconta di riuscire a udire quelle strane e inquietanti voci sussurrare dietro il suo orecchio o chiacchierare tra di loro, ma come gli disse il suo psichiatra «Let them talk», lasciali parlare. Di fronte alla sua voglia di raccontarsi e di raccontare il difficile percorso riabilitativo anche ai suoi fan, Cesare decide di scrivere e pubblicare il proprio libro il primo Dicembre 2020 dal titolo Let them talk, chiaro invito rivolto al lettore al fine di entrare nella sua sfera personale e di rivivere insieme a lui ricordi e suggestioni.

“Questo libro non cercherà di raccontare le mie diversità, ciò che mi rende unico per i dolori vissuti o per le fortune e i successi. Al contrario. Questo libro è nato, come tutte le mie canzoni, per far incontrare, e stringersi in un abbraccio, la mia storia con le storie di chi vi entra o ci passa accanto per caso.”

I brani musicali fanno da filo conduttore lungo tutte le 228 pagine.

 

Let them talk: copertina. Fonte: tg24.sky.it

Il mostro

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il cantante ripercorre il lungo viaggio all’interno dei suoi anni più difficili partendo dall’incontro con lo psichiatra che afferma sia avvenuto in maniera casuale dopo aver accompagnato un suo amico. Continua dicendo:

“Poi gli raccontai di me, di quel che provavo. I sintomi crescenti. La sensazione fisica di avere dentro di me una figura a me estranea. Quasi ogni giorno, sempre più spesso, sentivo un mostro premere contro il petto, salire alla gola. Mi pareva quasi di vederlo. E lo psichiatra me lo fece vedere. L’immagine si trova anche su Internet. “È questo?”, mi chiese. Era quello”

Lui lo descrive come un «mostro con gambe corte e appuntite» che imperterrito e senza pace continuava a salire lungo la schiena, il petto e premeva contro la gola. La sensazione era quella di condividere involontariamente ogni giorno la propria vita con una figura orribile e deforme. Quando lo psichiatra mise su carta i suoi incubi e quell’oscura creatura, non ci furono dubbi

“È questo?” chiese.
“Si, è questo” risposi.

Era chiaro, si trattava di schizofrenia. Il disturbo prendeva vita in quel caso come una sorta di allucinazione che veniva dall’interno, un’immagine proveniente dal subconscio dove aveva messo radici e si aggirava quasi come se quella fosse casa sua.

Il mostro della schizofrenia. Fonte: corriere.it

La rinascita

Lo specialista spiega che la causa scatenante della schizofrenia, in quel caso, era data dal lavoro e dallo stress accumulato: i giorni chiusi in studio, lo stile di vita poco sano, due anni di ossessione – che lo stesso cantautore definisce – feroce per la musica.

Superai i cento chili. Non facevo più l’amore, se non da ubriaco. Avevo smesso qualsiasi attività fisica.”

Nella sua intervista, Cremonini afferma che la cura al suo disturbo psichico sia stata la camminata, aver percorso per tanto tempo diversi km in montagna ogni volta che il mostro urlava nelle sue orecchie. E lo racconta così:

“Quando sento il mostro borbottare, mi rimetto in cammino. Su una collina, in montagna. Sono tornato dallo psichiatra alla fine del primo tour negli stadi. Mi ha chiesto se vedevo ancora i mostri. Gli ho risposto di no, ma che ogni tanto li sento chiacchierare. E lui: “Let them talk”…”

 

Annina Monteleone

A Gazzelle, il più Indie di tutti

Nello scrivere seguendo le «intermittenze del cuore» Flavio Pardini, in arte Gazzelle, è riuscito a creare un impero; nello scenario della musica italiana – ora più variegato che mai – la musica indie si fa sempre più preponderante e lui ne è uno degli esponenti più apprezzati. Il cantautore originario della capitale ha incantato milioni di ascoltatori con i suoi brani e la loro magia, mescolando vari stili della grande musica del passato e sintetizzando tutto in semplici melodie e ritornelli orecchiabili: un mix perfetto.

