Flop: Salmo ritorna con il “disco peggiore”

 

L’album di cui avevamo bisogno, senza saperlo – Voto UVM: 5/5

Venerdì primo Ottobre alle ore 2:00 è uscito il nuovo album del rapper Salmo. Un disco che va a rompere la patina della società perbenista che vive solo all’interno dei social e potrebbe deludere – anzi pungere per i temi affrontati.

Dopo le polemiche dell’ultimo concerto tenuto ad Olbia, con migliaia di persone senza mascherine e green pass – un “ritorno al 2019” che ha scatenato la rabbia sui social – il rapper ritorna più forte di prima, fregandosene delle critiche dei perbenisti.

Il rapper Salmo. Fonte: rapologia,it

Salmo ritorna dopo il successo di Playlist ( 2018) che ha scalato le classiche e ottenuto cifre da record, affermandosi come uno dei dischi migliori italiani degli ultimi anni.

Flop è composto da 17 tracce e vi troviamo quattro featuring: La chiave con Marracash, Ghigliottina con Noyz Narcos, Yhwh con Guè Pequeno e, ultima ma non meno importante, la collaborazione con Shari in L’angelo Caduto.

Tematiche

Sì, penso sia inutile guardare un film o una serie TV
Quando mi basta il TG
Immagino te con un drink che sorridi
Perché tanto nella tasca hai tre

Dentro Flop, troviamo canzoni di riscatto che si allacciano al mondo reale, un mondo fatto di ingiustizie in cui chi non è nato con la “camicia” deve farsi strada da solo, ma anche canzoni polemiche nei confronti del materialismo. Nelle parole vediamo la rabbia che cresce piano piano, brano dopo brano: l’ascoltatore si ritrova proprio perché Flop descrive la nostra società attuale, quella “liquida”: una comunità fatta di immagine in cui “il senso” va a perdersi. Salmo ci parla della paura del fallimento, il terrore più grande dell’artista e di ognuno di noi, della paura di non essere abbastanza e la caduta dentro un tunnel in cui la luce è sempre più debole. 

Ogni brano ha una propria “personalità” che racconta una storia. In Flop, sedicesima traccia, Salmo rivendica il diritto di sbagliare e ammette come sia facile fare “flop”, anche nella musica e nell’arte.

È ok che ti ho deluso, è ok, ti faccio pena
È ok, sono un venduto, è ok, chi se ne frega

Interessante anche la traccia Marla: la protagonista rappresenta qualcosa che se ne va e ci fa sentire vuoti. Un punto in più va poi per le basi: Salmo spazia dal rap vecchia scuola all’indie rock e alla ballad romantica che sorprende il pubblico. Diciamocelo: pochi artisti riescono ad amalgamare tanti stili diversi in un solo disco senza sporcare il sound!

Titolo e copertina

Porta la musica e il vino e facciamo un’opera d’arte

Salmo sorprende tutti non solo musicalmente, ma anche artisticamente. La copertina del nuovo album è ispirata niente di meno che all’opera L’angelo Caduto del pittore francese Alexander Cabanel. Salmo interpreta Lucifero e assieme all’angelo caduto, il rapper sembra provare rancore e odio: lo sguardo ci trapassa e ci sentiamo giudicati, ma Lucifero/Salmo si  addossa un carico emotivo che a volte l’essere umano non riesce ad affrontare: la caduta e il timore di non essere abbastanza.

Salmo ci ha rivelato un lato che finora era stato nascosto; ci mostra una persona vera, fatta di emozioni e di debolezze. Sarà solo una strategia di marketing? Se così fosse, il rapper contraddirebbe il messaggio lanciato dal disco stesso che si rivolta contro la società dell’immagine e del successo a tutti i costi. 

Salmo in “caduta libera”. Fonte: rebelmag.it

Ed è proprio L’angelo caduto feat. Shari –  quattordicesima traccia – uno dei brani più struggenti e romantici del disco e della carriera di Salmo. Il brano è accompagnato dalla voce dolce di Shari, che dà quel tocco in più in una traccia in cui Salmo svela il suo lato più umano.

Volevo farti sapere che non sei sola
quando hai il cuore in gola
lo sarò al tuo fianco come una pistola
Copriti bene che fuori nevica ancora

Tu sei la canzone che non so scrivere, ricordati di me per sorridere

Perso nell’ignoto, dormo sopra un’altalena sospesa nel vuoto, hai
Visto un angelo nel mare, ma, eh
Devi scolpirlo se vuoi liberarlo

Flop, è questo è il titolo dell’ultimo “quadro” dell’artista. Un titolo strano ma che si va ad allacciare alle tematiche presenti nell’album, richiama l’attenzione dei fan e di certo non delude. 

