Ma Rainey’s Black Bottom, una storia raccontata dal blues

Una produzione Netflix tutta da vedere: sarà rivelazione agli Oscar?- Voto UVM: 4/5

Prima ancora di Billie Holiday, Nina Simone ed Etta James c’era una sola diva del blues: Gertrude detta “Ma Rainey”, cantante afroamericana dei ruggenti anni ’20. Detta la “madre del blues”,  di fatto battezzò il genere; il suo è un grande nome ormai destinato a cadere nell’oblio se non fosse per la recente pellicola di Netflix, Ma Rainey’s Black Bottom. Prodotto da Denzel Washington, diretto da George C. Wolfe e in concorso agli Oscar per ben cinque statuette (miglior attore protagonista, migliore attrice protagonista, trucco, costumi e scenografia) il film merita di essere visto per tanti motivi.

Dramma, pathos e “talking blues”

Se esistesse la categoria “miglior soggetto” agli Oscar, state certi che il film di Wolfe sarebbe in concorso anche per quella, proprio per la sua storia originale e sui generis. Quando si tratta di star della musica, infatti, portarle al cinema spesso significa dimenticarsi dell’arte e concentrarsi su gossip e vicende private, riducendo tutto alla famigerata triade “sesso, droga e rock’n’ roll”(anche per gli artisti che non sono “rock”). Ma Rainey’s Black Bottom non è niente di tutto ciò! E non perché sia una smielata favola su una grande artista afroamericana di successo in un’America tutt’altro che propensa a dare ai neri successo. Non perché sia un film con tanto di happy ending, privo di drammi, rabbia e violenza, anzi.

La diva Ma Rainey (Viola Davis) assieme ai membri della band in sala incisione. Fonte: blog.ilgiornale.it

Il film di Wolfe, più che della diva Ma Rainey e della sua vita, parla della storia di una canzone, appunto Black Bottom. Parla di blues, che non è solo un genere musicale: è un grido di dolore, è vita vera che scorre nelle vene degli afroamericani e nelle loro storie di subita sopraffazione che vengono fuori dalle parole dei personaggi, dai loro monologhi profondi e densi di pathos, fluidi come canzoni, accompagnati in sottofondo dalle note degli strumenti, che siano piano, tromba o contrabasso. Un blues che parla (si potrebbe azzardare “talking blues”) è quello dei dialoghi del film, tratti dall’omonimo dramma teatrale di August Wilson.

Proprio come le grandi tragedie antiche, infatti, la  maggior parte della vicenda è concentrata in una sola giornata e in un unico luogo: lo studio discografico in cui viene incisa la famosa canzone. Storcono il naso gli amanti dell’azione: in Ma Rainey non succede – quasi – nulla o meglio, la maggior parte di ciò che accade è solo ricordato nei racconti dei quattro membri della band, talmente vividi da permetterci quasi di vederli raffigurati sullo schermo. Leeve (Chadwick Boseman), Toledo (Glynn Turman), Cutler (Colman Domingo) e Slow Drag (Michael Potts) si riuniscono in sala prove, suonano e risuonano i brani tra scherzi e diverbi finché non arriva Ma (Viola Davis) che dà il via alle danze e si parte con l’incisione.

Da sinistra a destra: Toledo (Glynn Turman), Levee (Chadwick Boseman) e Slow Drag (Michael Potts) provano i pezzi. Fonte: nonsolocinema.com

Grandi interpreti in spazi ristretti

Nonostante il film possa apparire limitato nello spazio (e anche nel tempo, con soli 93 min di durata) è proprio attraverso una storia all’apparenza statica che emerge la bravura degli attori in scena: Viola Davis sprigiona tutta la rabbia di una cantante afroamericana che si sente sfruttata dal suo agente, “addolcita” dallo stesso solo al fine di trarne profitto.

Da lei ci aspettavamo una performance esattamente di questo tipo: anche quando il trucco viene rovinato dal calore insopportabile della Chicago anni ’20, Ma è una donna forte, che ama realmente la sua musica e che non ha paura di puntare i piedi per farsi rispettare, sia dagli altri membri della band che da agente e produttore. Le movenze e la mimica facciale dell’attrice rispecchiano in pieno il carattere forte della protagonista, fruttandole una meritata nomination come migliore attrice protagonista.

Viola Davis e Chadwick Boseman sul set – My Red Carpet

Ancor più sorprendente è la prova attoriale del compianto Chadwick Boseman, nei panni dell’alternativo trombettista Levee, che già gli è valso un Golden Globe postumo. Nella narrazione possiamo considerare questo personaggio come l’opposto di Ma: innovatore e fuori dagli schemi, vuole rompere con le sue melodie il “classicismo” della cantante, arroccata sulle sue posizioni storiche e tradizionali.

Ma non sono le scene che rappresentano questo dualismo le più significative dell’attore: la voglia di rivalsa e indipendenza, con il sogno di fondare una sua band, fanno da cornice a una storia disperata di violenza, che ha spaccato la sua famiglia quando era solo un bambino, lasciando un segno indelebile e forse mai elaborato dal personaggio. L’attore riesce al meglio a immedesimarsi sia nel lato spensierato e gioviale del trombettista, che in quello triste e tormentato: un mix che meriterebbe l’Oscar.

Simbolismo della pellicola

Due sono i simboli che spiccano sulla scena: il caldo, che diventa quasi un personaggio vero e proprio, invadente e “palpabile” (soprattutto su Ma) in quasi tutte le scene. Sembrano però soffrirne solo i personaggi di colore, che spesso non riescono ad aprire i ventilatori e ad alleviare questo fastidio evidente: sembra quasi simbolo dell’oppressione e delle sofferenze che gli afroamericani hanno dovuto patire, espresse esplicitamente nelle storie raccontate dei personaggi.

Il secondo è una porta chiusa, che Leeve cerca continuamente di aprire senza successo: alla fine riuscirà a vedere cosa c’è dietro, grazie alla sua caparbietà; a voi l’interpretazione su cosa troverà dietro essa, metafora sul cosa gli ha fruttato il suo comportamento.

La vera Ma Rainey con la sua blues band. Fonte. cineavatar.it

C’è una lunga storia dietro una canzone, spesso ignorata dal grande pubblico e lasciata solo alle ricerche di appassionati del settore: il film la riporta alla luce rendendola il perno attorno cui ruotano altre storie; allo stesso tempo resta un lieve rammarico per la breve durata del film, che lascia lo spettatore desideroso di continuarne la visione. Ma Rainey’s Black Bottom parla di musica, sì, ma non trascura i drammi sociali del tempo, dà loro voce attraverso la musica stessa, attraverso quel blues che è “un modo di comprendere la vita”, una filosofia che i bianchi non sembrano capire, ma di cui hanno un disperato bisogno.

Sarebbe un mondo vuoto senza il blues. Già, io cerco di afferrare quel vuoto e poi cerco di riempirlo. Non sono stata la prima a cantare così. Il blues c’è sempre stato.

Angelica Rocca, Emanuele Chiara

Pieces of a woman: tra arte e dolore

Vanessa Kirby suprema nel trasmettere al pubblico il dolore di una madre – Voto UVM: 4/5

Continuiamo la nostra rassegna sugli Oscar con la pellicola Pieces Of a Woman disponibile su Netflix e diretta da Kornél Mundruczó. Stavolta non tratteremo la categoria “miglior film”, bensì quella “miglior attrice protagonista”: infatti la splendida Vanessa Kirby è in gara per l’ambita statuetta con altre grandi attrici. Il suo talento e la sua interpretazione l’hanno portata fino al più famoso red carpet al mondo: il film è stato infatti presentato per la prima volta alla settantasettesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia dove la Kirby si è aggiudicata il premio per la miglior interpretazione femminile

Trama

Chi se ne importa cosa pensano? Si tratta di me. Si tratta della mia vita.

