Rino Gaetano: piccole istantanee di un cantautore anarchico

A 40 anni dalla sua morte, il cantautore calabrese Rino Gaetano viene celebrato con Istantanee e tabù: una prestigiosa collezione realizzata in collaborazione con la figlia Anna e il nipote Alessandro Gaetano.

La tracklist ricostruisce un percorso musicale ponderato delle canzoni più rappresentative estratte dai sei album in studio (Ingresso libero; Mio fratello è figlio unico; Aida; Nuntereggae più; Resta vile maschio, dove vai?; E io ci sto) pubblicati da Rino Gaetano nella sua breve ma intensa carriera.

La collezione è inoltre impreziosita da materiale tratto da nastri emersi nel tempo: troviamo l’inedito Io con lei, oltre a demo mai pubblicate prima e versioni originali di sue canzoni (che qui differiscono per testo o arrangiamento). Sono piccole istantanee immortalate nel tempo, a testimoniare il talento ingiustamente poco considerato in vita del nostro cantastorie metropolitano per eccellenza.

Le intime istantanee di Rino

Dopo tutto questo tempo i suoi testi riecheggiano fra le urla della gente, le sue parole vengono cantate a squarciagola dai giovani ai falò.

Rino, l’esule del Sud che col suo stile graffiante, ironico e tagliente affrontava la società, la politica, puntava il dito senza paura, senza nascondersi dietro alcuna maschera. Un artista che non ha mai avuto maestri e che non ha mai fatto parte di correnti già precostituite. Era lui stesso l’onda di una nuova corrente della musica italiana. Negli anni ’70 la canzone d’autore era politicamente impegnata, e Rino, col suo sguardo sensibile e a tratti disincantato, ha affrontato gran parte delle problematiche sociali.

Ne è un esempio la canzone Agapito Malteni il ferroviere, in cui l’autore racconta la storia di un ferroviere che ha negli occhi il dramma dell’emigrazione: intere famiglie che lasciano le proprie case per trovare fortuna in altri Paesi.

La gente che abbandona
spesso il suo paesello
lasciando la sua falce
in cambio di un martello
È gente che ricorda
nel suo cuore errante
il misero guadagno di un bracciante

La canzone fa parte del suo primo album, praticamente ignorato: Ingresso libero (1974). Un album sospeso fra un folk solare di acustiche e testi malinconici.

A questo seguirà Mio fratello è figlio unico (1976), un LP che si basa proprio sul concetto dell’emarginato e dell’escluso:

Penso al cane, chi meglio del cane può incarnare la solitudine per eccellenza? Noi siamo come il cane, e cioè abbastanza avulsi dall’incontro umano, abbastanza soli, messi da parte. (Rino Gaetano ad “Adesso Musica” nel ‘76)

Da Aida a Gianna: Donne simbolo di libertà

Sono gli anni di Fantozzi, degli impiegati poveri e arrivisti quelli che ritroviamo nella titletrack dell’album: una ballata idealistica di emarginazione e denuncia sociale.

Nella tracklist c’è anche la famosa Berta filava, che nel suo testo ha un significato radicato nella politica degli anni ’70. C’è chi ha visto in Berta Bert il soprannome di Robert E. Gross, il fondatore della Lockheed, al centro di un grosso giro di tangenti internazionali. E c’è chi invece ha puntato il dito su Aldo Moro che tramava alleanze con i partiti d’opposizione.

Nel 1977 esce Aida, album contenente l’omonima canzone con cui Rino si proponeva di raccontare la storia dell’Italia del ‘900 associandola alla vita di una donna meravigliosa, la sua Aida (riferimento all’opera del compositore italiano Giuseppe Verdi). L’Italia, ovvero la donna che sfogliava i suoi ricordi”; ritrova “il gran conflitto”, “marce e svastiche”, “la povertà, i salari bassi”. Ma è proprio per questa sua storia che nel ritornello, l’autore si fa portavoce del popolo nel dire “Aida, come sei bella”!

Ma Aida non è la sola Donna presente nella discografia di Rino. A distanza di un anno infatti cede il testimone ad una lei altrettanto importante: Gianna. A differenza dalla precedente si presenta come una filastrocca pop, colorata da una satira sociale e da un’ironia esibizionistica (come quella che porterà al Festival di Sanremo) che segneranno il percorso artistico dell’autore: da outsider per pochi a cantautore più “pop”. La sua Gianna gli farà ottenere il terzo posto alla kermesse musicale con un grande successo di vendite. Successo che purtroppo Gaetano vivrà tutt’altro che bene.

L’inizio della crisi

A 28 anni e in piena crisi, pubblica Resta vile maschio, dove vai? (1979) considerato il semi-flop della sua carriera per la presenza di tematiche trite e ritrite, cantate da un Rino Gaetano ormai “stanco” e “distante”.

Nel 1980 esce il suo ultimo disco E io ci sto. L’artista aveva ritrovato la giusta rotta, e con occhi diversi era tornato a raccontare le sue storie, come solo lui sapeva fare.

Mi alzo al mattino con una nuova illusione
Prendo il 109 per la rivoluzione
E sono soddisfatto un poco saggio un poco matto
Penso che fra vent’anni finiranno i miei affanni

ilsussidiario.net

Istantanee e tabù è proprio un viaggio attraverso tutta la discografia dell’autore. Da Ingresso libero ad E io ci sto, fra successi e insuccessi; per provare a ricordare “l’irriverente menestrello” della musica italiana come forse anche lui avrebbe voluto: cantando le sue canzoni!

Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni! Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale!

Domenico Leonello

Sfacciato e ribelle: BLANCO

Blanco, giovane artista della Universal Music, classe 2003, definito da Billboard Italia “sfacciato, ruvido, irriverente” sta conquistando le classifiche delle principali piattaforme musicali. In meno di un mese è riuscito a superare le 130 mila visualizzazioni su Youtube, diventando virale anche su Spotify, con Notti in Bianco.

Da SoundCloud al suo primo singolo ufficiale Belladonna (Adieu), sperimenta nuovi sound che lo porteranno successivamente al pieno avvio della sua carriera musicale con La Canzone Nostra di Mace.

A metà tra raccontare il suo modo di vedere ciò che lo circonda e creare il proprio equilibrio interiore, in un’intervista rilasciata non molto tempo fa, Blanco ci dice

Ci sono casi in cui scrivere mi fa stare bene perché mi aiuta a tirare fuori quello che a voce non riuscivo a dire.

Blanco, Classe 2003. Fonte: Genius

Notti in bianco

A poco più di un mese dall’esordio di Belladonna (Adieu) in cui Blanco riflette sui rapporti malati e ossessivi in amore, tradotti in una scrittura d’impulso e un sound deciso, è ora la volta di Notti in bianco in cui racconta una storia durata 92 notti trascorsi a scrivere testi dedicati ad una ragazza.

