Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino: top o flop?

“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” (2021) non sarà al pari di film e romanzo, ma non così mediocre come tutti affermano – Voto UVM: 3/5

Dopo quaranta anni ritorna in scena Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino nella veste di una serie tv disponibile su Amazon Prime Video e Sky Q.

Il film e il libro hanno sconvolto varie generazioni, sono opere entrate a far della storia non solo del cinema, ma anche della società, quindi di tutti noi. Difatti raccontano la vera storia della protagonista Christiane F e del suo periodo buio  nella Berlino degli anni 70, tra droga, discoteche e primi amori col sottofondo musicale della voce indimenticabile di David Bowie.

La serie tv è approdata nella piattaforma streaming il 7 Maggio 2021 ed è il secondo adattamento del romanzo, uscito a puntate nel 1979 sulla rivista tedesca Stern. Questa nuova versione della storia di Christiane F. ha fatto subito parlare di sé, ma non è stata accolta in modo positivo né dalla critica e né dal pubblico. Per quale motivo? Cosa non ha funzionato? Ma soprattutto è davvero così mediocre questa produzione?

La protagonista Christiane F (Jana McKinnon) – IFonte: today.it

Noi, ragazzi dello zoo di Berlino (2021): tre ragioni per guardarla

Si imparava in maniera del tutto automatica che tutto quello che è permesso è terribilmente insulso e che tutto quello che è vietato è molto divertente.

Grande attesa e grandi spersanze si prospettavano, ma la serie non ha avuto la critica sperata: difatti, dopo meno di 24 ore, gli haters più accaniti, come fossero Zorro in prima linea col loro smartphone, si sono riversati sui social e hanno detto la loro: c’è chi ha elogiato la serie, chi l’ha definita una produzione da quattro soldi, c’era anche chi si era svegliato con la luna storta ed era spinto a demolire accompagnato più da un gusto personale che da reale senso critico. O forse, ancor meglio, la maggior  parte degli utenti ha seguito la massa dei pareri negativi.

Ma ora fermiamoci un attimo e immaginiamo: se la serie avesse avuto recensioni positive, gli utenti social l’avrebbero comunque criticata? Io credo di no. Ma voglio dire la mia: Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (2021) a pieno neanche me, ma, analizzandola nei minimi dettagli, è un’opera che ha il suo perché . Per ben tre ragioni:

1) Si presenta allo spettatore in modo onirico, narra una realtà che non tutti noi possiamo capire se non la viviamo in prima persona o come testimoni diretti.  Come i suoi due “antenati” (film e romanzo), mostra alle nuove generazioni a cosa possa portare la droga e come pian piano possa distruggere non solo il proprio corpo ma anche l’anima.

2) Non c’è solo la storia di Christiane a 360 gradi, ma anche quella degli altri ragazzi. Nel film vediamo nello specifico solo il racconto della protagonista, mentre la serie mostra la storia dei ragazzi dello zoo, dimenticati dai propri genitori, abbondonati per ore e ore in una metropoli come Berlino.

3) C’è un ritorno al passato degli anni ’70, tra rock e mode del momento, niente cellulari e social, ma solo un mondo fatto di maggiore realismo e meno immagini.

I sei “ragazzi dello zoo di Berlino” – Fonte: today.it

Promossa o bocciata?

E’ vero, la serie non presenta quel crudismo dei suoi “predecessori”: non notiamo la sgradevolezza di quei ragazzi distrutti o il disgusto che si riversava nello zoo, ma ci troviamo di fronte a un racconto che si è più adattato alle generazioni attuali.

Forse proprio per questo la serie non rimarrà nella storia: perché è andata a perdere quel senso di empatia che manca alla nostra società attuale. Che lo si voglia o no, ricordiamoci però che mette in scena le vite di quelle persone abbondanate o cacciate di casa, persone che non sanno cosa fare, persone sole, che si rifugiano in un mondo psichedelico perché troppo spaventati da un mondo che non sentono loro, mentre davanti ai loro occhi passano famiglie felici che rientrano nella loro case calde.

Insomma Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino non sarà al passo con i propri “genitori”, ma è comunque una serie che merita di essere guardata e capita fino in fondo.

L’amore è come l’eroina: «che mi fa un solo buco?» e ricadi nella dipendenza totale, «che mi fa un solo sguardo?» ed eccoti qui a piangere di nuovo.

                                                                                    Alessia Orsa

 

 

 

Lucifer: 48 ore alla nuova stagione

Finalmente ci siamo. Dopo quasi ormai un anno di attesa, la seconda parte della quinta stagione di Lucifer è alle porte.

Dobbiamo resistere 48h per gustarci i tanto desiderati nuovi episodi di una delle serie più avvincenti di Netflix.Nel frattempo, noi di Universome vogliamo rendere omaggio a Lucifer andando ad analizzare quelli che a nostro avviso sono i suoi punti di forza.

Il protagonista Lucifer Morningstar (Tom Ellis) – Fonte: nerdlog.it

Tom Ellis

L’attore britannico è l’elemento fondamentale su cui si articola quella macchina perfetta che è questa serie.

Ogni volta che appare Lucifer Morningstar (Tom Ellis) sullo schermo, tutto diventa secondario: lo spettatore volente o nolente viene letteralmente rapito dall’interprete grazie principalmente al suo incommensurabile charme ed al suo impagabile carisma.

Per ottenere questo risultato, Tom ha svolto un lavoro da attore di top di gamma.

Innanzitutto l’immedesimazione nel personaggio ovviamente è di primaria importanza ed è percepibile anche durante i “piani d’ascolto” (in gergo cinematografico, si ha un piano d’ascolto quando un interprete per l’appunto “ascolta” le battute del proprio partner). L’attore non recita solo quando parla, ma da quando parte il motore fino a tre secondi dopo la chiamata dello stop.

Nel corso di queste stagioni sono innumerevoli le scene girate tra Lucifer e la detective Chloe Decker (Lauren German).Prendete come esempio una di queste ed osservate costantemente Tom Ellis anche quando parla la collega: potrete notare sguardi, microespressioni e sorrisetti, emblematici del livello d’immedesimazione dell’attore.

Lucifer e Chloe – Fonte: telefilm-central.org

Altra caratteristica che rende il protagonista uno dei personaggi più amati dal pubblico internazionale è sicuramente il suo accento inglese.Ora, sentire Satana parlare come la regina Elisabetta è alquanto singolare, ma anche divertente. Specificatamente, la scelta del british aggiunge un tocco in più alla figura di Lucifer, donandogli quella classe necessaria per potersi porre continuamente in una condizione di superiorità con qualunque interlocutore.

Nella versione italiana logicamente questo discorso non vale a causa del doppiaggio, il quale comunque – come sempre – è di primissimo livello.

Tom Ellis ci ha regalato un personaggio straordinario, capace di far ridere, commuovere ed entusiasmare senza calare mai d’intensità. Certamente alcune stagioni sonoforse  meno avvincenti di altre, ma ciò non è di certo imputabile alle performances dell’attore.