Il film si apre con la stagione autunnale e  racconta la storia di una donna di nome Martha (Vanessa Kierby) che assieme al suo compagno di nome Sean (Shia LaBeouf) sta aspettando il suo primo figlio o – in questo caso –  figlia. Martha, ha deciso che il lieto evento sarà a casa, lontano dal “bianco” dell’ospedale.

Vanessa Kirby e Shia LaBeouf in una scena del film. Fonte: screenmovie.it                           

I due futuri genitori si sono affidati a una levatrice di nome Barbara, ma quest’ultima non si presenterà e manderà una sostituita di nome Eva (Molly Parker). Da quel momento in poi il film assume una piega inaspettata; si percepisce tensione: lo spettatore è proiettato all’interno della stanza accanto ai protagonisti, ma allo stesso tempo si sente come se fosse costretto a guardare senza far nulla.

 Martha comincerà a sentire dolore ed una forte nausea ed Eva noterà che il battito cardiaco della bambina è sceso. Sean e Eva insistono per andare in ospedale, ma Martha è ferma sulla sua scelta e il parto continua a casa. Darà alla luce una bambina: lo spettatore dall’altro lato dello schermo sorride! Attimi dopo però la neonata diventa blu ed Eva cercherà di rianimarla, ma sarà tutto inutile e poco dopo la bambina morirà per arresto cardiaco.  

E non posso farla tornare.

Da quel momento in poi  Martha e Sean percorreranno un tunnel di cui non si intravede la fine, ma solo dolore e angoscia: pian piano cominceranno ad allontanarsi l’uno dall’altra, il loro amore si trasformerà in un odio profondo e finiranno per detestarsi. La perdita profonda si intreccerà con l’egoismo dei familiari che, invece di aiutare, abbatteranno ancor di più Martha, trattando il suo dolore con mera sufficienza. 

In campo clinico certe cose sono un mistero.

Ormai lontana da tutto e da tutti, Martha  dovrà uscire da sola da quella sofferenza disumana.

Martha isolata da tutti. Fonte:s.yimg.com                 

Tra arte e  simbolismo

Il film è accompagnato da tre simboli: la mela, le stagioni e il ponte.

Il ponte rappresenta l’inizio e la fine del film ma, in special modo, l’accettazione della perdita della bambina: difatti in una scena del film vedremo Martha che spargerà le ceneri della sua piccola bimba proprio da un ponte. Proprio qui si comprende che non si può rimanere aggrappati al passato e al dolore, sebbene a quest’ultimo non si può porre fine, ma soltanto cercare di accettarlo.

A volte la forza della risonanza può far cadere anche un ponte.

La mela rappresenta la maternità, che la nostra Martha non ha potuto vivere a  360 gradi. In una scena del film vediamo la protagonista che percorre il reparto di un supermercato e la sua attenzione è rivolta verso le mele: le esamina e le osserva con attenzione. Tantissime sono poi le scene in cui la vediamo mangiare il frutto fino al torsolo fino a conservanee i semi e decidere di farli germogliare: l’operazione finale avverrà con l’accettazione del lutto.

Martha con una mela in mano. Fonte: metropolitanmagazine.it

Le stagioni saranno un nodo fondamentale per tutto l’arco temporale dell’opera: difatti il film inizia con l’autunno che rappresenta la morte, poi arriverà l’inverno che rappresenta la depressione (infatti  vedremo Martha e Sean ormai lontani e freddi fra di loro), infine ci sarà la primavera che rappresenta l’accettazione e, come i germogli della mela, Martha sarà pronta ad andare avanti.

L’arte si intreccia con questo film: Martha sfrutta dei simboli per superare il proprio dolore, giacché è sola e si rifugia all’interno di questi oggetti inanimati, redendoli vivi.

Questo film non ha niente che vedere con la resilienza, ma tutto il contrario. Ci mostra come il dolore delle volte ci trascini fino allo sfinimento, rendendoci degli esseri alienati. Vanessa Kirby è riuscita a far immedesimare il pubblico e renderlo partecipe del dolore di Martha.

                                                                                                                                       Alessia Orsa

Disney+ vs Netflix agli Oscar 2021

Come per ogni categoria che si rispetti, anche la statuetta dei film di animazione è tra le più attese.

Come sempre, la grande casa Disney fa da padrone ( è inevitabile associare ad essa un cartone ), ma quest’anno ha la Grande N come rivale. Infatti, a concorrere agli Oscar nella categoria in questione abbiamo, tra gli altri, Soul e Over The Moon.

Soul, Disney+

La matita di Pete Docter, ancora una volta, cela dietro personaggi dagli occhi grandi e forme morbide una riflessione sulla vita, profonda e pesante allo stesso tempo. Dietro la figura di Joe Gardner si nasconde l’insoddisfazione “dell’essere umano medio”, di colui che ha dovuto rinunciare ai propri sogni pur di uniformarsi alle convenzioni.

Fonte: taxidrivers.it, il professor Joe

Pete ha disegnato un uomo in grigio la cui unica scintilla è il jazz: sarà proprio questo a farlo svegliare al mattino e a fare da sottofondo alla sua vita e a tutto il film. Infatti sono stati scritti dei pezzi originali proprio per la vita di Joe, in stile “vecchio bar americano” con nuvole di fumo e completi gessati.

Il film è geniale in quanto utilizza un linguaggio semplice per spiegare un concetto complesso: l’essere insoddisfatti e non trovare la propria scintilla perché si è costantemente persi in un mondo caotico.

Il  protagonista sarà oggetto di uno scherzo del destino: la sua vita finisce proprio quando sta per cogliere una delle più grandi opportunità, ovvero suonare con una sassofonista leggendaria. E così ci ritroviamo nell’altro mondo dove Joe, incontrandosi e scontrandosi con le altre anime, riesce – in modo non convenzionale – a comprendere la bellezza della vita. E noi la scopriremo con lui grazie alle voci di Neri Marcorè e di Paola Cortellesi che renderanno il tutto più coinvolgente e leggero.

Ma di leggero in Soul non c’è nulla. Fa riflettere tutte le generazioni, dimostra che siamo così indaffarati a cercare di modellare la nostra personalità alle convenzioni sociali che non ricordiamo l’importanza delle passioni «che sono il sale della vita» o addirittura quanto sia buona una fetta di pizza.

Fonte: ilfattoquotidiano.it, Joe e 22 in una pizzeria dell’altro mondo 

A far capire tutto questo a Joe sarà l’anima di 22; Joe da solo non sarebbe mai riuscito a trovare l’importanza della semplicità e la piccola anima cinica, senza il nostro protagonista, non sarebbe mai riuscita a tornare sulla terra e accorgersi di quanto fosse sbagliata la convinzione che non la potesse “accendere niente”.

Collaborazione, realizzazione e immaginazione sono le tre parole chiave del film che fa scendere una lacrima e accendere molte lampadine, interrogandoci in ogni momento.

Over the Moon – Il fantastico mondo di Lunaria, Netflix

Netflix ci porta in Oriente e poi sulla Luna: Over the Moon è una storia commovente, sullo stampo dei classici cartoons, un film da guardare con tutta la famiglia che lascia una sensazione di serenità e pace.

La vicenda strappalacrime è quella di una bambina che perde la mamma, che crede ancora nelle fiabe ma nonostante questo possiede una spinta continua alla ricerca della verità.