                                                                                                                                             Alessia Orsa

Dune: un’epopea fantascientifica

Dune, pellicola fantascientifica in grande stile, sugli schermi italiani dal 16 settembre, delude – in parte – le aspettative della comunità cinefila internazionale. Film visivamente bellissimo: effetti speciali molto curati e spettacolari, ma scarno l’approfondimento dei personaggi che animano lo storytelling.

Il regista canadese Villeneuve (autore di tredici lungometraggi), in un film di 2 ore e 36 minuti, preferisce infatti dare spazio alle immagini con riprese di paesaggi, inquadrature magniloquenti e riferimenti artistici.

Dune si ispira alla serie omonima di romanzi dello scrittore americano Frank Herbert: un pilastro della letteratura fantascientifica che ha visto un precedente tentativo sul grande schermo nel 1984 ad opera del regista Lynch.

La trama

Siamo nel 26.000 d.C, anno più anno meno: l’umanità ha ormai colonizzato l’universo conosciuto. I viaggi interstellari sono resi possibili grazie all’avanzamento tecnologico e al “melange“, una spezia (unica nel suo genere) che si trova sul pianeta desertico di Dune. La spezia è un potentissimo propellente ed ha effetti psicoattivi sugli umani.

L’universo di Dune è governato da un sistema semi-feudale, con a capo un imperatore, ma in realtà il potere è gestito dietro le quinte dall’organizzazione “Bene Gesserit”, un ordine monastico-iniziatico di sole donne. L’ordine politico sembra molto simile al Sacro Romano Impero o all’Impero Ottomano, con a capo un imperatore-sultano che teme di essere detronizzato e provoca guerre fra le casate.

I vassalli dell’imperatore governano interi pianeti o settori. Nel film conosciamo la saggia e potente casata degli Atreides, a cui l’imperatore decide di affidare il pianeta Arrakis. Appartiene all’antica casata di chiare origini greche il giovane protagonista Paul (Timothée Chalamet), figlio del duca Leto (Oscar Isaac).

Oscar Isaac nei panni del duca Leto. Fonte: Warner Bros.

Il controllo di questo pianeta deserto è stato revocato dal monarca alla casata antagonista degli Harkonnen, uomini dalla pelle chiarissima, una casata brutale e violenta differente dalla prima che fa capo al malvagio e sadico Barone Vladimir Harkonnen (Shellan Sharsgard).

Il duca Leto, più che alla spezia, è tuttavia interessato a stringere un’alleanza con i “fremen”, popolazione autoctona di Dune, famosa per le sue doti guerriere. I nuovi governanti dovranno comunque occuparsi della raccolta della spezia su un pianeta dal clima inospitale, abitato dai vermi del deserto: animali simili a giganteschi lombrichi lunghi 300 metri.

Soltanto dopo poche settimane dall’insediamento, il barone attaccherà la famiglia rivale per riprendere il controllo del pianeta e per motivi di pura rivalità. Da qui iniziano le peripezie del protagonista Paul che tenta di salvare la propria vita sul pianeta Dune.

Pregi e difetti

rappresenatazione del pianeta deserto di Arrakis con le sue due lune
Un’immagine del pianeta deserto di Arrakis. Fonte: Warner Bros.

Le bellissime e ammalianti immagini del deserto e delle battaglie cercano di sopperire alla sceneggiatura povera e alla mancanza di approfondimento di tutti i personaggi in una pellicola a metà strada tra l’azione e la fotografia politica. Il regista vuole raccontare la complessa struttura – non solo di un mondo – ma di un intero universo con un film che vuole essere preparatorio per i successivi.

La trama si scioglie molto, troppo lentamente: il film sarebbe potuto durare anche meno per affascinare e catturare di più l’attenzione dello spettatore.

Gli attori sono tutti eccezionali nell’interpretazione, la fotografia eccellente, artistica e Dune è comunque un film che merita di essere visto dagli appassionati del genere anche solo per gli effetti speciali, le musiche e le scene di battaglia . Non è un flop per quanto riguarda gli incassi, non è un flop dal punto di vista della la qualità, ma la speranza in un sequel con maggiore dinamismo e un approfondimento dei  personaggi renderebbe sicuramente un’eventuale saga più appassionante e intensa.

Fonte: comingsoon.it

Marco Prestipino

Grazia Deledda: la donna che scalò l’Olimpo della letteratura

Innumerevoli sono i nomi e i volti di uomini e donne che hanno fatto dell’Italia un esempio nel panorama della letteratura mondiale, tanti da non riuscire ad elencarli tutti.

Oggi più che mai spicca un nome insolito, il ricordo dei 150 anni dalla nascita di una donna: Grazia Deledda.

La Deledda, scrittrice di origini sarde, fu la prima donna italiana a salire sulla cima dell’Olimpo sacro della letteratura con il premio Nobel assegnatole nel 1926.