Ancora qua, in camera, a scrivere fino all’alba

Ed è proprio così che Blanco si affaccia al mondo della scrittura: per caso – racconta su bellacanzone.it – scrivendo un brano da dedicare ad una ragazza.
In Notti in bianco, la sua musica sembra andare oltre il rap avvicinarsi molto di più al punk in un contrasto ribelle, esagerato e irrazionale. Quella raccontata nel suo testo è una storia d’amore che sembra quasi indelebile, da raccontare, urlare, esorcizzare in pochi minuti.

Sopra quel balcone ci ho passato l’estate, eh
E ho strappato mille pagine

La stessa storia che lo fa sentire spaesato, senza riferimenti ma con un bagaglio di sensazioni da cantare senza mezzi termini e senza seguire una logica ben precisa.

Capita a tutti di voler dire qualcosa, non trovare le parole giuste ma comunque provarci senza far testo. Se il messaggio arriva, diretto o meno, non è importante. L’importante è inviarlo.

Notti in Bianco. Fonte: eclecticmusic.it

LA CANZONE NOSTRA – Mace, Blanco, Salmo

Chi ha amato e perso una persona, sa esattamente cosa significhi vivere l’assenza di qualcuno. Tra frustrazione, bottiglie di whisky e mille tentativi per correre via lontano da quella situazione, il tempo sembra essere l’unico a decidere. Se è vero che il destino ha la chiave, allora è anche vero che bisogna tentare tutte le chiavi del mazzo prima di capire che la serratura non si aprirà subito.

“E sono in bilico fra impazzire e morire”

Stati d’animo di questo genere non sono mai semplici da gestire. È normale desiderare l’equilibrio quando stai per cadere.

Quando senti che è la fine
ciò che unisce è più sottile

Capita spesso di aver bisogno di una mappa per affrontare il simbolico viaggio dentro e fuori di noi. Qualcosa, un dispositivo, un foglio, che ci indichi con precisione l’esatto punto in cui ci troviamo, gli spostamenti e la via d’uscita. Tra un’immaginaria segnaletica e un passante troppo distratto, scatta qualcosa e il mondo comune si sbriciola lasciando spazio ad una specie di terremoto emotivo.

“Diventa una gara ma in stato di ebrezza”

Alcune cose accadono semplicemente perché devono accadere, volute o no, scelte o no.

La Canzone Nostra/ Blanco,Salmo,Mace. Fonte: instrumentalst.com

MI FAI IMPAZZIRE – Blanco, Sfera

“Anche se mi fai male, senza non ci so stare”

«La prossima è tosta», tempo fa esordirono così su Instagram Blanco e Sfera, lasciando intuire ai propri fan un nuovo progetto. Poco dopo la conferma: ufficializzata la collaborazione, Mi fai impazzire è fuori un’ora dopo, dalla mezzanotte del 18 Giugno. Prodotta da Michelangelo e Greg Willen, dal sound caldo e pronta a sfondare le classifiche estive, è ora disponibile su Spotify e Youtube.

Ho i tuoi baci sul collo, sono come ferite
tu mi sai fare male, sì, tu mi fai impazzire
Ma se non ci sei attorno, qua mi va tutto storto

Quello a cui assistiamo è uno scontro tra due mondi opposti: la fama ormai constatata di Sfera e il modo di fare ancora grezzo ma spontaneo di Blanco.
Il testo sembra raccontare una relazione fatta di scontri, porte in faccia e mille litigi che si celano dietro un ennesimo ritorno. Racconta la tenacia di chi sa che nonostante i mille conflitti continuerà a sbattere la testa contro lo stesso muro ancora una volta.

Quante volte hai detto: “Stase’ è meglio se te ne vai”
perché sapevi che non me ne sarei andato mai

Perché in fondo, lo sappiamo tutti, ci sono storie che ci hanno fatto impazzire, fatto stare male, ma nonostante tutto sono state belle da morire.  

Annina Monteleone

Pride month con UVM: Chiamami col tuo nome

Storia commovente e interpretazione notevole da parte degli attori, ma il film non raggiunge i livelli del libro – Voto UVM: 4/5

Come ormai quasi tutti sappiamo, giugno è il Pride Month. Noi di Universome vogliamo celebrarlo attraverso una delle storie d’amore moderne più note: stiamo parlando di Chiamami col tuo nome! Uscito nelle sale nel 2017, il film diretto da Luca Guadagnino è un adattamento cinematografico dell’omonimo libro pubblicato da André Aciman nel 2007.

Il film

Chiamami col tuo nome e io ti chiamerò col mio (Oliver)

Chiamami col tuo nome è stato acclamato dalla critica cinematografica: ha vinto diversi premi tra cui anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale a James Ivory.

Ma ciò che rende la pellicola così unica e coinvolgente è la perfetta interpretazione dei due protagonisti Elio e Oliver da parte degli attori Timothée Chalamet (anche candidato per l’Oscar come miglior attore protagonista) ed Armie Hammer. I due riescono a identificarsi a pieno con i personaggi descritti nel libro, che in questo modo viene riadattato nella maniera più fedele possibile.

Elio ed Oliver in una scena del film –  Fonte: cinematographe.it

In ogni caso non è neanche da sottovalutare la cura di tutti i particolari, specialmente i luoghi e gli ambienti in cui il film è stato girato: questi, infatti, creano un’atmosfera quasi surreale.

Il film (come anche l’omonimo libro) racconta il legame speciale che si viene a creare tra Elio, ragazzo molto introverso di diciassette anni, figlio di un importane professore di archeologia, e Oliver, studente bello e affascinante di ventiquattro anni, durante l’estate nelle campagne del nord Italia. Inizialmente il rapporto tra i due è molto freddo e distaccato, ma passando molto tempo insieme i due si avvicinano sempre di più, fino a creare una relazione passionale inscindibile.

I personaggi

Il protagonista Elio (Timothée Chalamet)- Fonte: mymovies.it

Elio è diverso dai ragazzi della sua età: trascorre i mesi estivi a suonare il piano, leggere e nuotare. E’ molto solitario, l’unica persona a cui appare molto legato è Marzia, ragazza segretamente innamorata di lui.

Oliver, invece, è diverso da Elio tanto fisicamente quanto caratterialmente: attraente e sicuro di sé, inizialmente appare agli occhi di Elio arrogante e menefreghista con i suoi “dopo”. Solo in un secondo momento questa si mostrerà essere solo una corazza che nasconde una persona totalmente differente.

 Strappiamo via così tanto di noi per guarire in fretta dalle ferite, che finiamo in bancarotta già a trent’anni e abbiamo meno da offrire ogni volta che troviamo una persona nuova. Ma forzarsi a non provare niente per non provare qualcosa, che spreco! (Samuel Perlman)

Un altro personaggio che a mio parere spicca soprattutto alla fine del film (non vi preoccupate, nessuno spoiler!) è Samuel Perlman, padre di Elio, interpretato dall’attore Michael Stuhlbarg.