Fonte: taxidrivers.it, Fei Fei e la sua famiglia 

Un’anima da scienziata dentro il corpo di una piccola Fei Fei talmente ingegnosa che arriva sulla luna.

Il regista Glen Keane, ex “cadetto” Disney con diverse medaglie, rappresenta in maniera colorata e semplice il “fantastico mondo di Lunaria”, un luogo particolare e fluorescente che farà da palcoscenico alla fiaba scritta da Audrey Weels (deceduta nel 2018) a cui è dedicato il film.

Fonte: tomshw.it, la vista di Lunaria 

I temi trattati sono evergreen: il lutto, la “gelosia” nei confronti della nuova compagna del padre,  il senso del dovere e le tradizioni di famiglia; tutto questo si trova immerso sotto la luce della luna e viene raccontato tramite musica e colori.

Il confronto

Come si può notare, la competizione anche quest’anno è molto alta. Lo streaming ha sostituto le poltrone del cinema e, nonostante questo, i film non hanno perso la loro magia. Da una parte ci sono le riflessioni sulla vita espresse mediante un film di animazione, dall’altro ci sono grandi problematiche della nostra esistenza vissute da una ragazzina; sembrano temi già trattati ma − sicuramente – richiedono una costante e ulteriore rilettura.

Soul e Over the Moon emozionano e fanno riflettere; sicuramente il far parte della categoria “film d’animazione” rappresenta una grande sfida e cela una sorta di evoluzione: possiamo affermare che i cartoni ormai non sono film solo per bambini, bensì richiedono autocoscienza e voglia di cambiare. Ci donano il desiderio di crescere, come quello che avevamo da piccoli, ma ci permettono di farlo con maggiore consapevolezza. Che grande privilegio, non sprechiamolo.

Barbara Granata

Màkari: una nuova “brezza” di sicilianità

 

Una serie che fa assaporare una Sicilia differente – Voto UVM: 4/5

Ormai un po’ tutti sappiamo che quest’ultimo anno ci ha privato di tanto, dalle persone care al libero arbitrio passando per le esperienze uniche che non vivremo mai. Ci ha però ricordato che gli esseri umani hanno l’innata- e spesso dimenticata- capacità di trasformarsi e di ripartire, anche da zero, quando si tratta della propria serenità.

E proprio di cambiamento e di rinascita tratta la nuova serie televisiva italiana Màkari, tratta dalle opere di Gaetano Savatteri, aventi per protagonista il giornalista e investigatore “per caso” Saverio Lamanna (Claudio Gioè). La fiction, prodotta da Palomar in collaborazione con Rai Fiction, è diretta da Michele Soavi ed è andata in onda dal 15 marzo 2021 su Raiuno.

La trama e i personaggi

Saverio Lamanna (Claudio Gioè), un siciliano trapiantato a Roma per assumere l’importante incarico di portavoce al Viminale, vede la sua vita travolta da uno stupido incidente lavorativo e, nel tentativo di sfuggire alla vergogna, decide di ritornare nella natia Sicilia.

Proprio a Màcari, circondato dai ricordi d’infanzia, da vecchie e nuove conoscenze, dagli affascinanti paesaggi, Lamanna riscopre la sua più grande passione: oltre a quella per le belle donne (da “buon terrone” qual è), quella dello scrittore, in una cornice cittadina in cui le storie da raccontare non mancano mai… oppure è lo stesso Lamanna a fare da “gufo del malaugurio” disseminando tragedie al suo passaggio ?

Spinto da un’inarrestabile curiosità, che spesso lo rende una “camurria” e lo mette in pericolo, s’improvvisa investigatore non lasciandosi sfuggire l’opportunità di ripartire, cosi come sono costretti a fare tutti i Saverio Lamanna moderni che, dopo essere stati sconfitti, si rialzano.

Claudio Gioè in una scena della serie. Fonte: Palomar, Rai Fiction

Si assiste alla metamorfosi del protagonista che da giornalista cinico privato del complesso della provincialità siciliana, senza soldi e futuro, riscopre il suo vero Io di scrittore, la sua terra e i valori perduti.

Claudio Gioè: Lamanna mi somiglia molto, è un uomo che torna a vivere a Palermo dopo tanti anni, proprio come me. Forse, questo ha fatto sì che ci mettessi un po’ una quota di emotività in più.

Ad accompagnarlo in questo percorso troviamo tanti altri personaggi. In primis, l’eccentrico amico d’infanzia Peppe Piccionello (Domenico Centamore), rigorosamente in infradito e t-shirt pro-Sicilia, che rappresenta, oltre all’anima comica della fiction, la “genuina sicilianità” attaccata alle sue secolari tradizioni sempre moderne come le “massime” che lo stesso spesso recita. A completare lo scanzonato trio c’è, inoltre, l’intraprendente studentessa Suleima (Ester Pantano) che, pur non essendo la solita femme fatale, conquista il cuore del protagonista non lasciandosi sopraffare da quest’uomo più grande di lei e realizzato sia personalmente sia professionalmente.

Nel cast troviamo anche tanti altri noti nomi siciliani, come Antonella Attili (Marilù), Sergio Vespertino (il Maresciallo Guareschi), Filippo Luna (il Vicequestore Randone), Tuccio Musumeci (padre di Saverio), Maribella Piana (Marichedda) e così via.

La Sicilia, protagonista silenziosa ma non troppo

Gaetano Savatteri: Ritengo che il successo vada ricercato anche nell’ambientazione, ovvero la Sicilia, nella tensione tra la luce che ammalia e la complessità, per questo non ne siamo mai sazi in letteratura, al cinema e in tv […] credo che la Sicilia raccolga in sé tutta la profondità dell’essere italiano.

Dopo il grande successo ottenuto (forse) dall’ultimo episodio de Il commissario Montalbano, Raiuno punta ancora una volta sulla Sicilia. La miniserie, ripresa negli ultimi mesi dello scorso anno, è ambientata a Palermo e nel trapanese. I suggestivi scorci che sono stati gelosamente catturati in tutte le scene invitano calorosamente, superata la pandemia, a visitare la Sicilia occidentale, culla di tradizioni e monumenti ancestrali lasciati dai vari popoli succedutisi nel tempo.

Tonnara di Scopello. Fonte: wikimedia.org, creativecommons.org

A valorizzare ancora di più la Sicilia è anche la meravigliosa sigla iniziale scritta da Ignazio Boschetto (originario di Marsala) e interpretata dal gruppo di “tenorini” Il Volo.

Ignazio Boschetto: È una canzone che racconta la mia Sicilia, terra di saggi, terra di stolti, fatta di diavoli e santi. E’ una canzone attaccata alle tradizioni […].

Lamanna come Montalbano? Màkari come Vigàta? Savatteri come Camilleri?

Lo scrittore Andrea Camilleri. Fonte: citazioni.it, creativecommons.org

La serie, sulle cui spalle poggia la responsabilità (e, perché no, l’onore) di diventare la legittima erede de Il Commissario Montalbano, ha avuto una partenza lenta ma si è certamente ripresa nel corso delle quattro puntate, intitolate rispettivamente I colpevoli sono mattiLa regola dello svantaggioÈ solo un gioco e La fabbrica delle stelle.