Gli altri interpreti del cast hanno svolto fino ad oggi un lavoro encomiabile. E’ del tutto normale che dinnanzi ad un’interpretazione sontuosa come quella del protagonista si faccia fatica a spiccare singolarmente, ma recitare nel migliore dei modi, anche solo per favorire un collega, è sinonimo di grande professionalità.

Senza i coprotagonisti infatti, Tom Ellis non avrebbe potuto mostrare in toto il suo talento!

Sceneggiatura

La serie è ispirata ad un fumetto del 1989. Fin dalla prima stagione, la storia di Lucifer coinvolge profondamente lo spettatore. Ogni episodio racconta un caso diverso, portando avanti contemporaneamente la trama principale: ciò che affascina di più sono sicuramente le vicende personali e gli scontri celestiali tra i vari personaggi.

Lucifer ed il fratello Amenadiel (David Bryan Woodside) – Fonte: lucifer.fandom.com

Gli sceneggiatori sono stati estremamente abili soprattutto nel plasmare gradualmente la figura del diavolo, facendolo evolvere da un’entità maligna e terrificante ad un essere che è fortemente sensibile e sostanzialmente buono, ma eccessivamente vendicativo.

Viene ribaltata quindi la concezione biblica di Satana come l’incarnazione di ogni male che affligge la Terra, perché in Lucifer viene rappresentato come una vera e propria vittima traumatizzata dal suo passato, che cerca nel proprio inconscio una redenzione personale mediante l’aiuto della psicologa Linda Martin (Rachael Harris).

Lo spettatore arriverà addirittura ad empatizzare con il diavolo in persona!

Produzione

Pensare che Lucifer teoricamente doveva finire con l’ultimo episodio della terza stagione fa rabbrividire, considerando che tale stagione terminava con un cliffhanger ( un finale di stagione aperto e tale da lasciare i fan con il fiato sospeso) molto emozionante.

Le prime 3 stagioni erano prodotte dalla Fox, la quale, dato il calo di ascolti della terza stagione, a causa dell’eccessivo numero di episodi e quindi di una sceneggiatura inutilmente prolissa, aveva deciso di interrompere la serie.

La reazione dei fan era un po’ come quella di Lucifer e Mazikeen (Lesley-Ann Brandt) in foto – Fonte: tvline.com

Si scatenò una delle rivolte social più famose di sempre: il pubblico, accompagnato dall’intero cast capitanato da Tom Ellis in persona, fece partire l’hastag #savelucifer. Mamma Netflix decise di acquistare i diritti della serie e di produrre una nuova stagione riducendo la quantità di episodi per puntare maggiormente sulla qualità. Scelta vincente considerando che il pubblico ha richiesto a gran voce anche una quinta ed una sesta stagione che Netflix ha immediatamente prodotto.

Le aspettative sono altissime per questa prossima stagione. Molti nodi probabilmente verranno sciolti, mentre per altri dovremo aspettare l’ultimo capitolo (già le riprese sono state ultimate).

Gustiamoci lo show e speriamo di assistere nuovamente ad uno spettacolo mozzafiato.

Vincenzo Barbera

 

 

 

80 anni Bob Dylan: le canzoni più “pop” del premio Nobel

Cosa si dice in tanti casi? L’abito non fa il monaco e non è facile trovare una bella mente in un bel corpo e viceversa. Così i grandi amori totalizzanti, quelli che travolgono corpo e anima si riducono a eventi statisticamente rari, miracoli indicibili, fenomeni paranormali. «Guarda al contenuto, non alla forma» è quello che ci ripetono più volte i nostri genitori. «Non ti appigliare alle note, quello che conta sono le parole» ci ripetono invece gli estimatori di musica cantautoriale ritraendo spesso i grandi capolavori come inaccessibili mondi di nicchia e lagne inascoltabili.

Cosa si dice di Bob Dylan, il menestrello d’America, il “poeta laureato” dei nostri giorni, il premio Nobel per la letteratura, colui che ha portato la canzone ai livelli di un dramma shakespeariano? Di tutto si può dire, tranne che non abbia saputo coniugare profondità e leggerezza, grinta e raffinatezza, testi elevati e melodie estremamente orecchiabili.

Bob Dylan sulla cover del suo primo album. Author: Brett Jordan. Fonte: flickr.com, creativecommons.org

Forma e contenuto, musica e parole non fanno a botte nei versi eterni di Dylan, ma uno valorizza l’altra in un’armonia indescrivibile ma evidente soprattutto nelle sue prime canzoni, quelle dei mitici anni ’60. Anni in cui Dylan è stato il cantautore folk impegnato, l’idolo del mondo in protesta, ma anche una voce “pop” che risuonava nelle cuffie di un comune adolescente immerso nel relax o tra le corde di chitarra durante una festa in spiaggia. In occasione dei suoi ottant’anni, ecco a voi una manciata di canzoni che lo dimostra!

1) I want you  (1966)

Il becchino zingaro piange
The gypsy undertaker cries

Il solitario suonatore d’organo sospira
The lonesome organ grinder sighs

I sassofoni argentati dicono che dovrei rifiutarti
The silver saxophones say I should refuse you

Traccia più famosa dell’album Blonde on Blonde ( 1966) e rivisitata persino dai Nomadi in una versione italiana, I want you è un must per chi si vuole approcciare all’immensa discografia dylaniana.

Il concetto è chiaro: l’universo mi invia diecimila segnali contrari, il mondo canta una canzone ostile e mi dice di lasciar perdere, ma “io ti voglio di brutto e non sono nato per perderti”. Insomma quello che griderebbe ciascuno di noi a squarciagola sotto il balcone della propria “crush”, solo che Bob Dylan è un poeta e utilizza immagini dallo straordinario potere evocativo accompagnate da un celebre riff destinato a rimanere nella storia.

2) Just like a woman (1966)

Appartiene sempre a Blonde on Blonde, l’album della maturità, questo “classicone” della discografia dylaniana che tanto fece infuriare le femministe dell’epoca per il verso etichettante «fa l’amore proprio come una donna».

Che Bob Dylan non fosse uno stinco di santo con le donne è scritto e riscritto in mille biografie, ma in questa folk ballad dai toni amari, soprattutto nel malinconico verso «but when we meet again, introduced as friends», non ci vedo nulla di misogino o maschilista. Emerge solo una figura di donna, forse un po’ femme fatal, che sfugge e si confonde nei ricordi sbiaditi dell’artista. Chi fosse la musa ispiratrice non è ancora chiaro, certo è che nonostante le critiche Just like a woman rimane una delle più belle canzoni d’amore mai composte.

Fonte: internopoesia.com

3) Mr. Tambourine Man (1964)

Ehi, signor Tambourine Man, suona una canzone per me
Hey, Mr. Tambourine Man, play a song for me

Un Dylan ancora più folk e visionario quello di questo brano, uno dei più celebri e allo stesso tempo più enigmatici e chiacchierati del menestrello. Chi è Mr Tambourine a cui il cantautore chiede con una dolcissima preghiera di suonargli una canzone? Di «portarlo in viaggio sulla sua magica nave vorticosa», di «fargli dimenticare l’oggi fino a domani», di farlo evadere nel sogno da una realtà buia e dolorosa?