Il libro

Il film di Guadagnino – come abbiamo già detto – è tratto dal romanzo di Aciman; per quanto il regista sia rimasto il più fedele possibile alla storia originale, a mio parere il libro è migliore del film (come spesso accade per molti adattamenti cinematografici).

La vera differenza sta nel fatto che nell’opera di Aciman la storia viene raccontata tutta in prima persona da Elio, in questo modo si riesce a conoscere meglio il personaggio e il suo punto di vista; invece nel film si ha una narrazione pressoché impersonale e questo, a mio avviso, rende la narrazione più lenta e meno avvincente del libro. Inoltre il linguaggio molto descrittivo del romanzo rende possibile al lettore immergersi al meglio nella storia.

Cercami

Lo scrittore André Aciman e la copertina di “Cercami”- Fonte: ilLibraio.it

Nel 2019 esce il sequel del libro Chiamami col tuo nome, Cercami: questo si concentra molto anche sul personaggio del padre di Elio, che (come abbiamo già detto sopra) inizia ad emergere nel finale del primo romanzo, continuando comunque anche a narrare le vicende di Elio e di Oliver.

Ad ogni modo non si avrà un secondo film: per via delle varie accuse mosse all’attore Armie Hammer per stupro e cannibalismo e poiché impegnato in altri progetti, il regista Luca Guadagnino ha affermato in un’intervista che almeno per il momento non si impegnerà in un adattamento cinematografico.

La storia di Chiamami col tuo nome, a differenza di molte altre, non tratta direttamente la lotta per i diritti della comunità LGBT+. Qui si racconta solamente dell’amore che lega per sempre due ragazzi apparentemente molto diversi, perché, in fin dei conti è questo ciò che conta veramente: love is love.

Ilaria Denaro

Zelda ed Elden Ring: i due protagonisti dell’E3 2021

Quest’anno l’appuntamento estivo dell’E3 non ci ha portato, per ovvie ragioni,  ad osservare le conferenze delle aziende dai palchi di Los Angeles. Abbiamo invece avuto tutta una serie di dirette che hanno mostrato i nuovi titoli attesi. E per alcuni di essi le aspettative sono state rispettate: Zelda ed Elden Ring tornano quindi dopo un’attesa e un rimando di due anni. Sono stati loro, di fatto, le due grandi rivelazioni dell’evento e su di loro si sono concentrate la maggior parte delle analisi degli appassionati in questi giorni, così come la nostra.

Elden Ring: Game of thrones + Dark souls?

Il trailer presentato alla fine del Summer Game Fest ci ha mostrato un gioco con molti legami al passato del suo creatore. Dark Souls e Sekiro si fanno notare molto sia nell’estetica che nell’azione: le immagini danno una forte impressione di dark fantasy (tema ricorrente per i lavori dell’autore Idetaka Miyazaki)  e l’intera ambientazione appare ampia.

Il titolo promette infatti un vasto mondo da esplorare. Questo è di fatto un nuovo approccio per gli sviluppatori che fino ad ora avevano lavorato su ambientazioni spesso claustrofobiche e più guidate. Ciò che invece sembra rimanere dei vecchi lavori è il carattere (qui oppressivo) dei nemici: ci ritroveremo di nuovo contro avversari pronti a farci pagare ogni tasto premuto al momento sbagliato e ogni scelta non ponderata.

Esploreremo nuovi orizzonti Fonte: Tom’s Hardware

Martin coinvolto nel progetto

Se quanto detto finora riguarda il lato “giocoso”, per quanto riguarda la storia e i personaggi entra in gioco un volto inedito: infatti George R. R. Martin ha deciso di collaborare per la prima volta ad un progetto legato ai videogiochi. L’autore di Game of Thrones ha lavorato all’antefatto narrativo, costruendo le fondamenta del mondo di gioco. Come scaturisce da un’intervista del direttore del progetto alla rivista IGN, questo lavoro “a quattro mani” è ciò che ha reso il lavoro interessante: Martin ha infatti portato un grande arricchimento alla caratterizzazione del mondo e dei suoi personaggi, dando all’intera esperienza un valore aggiunto.

 Un gioco aperto?

L’intervista ha poi approfondito la libertà di gioco: avrà una piega inedita e aperta ricompensando il giocatore con l’esplorazione su larga scala del mondo. La mappa di Elden Ring promette di essere un grande parco giochi per il giocatore a cui sarà permesso di vagare e perdersi. Il viaggio qui sarà quindi un’esperienza importante, ma non l’unica che dia modo al giocatore di esprimersi liberamente: il combattimento e i suoi approcci permetteranno infatti molta personalizzazione.

Avvicinarsi al nemico di soppiatto o usare il grande arsenale di tecniche del personaggio per un testa a testa diretto? Parliamo di un centinaio di abilità legate liberamente al proprio equipaggiamento che permetteranno un uguale – si spera – numero di possibilità nella costruzione del proprio alter-ego.

La data di rilascio del titolo sarà il 21 Gennaio 2022. Si prospetta già da adesso un’uscita imperdibile per tutti i videogamer appassionati al genere. Le aspettative per questo lavoro sono sicuramente alte.

The Legend of Zelda: un altro criptico messaggio

Ma questa volta, rispetto a due anni fa, abbiamo molto di più di cui parlare. Nintendo ha mostrato un nuovo breve trailer in cui ci ha permesso di dare un’occhiata più approfondita seppur breve. Il gioco prenderà la sua base dal precedente capitolo, di fatto espandendosi da quella base. Ma quali sono le nuove strade che percorreremo?

I cieli si aprono in questo sequel. Fonte: Tom’s Hardware

Prendere il cielo

La prima grande differenza di  questo capitolo rispetto al precedente è l’aggiunta di una nuova dimensione: il cielo! La mappa del precedente Breath of the wild subirà uno stravolgimento che ci permetterà di esplorare isole fluttuanti sulla terra, un elemento sicuramente nuovo e che preannuncia altre novità.

Ciò che qui salta all’occhio di un appassionato è l’evidente legame con Skyward Sword ,titolo della stessa serie uscito per Wii una decina di anni fa e che permetteva, come questo, la discesa dalle nuvole. Rimane quindi da chiedersi come sia possibile che il mondo che abbiamo già esplorato possa permetterci questa nuova esperienza.

C’entra forse qualcosa il misterioso potere che abbiamo visto risvegliarsi all’inizio del trailer?

Premere indietro sul registatore

Il protagonista del gioco ha mostrato un nuovo potere di cui non è però ancora chiara la natura o la provenienza. Un braccio modificato portatore di una misteriosa abilità che potrebbe essere legato al controllo del tempo: un chiaro indizio ce lo dà la goccia d’acqua che vediamo risalire verso l’alto, come anche il cambiamento estetico del protagonista e la contemporanea presenza del vecchio. La musica, inoltre, è chiaramente montata al contrario e, se riascoltata invertita, mostra brani già conosciuti dai fan della serie.