In attesa dell’annuncio ufficiale della seconda stagione, si possono però segnalare alcune defaiances narrative da correggere. Innanzitutto la sceneggiatura si presenta, sin dalle prime battute, caratterizzata da fin troppa frettolosità nel tentativo probabilmente di dare una svolta alla vita del protagonista ed è spesso sopraffatta dall’intrigo sentimentale che nasce e si sviluppa quasi forzatamente tra i protagonisti. Si notano poi alcune ingenuità e leggerezze che potevano essere evitate, come la facilità con cui i colpevoli si lasciano sfuggire degli indizi assai rilevanti per il nostro “sbirro di penna”.

Non è sicuramente l’ennesimo poliziesco ispirato a Montalbano & Co e rappresenta il tentativo di proporre ai telespettatori un prodotto più fresco e frizzante a cavallo tra il giallo e la commedia, il melò e il grottesco sullo sfondo di una Sicilia dolceamara e differente da scoprire e – per chi già la conoscesse – da riscoprire.

Racconta temi contemporanei, facilmente stereotipabili, ma mai banali: dagli incidenti agli omicidi premeditati, dalla disperazione alla vendetta, passando per il movente economico. Màkari presenta un’istantanea dell’attuale situazione italiana, non solo siciliana, che stenta a ripartire e di come la ripartenza non può che cominciare dal singolo che ha il desiderio, ma spesso non il coraggio, di reinventarsi e di riscattarsi.

Angelica Terranova

Il Processo ai Chicago 7: cronaca di uno dei più grandi processi politici della storia americana

Due ore di pellicola in cui ci si sente realmente spettatori di un vero processo -Voto UVM: 4/5

Nonostante la pandemia abbia caratterizzato tutto il 2020 e stia continuando ad accaparrarsi anche buona parte del 2021 con i cinema ancora chiusi, non possiamo dire tuttavia di essere rimasti a corto di grandi produzioni cinematografiche trasmesse dalle varie piattaforme streaming.

Una di queste è Il Processo ai Chicago 7 da una produzione del genio di Spielberg, regia e sceneggiatura firmate da Aaron Sorkin, reduce del successo ai Golden Globe e con ben 5 nominations per gli Oscar 2021.

Vicenda storica

Questa pellicola, la prima con cui inauguriamo la nostra maratona dedicata agli Oscar 2021, narra una vicenda realmente accaduta: una pagina di storia occidentale in cui è protagonista la nazione più “democratica” del mondo.

Siamo a Chicago nell’agosto del 1968, in piena rivoluzione giovanile e studentesca a seguito del maggio francese. “Impera” il movimento culturale e pacifista degli hippie:  cresce l’impegno politico all’interno delle università e, in seguito alle proteste studentesche, le nuove generazioni stanno maturando una certa autonomia ideologica. Forse il mondo sta cambiando.

Ma è anche l’anno in cui il Presidente Johnson, succeduto a Kennedy, incrementa il numero di truppe da inviare in Vietnam. Sullo sfondo abbiamo anche le proteste degli afroamericani che lottano per i loro diritti sia attraverso il movimento delle Pantere Nere, sia attraverso l’ala più pacifista di Martin Luther King che quell’anno stesso troverà la morte.

“Anni 60” contro una classe dirigente ancora “anni 50″.

Fonte: Gli acchiappafilm- Scena dello scontro con la polizia

A Chicago, nell’occasione della Convention democratica per scegliere il candidato che dovrà sfidare Nixon alle prossime elezioni presidenziali, molti giovani di diversa estrazione sociale, culturale e anche ideologica si riuniscono con l’unico intento di protestare pacificamente contro la guerra in Vietnam. Purtroppo incontreranno manganelli e gas lacrimogeni. Vi saranno feriti e oltre 700 arresti, ma solo sette tra i manifestanti subiranno un processo con l’accusa di cospirazione e di aver istigato la rivolta.

 Struttura del film

Ne esce fuori un legal drama, o per dirla all’italiana un “giudiziario americano” con tutte le caratteristiche del genere: dall’ambientazione nell’aula del processo e negli uffici giudiziari, polizieschi e penitenziari ai colori della fotografia tendenzialmente più cupi, per poi passare ad una spiccata dialettica che Sorkin attribuisce a ciascun personaggio sia esso imputato, difensore, giudice, pubblica accusa o teste che depone.

Fonte: Io Donna- il giudice Julius Hoffman in aula (Frank Langella)

La maggior parte del film è dedicato alle udienze che vedono come protagonisti i sette imputati che sono i due hippie Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen) e Jerry Rubin (Jeremy Strong), i due studenti del movimento SDS (Students for a Democratic Society) Tom Hayden ( Eddie Redmayne) e Tennis Davis ( Alex Sharp),  i fabbricanti di piccoli ordigni rudimentali Lee Weiner (Noah Robbins) e Jhon Froines ( Daniel Flaherty), l’attivista pacifista David Dellinger (John Carroll Lynch) e “l’ottavo” imputato poi escluso dal processo Bobby Saele (Yahya Abdul Mateen II), uno dei capi delle Pantere Nere che non aveva partecipato attivamente, ma viene arrestato semplicemente perché “nero”.

Fonte: Rivista Studio- Bobby Seale con il legale William Kunstler (Mark Rylance)

Il regista si serve poco della finzione; si basa invece sulle trascrizioni delle udienze dibattimentali di quello che è stato uno dei più grandi processi politici della storia americana. Difficile non notare come agli imputati venga negato il diritto ad un equo processo davanti ad un giudice di parte già pienamente propenso a condannarli.

Vengono fuori le storture di un sistema giudiziario fortemente politicizzato: giudici e procuratori generali (pubblica accusa) sono eletti dal Congresso dietro nomina del Presidente. E ancora ci saranno depistaggi e corruzione: insomma un processo politico alle intenzioni.

D’altro canto Sorkin metterà in luce anche le varie fazioni e gli scontri ideologici esistenti all’interno dei movimenti giovanili di attivisti. Da un lato abbiamo Abbey Hoffman, interpretato in modo encomiabile da Sacha Baron Cohen, membro del Partito Internazionale della Gioventù,  convinto di demolire l’establishment con la rivoluzione culturale. All’opposto abbiamo il più moderato e politically correct Tom Hayden, che snobba il proselitismo degli anarchici e pacifisti hippie come Hoffman; secondo lui la rivoluzione passa attraverso l’impegno politico che porti poi  giustizia e uguaglianza al popolo. Nonostante tutto l’obiettivo dei due è uguale: cambiare il sistema.

Fonte: Wired- Tom Hayden

Con un cast d’eccezione in cui vi è anche la partecipazione straordinaria di Michael Keaton, Il Processo a Chicago 7 conquista 5 meritatissime nominations agli Oscar nelle categorie miglior film, miglior attore non protagonista a Sacha Baron Cohen, miglior fotografia, miglior montaggio e miglior sceneggiatura originale.

                                                                                                                                                                                                Ilenia Rocca

Aspettando gli oscar 2021: i migliori premi oscar degli ultimi dieci anni

L’attesa ormai è quasi finita: manca solamente un mese a gli Oscar 2021! La premiazione, inizialmente programmata per il 28 Febbraio,  si terrà il 25 Aprile (notte del 25/26 in Italia). La cerimonia assume un significato molto importante quest’anno: il mondo dello spettacolo e del cinema è uno dei settori messi maggiormente in difficoltà dall’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, quindi gli Oscar simbolizzano la ripresa della settima arte e magari anche una piccola boccata di normalità.

In ogni caso in attesa degli Oscar 2021, in questo articolo andremo a volgere un occhio alle passate edizioni, presentando i migliori film e artisti che sono stati onorati con la statuetta negli ultimi dieci anni.