Leggenda vuole che il “mister tamburino” nominato anche dal compianto Battiato nella sua celebre Bandiera Bianca, non sia altro che un comune epiteto dello slang new yorkese per riferirsi allo spacciatore di droghe, il “venditore di sogni” in quartieri come il Greenwich Village. Ad ogni modo il sound acustico è così puro e delicato da poter diventare una ninna nanna per bambini.

4) Like a rolling stone (1965)

Prima in classifica nella celebre top 500 songs of all times della rivista Rolling Stone, il brano in questione è quello della svolta, la terra di confine tra il primo Dylan, erede di Woodie Guthrie, chitarra acustica, armonica a bocca, berretto e folk,  e il Dylan “elettrico”, aperto ad altre sonorità, pronto a confrontarsi con un altro genere che in quegli anni viveva una “golden age”: il rock.

In Like a Rolling Stone tutto questo è evidente, come anche il senso di libertà che il giro d’organo fa respirare, sensazione racchiusa tra l’altro nell’immagine della pietra che rotola libera. Un’altra grande di quel periodo, Janis Joplin, dirà: «la libertà è solo un’altra parola per indicare niente da perdere» e la stessa cosa anticipa Dylan in questi celebri versi

Quando non hai niente, non hai niente da perdere
When you ain’t got nothing, you got nothing to lose

Ora sei invisibile, non hai segreti da nascondere
You’re invisible now, you’ve got no secrets to conceal

5) Subterranean Homesick Blues ( 1965)

Dylan precursore di Eminem? E’ questo che ravvisano molti critici musicali in questo pezzo tratto da Bringing all back home, altro album della cosiddetta “trilogia elettrica”. Un cantato che è più parlato veloce, rime incalzanti e giochi di parole anticipano di qualche decennio lo stile hip hop. Le immagini evocate da Dylan si susseguono in maniera così rapida e concisa che l’ascoltatore fa fatica a stare dietro, ma riesce a cogliere sicuramente la vena provocatoria del brano.

Accenditi una candela
Light yourself a candle

Non indossare sandali
Don’t wear sandals

Cerca di evitare gli scandali
Try to avoid the scandals

5+1) Changing of the guards ( 1978)

Pezzo decisamente meno osannato e anche meno noto ai più, Changing of the guards non appartiene al Dylan degli esordi, ma è anch’esso un’esplosione d’energia condensata in un mix di classic rock e gospel in ben 6 minuti di canzone. In questo caso il testo non è di facile decifrazione (come tanti altri del nostro): scene trionfali si alternano ad altre più apocalittiche in quello che sembra un vero e proprio trip lisergico. L’ascolto tuttavia è easy: i fiati e il ritmo infondono voglia di vivere e il cantato di Dylan si alterna a quello delle coriste in un vero e proprio botta e risposta coinvolgente.

Author: Xavier Badosa. Fonte: flickr.com, creativecommons.org. 

In fatto di arte e cultura, spesso facciamo distinzioni troppo nette e affrettate tra ciò che è “mainstream” e ciò che è di qualità, tra ciò che è “pop” e ciò che è d’autore. I grandi come Dylan vanno oltre queste etichette e per questo rimarranno sempre “classici”.

Angelica Rocca

Amore, morte e animazione. Il secondo volume della serie

In “Love, Death + Robots 2 “spicca la creatività dei disegnatori, un po’ meno l’originalità delle storie – Voto UVM: 3/5

Il secondo volume di Love Death + Robots ci presenta un’altra serie di corti d’animazione, legati tra loro solo dalla voglia di sperimentazione. Come nella prima parte, anche qui Netflix ha deciso di dare agli animatori l’unico compito di sfogare al meglio le proprie doti creative, proponendo agli abbonati un mix in molti casi interessante di tematiche e stili.

I corti spiccano più per la resa artistica che per un lavoro di caratterizzazione su personaggi, ambientazione o trama, che molto spesso risulta quasi essere nient’altro che un contorno ad un lavoro ben più ampio.

Ma andiamo a vedere nel dettaglio cosa la serie comunica allo spettatore…

I corti

Come già detto, dalla visione dei corti risulta subito evidente come l’arte al loro interno risulti l’elemento predominante: uno degli esempi migliori di ciò è il corto Giaccio dove vediamo un lavoro che mette in secondo piano il rispetto per le proporzioni e per una resa realistica e dove il risalto viene dato al dinamismo e all’azione. L’animazione viene qui sfruttata per proporre un’ambientazione lontana e quasi claustrofobica in cui la terra non è più il solo posto in cui vivere e in cui la razza umana è progredita attraverso vere e proprie modifiche genetiche che permettono agli abitanti del nuovo pianeta di affrontarne il clima rigido.

Un altro esempio di totale sfogo creativo è il corto Era la notte prima di Natale dove il citazionismo la fa da padrone e si riesce con pochissime mosse ad inquietare e a divertire con un uso intelligente delle tematiche e a  creare un contrasto che risulta sicuramente azzeccato: il natale non viene qui visto come siamo soliti vederlo.

Se questi sono però gli esempi migliori di lavoro artistico, abbiamo in molti altri casi un lavoro sulle ambientazioni che attinge a piene mani dalle grandi opere fantascientifiche e che potrebbe portare molti velocemente alla noia e al disinteresse, visto l’uso di situazioni già viste se non di scene pescate – senza troppa fantasia – a pie pari da opere come Star Wars: la scena iniziale del corto Snow nel deserto, pur essendo un tributo ad una scena iconica del primo storico film della saga, risulta esserne un’imitazione fin troppo vicina all’originale.

Michael B. Jordan in “La cabina di sopravvivenza”. Fonte: readysteadycut.com

C’è da dire che il budget altissimo di Netflix ha comunque portato ad una realizzazione tecnica dei volti e delle ambientazioni che sfiora il fotorealismo. Nel corto sopra citato o ne La cabina di sopravvivenza il lavoro tecnico aiuta senz’altro con l’espressività degli attori: Michael B. Jordan, che presta il volto al protagonista nel secondo corto, è riuscito ad esprimersi a pieno e l’impressione che ha lo spettatore non è quella di un semplice modello 3D animato con una sessione di motion capture, ma quella di una vera e propria performance attoriale in tutto e per tutto. Aiuta poi il focus totale sul protagonista ritratto molto da vicino nel tentativo di salvarsi dal pericolo.