Che sia tutto legato ad una meccanica simile a quella del vecchio Ocarina of Time in cui si viveva contemporaneamente in due dimensioni narrative diverse?

Chi è poi l’inquietante figura che si mostra all’inizio? Potrebbe essere davvero il già conosciuto Ganondorf come speculano in molti? In ogni caso per una risposta a queste domande bisognerà ancora aspettare molto. La data di rilascio è fissata infatti per un generico 2022 che fa pensare ad un’uscita tardiva di fine anno, data anche le difficoltà che molti sviluppatori hanno affrontato nel corso della pandemia.

Sebbene Zelda ed Elden Ring abbiano solo adesso, dopo due anni, mostrato per la prima volta i loro volti in maniera più concreta e il loro arrivo sia lontano, possiamo comunque essere contenti del contenuto mostrato. Con questi due titoli il 2022 si preannuncia un’anno importante per il mondo dei videogiochi.

Matteo Mangano, Giuseppe Catanzaro

The Handmaid’s Tale: l’essere donna contro ogni oppressione


Show prodotto con abilità, capace di mantenere l’attenzione dello spettatore e ricco di colpi di scena imprevedibili – Voto UVM: 4/5

 

Nel 1987, Belinda Carlisle cantava che «il Paradiso è un luogo in terra». Se non ce l’avessero detto, non saremmo mai arrivati a credere che la canzone sarebbe diventata la colonna portante di una serie tv degli anni 2010.

The Handmaid’s Tale, conosciuta anche col nome Il racconto dell’ancella, è uno show televisivo ideato da Bruce Miller nel 2017 ed adattato dal romanzo omonimo di Margaret Atwood del 1984.

In una realtà distopica, il mondo si ritrova ad affrontare una gravissima crisi ambientale che ha ripercussioni anche sul tasso di natalità della popolazione, riducendolo quasi pari a zero. Gli Stati Uniti vengono allo stesso tempo soggiogati da un movimento teocratico che, ben presto, occuperà la maggior parte del territorio, instaurando così un totalitarismo di natura religiosa ispirata all’Antico Testamento, ossia Gilead.

Classi sociali

La Repubblica di Gilead è divisa, a livello sociale, in classi nettamente distinte l’una dall’altra ed all’interno di una scala gerarchica: i Comandanti,i vertici della Repubblica; le Mogli, appunto, le mogli dei comandanti (il loro colore distintivo che usano nel modo di vestire è il blu-verdastro); le Marte, ovvero le domestiche.

Infine vi sono le Ancelle, adibite esclusivamente alla procreazione. Vengono schiavizzate per dare ai Comandanti di famiglie sterili dei figli. Il loro colore è il rosso e, dal momento che non hanno diritto a mostrare i capelli, indossano una cuffia bianca che è diventata un segno distintivo della serie. Una volta divenute ancelle perdono diritto al loro nome, assumendo il patronimico del Comandante cui vengono assegnate (es. Diglen, appartenente al Comandante Glen). A vigilare e punire le ancelle “disobbedienti” sono poste le Zie, donne dal comportamento austero e di grande crudeltà, dotate di… Un taser!

Abbigliamento tipico delle ancelle – Fonte: indiewire.com

I personaggi nell’universo di Gilead

La storia gravita attorno al personaggio di June Osborne (Difred) – interpretata da Elizabeth Moss -, ancella del Comandante Fred Waterford (Joseph Fiennes) e della moglie Serena Joy (Yvonne Strahovski, che forse conoscerete già per il suo ruolo nella serie televisiva Chuck).

Prima di giungere a casa Waterford, June era intenta a scappare verso il Canada assieme alla figlia Hannah ed al marito Luke, che però era già stato sposato. In una società a struttura patriarcale e fortemente teocratica come quella di Gilead, ciò che costituisce “peccato” comporta anche gli estremi del reato, ragion per cui June viene catturata e ridotta alla condizione di ancella per via del crimine di adulterio da lei commesso.

Ogni mese, nel periodo di ovulazione dell’ancella, quest’ultima viene sottoposta ad un rito – non solo legalizzato, ma obbligatorio – durante il quale viene costretta a copulare (dunque, viene stuprata) col Comandante al fine di dargli un figlio mentre viene tenuta ferma dalla moglie. Nella società di Gilead, inoltre, non è contemplata la possibilità che l’uomo sia sterile; l’infertilità viene dunque sempre imputata alle donne.

Come si può ben vedere, le donne di Gilead si trovano in uno stato di sottomissione aggravato dal divieto di leggere e scrivere.

Difred, la protagonista, si ritrova catapultata in una realtà che mette a rischio la sua vita. Col passare degli episodi notiamo un cambiamento travolgente nella sua personalità: da un atteggiamento inizialmente ubbidiente June riuscirà a divincolarsi dalle grinfie del regime, soprattutto dopo aver saputo dell’esistenza di un’organizzazione segreta chiamata “Mayday” che pianifica di distruggere Gilead dall’interno.

Ma non lasciatevi ingannare: il percorso, anzi, la corsa verso la libertà sarà dura e piena di ostacoli, oltre che eventi spiacevoli, che influenzeranno notevolmente sulla condizione psicologica di June.

June, Serena e Fred Waterford in una scena della serie. Si noti il contrasto di colori tra il verdastro, simbolo di purezza, ed il rosso, simbolo d’impurità dell’ancella. – Fonte: purewow.com

«Nolite te bastardes carborundorum», recita una frase incisa sul legno di uno stanzino da parte della “precedente Difred”, l’ancella che era stata lì prima di June. Sarà proprio da questa frase in latino maccheronico (letteralmente: “non farti abbattere dai bastardi”) che la protagonista troverà la forza di ribellarsi agli abusi fisici e psicologici di Gilead.

La particolarità della serie sta in buona parte nella perfetta interpretazione di Elizabeth Moss che, con le sue espressioni colme di tensione e rabbia, ci permette di addentrarci nel mondo interiore di June, facendoci percepire pienamente il lento degrado a cui il suo spirito andrà incontro. Ciò che conta, però, è che non sarà sola. Moltissime ancelle ed altrettante Marte si uniranno alla sua corsa verso la libertà col medesimo principio ispiratore: non lasciarsi abbattere dai bastardi.

Uno dei rinomati “sguardi alla June Osborne”, dritto nella telecamera e nell’animo degli spettatori. – Fonte: indiewire.com

In generale, lo show è curato nei minimi dettagli e sostenuto da un cast di notevole bravura. I costumi risaltano all’occhio del pubblico per via delle forti tonalità in contrasto all’ambiente asettico dello sfondo. Si pensi ad un dipinto pieno di grigi ma da cui risaltano piccole macchie colorate in movimento.