 Miglior film

Il discorso del re: locandina. Fonte: mediasetplay.it

La categoria più importante e rinomata nella cerimonia degli Oscar è senza dubbio la categoria miglior film. Negli ultimi dieci anni grandi capolavori del cinema contemporaneo hanno vinto questa statuetta, tutti con un messaggio o una scintilla in più di altri.

Tra questi uno che merita una particolare attenzione è Il Discorso del re (The King’s speech), presentato a gli Oscar nell’edizione del 2011. Il film conta ben dodici candidature e altre tre vittorie: miglior attore protagonista a Colin Firth nei panni di re Giorgio VI, miglior sceneggiatura originale e miglior regia a Tom Hooper.

Il discorso del re racconta i problemi di balbuzie di Giorgio VI, re d’Inghilterra durante la Seconda guerra mondiale, e l’aiuto  datogli dal logopedista Lionel Logue, interpretato dall’attore Geoffrey Rush. Tale aiuto permetterà a re Giorgio di pronunciare a tutta la nazione la dichiarazione di guerra alla Germania e la conseguente entrata nel secondo conflitto mondiale.

 Miglior attore protagonista

Una scena del film La Teoria Del Tutto. Fonte MYmovies.it

La categoria miglior attore protagonista è stata costellata negli ultimi dieci anni principalmente da nuove star emergenti, ma anche da attori già affermati che magari attendevano un bell’Oscar da qualche anno (come Leonardo Di Caprio).

In ogni caso una performance che brilla più di altre è l’interpretazione del noto scienziato Stephen Hawking da parte dell’attore Eddie Redmayne ne La Teoria Del Tutto (The Theory of Everything), presentato e premiato a gli Oscar nel 2015. Oltre ad essere un’enorme responsabilità portare sul grande schermo una così importante figura della fisica e astrofisica contemporanea, questo ruolo è molto impegnativo anche per il dover riprodurre l’avanzare della malattia da cui lo scienziato era affetto: la SLA.

Per questo motivo, Eddie Redmayne, per rendere la sua performance più realistica possibile, ha incontrato lo stesso Hawking e decine di pazienti affetti da SLA, per emularne l’aspetto e la mimica al meglio.

Lo stesso scienziato successivamente si complimenterà con lui per la sua interpretazione tanto precisa e veritiera.

 

 Miglior attrice protagonista

Mildred (Frances McDormand) davanti ai suoi manifesti. Fonte milanoweekend.it

Adesso passiamo al premio per miglior attrice protagonista. Questa categoria è senza dubbio caratterizzata dalle grandi interpretazioni di donne forti e determinate.

Tra queste, l’attrice che ha maggiormente meritato il premio Oscar è Frances McDormand per la sua performance in Tre Manifesti ad Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri) nel 2018. Il film, scritto e diretto da Martin McDonagh, racconta le vicende di una madre, Mildred Hayes (Frances McDormand) che chiede giustizia per la morte della figlia, violentata e uccisa. Mildred si schiera con forza contro la polizia locale e lo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson) per non essere riusciti ad agire in nessun modo e, affittando dei manifesti pubblicitari, ne denuncia pubblicamente la negligenza.

Il personaggio della Mcdormand spicca per la sua forza, per la determinazione nell’opporsi a tutto e tutti affinché la sua voce venga ascoltata . Il film inoltre ottenne altre cinque candidature: l’attore Sam Rockwell vinse l’Oscar come migliore attore non protagonista nel ruolo di Jason Dixon, poliziotto nemico di Mildred con radicali idee razziste.

A conferma della sua grande capacità e passione, la McDormand è stata ricandidata quest’anno alla medesima statuetta per il film Nomadland. 

Per concludere

Con questo articolo abbiamo voluto presentare alcune delle grandi pellicole e dei grandi artisti premi Oscar di questo ultimo decennio anche per sfatare una visione comune: si tende generalmente a pensare che il grande cinema si basi solamente sui cari e vecchi cult… ma il cinema è un’arte in continua evoluzione, che tende a rispecchiare la nostra realtà che cambia. Quindi per quanto i cult siano la storia del cinema, certamente le pellicole contemporanee ne sono delle degne eredi.

Ilaria Denaro

 

Tante care cose: indie pop ma non solo

Tra indie e musica d’autore: disco piacevole ma di un certo livello – Voto UVM: 4/5

Uscito venerdì 12 marzo su Youtube e Spotify e prodotto da Maciste Dischi, Tante care cose, secondo album di Fulminacci (all’anagrafe Filippo Uttinacci) non può passare inosservato nel circuito musicale contemporaneo.

C’è la vita quotidiana nell’album di questo giovane talentuoso, la vita veramente (titolo del disco precedente) narrata con parole e concetti talvolta ricercati, la vita della nostra generazione, il presente. Ma c’è anche il passato: non solo il passato dei nostri ricordi – quello privato e autobiografico, quello dei “versi-polaroid” dell’indie pop – ma anche quello della musica che ha fatto la storia, dei mostri sacri del cantautorato italiano (partendo da Dalla, Battisti, De Gregori finendo a Silvestri) e delle stelle internazionali (Beatles e tanti altri).

Tormentoni che ti rimangono impressi in testa già al primo ascolto? No. Tante care cose è una miniera di preziose gemme pop in 36 minuti che si svelano assaggio dopo assaggio agli intenditori di buona musica.

Cover dell’album realizzata con l’Intelligenza Artificiale ( lo stesso metodo è stato usato per creare le immagini che accompagnano ogni canzone). Fonte: sentireascoltare.com

Originalità e semplicità si sposano in questo disco. Non vi fate depistare dalle immagini bizzarre della cover perché Tante care cose non è un disco banale, ma nemmeno un prodotto di nicchia pieno di virtuosismi inascoltabili: a partire dal pop molto orecchiabile di Meglio di così, con quel ritornello dal motivetto frizzante perfetto da fischiettare la mattina mentre ci stropicciamo gli occhi davanti alla macchinetta del caffé.

Voglio respirare l’atmosfera
Quando è notte e sembra sera

È vero, anche qui Fulminacci sembra parlare di una sera, ma perché non iniziare la giornata cominciando anche un buon disco?

Ancor meglio di Meglio di così, è però Santa Marinella, capolavoro incompreso sul palco dell’Ariston. Ballata soft dalla melodia per niente scontata (accordi di settima si alternano ad accordi minori in un sound malinconico), Santa Marinella è una perla da ascoltare proprio durante «uno di quei giorni che/ se mi vuoi lasciami stare», magari quando piove e non si può andare in giro a «citofonare e poi scappare».

Un gigantesco Fulminacci passeggia per le vie di una “città-presepe” nel videoclip onirico di Santa Marinella. Fonte: wikipedia.org

Pare che la fonte di ispirazione per Fulminacci sia stata la storia di un amico e non una vicenda autobiografica. Poco importa: in parole come « non cercarmi mai però incontriamoci / prima o poi, senza volerlo» si può ritrovare ognuno di noi.

A svegliarci da questo sogno dolceamaro ci pensano poi i fiati potenti e le melodie più easy di Miss Mondo Africa, hit allegra e travolgente. Io ci sento Battisti (sarò di parte), alcuni Silvestri, altri Jovanotti. Certo è che Fulminacci sa saltare come un agile canguro (allarme spoiler) da un genere all’altro.

Cambio di registro col synth pop de La grande bugia: qui le parole toccano vette metafisiche, ma tutto sommato le note ci avvolgono in una sensazione di leggerezza e relax. «Visti dallo spazio siamo ricordi» è un aforisma da incidere sulla pietra.