La scrittrice Grazia Deledda. Fonte: parchiletterari.com

La vita di una donna rivoluzionaria

Grazia Deledda nacque nel cuore della Sardegna rurale, nella piccola cittadina di Nuoro il 28 settembre 1871, in una famiglia agiata. Il padre, Giovanni Antonio Deledda era un noto imprenditore interessato alla poesia, egli stesso componeva versi in sardo; fu anche fondatore di una tipografia. La madre, Francesca Cambosu, era una donna di rigidissimi costumi, dedita alla casa, perfetta rappresentazione della chiusa mentalità patriarcale nuorese, che successivamente porterà la stessa Grazia a ribellarsi a tali dettami culturali. Formatasi in maniera privata sotto la guida del professore Pietro Ganga, proseguì i suoi studi completamente da autodidatta.

Importante per la formazione dei primi anni della sua carriera da scrittrice di Grazia, fu l’amicizia con lo scrittore e storico sassarese Enrico Costa, che per primo ne comprese il talento. Successivamente coltivò per lungo tempo uno scambio epistolare con lo scrittore calabrese Giovanni De Nava, che vantava il talento della giovane scrittrice, relazione che sfociò successivamente in missive amorose e che terminò bruscamente con l’allontanamento da parte del poeta reggino.

Nel 1899 si trasferì a Cagliari, dove conobbe Palmiro Madesani, funzionario del Ministero delle Finanze, lavoro che successivamente lasciò per dedicarsi all’attività di agente letterario della scrittrice, ormai divenuta sua moglie. La coppia si traferì a Roma l’anno successivo, conducendo una vita appartata. Ebbero due figli: Franz e Sardus.

Nel 1903, dopo una serie di pubblicazioni minori, arrivò per Grazia la consacrazione come scrittrice attraverso la pubblicazione del romanzo Elias Portolu, il primo di una serie di fortunati romanzi e opere teatrali: Cenere (1904), L’edera (1908), Sino al confine (1910), Colombi e sparvieri (1912), Canne al vento (1913), L’incendio nell’oliveto (1918), Il Dio dei venti (1922).

Le opere della Deledda furono apprezzate da tanti illustri letterati, tra cui Giovanni Verga. Fu riconosciuta e stimata anche all’estero: David H. Lawrence scrisse la prefazione in inglese della traduzione de La Madre, ed ella stessa fu traduttrice (è sua la traduzione italiana di Eugénie Grandet di Honoré de Balzac).

Il Nobel per la letteratura e la fine di una vita

Arriva il 10 dicembre 1926: nella cornice della magnifica Stoccolma, Grazia Deledda viene insignita del più alto riconoscimento letterario, il Premio Nobel, così motivato dalla prestigiosa giuria:

“Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano.”

Divenne così la prima e unica donna italiana e la seconda nel mondo, a raggiungere la vetta dell’Olimpo della letteratura.

Grazia Deledda riceve a Stoccolma il prestigioso premio Nobel. Fonte: eco di Pavia

Dieci anni dopo il premio arrivò per Grazia la fine della sua vita: si spense il 15 agosto 1936 così come aveva sempre vissuto, con l’odore di rivoluzione e sempre pronta a rompere ogni schema.

 Tre grandi capolavori di Grazia Deledda

1) Canne al vento (1913)

“L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante.”

(Blaise Pascal, Pensieri)

Il romanzo capolavoro della scrittrice sarda affronta senza filtri tematiche dal sapore dolce-amaro: all’amore e all’onore vengono contrapposte la fragilità umana e la povertà, il ricordo della consapevolezza di un destino già segnato e impossibile da cambiare.

Riprendendo diversi spunti filosofici-letterari già trattati, la Deledda abbina sapientemente la metafora dell’uomo paragonato alla canna di Blaise Pascal, adattandolo perfettamente al protagonista, un eroe semplice quasi primitivo, sul modello del pastore errante leopardiano.

2) Elias Portolu (1903)

Amor, ch’a nullo amato amar perdona

(Dante, La Divina Commedia, Inferno, canto V)

Un romanzo dai tratti “lussuriosi”, in pieno stile dantesco: la Deledda racconta, con sapiente maestria, il ritratto dell’amore impossibile e tormentato tra due cognati attraverso il loro conflitto interiore per non cedere alla passione e quindi al peccato.

3) Cenere (1904)

   Possibile che non si possa vivere senza far male agli innocenti?

(Grazia Deledda,  La chiesa della solitudine)

Il romanzo narra la storia di una madre – o meglio – l’assenza di una madre persa dietro alla passione per un uomo e di un figlio abbandonato, cresciuto dalla matrigna benevola.

La trama percorre tutta la vita del protagonista, tra aspirazioni personali e il decadimento di un paese fino al suicidio, l’unica soluzione che pone fine alle sofferenze del protagonista e alla ricerca ossessiva della madre.