La serie, composta al momento da quattro stagioni (di cui l’ultima è in onda proprio adesso), è disponibile sulle piattaforme di streaming Hulu e TimVision. Nel corso degli anni si è accreditata una sfilza di Emmy Awards e ben due Golden Globes, nel 2018, per Miglior serie drammatica e Miglior attrice in una serie drammatica (Elizabeth Moss).

Valeria Bonaccorso

Paolo Sorrentino: la grande bellezza del cinema italiano

Buon compleanno, Paolo Sorrentino!  Regista, sceneggiatore, scrittore o semplicemente grande artista del cinema contemporaneo italiano, il cineasta compie oggi 51 anni. Per festeggiarlo ripercorriamo un po’ la sua brillante carriera cinematografica e soprattutto presentiamo la sua pellicola più nota e vincitrice di molti premi, tra cui un Oscar: La Grande Bellezza.

Paolo Sorrentino: grande artista orgoglio italiano

fonte: cinema.fanpage.it, il regista con il suo premio Oscar

Il regista nasce a Napoli il 31 maggio del 1970; a soli 17 anni perde entrambi i genitori in un incidente stradale. Inizia a coltivare la sua passione per il cinema solo dopo aver lasciato l’Università.

Nell’Agosto 2001, esce nelle sale il suo primo lungometraggio, L’uomo in più, con il quale il regista inizia una lunga collaborazione artistica con l’attore Toni Servillo, autentico interprete di molti dei personaggi scritti e ideati da Sorrentino. Il film ottiene diverse nomination al Festival del cinema di Venezia e per i Nastro d’Argento a Taormina.

La coppia Sorrentino-Servillo trionfa nuovamente nel 2004 con la pellicola Le conseguenze dell’amore, la quale vince ben 5 David di Donatello e 4 nastri D’argento.

Nel 2011 il regista si dedica al suo primo film in lingua inglese: stiamo parlando di This must be the place, con protagonista Sean Penn e la ormai nota Frances McDrmand.

Il 2014 è l’anno in cui il regista tocca l’apice della sua carriera artistica con il suo capolavoro: La Grande Bellezza. La pellicola vince anche il premio Oscar per il miglior film straniero (è stato l’ultimo film italiano ad essere candidato ed a vincere in questa categoria dal 2014 ad oggi).

La Grande Bellezza

Fonte: infooggi.it- Locandina del film

Finisce tutto così, con la morte. Prima però c’era la vita, nascosta dal bla bla bla..

Il vuoto e la vanità di una vita mondana, fatta di soli vizi e sfrenatezza: questo il punto focale, il vero messaggio di questo capolavoro cinematografico. La trama è effettivamente molto semplice e priva di importanti azioni o colpi di scena. Il film narra le vicende della classe ricca e mondana  di Roma, in particolare del giornalista e mancato scrittore Jep Gambardella, interpretato da Toni Servillo. Racconta sogni infranti, come quelli di Romano, amico di Jep , venuto a Roma in gioventù per diventare uno scrittore teatrale; vite devastate, come quella di Stefania (Galatea Ranzi), che cerca di distaccarsi dagli altri credendosi migliore, ma alla fine deve confrontarsi con i suoi fallimenti, come scrittrice, come madre e come donna.

 

Il cast comprende, oltre all’attore protagonista per eccellenza dei film di Sorrentino, molti interpreti italiani, tra cui Carlo Verdone, Sabrina Ferilli e Carlo Buccirosso, per una produzione pienamente made in Italy.

La Grande Bellezza, oltre all’Oscar come miglior film straniero, viene premiato in molti tra i più importanti Festival del cinema, quali i Golden Globe, gli European Film Awards e i David di Donatello.

Jep Gambardella: il re dei mondani

fonte: ciakclub.it, il protagonista Jep Gambardella

A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: “La fessa”. Io, invece, rispondevo: “L’odore delle case dei vecchi”. La domanda era: “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?” Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella.

Jep Gambardella è l’emblema della mondanità: con il suo garbo e il suo fascino, vive di feste e pura superficialità per evitare di confrontarsi con la realtà della sua vita vuota. Egli però, a differenza di tutti gli altri, è un osservatore, vede le verità di chi lo circonda e, con un umorismo che lascia una certa amarezza, riesce a portarle alla luce.

In gioventù ha pubblicato un solo libro, per poi abbadnonare la scrittura: per scrivere e ritrovare “la grande bellezza” dve prima trovare il senso della sua esistenza.

Diversa si rivelerà la sua relazione con Ramona, spogliarellista figlia di un suo vecchio amico; grazie a lei, Jep inizierà a riflettere e a voler cambiare la sua realtà.

Un film che lascia un messaggio

La grande bellezza, oltre ad essere una grande pellicola riconosciuta anche a livello internazionale, lascia al pubblico una speciale consapevolezza sulla propria esistenza. In fin dei conti, non sono i soldi e gli eventi chic a fare la felicità, ma le esperienze che facciamo e le relazioni autentiche che abbiamo con i nostri cari a rendere la vita veramente degna di essere vissuta.

                                                                                                                                                                  Ilaria Denaro 

 

Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino: top o flop?

“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” (2021) non sarà al pari di film e romanzo, ma non così mediocre come tutti affermano – Voto UVM: 3/5

Dopo quaranta anni ritorna in scena Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino nella veste di una serie tv disponibile su Amazon Prime Video e Sky Q.

Il film e il libro hanno sconvolto varie generazioni, sono opere entrate a far della storia non solo del cinema, ma anche della società, quindi di tutti noi. Difatti raccontano la vera storia della protagonista Christiane F e del suo periodo buio  nella Berlino degli anni 70, tra droga, discoteche e primi amori col sottofondo musicale della voce indimenticabile di David Bowie.

La serie tv è approdata nella piattaforma streaming il 7 Maggio 2021 ed è il secondo adattamento del romanzo, uscito a puntate nel 1979 sulla rivista tedesca Stern. Questa nuova versione della storia di Christiane F. ha fatto subito parlare di sé, ma non è stata accolta in modo positivo né dalla critica e né dal pubblico. Per quale motivo? Cosa non ha funzionato? Ma soprattutto è davvero così mediocre questa produzione?

La protagonista Christiane F (Jana McKinnon) – IFonte: today.it

Noi, ragazzi dello zoo di Berlino (2021): tre ragioni per guardarla

Si imparava in maniera del tutto automatica che tutto quello che è permesso è terribilmente insulso e che tutto quello che è vietato è molto divertente.

Grande attesa e grandi spersanze si prospettavano, ma la serie non ha avuto la critica sperata: difatti, dopo meno di 24 ore, gli haters più accaniti, come fossero Zorro in prima linea col loro smartphone, si sono riversati sui social e hanno detto la loro: c’è chi ha elogiato la serie, chi l’ha definita una produzione da quattro soldi, c’era anche chi si era svegliato con la luna storta ed era spinto a demolire accompagnato più da un gusto personale che da reale senso critico. O forse, ancor meglio, la maggior  parte degli utenti ha seguito la massa dei pareri negativi.