Meno leggero e più incalzante è Un fatto tuo personale, una produzione Frenetik & Orange (famosi per aver lavorato con altri artisti della scena romana quali Carl Brave, Franco 126 e Gemello). Non un tormentone melodico, ma sicuramente il testo più schietto, geniale e ribelle dell’intero disco.

E benvenuto nell’era delle parole senza articolo
Di quello piuttosto che quello piuttosto ridicolo

Qui vince chi se ne frega e non paga le tasse

Ma il meglio deve ancora venire e Fulminacci conferma il suo estro versatile nota dopo nota, canzone dopo canzone. Apre le danze del lato B il veloce giro di chitarra alla Doobie Brothers di Tattica, brano superenergico che strizza l’occhio alla vecchia dance: lo balleremo tutti quest’estate (si spera!).

Per gli estimatori del cantante non è poi una sorpresa Canguro, singolo già lanciato il 10 settembre. È sempre un piacere però riascoltare il suo groove “saltellante” che accompagna alla perfezione il significato del testo.

La vera sorpresa è invece Forte la banda, un capolavoro: applausi di sottofondo introducono un sound trionfale da progressive rock; un omaggio alla «musica, quella dei grandi» che riecheggia anche nel piano suonato alla Elton John.

Giovane da un po’, penultimo brano, sarebbe perfetto per un finale col botto; è l’inno bittersweet di chi ha sempre sofferto la nostaglia di una Golden Age mai vissuta: quella dei figli dei fiori, del rock’n’roll, delle lotte studentesche, delle piccole rivoluzioni degli anni ’60.

Io, giovane da un po’
C’ho una specie di senso di vuoto
L’ho riempito coi film e le foto

Giovane da un po’ è “sixties” in tutto, non solo nel testo: a partire da quei coretti di sottofondo finendo con il ritornello che sprizza gioia da tutti i pori. Poteva essere l’ultima traccia (sì, sono di parte) ma Fulminacci rivela la sua vena indie lasciandoci nel fondo del calice il sorso più amaro.

Ed ecco la ciliegina sulla torta: Le biciclette, brano più intimo e acustico con stralci di poesia assoluta, una dolcissima dichiarazione d’amore senza troppi giri di parole:

Vorrei che fossi
Su questo tetto
Su quella spiaggia
Sull’orizzonte di questo letto

Le biciclette, autobiografica al 100 % a detta dell’autore, è una traccia incantevole che ha l’unica pecca di chiudere il disco lasciandoci soli nel silenzio con una sensazione di nodo alla gola.

Le biciclette: cover. Fonte: genius.com

Ma del resto poco importa. Siamo nell’era della musica streaming e della riproduzione shuffle: possiamo benissimo skippare i brani “scomodi” e comporre e ricomporre a nostro piacimento la tracklist di un album.

Eppure un vero peccato: perché Tante care cose è uno di quei gioielli da mettere a crepitare su un giradischi mentre si sta a contemplare un tramonto arancione, comodamente sdraiati a sorseggiare una birretta su un vecchio divano di una casetta in riva al mare – per chi ha la casa al mare. E per chi non l’avesse, bastano queste 10 canzoni a coinvolgerlo in un viaggio divertente e – perché no? – anche nostalgico, capace di aprire dimensioni ed orizzonti ignoti a noi “giovani da un po'”, spiacenti di non aver corso a cento all’ora con la musica dei grandi, ma in ogni caso fortunati. Fortunati di avere talenti che racconteranno di noi proprio come Fulminacci.

Angelica Rocca

Un bagno nel blues: buon compleanno Pino Daniele

Nessuno muore veramente sulla Terra finché vive nel cuore di chi resta. Si dice così, vero? Nonostante siano passati diversi anni da quella drammatica notizia, la presenza di Pino Daniele continua ancora ad accompagnarci dolcemente lungo quei grandi brani che sono passati alla storia come componimenti che raccontano le diverse anime di Napoli e dell’Italia, ma anche del volgo e dei sentimenti più profondi.

A me me piace ‘o blues e tutt’ ‘e juorne aggia cantà.

Pino Daniele. Fonte: libreriamo.it

Al confine tra poesia e musica leggera

Pino Daniele nasce a Napoli il 19 marzo 1955 in una famiglia molto numerosa. Dopo aver frequentato l’Istituto Armando Diaz di Napoli, impara a suonare la chitarra da autodidatta e successivamente migra in diversi complessi che lo aiutano ad acquisire conoscenza ed esperienza nel campo della musica.

Il 1976 segna importanti cambiamenti, tra cui le prime esperienze professionali come musicista e la maturazione artistica. Da quel momento il cantautore inizia a produrre album e canzoni di un certo spessore: alcune passarono alla storia della musica italiana come dei veri e propri capolavori.

L’omaggio che oggi intendiamo offrire a questo grande cantautore non sarà quello di raccontare la sua storia come se fosse una semplice biografia, ma di ripercorrere insieme alcuni dei brani più importanti. Un modo per sentirci più attivi e vicini al percorso compiuto dal grande Pino Daniele  e per augurare buon compleanno al cantautore e chitarrista blues più innovativo presente nel panorama italiano .

 

Pino Daniele: illustrazione in bianco e nero. Fonte: studio93.it

Napule è

Napule è, una fantastica traccia che apre il suo album di esordio: Terra mia del 1977.

Napule è mille culure, Napule è mille paure, Napule è a voce de’ criature che saglie chianu chianu e tu sai ca’ nun si sulo

Un inno, una poesia d’amore per la propria città, accompagnata  dalla denuncia a un insieme di problematiche quali le difficoltà, le contraddizioni e- sotto alcuni punti di vista- anche la rassegnazione.

Quella che vuole attuare Pino Daniele in questo brano è una rivoluzione, fatta di amare verità e dolci parole che si propongono di raccontare a testa alta e con determinazione le molteplici realtà di un posto così magico, lasciando spazio al sentimento e alla parola del volgo.
Allo stesso tempo, il cantautore non intende descrivere in modo oleografico la città ma vuole riportare alla memoria tutte quelle storie che ricordava o sapeva di aver ascoltato nei bar, nei vicoli, fra le panchine.

Una realtà che si lascia spogliare e raccontare senza mai consumarsi, una fiamma alimentata dall’amore, dalla passione, dall’incontro tra un foglio bianco e sentimenti liberi.

Le strade di Napoli illuminate dalle parole di Pino Daniele. Fonte: tpi.it

Je so’ pazzo

Je so’ pazzo je so’ pazzo, e vogl’essere chi vogl’io ascite fora d’a casa mia, je so’ pazzo je so’ pazzo

Un brano forte e dirompente che risale al 1979: ancora una volta, Pino parla e racconta Napoli, facendo diversi riferimenti testuali, e allo stesso tempo mostra una forte propensione al rock blues.

Il protagonista del testo è un “pazzo” che, in quanto non perseguibile dalla legge, si mostra libero di poter manifestare il proprio dissenso o le proprie idee senza la necessità di essere politicamente corretto. Un brano provocatorio, quasi sfacciato, ribelle.

Pino Daniele in concerto. Fonte: rockit.it

Quando

Tu dimmi quando, quando. Ho bisogno di te, almeno un’ora per dirti che ti odio ancora

Un brano molto conosciuto ed inoltre da inserire nei più grandi successi di Pino Daniele. Spesso viene consideratola canzone simbolo del cantautore. Pubblicato nel 1991, venne pensato come colonna sonora del film di Massimo Troisi, Pensavo fosse amore… invece era un calesse. Le parole di questa bellissima canzone la rendono un classico senza tempo e diversi cantanti si cimentano ancora oggi nella sua esibizione.