Passando degli altri corti, Servizio clienti automatico e Pop squad raccontano entrambi, ma in maniera opposta, di un futuro distopico riuscendo solo in parte a narrare qualcosa di diverso da ciò a cui si ispirano . Il primo parla in maniera scherzosa di un futuro in cui l’uomo è completamente schiavo delle macchine e della pigrizia, macchine che però diventano pericolose nel momento in cui si ribellano. Anche qui una storia raccontata già da molti altri che cerca comunque con un po’ di comicità e con uno stile caricaturale, di risultare divertente per chi guarda. L’altro corto racconta invece di una società di immortali in cui viene considerato un crimine portare alla luce un figlio: i dubbi del protagonista, che si ritrova a dover far rispettare tale legge, portano avanti una trama con fortissime tinte noir.

L’ultimo corto si discosta parecchio dagli altri: parliamo de Il gigante affogato. Uno studioso universitario si ritrova a dover studiare il corpo di un essere umano colossale ritrovato spiaggiato come una creatura marina. Osserviamo da vicino entrambi i protagonisti mentre col passare dei giorni lo studioso entra sempre più in confidenza con l’oggetto dei suoi studi e descrive tutte le emozioni che gli suscita la sua analisi.

“Era la notte prima di Natale. “Fonte: Netflix

Mettendo tutto assieme…

Il secondo volume di questa antologia risulta alla fine essere un semplice utilizzo di un evidente talento artistico degli animatori a cui, forse per scelta, si è deciso di non affiancare uno studio attento sulla trama e sui personaggi. Qualcosa che forse serviva ma che evidentemente non è stata messa totalmente a fuoco dai suoi creatori.

Quello che di buono c’è, è comunque tanto e si può stare tranquilli che anche il volume 3, già annunciato da Netflix, ci assicurerà una grande varietà d’idee ed emozioni.

 

Matteo Mangano

A bordo del taxi di Rkomi

Taxi Driver è una coinvolgente corsa dentro sé stessi che non delude mai- Voto UVM: 4/5

Siamo a bordo di un taxi e l’autista ci guarda come per dire: «Dove vuoi che ti porti», ma sembra che le uniche parole che riusciamo a dire abbiano a che fare con la nostra storia, con ciò che sentiamo. Ci lasciamo scivolare tra le auto, gli alberi e i km di una città che nemmeno ci importa. Ed è un po’ come urlare «Presto! Mi faccia salire, insegua quell’auto o i miei sogni!»,  un po’ come una scena di un film americano.

Rkomi ci porta a bordo del suo nuovo album, Taxi Driver, in cui i passeggeri, compreso l’autista, si raccontano nei testi delle canzoni. Dal primo brano, intitolato INTRO:

Faccio questo adesso, guido dal tramonto all’alba, a volte anche quando è festa. È stressante in effetti, ma almeno mi tiene la mente occupata.
Accompagno le persone nei loro pensieri così tante volte durante la settimana… Tanto da farmi coinvolgere, immedesimare.

Rkomi per Rtl – fonte: rtl.it

Qualcosa da combattere

Sembra che Rkomi questa volta voglia richiamare alle nostre menti un ricordo, un progetto, risalente al 1976: Taxi Driver, un film diretto da Martin Scorsese. Questa volta però, al contrario di quella pellicola in cui il giovanissimo Robert De Niro cercava di combattere i suoi demoni e le sue paure post-guerra del Vietnam, all’interno dell’album Mirko riflette sulla difficoltà dei sentimenti e dell’approccio con se stesso facendoli diventare un tutt’uno nei diversi testi.

Uno dei più chiari riferimenti al film che possiamo trovare è dato dal brano, anch’esso intitolato TAXI DRIVER, in cui esordisce con:

Canzoni viaggiano in taxi
per ripulire le strade
vengono fuori la notte gli animali più strani
io che invocavo un diluvio che prese me per ostaggio

Parole simili che troviamo anche nel film di Scorsese, in cui si afferma:

“Vengono fuori gli animali più strani, la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori. Un giorno o l’altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre”

A metà tra l’interpretazione di De Niro e l’introspezione, con una sola differenza: il diluvio di Mirko non ha a che fare con l’intera società ma con il pianeta dei sentimenti più profondi di ogni uomo.

Rkomi per radio città del capo – fonte: radiocittadelcapo.it

Nelle profondità di un sound

Altro giro, altra corsa, nuovi mondi e tante personalità. Taxi Driver prende spunto anche da un album di Ed Sheeran, ovvero No.6 Collaborations Project Cassette: un lavoro che coinvolge tantissimi artisti, creando un album misto.

Un’ottima idea che Rkomi remixa in una produzione ricca, visionaria, con accenni di rock, rap ma anche pop che fanno da cornice a suoni sempre diversi e di grande impatto. Di sicuro, l’amore è il tema che rimane come punto fermo dell’intera produzione 2021, nonostante le diverse sfumature e i molteplici riferimenti a situazioni differenti tra loro.

Nel brano accompagnato da Tommaso Paradiso, ovvero HO SPENTO IL CIELO, sorge un chiaro riferimento alla figura della donna angelo, musa ispiratrice dei grandi poeti del dolce Stilnovo come Dante.
Donna che travolge, accompagna ed eleva gli stati d’animo agendo su un piano totalmente soprannaturale. L’effetto che fa è simile a quello delle parole del testo:

A me non fa paura
averti cosi vicino
a me non fa paura
ma paura da morire

Altri riferimenti a Dante e alla Divina Commedia vengono ritrovati in PARADISO VS INFERNO, altro feat con Roshelle:

Non sono Dante, l′Inferno, il mio inferno è un altro

E continua, qualche battuta successiva, sulla stessa scia:

E persino Dio ha il suo Inferno è l’amore che ha per l′uomo

Rkomi foto originale – fonte: repubblica.it

A farci la guerra

Situazioni intime anche in DIECIMILAVOCI con Ariete, in cui vige un botta e risposta continuo, quasi non volesse finire. Un cerchio che si chiude in un fastidioso pensiero di qualcuno che possa minacciare la coppia, più di quanto già entrambi non lo facciano tra loro. Una guerra, una battaglia aperta in cui le parole bruciano dentro e lasciano le stesse ferite di uno scontro con armi.

Pagine vuote che provo a riempire, ho fatto un casino senza farmi sentire. Non sopporto che ci minaccino

PARTIRE DA TE: chi sarà stavolta il passeggero di questa corsa? Nessuno.
Questo brano viaggia in direzione ostinata e sola ed il conducente prova a destreggiarsi tra i suoi pensieri, facendo scivolare come pioggia ciò che sente. Il pre-ritornello si arrende di fronte ad una domanda:

Lascia che tu sia una mia fantasia prima che riapra gli occhi e ti portino via.
La mente è il nostro hotel, ma tu in che stanza sei?

Per poi lasciare spazio ad immagini, piccole promesse, forti visioni che ritroviamo nella seconda strofa:

E non lascerò mai poggiare la tua testa sul letto senza la mia mano dietro, abbiamo il pomeriggio, la tua pelle è come porcellana
le tue labbra sono chewing gum da masticare, zitti!
E tu sei così bella che a volte fai male

Ma chissà se questa è davvero la verità dei fatti o solo ciò che vorrebbe vedere il cuore.