Ma ora fermiamoci un attimo e immaginiamo: se la serie avesse avuto recensioni positive, gli utenti social l’avrebbero comunque criticata? Io credo di no. Ma voglio dire la mia: Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (2021) a pieno neanche me, ma, analizzandola nei minimi dettagli, è un’opera che ha il suo perché . Per ben tre ragioni:

1) Si presenta allo spettatore in modo onirico, narra una realtà che non tutti noi possiamo capire se non la viviamo in prima persona o come testimoni diretti.  Come i suoi due “antenati” (film e romanzo), mostra alle nuove generazioni a cosa possa portare la droga e come pian piano possa distruggere non solo il proprio corpo ma anche l’anima.

2) Non c’è solo la storia di Christiane a 360 gradi, ma anche quella degli altri ragazzi. Nel film vediamo nello specifico solo il racconto della protagonista, mentre la serie mostra la storia dei ragazzi dello zoo, dimenticati dai propri genitori, abbondonati per ore e ore in una metropoli come Berlino.

3) C’è un ritorno al passato degli anni ’70, tra rock e mode del momento, niente cellulari e social, ma solo un mondo fatto di maggiore realismo e meno immagini.

I sei “ragazzi dello zoo di Berlino” – Fonte: today.it

Promossa o bocciata?

E’ vero, la serie non presenta quel crudismo dei suoi “predecessori”: non notiamo la sgradevolezza di quei ragazzi distrutti o il disgusto che si riversava nello zoo, ma ci troviamo di fronte a un racconto che si è più adattato alle generazioni attuali.

Forse proprio per questo la serie non rimarrà nella storia: perché è andata a perdere quel senso di empatia che manca alla nostra società attuale. Che lo si voglia o no, ricordiamoci però che mette in scena le vite di quelle persone abbondanate o cacciate di casa, persone che non sanno cosa fare, persone sole, che si rifugiano in un mondo psichedelico perché troppo spaventati da un mondo che non sentono loro, mentre davanti ai loro occhi passano famiglie felici che rientrano nella loro case calde.

Insomma Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino non sarà al passo con i propri “genitori”, ma è comunque una serie che merita di essere guardata e capita fino in fondo.

L’amore è come l’eroina: «che mi fa un solo buco?» e ricadi nella dipendenza totale, «che mi fa un solo sguardo?» ed eccoti qui a piangere di nuovo.

                                                                                    Alessia Orsa

 

 

 

Lucifer: 48 ore alla nuova stagione

Finalmente ci siamo. Dopo quasi ormai un anno di attesa, la seconda parte della quinta stagione di Lucifer è alle porte.

Dobbiamo resistere 48h per gustarci i tanto desiderati nuovi episodi di una delle serie più avvincenti di Netflix.Nel frattempo, noi di Universome vogliamo rendere omaggio a Lucifer andando ad analizzare quelli che a nostro avviso sono i suoi punti di forza.

Il protagonista Lucifer Morningstar (Tom Ellis) – Fonte: nerdlog.it

Tom Ellis

L’attore britannico è l’elemento fondamentale su cui si articola quella macchina perfetta che è questa serie.

Ogni volta che appare Lucifer Morningstar (Tom Ellis) sullo schermo, tutto diventa secondario: lo spettatore volente o nolente viene letteralmente rapito dall’interprete grazie principalmente al suo incommensurabile charme ed al suo impagabile carisma.

Per ottenere questo risultato, Tom ha svolto un lavoro da attore di top di gamma.

Innanzitutto l’immedesimazione nel personaggio ovviamente è di primaria importanza ed è percepibile anche durante i “piani d’ascolto” (in gergo cinematografico, si ha un piano d’ascolto quando un interprete per l’appunto “ascolta” le battute del proprio partner). L’attore non recita solo quando parla, ma da quando parte il motore fino a tre secondi dopo la chiamata dello stop.

Nel corso di queste stagioni sono innumerevoli le scene girate tra Lucifer e la detective Chloe Decker (Lauren German).Prendete come esempio una di queste ed osservate costantemente Tom Ellis anche quando parla la collega: potrete notare sguardi, microespressioni e sorrisetti, emblematici del livello d’immedesimazione dell’attore.

Lucifer e Chloe – Fonte: telefilm-central.org

Altra caratteristica che rende il protagonista uno dei personaggi più amati dal pubblico internazionale è sicuramente il suo accento inglese.Ora, sentire Satana parlare come la regina Elisabetta è alquanto singolare, ma anche divertente. Specificatamente, la scelta del british aggiunge un tocco in più alla figura di Lucifer, donandogli quella classe necessaria per potersi porre continuamente in una condizione di superiorità con qualunque interlocutore.

Nella versione italiana logicamente questo discorso non vale a causa del doppiaggio, il quale comunque – come sempre – è di primissimo livello.

Tom Ellis ci ha regalato un personaggio straordinario, capace di far ridere, commuovere ed entusiasmare senza calare mai d’intensità. Certamente alcune stagioni sonoforse  meno avvincenti di altre, ma ciò non è di certo imputabile alle performances dell’attore.

Gli altri interpreti del cast hanno svolto fino ad oggi un lavoro encomiabile. E’ del tutto normale che dinnanzi ad un’interpretazione sontuosa come quella del protagonista si faccia fatica a spiccare singolarmente, ma recitare nel migliore dei modi, anche solo per favorire un collega, è sinonimo di grande professionalità.

Senza i coprotagonisti infatti, Tom Ellis non avrebbe potuto mostrare in toto il suo talento!

Sceneggiatura

La serie è ispirata ad un fumetto del 1989. Fin dalla prima stagione, la storia di Lucifer coinvolge profondamente lo spettatore. Ogni episodio racconta un caso diverso, portando avanti contemporaneamente la trama principale: ciò che affascina di più sono sicuramente le vicende personali e gli scontri celestiali tra i vari personaggi.

Lucifer ed il fratello Amenadiel (David Bryan Woodside) – Fonte: lucifer.fandom.com

Gli sceneggiatori sono stati estremamente abili soprattutto nel plasmare gradualmente la figura del diavolo, facendolo evolvere da un’entità maligna e terrificante ad un essere che è fortemente sensibile e sostanzialmente buono, ma eccessivamente vendicativo.

Viene ribaltata quindi la concezione biblica di Satana come l’incarnazione di ogni male che affligge la Terra, perché in Lucifer viene rappresentato come una vera e propria vittima traumatizzata dal suo passato, che cerca nel proprio inconscio una redenzione personale mediante l’aiuto della psicologa Linda Martin (Rachael Harris).

Lo spettatore arriverà addirittura ad empatizzare con il diavolo in persona!