Il significato del testo è molto profondo e allo stesso tempo delicato, in quanto descrive l’animo combattuto di un uomo innamorato che si chiede quando vedrà la donna amata per dirle «Ti amo ancora». Nella canzone si chiede «Dove sono i tuoi occhi e la tua bocca»: un chiaro appello all’amore perso. Mentre lei sembra molto lontana, così come cita il brano («forse in Africa che importa»), lui aspetta di rivederla un’ultima volta. Questo è chiaramente l’inno di chi non si arrende ma ama e brama la propria donna, nonostante lei non sia  lì con lui.

 Cover del cofanetto “Quando” (2017). Fonte: musicaintorno.it

Dai balconi alla rete, buon compleanno Pino

A gran voce, dai balconi delle nostre case, dai social alle radio nelle nostre camere, nonostante l’emergenza Coronavirus, siamo tutti abbracciati in un unico pensiero che ci accompagna proprio lì, a stringerci tra le note di Pino Daniele.

Grazie per la tua musica, buon compleanno.

Annina Monteleone

Funerea e luminosa: la figura di Arianna nella mitologia e nel mondo moderno

Il Minotauro, Teseo e Arianna, questi nomi rievocano in noi i ricordi di storie sentite durante l’infanzia. Il Minotauro, il mostro metà uomo e metà toro, è forse la figura più vivida, seguita da quella di Teseo, l’eroe ateniese che entra nel labirinto di Creta per ucciderlo; ma la loro storia è legata indissolubilmente a quella di Arianna, la principessa cretese che aiuta Teseo ad uscire dal labirinto porgendogli un gomitolo di filo. Giorgio Ieranò nel suo libro Arianna: Storia di un mito edito da Carocci editore ripercorre la sua storia attingendo ad un vasto corpus di fonti archeologiche, pittoriche e letterarie.
Lasciata da Teseo sull’isola di Nasso, Arianna diventa emblema di tradimento ed abbandono: questo è il suo aspetto più conosciuto. Ma Ieranò ci dimostra che quella di Arianna è una narrazione millenaria, ricca di varianti; un mondo arcano, nonché una foresta di simboli.

Tra amore e morte, la Signora del labirinto

Una proto-Arianna fa la sua comparsa in una delle tavolette d’argilla d’età micenea ritrovate a Cnosso, su cui figura un’incisione dedicata ad una misteriosa Signora del labirinto tra le divinità a cui portare un’offerta.
Quel labirinto di cui conosce i segreti, coi suoi meandri tortuosi che atterriscono e disorientano, era spesso identificato con l’aldilà. Ciò le conferisce un legame con la sfera degli inferi:

Vi sono aperte parecchie porte, che traggono in errore chi cerca di andare avanti e fanno tornare sempre agli stessi percorsi sbagliati.

Scrive Plinio il Vecchio a proposito del labirinto egizio sepolcro del faraone Mendes.
Edifici reali chiamati labirinti erano noti in tutto il mondo antico, ma la parola labirinto in sé poteva anche riferirsi ad una condizione metaforica: una transizione.
In una versione della leggenda Arianna, abbandonata da Teseo, si impicca; nell’oltretomba la passione non consumata per un amante impossibile la terrà per sempre sospesa in un limbo tra la dimensione infantile virginale e quella della sessualità adulta.
Durante le Antesterie – celebrazioni che cadevano ad inizio primavera – le giovani ateniesi eseguivano L’Aiora: un rituale nel quale si dondolavano su un’altalena. Il dondolio, simulando l’impiccagione originaria, assumeva significato ambivalente; di morte, in relazione all’adolescenza che dovevano lasciarsi alle spalle; di nuovo inizio, in rapporto all’erotismo al quale avrebbero avuto accesso come spose adulte.
Per il suo legame con gli inferi e con festività di morte e rinascita della natura, si pensa che Arianna fosse in precedenza una dea dei morti e della vegetazione come Persefone, poi declassata ad eroina del mito.

Skyphos raffigurante una donna spinta sull’altalena da un satiro – www.wikiwand.com

Una gioia ultraterrena nella volta celeste

Ma oltre che funerea, Arianna può essere anche luminosa. E’ nipote del dio Sole da parte di madre; sposa del dio Dioniso che, venuto a salvarla dopo l’abbandono a Nasso, immortala il suo amore per la principessa trasformandone la corona in costellazione:

La corona di Arianna che si muove tra le stelle e corre insieme al sole, compagna di viaggio dell’Aurora figlia del mattino.

(Nonno di Panopoli; Le Dionisiache)

Le sue origini celesti, il suo ruolo di sposa di un dio e la sua assunzione in cielo come stella ne favoriscono la popolarità anche nel mondo romano; come dimostrano gli affreschi pompeiani presenti nella celebre Villa dei Misteri, dove l’immagine della coppia formata da Arianna e Dioniso spicca sulle altre.
Nel Rinascimento i due allietano i carnevali fiorentini e la corte ferrarese; diventando, oltre al simbolo del rigoglio della natura, un invito a vivere ogni attimo con gioia ed intensità:

Quest’è Bacco e Arianna,
belli, e l’un dell’altro ardenti:
perché ‘l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.

(Lorenzo de’Medici; Il Trionfo di Bacco e Arianna)

L’affresco di Villa dei Misteri con raffigurati Dioniso ed Arianna – www.indaginiemisteri.it

Arianna ed il mito nella modernità

I miti sono storie senza tempo, concepiti nel passato, ma alimentati dalle suggestioni del presente.
Così Goethe, ispirandosi all’amante Faustina che ancora addormentata poggia la testa sul suo braccio, compone l’elegia XII:

Maestose le forme, nobilmente disposte le membra.
Se così bella era Arianna nel sonno potevi, Teseo, fuggire?
Un solo bacio a queste labbra! O Teseo, allontanati!
Guardala negli occhi, si sveglia! – Ti tiene stretto in eterno.

La narrazione cambia ancora, Teseo, che nella versione canonica l’abbandona a Nasso, è indotto a rimanere; incatenato dai suoi occhi.
Nell’Ottocento e nel Novecento, con l’introduzione della psicanalisi e dell’antropologia, l’identità diventa un concetto sfuggente, ed altrettanto ambigui sono i ruoli ricoperti dai personaggi della mitologia. Le loro vicende subiscono delle riletture anche paradossali, come nel dramma Los Reyes di Julio Cortázar.
Arianna, di solito innamorata di Teseo, parteggia per il Minotauro: ha con lui un rapporto viscerale. D’altro canto il Minotauro non è qui un mostro feroce, ma una creatura triste e buona. Il suo legame con Arianna rappresenta un mondo infantile e primitivo contrapposto a quello cinico ed asservito a logiche di potere dei re Teseo e Minosse.

Ariadne di John William Waterhouse 1898

Signora degli inferi, emblema di gioia sovrumana, voce dei sospiri e delle inquietudini di ieri e di oggi.
Nonostante sia poco più che un’ombra del passato, Arianna ci somiglia. Il suo lamento sulla spiaggia di Nasso rispecchia la paura di scoprirci soli in un luogo ostile, mentre l’arrivo di Dioniso il sogno di una felicità perenne. Finché esisteremo, la sua storia riecheggerà negli anfratti più profondi della nostra anima.

Rita Gaia Asti

Serie TV e flashback, come il passato scandisce il nostro presente

A circa un anno dal lockdown, i social cominciano a mostrarci i ricordi con “ accadeva un anno fa…” allegando foto in pigiama, immagini di pane fatto in casa e videochiamate. Sicuramente la pandemia ci ha reso più nostalgici e vedere le cose che si potevano fare è ormai  parte della routine quotidiana. 