Annina Monteleone

 

Battiato, il signore della musica e delle parole

Il mondo della musica – e non solo – dà il suo addio a Franco Battiato. Al Maestro – anche se non amava essere definito tale – che della poliedricità ha fatto il suo marchio di fabbrica. Il musicista, cantautore, compositore che, con un’insaziabile e spiccata curiosità, ha abbracciato vari generi: dal pop alla musica leggera, dalla lirica al rock progressivo, passando per la musica etnica. Al poeta e paroliere che, con un’innata raffinatezza e una spiccata intelligenza, ha indagato l’intimità dell’essere umano cogliendone tutte le sfaccettature. A quell’amico che, come hanno sottolineato tutti coloro che lo hanno conosciuto, rimarrà per sempre non solo il “signore della musica e delle parole” ma anche il signore dell’animo (e dall’animo) umano.

Ciao Franco!

La carriera del Maestro ha inizio a Milano nel 1964. Precisamente in un cabaret, il “Club 64”, allora frequentato da alcuni dei futuri rappresentanti della canzone d’autore italiana: Enzo Jannacci, Renato Pozzetto e Bruno Lauzi.

Sarà l’incontro con Giorgio Gaber che segnerà una svolta decisiva nella sua carriera, facendogli firmare un contratto con la casa discografica Jolly che inserirà l’artista in quel filone di “protesta”. All’epoca assai in voga e presente in molte produzioni cantautorali.

Il primo singolo inciso ufficialmente, La torre, accompagnerà la sua prima apparizione televisiva nel programma Diamoci del tu, condotto dallo stesso Gaber e da Caterina Caselli. Sarà proprio in quell’occasione che l’artista milanese proporrà a Battiato di cambiare il nome da Francesco a Franco, per non confondersi con quello di un altro giovane cantautore che quella sera si sarebbe dovuto esibire: Francesco Guccini.

Da quel giorno in poi tutti mi chiamarono Franco, persino mia madre.

Qualche anno più tardi Battiato decise di abbandonare il genere di protesta per convertirsi inizialmente alla “canzone romantica” per poi arrivare ad identificarsi con una forma d’avanguardia ancora più intellettuale e intimista rispetto al suo esordio. Nel 1973 pubblica Sulle Corde di Aries: un album in cui musica minimale e una musica acustica di tradizione araba, convergono perfettamente, lasciando ampio spazio all’elettronica. Già da allora il cantautore si è spinto a concepire le note come atti di purificazione, qualcosa che ci innalza verso la bellezza.

Un viaggio attraverso le note

L’approccio di Franco alla musica deve essere dunque visto un po’ come un viaggio in cui ogni tappa corrisponde ad un genere diverso. La sua virtù di cantautore è sempre stata quella di saper far combaciare molteplici stili musicali, combinandoli tra loro in un approccio eclettico, originale e sperimentale.

La poesia e la letteratura, come ci ha insegnato il buon Sartre, vivono grazie a chi le legge e chi attribuisce loro un significato. E ognuno interpreta a suo modo un testo, in base a quello che sente, a quello che sa, alla sua esperienza di vita.

Il cantautore siciliano, infatti, oltre ad aver contrassegnato molte delle sue canzoni con un ampio uso di citazioni letterarie che richiamano poeti e scrittori quali Marcel Proust, Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli e Giosuè Carducci, realizza una vera e propria trilogia (Fleurs – Fleurs 3 – Fleurs 2) che raccoglie cover di autori prevalentemente italiani e francesi.

In Fleurs oltre a cover di artisti del calibro di De André, Gino Paoli, Mick Jagger e Keith Richards, Battiato inserisce alcune sue composizioni, tra cui Invito al viaggio. In questa canzone l’autore cita Baudelaire fin dal titolo, parlando dell’omonima poesia che fa parte dei Fiori del male . Il brano, con i testi del filosofo catanese Manlio Sgalambaro e le musiche di Battiato, inneggia al viaggio “in quel paese che ti somiglia tanto”, un viaggio nel quale c’è libertà e rispecchiamento, perché partendo scopriremo il mondo e impareremo a conoscere meglio noi stessi. Un po’ come ha fatto il maestro con le sue canzoni, alleviando le nostre difficoltà con veri e propri balsami per l’anima. Non semplici canzoni ma oasi nelle quali ritrovarsi, momenti nei quali la sua voce come una carezza ci solleva dalle pesantezze e ci rende più leggeri.

 Credo, al contrario di quelli che non hanno capito niente dei miei testi e li giudicano una accozzaglia di parole in libertà, che in essi ci sia sempre qualcosa dietro, qualcosa di più profondo. Quando si intende adattare un testo alla musica si scopre che non è sempre possibile. Finché non si fa ricorso a quel genere di frasi che hanno solo una funzione sonora. Se si prova allora ad ascoltare e non a leggere, perché il testo di una canzone non va mai letto ma ascoltato, diventa chiaro il senso di quella parola, il perché di quella e non di un’altra. Per capire bisogna ascoltare, serve animo sgombro: abbandonarsi, immergersi. E chi pretende di sapere già rimane sordo.

Torneremo ancora…

Nel 2019 esce Torneremo ancora. L’inedito, che dà il titolo all’album, è frutto dell’assemblaggio della voce di Battiato incisa nel 2017 e della musica scritta e suonata dallo stesso. I versi risuonano oggi come un profetico arrivederci:

La vita non finisce, è come il sogno, la nascita è come il risveglio finché non saremo liberi. Torneremo ancora e ancora e ancora

A noi piace pensare che questo è stato il dono d’addio che un uomo d’altri tempi, com’era il nostro Franco, ha voluto donarci prima di vivere un’ultima avventurosa trasformazione.

Franco Battiato è stato un esempio unico e irraggiungibile di metamorfosi verso quella ricerca bramosa di “qualcos’altro”, di cambiamento ed esplorazione che appartiene solo ai veri artisti. E se noi pensiamo a un artista, Battiato è uno di loro. C’è tutta la ricerca di una vita dentro le parole e le opere di Battiato. Parole e opere che, per oltre cinquant’anni, hanno accompagnato l’inizio e la fine delle nostre storie e che, per almeno altri cinquant’anni, rimarranno scolpite dentro ognuno di noi.

E come lo stesso cantava: “perché sei un essere speciale ed io, avrò cura di te”, noi tutti promettiamo di curare il ricordo di quest’uomo, artista dell’arte della vita e non solo dell’arte dello spettacolo.

Ciao, Franco. Ci vedremo al prossimo passaggio.

Domenico Leonello, Angelica Terranova

Nomadland: 3 Oscar per una pellicola “d’autrice”

 

Uno dei migliori film di quest’anno. Il cinema d’autore paga ancora: Hollywood riconosce i meriti di un film diverso dal solito e attuale- Voto UVM: 5/5

Nomadland si presenta da pellicola a basso budget: “soltanto” tra i quattro e i sei milioni di dollari spesi per produrla. Firmata dalla regista cinese Chloè Zhao, la prima asiatica ad ottenere un Oscar per la miglior regia e la seconda donna dopo Kathryn Bigelow (vincitrice con The Hurt Locker), Nomadland si è confermato vincitore di ben altri due premi Oscar, tra cui quello per miglior film; la terza statuetta va invece alla francese Frances McDormand, miglior attrice protagonista.