In occasione del suo compleanno, vogliamo rivedere (e ovviamente riascoltare) le canzoni più belle, quelle che l’hanno fatto entrare nelle top playlist di Spotify e soprattutto nella nostra vita.

Di me volevi solo te – Quella te (2016)

Questo brano è stato l’esordio dell’artista: un giovane che cantava nei bar di Roma camuffando il volto, nascondendo gli occhi dietro un paio di occhiali e indossando un cappellino con la visiera. Ha destato subito l’attenzione della critica ed ha cominciato la sua carriera con questa canzone, che poi diventerà parte di “Superbattito”, il suo primo album. 

Quella te è un brano molto anni 90 – come parte della discografia di Flavio – che racconta di una storia d’amore con nostalgia e con un pizzico di rabbia.

Screenshot del video ufficiale, fonte: wikipedia

«Quella te che rideva» potrebbe essere chiunque: potremmo essere noi o potremmo cantarlo a qualcuno; la magia del pezzo sta nel fatto che il soggetto del testo non ha una vera identità, si adatta ai vari momenti e ai vari protagonisti della nostra vita.

E io che come al solito fraintendo – Nero (2017)

Nero è uno dei singoli più ascoltati dell’autore (soprattutto dalla sottoscritta) e sembra essere un urlo di speranza.

Dal titolo non si direbbe, ma in realtà cela la consapevolezza che c’è sempre qualcosa di bello nonostante tutto; di certo Gazzelle non si risparmia nel descrivere le situazioni peggiori e ognuna di queste – ancora una volta – rappresenta qualcosa nella vita di chi la ascolta.

E non crescono i fiori, è vero, dove cammino io // Ma nemmeno è tutto nero

Screenshot del video ufficiale, fonte: wikipedia

La malinconia sfocia in speranza e il ritornello è così orecchiabile da rimanere stabilmente in testa.

Ti ricordi di me? – Scintille (2018)

Il 2018 è l’anno di un artista più maturo e il nuovo disco “Punk” sancisce un periodo molto attivo, con nuove produzioni e con concerti in tutta Italia, ma soprattutto con un massiccio aumento di ascolti.

In Scintille, Gazzelle canta come se stesse guardando se stesso nel passato:

Ti ricordi di me? […] // Io mi ricordo e lo sai, pensavo fosse amore invece erano guai

Screenshot del video ufficiale, fonte: wikipedia

Parla a se stesso o parla a qualcun altro? Beh, sicuramente ad ognuno la sua interpretazione, ma è certo che ogni strofa diventa indelebile dopo averla ascoltata. Delicato ma forte riesce ad adattarsi ad ogni sensazione; brano che durante i suoi concerti ha fatto illuminare gli spalti e cantare a squarciagola tutti gli spettatori, creando un’atmosfera unica.

Quando la luce s’infrange sopra le tue guance – Una canzone che non so (2019)

In “Post-Punk” Flavio arricchisce l’album precedente con quattro canzoni, tra le quali Una canzone che non so. Con un piano d’accompagnamento ed una chitarra che sottolinea i momenti più forti del testo, questo brano ha ottenuto subito grandi consensi.

Il video dà un volto ai protagonisti di questa storia ma le parole sembrano essere quelle di ognuno di noi (pensate o dette almeno una volta nella vita):

Che ti ricordi di me, lo so // Ma solo quando non ti calcolo

Screenshot del video ufficiale, fonte: wikipedia

Sembra quasi cercare una spiegazione per chiudere una storia o per dare un senso ad una rottura; quindi ci pone dalla parte di chi deve capire qualcosa e riapre la possibilità a nuove interpretazioni anche delle proprie esperienze.

E fermati qui e resta così – Scusa (2020)

Quest’ultima uscita è quasi un regalo che ci ha fatto alla conclusione di questo 2020.