Produzione

Pensare che Lucifer teoricamente doveva finire con l’ultimo episodio della terza stagione fa rabbrividire, considerando che tale stagione terminava con un cliffhanger ( un finale di stagione aperto e tale da lasciare i fan con il fiato sospeso) molto emozionante.

Le prime 3 stagioni erano prodotte dalla Fox, la quale, dato il calo di ascolti della terza stagione, a causa dell’eccessivo numero di episodi e quindi di una sceneggiatura inutilmente prolissa, aveva deciso di interrompere la serie.

La reazione dei fan era un po’ come quella di Lucifer e Mazikeen (Lesley-Ann Brandt) in foto – Fonte: tvline.com

Si scatenò una delle rivolte social più famose di sempre: il pubblico, accompagnato dall’intero cast capitanato da Tom Ellis in persona, fece partire l’hastag #savelucifer. Mamma Netflix decise di acquistare i diritti della serie e di produrre una nuova stagione riducendo la quantità di episodi per puntare maggiormente sulla qualità. Scelta vincente considerando che il pubblico ha richiesto a gran voce anche una quinta ed una sesta stagione che Netflix ha immediatamente prodotto.

Le aspettative sono altissime per questa prossima stagione. Molti nodi probabilmente verranno sciolti, mentre per altri dovremo aspettare l’ultimo capitolo (già le riprese sono state ultimate).

Gustiamoci lo show e speriamo di assistere nuovamente ad uno spettacolo mozzafiato.

Vincenzo Barbera

 

 

 

80 anni Bob Dylan: le canzoni più “pop” del premio Nobel

Cosa si dice in tanti casi? L’abito non fa il monaco e non è facile trovare una bella mente in un bel corpo e viceversa. Così i grandi amori totalizzanti, quelli che travolgono corpo e anima si riducono a eventi statisticamente rari, miracoli indicibili, fenomeni paranormali. «Guarda al contenuto, non alla forma» è quello che ci ripetono più volte i nostri genitori. «Non ti appigliare alle note, quello che conta sono le parole» ci ripetono invece gli estimatori di musica cantautoriale ritraendo spesso i grandi capolavori come inaccessibili mondi di nicchia e lagne inascoltabili.

Cosa si dice di Bob Dylan, il menestrello d’America, il “poeta laureato” dei nostri giorni, il premio Nobel per la letteratura, colui che ha portato la canzone ai livelli di un dramma shakespeariano? Di tutto si può dire, tranne che non abbia saputo coniugare profondità e leggerezza, grinta e raffinatezza, testi elevati e melodie estremamente orecchiabili.

Bob Dylan sulla cover del suo primo album. Author: Brett Jordan. Fonte: flickr.com, creativecommons.org

Forma e contenuto, musica e parole non fanno a botte nei versi eterni di Dylan, ma uno valorizza l’altra in un’armonia indescrivibile ma evidente soprattutto nelle sue prime canzoni, quelle dei mitici anni ’60. Anni in cui Dylan è stato il cantautore folk impegnato, l’idolo del mondo in protesta, ma anche una voce “pop” che risuonava nelle cuffie di un comune adolescente immerso nel relax o tra le corde di chitarra durante una festa in spiaggia. In occasione dei suoi ottant’anni, ecco a voi una manciata di canzoni che lo dimostra!

1) I want you  (1966)

Il becchino zingaro piange
The gypsy undertaker cries

Il solitario suonatore d’organo sospira
The lonesome organ grinder sighs

I sassofoni argentati dicono che dovrei rifiutarti
The silver saxophones say I should refuse you

Traccia più famosa dell’album Blonde on Blonde ( 1966) e rivisitata persino dai Nomadi in una versione italiana, I want you è un must per chi si vuole approcciare all’immensa discografia dylaniana.

Il concetto è chiaro: l’universo mi invia diecimila segnali contrari, il mondo canta una canzone ostile e mi dice di lasciar perdere, ma “io ti voglio di brutto e non sono nato per perderti”. Insomma quello che griderebbe ciascuno di noi a squarciagola sotto il balcone della propria “crush”, solo che Bob Dylan è un poeta e utilizza immagini dallo straordinario potere evocativo accompagnate da un celebre riff destinato a rimanere nella storia.

2) Just like a woman (1966)

Appartiene sempre a Blonde on Blonde, l’album della maturità, questo “classicone” della discografia dylaniana che tanto fece infuriare le femministe dell’epoca per il verso etichettante «fa l’amore proprio come una donna».

Che Bob Dylan non fosse uno stinco di santo con le donne è scritto e riscritto in mille biografie, ma in questa folk ballad dai toni amari, soprattutto nel malinconico verso «but when we meet again, introduced as friends», non ci vedo nulla di misogino o maschilista. Emerge solo una figura di donna, forse un po’ femme fatal, che sfugge e si confonde nei ricordi sbiaditi dell’artista. Chi fosse la musa ispiratrice non è ancora chiaro, certo è che nonostante le critiche Just like a woman rimane una delle più belle canzoni d’amore mai composte.

Fonte: internopoesia.com

3) Mr. Tambourine Man (1964)

Ehi, signor Tambourine Man, suona una canzone per me
Hey, Mr. Tambourine Man, play a song for me

Un Dylan ancora più folk e visionario quello di questo brano, uno dei più celebri e allo stesso tempo più enigmatici e chiacchierati del menestrello. Chi è Mr Tambourine a cui il cantautore chiede con una dolcissima preghiera di suonargli una canzone? Di «portarlo in viaggio sulla sua magica nave vorticosa», di «fargli dimenticare l’oggi fino a domani», di farlo evadere nel sogno da una realtà buia e dolorosa?

Leggenda vuole che il “mister tamburino” nominato anche dal compianto Battiato nella sua celebre Bandiera Bianca, non sia altro che un comune epiteto dello slang new yorkese per riferirsi allo spacciatore di droghe, il “venditore di sogni” in quartieri come il Greenwich Village. Ad ogni modo il sound acustico è così puro e delicato da poter diventare una ninna nanna per bambini.

4) Like a rolling stone (1965)

Prima in classifica nella celebre top 500 songs of all times della rivista Rolling Stone, il brano in questione è quello della svolta, la terra di confine tra il primo Dylan, erede di Woodie Guthrie, chitarra acustica, armonica a bocca, berretto e folk,  e il Dylan “elettrico”, aperto ad altre sonorità, pronto a confrontarsi con un altro genere che in quegli anni viveva una “golden age”: il rock.