La pellicola ottiene inoltre l’ambitissimo e prestigioso Leone d’oro della Mostra Internazionale Cinematografica di Venezia, kermesse che si tiene nella Serenissima ogni due anni.

Nomadland: locandina. Fonte: cnn.com

La pellicola si basa  sul libro-inchiesta dall’omonimo titolo della giornalista statunitense Jessica Bruder; l’autrice scrive delle  storie di moderni nomadi Usa: la Bruder ha infatti vissuto per alcuni mesi a bordo di un camper, seguendo i viaggiatori lungo i loro itinerari.  Il periodo storico di riferimento è quello della crisi del 2008, innescata dal crack dei Sub-Prime.

Il film inizia con la ripresa in primissimo piano della protagonista Fern (Frances McDomand), cittadina del centro industriale di Empire, Nevada. Lo stabilimento di cartongesso “US Gypsum”, fulcro dell’economia locale, è costretto a chiudere i battenti a causa della scarsa domanda del prodotto; via via il centro si spopola, i negozi abbassano le serrande e Fern, perso il marito per un tumore, acquista un furgone e decide di abbandonare la città ormai quasi fantasma.

Quello della protagonista è un personaggio di finzione ma molto simile ai tanti “nuovi nomadi” americani descritti nel libro. Empire è altresì tanto simile a una di quelle città fantasma del West, ormai parte dell’immaginario collettivo di qualsiasi spettatore. Questo film d’autore potrebbe apparire un Western con al posto dei cavalli, furgoni e camper, anziché yankee, pistoleri cittadini che hanno superato la mezza età alla ricerca di un nuovo impiego o alle prese con  viaggi esistenziali.

La precarietà della vita nei camper, spesso fatta di sopravvivenza e sacrifici, è ripagata dai giorni trascorsi nella libertà dalla dipendenza dal denaro e dalle cose materiali, dal giudizio o buonismo di una parte della società borghese, temi che la regista asiatica affronta, senza mai sfociare in un’aperta critica al sistema borghese-capitalistico. A parlare saranno i racconti e le opinioni dei personaggi, fieri nella loro compostezza, sempre orgogliosi seppure provati – chi più chi meno – dalla vita.

A fare da leitmotiv della pellicola la fotografia del film e le riprese in primissimo piano dei personaggi, che andranno via via allargandosi con il dipanarsi della trama.

Uno dei primissimi piani di Fern, firmati Zhao. Bravissima l’attrice nella resa delle emozioni. Fonte: WordPress.com

Da subito emerge il contrasto/complementarietà fra i primissimi piani e le riprese lunghe se non lunghissime di straordinari paesaggi americani. Entrambi i tipi di ripresa faranno sì che chi guarda possa quasi sentirsi dentro la pellicola, quasi a peregrinare con la protagonista per gli States.

Fern trova lavori saltuari, tra i quali il più amato sembra essere l’impiego nella catena di impacchettamento di Amazon. Terminato il contratto sarà costretta a ripartire alla ricerca di nuove precarie occupazioni. La donna si districherà infatti fra lavoretti nell’ambito dell’agricoltura, paninoteche, pulizie, nonostante i 60 anni suonati, per poi far ritorno al colosso di Jeff Bezos.

Anche qui Zhao non vuole strizzare un occhio ai tanti critici di Amazon e del capitalismo, nonché alle lamentele dei lavoratori e l’azienda viene piuttosto mostrata come un gigante buono che offre lavoro dignitoso, dai ritmi umani, che pagherà a Fern persino il campeggio del suo furgone. Diversamente quindi, per citare un caso, dal film Furore (1940), che mostrava la crudezza dello sfruttamento dei lavoratori di inizio ‘900.

Nomadland non è un film di denuncia del capitalismo o il racconto di una società o di singoli personaggi in fuga. La pellicola narra piuttosto di persone ordinarie che vogliono vivere la vita diversamente. Mai appaiono eccentriche o strane, ma anzi serie e compite, fiere anche se provate. Decise ad andare avanti nel loro percorso alternativo.

Qualcuno fra i personaggi parla contro il capitalismo, contro il consumismo. Sarà Bob (Bob Wells), leader e sorta di santone di un campo di “nomadi” a spiegare : «Siamo rifiuti, ci hanno sfruttato e buttato via.» ma ancora con un tono di fiera compostezza, privo di isterismi, volgarità, rabbia eccessiva.

Nomadland è un film da vedere, anzi da gustare con calma e attenzione prendendosi il giusto tempo. Un lungometraggio dal sapore intimista, che riesce a mescolare bene dolce e amaro della vita senza scadere nella banalità di scene già viste e frasi già sentite. Non può certamente che meritare i tre premi Oscar, il Leone d’Oro e i nostri 5 punti.

Un esempio di una ripresa con una maggiore profondità; a fare da sfondo il sorgere o il tramontare del sole. Fonte: cloneweb.net

Marco Prestipino

 

 

 

Il Capa è tornato: habemus Caparezza

Il Capa con il suo ritorno è riuscito a dare una scossa alla musica italiana  4.0 – Voto UVM :4/5

Dopo tre anni ritorna sulle scene musicali Caparezza, con un nuovo album autobiografico, come dichiarato dall’artista. Ci aveva lasciato con Prisoner 709 (2017) e aveva entusiasmato tutti con la sua lingua tagliente e pure Exuvia, uscito il 7 maggio, non è da meno.

L’artista non ha bisogno di presentazioni: che lo si voglia o no, Caparezza è uno degli autori più talentuosi e autentici del panorama della musica italiana. I suoi testi parlano della società circostante, le sue canzoni hanno denunciato la mafia e gli errori della politica, ma hanno parlato anche d’amore e di speranza, per un mondo che ormai vive di immagine e finzione.

Meglio depressi che stronzi del tipo «Me ne fotto», perché non dicono «Io mi interesso»?

Caparezza. Fonte: centralfloridavocalarts.com

Exuvia( 2021)

A mio agio nel caos, ecco la mia Exuvia.

Il nome “exuvia” indica la muta dell’insetto, quindi un cambiamento e una nuova maturità, senza lasciare indietro il proprio passato. Come l’insetto, pure Caparezza con il suo nuovo stile ha voluto regalarci un artista nuovo: con una metamorfosi è riuscito a incoronare il suo percorso rendendolo più maturo e di questo ci parla la traccia Exuvia. Un significato a primo impatto banale per coloro che non accettano cambiamenti e vivono dentro una bolla rivestita da mero egoismo e pregiudizi.