Scusa (insieme a Lacri-ma e Destri) è una canzone che sarà parte di un nuovo album di cui non è nota la data di uscita o il titolo ; Gazzelle, in una intervista per Rockol, spiega: «Con le nuove canzoni ho recuperato i Nirvana: volevo fare qualcosa che fosse orientato verso una sorta di grunge, ma in chiave moderna».

Ancora una volta si riconferma il genio di Flavio: Scusa è una poesia; un testo capace di premere quei tasti giusti per emozionare ed eventualmente riaprire delle ferite passate.

Copertina ufficiale, fonte: YouTube

Anche grazie al bellissimo accompagnamento musicale, questo brano ha avuto un successo clamoroso; rimane impresso in mente e forse anche nel cuore di chi la ascolta:

E sarò io, e sarai te // L’unica cosa al mondo da non perdere

 

Cos’altro dire? Avremmo potuto parlare di ogni brano, dello stile che oscilla sempre tra una ballata d’amore e di malinconia, ma che riesce ad estrapolare qualcosa in più ogni volta; riesce a dare tono e forma ad alcune emozioni e lo fa sempre in maniera diversa.

Flavio, ti ringraziamo per tutte le lacrime che ci hai fatto versare e per l’intensità delle cose che ci hai fatto provare; diciamo che nonostante tutto in fin dei conti stiamo bene.

                                                                                                                                  Barbara Granata

 

Luci e ombre de “La regina degli scacchi”: è davvero la serie rivelazione dell’anno?

Voto UVM: 3/5

Miniserie in 7 episodi uscita il 23 ottobre, scritta e diretta da Scott Frank e ispirata al romanzo “The Queen’s Gambit” di Walter Tevis, La regina degli scacchi è la produzione Netflix più chiacchierata ed esaltata da un mese a questa parte. Ma è davvero la rivelazione di cui tutti parlano?

La trama

Tra gli anni ’50 e ’60, Beth Harmon (Anya Taylor-Joy), rimasta orfana di entrambi i genitori, riuscirà a riscattarsi puntando tutto sulla passione per gli scacchi, hobby insolito per una donna dell’epoca. La serie ripercorre la sua storia partendo dalla infanzia tra luci e ombre nell’orfanotrofio: qui inizierà ad assumere tranquillanti, ma farà anche l’incontro decisivo della sua vita con il custode Shaibel (Bill Camp). Sarà lui a farle scoprire il “mondo racchiuso nelle 64 case” della scacchiera.

La piccola Beth assieme al custode Sheibel, figura centrale nella sua formazione. Fonte: AdHoc News Quotidiano.it

Il personaggio

Beth, bambina prodigio e poi affascinante regina degli scacchi, è un personaggio enigmatico e spigoloso, con cui lo spettatore fa fatica a simpatizzare: la sua è un’esistenza al di là del comune, sempre in bilico sugli estremi del successo e della tragedia, proprio come il bianco e il nero che si alternano sulla sua amata scacchiera. E poi c’è anche la personalità: determinata quasi sino alla presunzione, distaccata e composta, caparbia e restia ad accettare la sconfitta; Beth sembra crollare solo assieme alla torre nei rari casi in cui perde una partita e scomporsi poco invece di fronte agli altri drammi della vita.

Ma l’apparenza inganna: la rabbia che si porta dentro, come la avverte il suo mentore Shaibel, è invece tanta ed è proprio questa che la spinge ad avanzare verso la vittoria e a imporsi ai nostri occhi come un’icona di femminilità anche in un mondo prevalentemente maschile come quello degli scacchi.

Beth di fronte al campione internazionale Borgov (Marcin Dorociński). Fonte: telefilm-central.org

Da goffo anatroccolo bullizzato alla High School, Beth si trasforma in un elegante e seducente cigno. Questo tuttavia non porrà fine alla sua solitudine: la Harmon, come qualsiasi eroe, resta in un mondo a parte ed è per questo che immedesimarsi nel suo punto di vista è difficile. Desta forse più simpatia (per quanto personaggio meno centrale) la madre adottiva Alma, con la sue crisi quotidiane tra alcool e Chesterfield e la smania di vivere il qui e ora, in quanto è «l’unica cosa che conta».