In Like a Rolling Stone tutto questo è evidente, come anche il senso di libertà che il giro d’organo fa respirare, sensazione racchiusa tra l’altro nell’immagine della pietra che rotola libera. Un’altra grande di quel periodo, Janis Joplin, dirà: «la libertà è solo un’altra parola per indicare niente da perdere» e la stessa cosa anticipa Dylan in questi celebri versi

Quando non hai niente, non hai niente da perdere
When you ain’t got nothing, you got nothing to lose

Ora sei invisibile, non hai segreti da nascondere
You’re invisible now, you’ve got no secrets to conceal

5) Subterranean Homesick Blues ( 1965)

Dylan precursore di Eminem? E’ questo che ravvisano molti critici musicali in questo pezzo tratto da Bringing all back home, altro album della cosiddetta “trilogia elettrica”. Un cantato che è più parlato veloce, rime incalzanti e giochi di parole anticipano di qualche decennio lo stile hip hop. Le immagini evocate da Dylan si susseguono in maniera così rapida e concisa che l’ascoltatore fa fatica a stare dietro, ma riesce a cogliere sicuramente la vena provocatoria del brano.

Accenditi una candela
Light yourself a candle

Non indossare sandali
Don’t wear sandals

Cerca di evitare gli scandali
Try to avoid the scandals

5+1) Changing of the guards ( 1978)

Pezzo decisamente meno osannato e anche meno noto ai più, Changing of the guards non appartiene al Dylan degli esordi, ma è anch’esso un’esplosione d’energia condensata in un mix di classic rock e gospel in ben 6 minuti di canzone. In questo caso il testo non è di facile decifrazione (come tanti altri del nostro): scene trionfali si alternano ad altre più apocalittiche in quello che sembra un vero e proprio trip lisergico. L’ascolto tuttavia è easy: i fiati e il ritmo infondono voglia di vivere e il cantato di Dylan si alterna a quello delle coriste in un vero e proprio botta e risposta coinvolgente.

Author: Xavier Badosa. Fonte: flickr.com, creativecommons.org. 

In fatto di arte e cultura, spesso facciamo distinzioni troppo nette e affrettate tra ciò che è “mainstream” e ciò che è di qualità, tra ciò che è “pop” e ciò che è d’autore. I grandi come Dylan vanno oltre queste etichette e per questo rimarranno sempre “classici”.

Angelica Rocca

Amore, morte e animazione. Il secondo volume della serie

In “Love, Death + Robots 2 “spicca la creatività dei disegnatori, un po’ meno l’originalità delle storie – Voto UVM: 3/5

Il secondo volume di Love Death + Robots ci presenta un’altra serie di corti d’animazione, legati tra loro solo dalla voglia di sperimentazione. Come nella prima parte, anche qui Netflix ha deciso di dare agli animatori l’unico compito di sfogare al meglio le proprie doti creative, proponendo agli abbonati un mix in molti casi interessante di tematiche e stili.

I corti spiccano più per la resa artistica che per un lavoro di caratterizzazione su personaggi, ambientazione o trama, che molto spesso risulta quasi essere nient’altro che un contorno ad un lavoro ben più ampio.

Ma andiamo a vedere nel dettaglio cosa la serie comunica allo spettatore…

I corti

Come già detto, dalla visione dei corti risulta subito evidente come l’arte al loro interno risulti l’elemento predominante: uno degli esempi migliori di ciò è il corto Giaccio dove vediamo un lavoro che mette in secondo piano il rispetto per le proporzioni e per una resa realistica e dove il risalto viene dato al dinamismo e all’azione. L’animazione viene qui sfruttata per proporre un’ambientazione lontana e quasi claustrofobica in cui la terra non è più il solo posto in cui vivere e in cui la razza umana è progredita attraverso vere e proprie modifiche genetiche che permettono agli abitanti del nuovo pianeta di affrontarne il clima rigido.

Un altro esempio di totale sfogo creativo è il corto Era la notte prima di Natale dove il citazionismo la fa da padrone e si riesce con pochissime mosse ad inquietare e a divertire con un uso intelligente delle tematiche e a  creare un contrasto che risulta sicuramente azzeccato: il natale non viene qui visto come siamo soliti vederlo.

Se questi sono però gli esempi migliori di lavoro artistico, abbiamo in molti altri casi un lavoro sulle ambientazioni che attinge a piene mani dalle grandi opere fantascientifiche e che potrebbe portare molti velocemente alla noia e al disinteresse, visto l’uso di situazioni già viste se non di scene pescate – senza troppa fantasia – a pie pari da opere come Star Wars: la scena iniziale del corto Snow nel deserto, pur essendo un tributo ad una scena iconica del primo storico film della saga, risulta esserne un’imitazione fin troppo vicina all’originale.

Michael B. Jordan in “La cabina di sopravvivenza”. Fonte: readysteadycut.com

C’è da dire che il budget altissimo di Netflix ha comunque portato ad una realizzazione tecnica dei volti e delle ambientazioni che sfiora il fotorealismo. Nel corto sopra citato o ne La cabina di sopravvivenza il lavoro tecnico aiuta senz’altro con l’espressività degli attori: Michael B. Jordan, che presta il volto al protagonista nel secondo corto, è riuscito ad esprimersi a pieno e l’impressione che ha lo spettatore non è quella di un semplice modello 3D animato con una sessione di motion capture, ma quella di una vera e propria performance attoriale in tutto e per tutto. Aiuta poi il focus totale sul protagonista ritratto molto da vicino nel tentativo di salvarsi dal pericolo.

Passando degli altri corti, Servizio clienti automatico e Pop squad raccontano entrambi, ma in maniera opposta, di un futuro distopico riuscendo solo in parte a narrare qualcosa di diverso da ciò a cui si ispirano . Il primo parla in maniera scherzosa di un futuro in cui l’uomo è completamente schiavo delle macchine e della pigrizia, macchine che però diventano pericolose nel momento in cui si ribellano. Anche qui una storia raccontata già da molti altri che cerca comunque con un po’ di comicità e con uno stile caricaturale, di risultare divertente per chi guarda. L’altro corto racconta invece di una società di immortali in cui viene considerato un crimine portare alla luce un figlio: i dubbi del protagonista, che si ritrova a dover far rispettare tale legge, portano avanti una trama con fortissime tinte noir.

L’ultimo corto si discosta parecchio dagli altri: parliamo de Il gigante affogato. Uno studioso universitario si ritrova a dover studiare il corpo di un essere umano colossale ritrovato spiaggiato come una creatura marina. Osserviamo da vicino entrambi i protagonisti mentre col passare dei giorni lo studioso entra sempre più in confidenza con l’oggetto dei suoi studi e descrive tutte le emozioni che gli suscita la sua analisi.

“Era la notte prima di Natale. “Fonte: Netflix

Mettendo tutto assieme…

Il secondo volume di questa antologia risulta alla fine essere un semplice utilizzo di un evidente talento artistico degli animatori a cui, forse per scelta, si è deciso di non affiancare uno studio attento sulla trama e sui personaggi. Qualcosa che forse serviva ma che evidentemente non è stata messa totalmente a fuoco dai suoi creatori.

Quello che di buono c’è, è comunque tanto e si può stare tranquilli che anche il volume 3, già annunciato da Netflix, ci assicurerà una grande varietà d’idee ed emozioni.

 

Matteo Mangano