Ogni mio scatto è di prassi bruciato
Non dimentico le radici perché tengo alle mie radici
Ma ci ritornerò quando sarò inumato
I miei dubbi hanno dei modi barbari
Invadenti e sono troppi
Il segreto è fare come gli alberi
Prima cerchi, dopo tronchi
Chi ti spinge dopo quella soglia
Se non è la noia, sarà il tuo dolore
L’occasione buona per andare altrove, tipo fuori

L’album contiene 19 tracce, ed è stato anticipato un mese e mezzo fa con Exuvia e subito dopo La Scelta. Il disco si presenta cupo e percepiamo una sensazione di malinconia nell’ascolto. Come un vero genio incompreso, Caparezza mescola temi della politica e dell’arte, facendoci affrontare un viaggio nell’inafferrabile: solo chi presterà la massima attenzione potrà capire il disco.

Nelle canzoni troviamo le collaborazioni di altri artisti quali Matthew Marcantonio (leader dei Demob Happy) che canta il ritornello della traccia Canthology e Mishel Domenssain, una cantautrice e rapper messicana che accompagna l’artista nella traccia El Sendero.

Come già citato sopra, l’artista ha rilasciato più di un mese fa le tracce Exuvia e La Scelta. Di cosa parla La scelta? La scelta rappresenta la solitudine, un “limbo“- come dichiara l’artista- in cui si è soli e non si hanno aiuti e solo tu decidi che strada intraprendere e quella scelta, che a volte è un concetto banalizzato, è ciò che condiziona la tua vita: quindi bisogna essere prudenti e ponderare prima di agire. Caparezza in merito a questa canzone ha dichiarato:

Uno degli elementi ricorrenti del nuovo album è la stasi, il limbo, il “non luogo” senza via d’uscita. Come si viene fuori da questa impasse? Esiste un solo modo: fare una scelta, prendere una decisione. Ho immaginato di trovarmi davanti ad un bivio, due sentieri che si diramano dal bosco.

Fino a qualche mese fa nessuno si aspettava un nuovo disco di Capa: difatti l’artista non aveva rilasciato dichiarazioni o tracce sul suo profilo Instagram, ma il 31 marzo, ha sganciato all’improvviso come una bomba l’uscita della sua nuova opera e pagine social e giornali inneggiavano al ritorno di Caparezza. Diciamocelo: l’artista pugliese ha giocato bene le sue carte, cogliendoci tutti di sorpresa!  

Fonte: Copertina ufficiale Exuvia-Juloo.it

Nelle nuovi canzoni, non troviamo più il vecchio Caparezza, anche la sua voce nasale è scomparsa, ma il suo essere diretto è sempre presente (in fondo è il suo marchio di fabbrica).

Non è un’artista amato da tutti, forse per il suo modo d’essere troppo schietto o forse perché è poco attivo sui social e non rilascia mai interviste o non segue la linea commerciale che richiede la nostra società; nonostante tutto il suo nome viene ancora ricordato e rimane uno degli artisti più amati della nostra terra, è la prova vivente che non bisogna amalgamarsi alla massa per creare arte.

Non me ne frega un cazzo dell’opinione di un giornalista, non mi interessa cosa possa pensare lui della mia band!… Certo, a chi non fa piacere una cazzo di recensione positiva, però non si può dipendere dalle opinioni altrui. E la maggioranza dei giornalisti che scrivono di musica sono dei poveracci.

Fonte: fm-world.it

                                                                                                                                Alessia Orsa

 

 

Motta e la semplicità del presente

Un disco che segna la maturità artistica di Motta. In cui anche le più grandi fragilità vengono trasformate in punti di forza.  – Voto UVM: 5/5

Dopo tre anni dall’ultimo album Vivere o Morire e la partecipazione al Festival di Sanremo con Dov’è l’Italia, Francesco Motta torna sulla scena musicale con un nuovo album pubblicato con la Sugar Music il 30 aprile. Non ha più paura di invecchiare, e si interroga sul suo passato e sulla stranezza dell’uomo che non riesce a rendersi conto che i problemi dei vent’anni sono davvero molto più semplici di quanto si pensi.

Il suo nuovo album, Semplice, anticipato dal singolo E poi finisco per amarti, è completamente nudo, elettrificato, reale e soprattutto vivo. Ti trasmette quell’emozione che a volte solamente un live è capace di dare. Magari dentro una grande stanza illuminata con neon a luci rosse e blu, a metà tra una fabbrica e una chiesa, col rumore delle pennate sulle corde di una Stratocaster. Un viaggio nel mondo, o meglio: nella semplicità del presente. Il cantautore pisano ammette di aver fatto pace col proprio passato, tutt’altro che semplice, per concepire quest’album:

Ho scoperto che non sono Peter Pan

afferma in un’intervista, e lasciandosi alle spalle tutti i tormenti e le paure, ci regala dieci tracce di una nostalgica quotidianità in cui tutti noi possiamo ritrovarci, tra ricordi e calzini, sampietrini e caffè.

La ricerca dell’essenziale

Qualcosa di normale, la quarta traccia è, infatti, una richiesta d’aiuto; cantata con un filo di voce insieme alla sorella Alice (unico feat. dell’album), per provare a conquistare non tanto la normalità, ma il sogno di una normalità. Del resto è un pezzo nato prima di una pandemia, fra le campagne di Sacrofano e che vanta i consigli di De Gregori.

E alla fine non ho più paura di stare a guardare qualcosa di normale

È un disco con gli archi, molto arrangiato e soprattutto diverso dai capitoli precedenti: nudo e fragile. Motta sceglie di giocare con la scaletta:

Il forte dopo il forte resta forte, ma il forte dopo il piano diventa fortissimo

Un disco per nulla minimale, con arrangiamenti ricchi, non barocchi ma corposi. In cui al centro c’è la continua ricerca dell’essenziale: come dice Italo Calvino nelle Lezioni americane, c’è il pensiero di una leggerezza che non è quella di una piuma che cade ma di un uccellino che continua faticosamente a volare.

Motta in un gioco di luci

La stessa nostalgia la ritroviamo in Quello che non so di te, che per l’autore altro non è che un ritorno al passato, soprattutto musicale. Per un attimo vengono abbandonati gli strumenti protagonisti: il violoncello lascia spazio al rock, e il pezzo si sporca di new wave sfiorando le ombre dei Cure.

Anche in Regole del gioco sembrerebbe che Motta stia cercando di tornare nella sua comfort zone, un po’ come se fosse il seguito di Chissà dove sarai (Vivere o Morire). Ma continuando l’ascolto ci accorgiamo di avere davanti un autore più maturo, più attento ai dettagli e che in fin dei conti ci piace. Come dice nella canzone:

Sai che c’è? C’è che alla fine qui va tutto bene

Ma questo non è un viaggio di sola nostalgia. A te, la prima traccia dell’album, è un’aperta dichiarazione d’amore, verso gli altri e verso se stessi. Un brano in cui chitarre acide e melodie oniriche si scontrano, riportando alla mente i Velvet Underground. E mentre Via dalla luce è un notturno che si aggrappa al pianoforte, Semplice tiene echi africani in sottofondo, per concentrarsi sul flusso di coscienza.