Tuttavia la determinazione di Beth nel perseguire l’obiettivo di diventare Gran Maestro degli Scacchi può essere di grande esempio in un’epoca come la nostra, in cui gli stimoli più disparati distraggono facilmente i giovani dalle loro vocazioni più profonde. Insomma un invito a premere sull’acceleratore del nostro talento, rivolto a noi ragazze (e non solo).

Mosse vincenti

Ci sbagliamo però se vediamo nell’emancipazione femminile la chiave per cogliere l’originalità della serie.

Dal grande cinema alle fiction Rai, le sceneggiature abbondano da tempo di storie di riscatto che hanno per protagonista una donna. L’originalità di The queen’s gambit (questo il titolo originale della miniserie che è anche il nome di una celebre mossa scacchistica: il gambetto di donna ) sta però nel calare questo racconto verosimile di rivalsa femminile in un mondo sconosciuto ai più: gli scacchi, gioco spesso considerato noioso e d’élite e rare volte oggetto di romanzi, film e tantomeno serie di successo.

Il montaggio racconta gli scacchi come un gioco di magiche armonie: i pezzi si muovono guidati dalle mani di Beth come se danzassero e l’ombra della scacchiera appare alla piccola protagonista sul soffitto quasi come in un incantesimo. Ma la mossa sicuramente più riuscita e che sicuramente ha fatto più gola agli spettatori è l’ambientazione d’epoca: il meglio degli anni ’50 e ’60 rivive nella colonna sonora che vanta nomi del calibro di Peggy Lee, The Monkees, Donovan, nei colori pastello della scenografia, ma soprattutto nell’eleganza dei vestiti creati su misura dalla costumista Garbiele Binder.

Beth Harmon in look total white. L’outfit è un chiaro rifermento alla Regina Bianca degli scacchi. Fonte: vogue.it

Altra gioia per gli occhi: la fotografia. Soprattutto nel primo episodio i colori fanno da contraltare al vissuto della protagonista: gli ambienti dell’orfanotrofio sono opachi e freddi; fa eccezione la camera del custode illuminata da una più confortante luce calda: è lì che Beth sarà folgorata dalla scacchiera.

Forzature

Sapevate che il compianto Heath Ledger voleva girare un film basato su “The queen’s gambit”? Un vero peccato che il progetto non sia andato in porto: i tempi più concisi del cinema avrebbero permesso di concentrare una trama che, distribuita invece su 7 episodi, stenta a decollare, rivelandosi a tratti lenta e poco avvincente. Anche l’intreccio è piuttosto monotono: la vita di Beth prosegue tra una vittoria e l’altra mentre alcuni eventi più personali spesso rimangono solo sullo sfondo o vengono narrati con poco coinvolgimento. Altro scoglio che può scoraggiare lo spettatore sono i dialoghi che indugiano troppo sul lessico scacchistico e rischiano di annoiare i più profani del gioco.

Scacco matto

Anya Taylor-Joy (Beth Harmon) davanti alla scacchiera. Fonte: nospoiler.it

La vera rivelazione della serie è invece Anya Taylor Joy nei panni della protagonista: è lei a reggere il gioco comunicando con lo sguardo e la mimica per creare un personaggio intrigante, ma anche impenetrabile e sui generis. Ci auguriamo di rivederla presto anche sul grande schermo: la sua performance posata e allo stesso tempo decisa è perfetta per trame gangster e thriller di tutto rispetto.

 

Angelica Rocca

 

Oltre la notte, un thriller introspettivo per raccontare il terrorismo

In questo 2020 dilaniato dalla pandemia da Coronavirus, non avremmo mai potuto pensare che ci fosse spazio per nuovi attentati terroristici di matrice islamica in alcune città europee. Giorni fa i media ci hanno riportato i fatti di Nizza – già reduce di un attacco nel luglio 2016 – e di Vienna, che fino ad ora non era mai stata colpita.