Siamo tutti più avidi di ricordi: riusciamo a trovare sollievo nel passato e questo ci strappa un sorriso; ma ci sono serie tv che hanno fatto di eventi del passato – sotto forma di flashback – i loro punti di forza, usandoli come pretesto per raccontare o dare senso alle vicende o come vera e propria struttura narrativa. Da nuove uscite a grandi classici (come l’intramontabile How I Met Your Mother), il throwback non è solo la tendenza del momento.

Lost, 2005-2010

Quando si parla di flashblack, non possiamo non citare la serie cult per eccellenza. Lost probabilmente è stata la prima serie ad essere diventata un fenomeno di massa: le – fin troppo – complesse vicende che seguono lo schianto dell’aereo di linea 815 della compagnia Oceanic Airlines su un’isola sperduta, si snodano di fatto attraverso le storie precedenti dei naufraghi, con un continuo utilizzo dei flahsback. Il fascino dell’utilizzo di questa tecnica in Lost  è dovuto in gran parte al riflesso che le vicende passate sembrano inesorabilmente avere sulla vita presente dei superstiti toccando la sfera del paranormale.

Cast della serie; in primo piano due dei protagonisti principali: Jack Shepard (Matthew Fox) e Kate Austen (Evangeline Lily) 

Ma se l’isola di normale sembra avere ben poco, fino ad essere considerata un’entità “viva e consapevole”, la trama non può che rispecchiare questo leitmotiv: procedendo attraverso eventi sempre più strani e inspiegabili, lo spettatore si rende presto conto di come tutto sembra non avere – come si suol dire – né capo né coda. A “cominciare” dal finale, molto discusso e oscuro alla maggior parte del pubblico, continuando con una serie di sempre meno credibili colpi di scena, Lost sembra rispecchiare proprio il concetto di flashback: del resto, cos’è la memoria se non uno spazio immaginario, quasi teatrale, onirico, sempre più confuso e distante, dove vanno in scena inevitabilmente sempre gli stessi personaggi?

Mr. Robot, 2015-2019

Altra serie che meriterebbe un intero articolo , apparentemente potrebbe sembrare la più off topic. In realtà, nel capolavoro nato da un’idea di Sam Ismail,  il significato più profondo della vita complicata del protagonista, l’hacker Elliot Alderson (un eccezionale Rami Malek), risiede interamente nei suoi ricordi di infanzia. Mai come prima, una serie tv “moderna”, rivoluzionaria e per certi versi anche inquietante, ha nascosto così bene il suo animo più intimo, facendo di fatto ruotare gran parte delle emozionanti vicende intorno a un tema: i rapporti tra Elliot e i suoi familiari (e i pochissimi amici), ma soprattutto con il padre. 

Celebre scena (prestata in passato a molti meme) nella quale Elliot ( Rami Malek) esulta a Times Square. 

Per questo la serie non è soltanto un must per tutti gli appassionati di spionaggio e informatica, rivoluzionari e amanti dei thriller in senso lato: il racconto di come un gruppo di hacker ha provato a cambiare il mondo è una storia fatta di antieroi, ciascuno con la propria fragilità e il proprio vissuto.

Un passato che lascia ferite ben più profonde di una crisi monetaria globale, ma che, allo stesso tempo, rappresenta una fonte inesauribile di energia (anche se non sempre positiva).

Dark, 2017-2020

Passato, presente e futuro in un cerchio. D’altronde è vero: tutto si ricollega e ritorna al proprio posto, ma cosa succede se l’ inizio è la fine stessa?

Beh, in Dark è possibile vederlo: questa serie – che richiede più attenzione di quanto crediate – si fa strada nel tempo e nello spazio, dimostrando l’importanza dei rapporti umani, delle scelte e il peso delle loro conseguenze. Ogni episodio, a se stante, è come una goccia nel mare o come la goccia che fa traboccare il vaso, quindi è essenziale per capire il quadro generale ma anche per poterlo risolvere.

Presente, futuro, passato. Fonte: lascimmiapensa.com

È sicuramente innovativa, ben fatta, ma molto difficile da capire. Bisogna mettersi lì, a creare alberi genealogici e mappe per poter uscire dal labirinto delle vicende, cercando di comprendere come quello che succede è conseguenza e causa stessa di ciò che è accaduto.

Il flashback, qui, diventa reale. Andare indietro nel tempo e poi tornare di nuovo al presente, per poi arrivare verso il futuro… Che sia questo schema narrativo un monito per noi? Magari questo è il modo giusto di affrontare la vita? A voi la risposta.

Lupin, 2021 – in corso

La storia del ladro gentiluomo prende il volto di Assane (interpretato da Omar Sy): un moderno Lupin immerso nella Parigi del 2020, raccontato da Netflix con estrema leggerezza ma – allo stesso tempo – con una narrativa accattivante.

La storia del protagonista la si conoscerà a poco a poco. Saranno proprio i flashback a permetterci di conoscere il piccolo Assane e vedere come costruisce la sua identità di gentiluomo.

Primo bottino del gentiluomo. Fonte: Netflix

La trama sarà diversa da quella di «Lupin, Lupin, l’incorreggibile» perché dietro si nasconderanno problematiche differenti, attuali ma da sempre presenti: il potere del più forte, il sacrificio dei genitori e la discriminazione. Tuttavia, nonostante le critiche, la serie ha ottenuto un grandissimo successo.

Con lo stampo della – più fruttuosa – Casa De Papel, il protagonista raffigura un genio della truffa e tutto quello che ottiene sarà frutto di uno studio attento della situazione, delle conseguenze delle sue azioni; inoltre non perderà mai di vista l’obiettivo: vendicare il padre.

Ancora una volta, ci costringono ad ammirare il “cattivo” e a metterci dalla sua parte, per cui viene da chiedersi chi sbaglia: il carismatico e creativo ladro o coloro che lo inseguono?

L’estate in cui imparammo a volare (Firefly Lane), 2021 – in corso

La nuovissima serie tv proposta dalla grande N è un capolavoro che, purtroppo, non profuma di successo. 

La storia, riadattata dall’omonimo romanzo, è quella di due amiche che la vita ha reso sorelle e il cui legame indissolubile verrà confermato dagli innumerevoli salti temporali: dagli anni ottanta ai duemila, le vedremo da preadolescenti ad adulte crescere insieme e – nonostante provenienti da ambienti diversi – diventare le donne che sognavano.

 Tully e Kate ’80s. Fonte: rollingstone

Ad interpretare le due ragazze saranno due mostri sacri del piccolo schermo quali Katherine Heigl e Sarah Chalke meglio conosciute come Izzie (di Shondiana memoria) e Elliot di Scrubs; la loro bravura trapelerà in ogni episodio dando consistenza alle storie. La vicenda rende vera quella scritta «amiche per sempre» che non mancava sui diari delle nostre compagne di banco: nel loro caso la promessa viene riconfermata ogni anno che passa.

Il throwback, qui ben strutturato, ci dà la consapevolezza di quanto le protagoniste siano state importanti l’una per l’altra e di come le scelte prese a quindici anni abbiamo un riverbero anche a trentacinque.

L’importanza del passato quindi è inevitabile: il piccolo schermo non fa altro che accattivarci impacchettando le nostre necessità sotto forma di comodi episodi da divorare a nostro piacimento.

Che ci piaccia o no, tutto ciò che accade assume senso alla luce di ciò che lo ha preceduto.

Emanuele Chiara e Barbara Granata