Tutti hanno paura…

Avete presente quando provate un paio di jeans e vi sta stretto? Beh, a Motta invece quel barlume di esistenzialismo è sempre caduto alla perfezione, e in quest’album è ancora più evidente.

L’estate d’autunno e Dall’altra parte del tempo (ottava e nona traccia) ci trasportano in un universo parallelo in cui tempo e spazio vanno quasi ad annullarsi completamente, lasciandoci un pizzico di cupa e autentica disperazione.

Il cantautore di “Dov’è l’Italia”. Fonte: ilsussidiario.net

Ma Semplice è anche paura: paura di perdersi, paura del futuro. Quando guardiamo una rosa, scritta a quattro mani col cantautore calabrese Dario Brunori (in arte Brunori Sas), è una vera e propria conversazione non amorosa di sette minuti. Un dialogo tra due persone provenienti da tempi diversi, che mettono la paura al centro delle loro vite. La giusta conclusione che, inaspettatamente, dà vita ad una coda strumentale perfetta.

Parlami della paura di vivere insieme una vita sola

Semplice è un gioco di equilibri precari e per questo affascinanti. Un mondo in cui passato e futuro si intrecciano, dando vita a quella semplicità, quasi essenziale, del presente. Un disco che non si limita a raccontare storie ma che ci parla, dritto al cuore. Anche a detta dell’autore, è da ascoltare per intero perché «Il concetto di album è ancora importante». Solo così si potrà ottenere l’assoluta comprensione del semplice e dell’essenziale. 

Domenico Leonello

Multisala, il nuovo album di Franco126

Dopo il grande successo di Stanza Singola, Franco126 presenta: Multisala.
Un album scritto come da copione di un film in cui le scene camminano a rallentatore e sono capaci di rievocare immagini vivide. Alessandro D’Avenia, scrittore italiano, in uno dei suoi libri scrive:

A volte nella musica si trovano le risposte che cerchi, quasi senza cercarle. E anche se non le trovi, almeno trovi quegli stessi sentimenti che stai provando. Qualcun altro li ha provati. Non ti senti solo

Franco126 fonte:rollingstone.it

Come in un film

Si chiama Multisala, contiene dieci tracce ed è la nuova creatura di Franco126 in uscita il 23 aprile 2021.
Immagini a rallentatore che sembrano fermare il tempo e che danno vita ad un album “cinematografico”.
Lo stile rimane sempre lo stesso: a metà tra la malinconia e la nostalgia, ma con grande capacità di rievocare immagini potenti. È proprio questo uno dei casi in cui possiamo chiudere gli occhi, indossare le cuffiette e sentirci non solo spettatori ma anche protagonisti della stessa penna dell’autore.

Dolceamaro tra le righe

La prima traccia dell’album è Che senso ha: intima, con diversi punti di domanda e dall’umore spezzato di chi sembra combattuto da un amore che sembra andato perso.

E me ne vado con la giacca sulla spalla
Lascio indietro dubbi e punti di domanda
E ci sta un silenzio che
Sembra che parli per te

A metà tra scrollarsi dai gomiti sul bancone e riflettere sui consigli dati.
L’immagine che segue è quella di un mix di stagioni: l’inverno dentro, l’estate fuori. Mentre fuori, in un attimo è già l’alba.

Franco126 a Rock in Roma 2019. fonte: romatoday.it

La seconda traccia è Blue Jeans, questa volta si tratta di un feat con Calcutta. La canzone ci introduce in una dimensione in cui l’amore finito è ancora il protagonista della sua penna.

Vorrei essere in un altro tempo
In cui se sbagli, riparti da capo
Ma il futuro che io avevo in mente
Sembra già far parte del passato

Segue Maledetto tempo, in cui viene descritta la paura di diventare grandi con tutti i dubbi e le insicurezze del futuro. La traccia sembra un proseguo della precedente descritta, con tutti gli equivoci che ci allontanano dal terreno sicuro.

Ma chi lo sa
Se è solo un altro scherzo del destino
Che poi, che è tutto quanto già deciso
Chi l’ha deciso?

Frammenti di tempo

Lieto fine, mette in scena diverse domande esistenziali di chi si chiede cosa succede quando il pubblico si appresta ad uscire. Pensiero molto comune anche nella letteratura, con lo stesso Pirandello che riflette sul tema della maschera che ognuno di noi indossa per adattarsi ai diversi contesti. Ma cosa succede quando ci si leva la maschera? Cosa succede quando il pubblico si defila?

E restiamo da soli, senza controfigure
Senza più i riflettori, senza più le battute da dire

Franco126 in Stanza Singola. fonte: rapologia.it

A tutti è capitato di ritrovarsi senza risposte alle proprie domande, Nessun perché è la sintesi di cosa succede nella mente di chi perde o non trova approdo in momenti, parole, situazioni e finisce con il dire che la strada che ci appare più semplice si rivela piena di intoppi:

Perchè la strada più dritta va a zig zag che ci vuoi fare

Miopia è l’emblema del sarcasmo dentro un testo malinconico.

Può darsi che c’ho visto lungo
Ma magari è solo miopia
Cosa vuoi chе sia?

Il brano può essere interpretato come la descrizione di chi perde tra la gente ciò che teneva sott’occhio nonostante la situazione fosse chiara, o quasi. Forse era solo una causa di un’anomalia refrattiva.

Dulcis in fundo, o forse

Simone, sembra essere l’accurata descrizione che tutti potremmo fare di un nostro amico. Il solito testardo che non ascolta nessuno e «si regala un nuovo grattacapo» mentre continua a bere birra e a spendere i suoi soldi.

Simone, mille sbagli

Il brano seguente ci fa ritornare al solito (amato) mood di una ragazza con il Vestito a fiori che ha sogni troppo grandi. E sono sicura che siamo un po’ tutti come quella bambina che continua a sbagliare rincorrendo il suo palloncino.

Lo sai pensavo
Che a voltе è facile sentirsi smarriti
E darla vinta alle ombre con cui convivi

Come una sorta di filo invisibile, segue Ladri di sogni. Ancora una volta ci ritroviamo in un cinema, con in testa le solite domande mentre scendono i titoli di coda e…

Saltano in aria i piani come tappi di champagne“

Franco126 e Carl Brave. Fonte: giornaledellamusica.it

Accidenti a te, un titolo che sembra dirla lunga su un probabile litigio in cui non mancano le complicazioni e le porte chiuse in faccia. O forse solo socchiuse?

No, non ci credo più
Però un po’ ancora ci spero
E qui lo dico e qui lo nego

L’incoerenza di chi sa di aver urlato tanti insulti, un addio insicuro, mentre tra i denti masticava l’unico pasto della giornata: una sigaretta.

Ti ho detto addio, sì, ma solo in teoria

Fiato sospeso

Lasciandoci tutti a fiato sospeso, Franco126 ha prodotto un gran bel lavoro, regalandoci nuove canzoni su cui perderci le notti e sprecare le nostre domande.

Annina Monteleone