Rimanendo in tema con i drammatici accadimenti di questi giorni, vi proponiamo la recensione di una pellicola del 2017 del regista Faith Akin “Oltre la notte”, che mostra un’altra faccia del terrorismo, spesso meno nota a molti.

Fonte: Mymovies, Diane Kruger

Trama

Oltre la notte è un film ambientato nell’odierna Germania. La protagonista è Katja (Diane Kruger), una donna tedesca sposata con Nuri (Numan Akar) uomo di origini turche che in passato è stato in carcere per spaccio di stupefacenti. I due hanno un figlio di sei anni di nome Rocco.

Fonte: Panorama, Katja e Nuri (Numan Akar)

La vita di Katja viene sconvolta in una sera, quando percorrendo la strada per andare all’ufficio del marito (in un quartiere turco della città) trova molti poliziotti, transenne e tanta gente accorsa sul posto.

C’è stata un’esplosione proprio lì dove lavora Nuri; sia lui che il figlioletto Rocco sono morti. Katja in poche ore del pomeriggio ha perso praticamente tutto il suo mondo. Dalle prime indagini della polizia tedesca emerge subito che davanti all’ufficio qualcuno ha piazzato e fatto esplodere un ordigno. Purtroppo il passato dell’uomo legato alla droga fa subito pensare agli inquirenti che fosse coinvolto in qualche losco affare o che fosse attivo politicamente o addirittura finanziasse qualche associazione curda. Katja, nonostante il dolore, è più lungimirante. Secondo lei è un attentato di natura xenofoba, probabilmente di matrice neonazista.

La storia vera dietro il film

Il nostro regista, di origini turche, si è ispirato ad alcuni episodi di cronaca nera avvenuti tra gli anni ’90 e i primi 2000 da parte di un’associazione terroristica neonazista e xenofoba, la NSU, ai danni della comunità turca e di alcuni greci residenti in Germania. La polizia tedesca ricercava gli stessi colpevoli nel ristretto giro dei contatti delle vittime e negli ambienti legati al traffico di stupefacenti all’interno di queste stesse comunità, quasi a voler trovare una giustificazione a quelle stragi. Anni dopo la NSU rivendicò la paternità di quegli attacchi.

Originalità

Non siamo davanti alle solite storie di terrorismo, kamikaze e fondamentalismo islamico. Siamo davanti ad un attacco sferzato da gente proveniente dal cuore dell’Europa, una strage di matrice europea quindi da parte di “bianchi; una radice ideologica opposta a quella cui siamo stati abituati nel recente passato.

Non ci troviamo nemmeno davanti al solito thriller, allo scenario da “spionaggio” per andare alla ricerca dei colpevoli. Quello di Oltre la notte è un racconto introspettivo in cui viene messo in evidenza il dolore di una donna colpita dalla grave perdita del marito e del figlio. Non viene quasi per niente in rilievo il profilo psicologico degli autori del fatto, il regista si concentra sul profilo delle vittime e su come Katja (interpretata lodevolmente dalla Kruger) affronta la situazione.

Sempre un thriller sì, ma a sfondo introspettivo.

Fonte: Mymovies

La pellicola si struttura in tre parti: la famiglia, la giustizia, il mare. Un crescendo di suspense durante questi tre episodi; a fiato sospeso vediamo Katja affrontare il lutto, ricercare spiegazioni, chiedere giustizia e a tratti vendetta. Non mancano i colpi di scena ma –sicuramente – gli occhi di un attento osservatore riusciranno anche a cogliere un barlume di speranza che in qualche scena segnerà le vicende drammatiche della nostra protagonista.

Fonte: Movietele.it

Un thriller drammatico tratto da fatti di cronaca che è riuscito a conquistare molti premi cinematografici, tra cui il Golden Globe per il miglio film straniero e la Palma d’oro per la miglior interpretazione femminile a Diane Kruger al Festival di Cannes.

 Ilenia Rocca