La scrittrice in un’illustrazione di Gef Sanna. Fonte: lanuovasardegna.it

 

La Deledda dovette affrontare un lungo percorso per poter dare spazio alle sue aspirazioni più profonde, alla voce interiore che la chiamava a dedicare la propria esistenza alla scrittura, soprattutto contro la società di Nuoro in cui l’unico destino delle donne non poteva oltrepassare il limite di «figli e casa, casa e figli». Grazia reagì, rivelando da protagonista la crisi epocale del mondo patriarcale (e pastorale), incapace di contenere le istanze delle nuove generazioni. Seguì una strada esemplare, facendo emergere le contraddizioni di una società in declino, senza tradirne la radice identitaria profonda che la contraddistinse.

Gaetano Aspa

V: Il viaggio apocalittico di Mannarino

Mannarino torna a galla più prepotente che mai in un disco curioso, stimolante, potente. – Voto UVM: 4/5

 

A quattro anni di distanza dal precedente album, il cantautore romano Mannarino torna con un nuovo disco dal titolo “V”, disponibile dal 17 settembre.

Prodotto dallo stesso artista e registrato tra New York, Los Angeles, Città del Messico, Rio De Janeiro, Amazzonia e Italia con il coinvolgimento di produttori internazionali, l’album è un invito ad appellarsi alla saggezza ancestrale degli esseri umani. Un disco che parla le lingue del mondo, intriso di suoni di foresta e voci indigene. Mannarino va alla ricerca della sorgente tribale dell’umanità, proposta come unico e potente antidoto contemporaneo alla brutalità del disumano.

Cover: la Donna Guerriera di Mannarino

La cover del disco raffigura una donna combattente, guerriera. L’immagine è l’unione di due elementi: la donna e la resistenza indigena fusi insieme in un’azione: quella di calarsi il passamontagna, o forse di toglierlo, immagine evocativa di un’entrata in azione, un’azione che è difesa non violenta, poetica e ispiratrice. Calarsi il passamontagna per andare in guerra o toglierlo per mostrare e difendere la propria identità? Un’immagine contemporanea che trova la sua forza in una nuova tribalità, allo stesso tempo antica e futura.

La voce delle canzoni

Ad anticipare l’album è stato il singolo Africa, con un arrangiamento ricco di strumenti etnici e cori dal gusto africano. Mannarino canta quasi sussurrando le parole che si rivolgono in maniera diretta a quella che lo stesso artista definisce un “richiamo all’irrazionalità misteriosa”.

In Congo, invece, la poesia si fa irriverente e affilata. Con i tratti di una favola moderna, l’artista romano racconta della paura dell’altro, dell’ultimo ricercato e dell’ultima principessa, in un paesino fotografato alla vigilia di Natale. Attraverso un sound tribale alternato ad alcuni accordi di chitarra, si crea una visione apocalittica, a tratti biblica che parte dai bassifondi per arrivare al cielo a smascherare la bugia di Dio.

Vengono nell’oblio e, mentre vengono, chiamano Dio
E Dio è solo un pezzo di carne legata allo spago
Fra la bocca dell’affamato e la mano del mago.

Canti di rabbia, di rivolta, di resistenza, d’amore sono lo strumento per superare l’idea di impossibilità, ingiustizia e delusione. La voce debole e isolata trova la forza di trasformarsi in grido di battaglia, di riscatto e speranza. È questo il significato di Cantaré: un inno alla voce per chi non ha voce!

Fiume Nero è una dichiarazione d’amore “alternativa”. Qui, ci si addentra nella giungla, nella carne viva dell’album: un luogo al di fuori delle leggi dello spazio e del tempo, dove l’umano si fa Dio e mischia l’acqua con la lava. Due corpi, due esistenze, due mondi si uniscono nell’infinito, fuori da qualsiasi tipo di convenzione.

In Agua e Amazònica, entrambe registrate nella regione del Tapajos, la voce delle donne indigene combattenti “As Karuanas” accompagna quella di Mannarino. La canzone è un grido calmo, bagnato di pianto, che vuole essere una chiamata al mondo ad aprire gli occhi, ricordando che l’attacco alla terra indigena e alle risorse naturali dell’Amazzonia si sta trasformando in un vero e proprio genocidio.

Mannarino: giocoliere di parole

Chiunque ascolti il cantautore romano è sicuramente a conoscenza della sua versatilità e del suo modo di giocare con le canzoni. Questa volta lo fa con Banca De New York, un esperimento ironico e allucinato, registrata tra Roma e Città del Messico. In questo pezzo l’artista è riuscito ad unire il registro più romanesco e radicale con un mondo sonoro acido e “trippy”, ispirato al Mississippi e ai campi di cotone. Originale anche se purtroppo, per tutta la durata della canzone – a tratti ridondante – ci si aspetta un exploit che sembra non arrivare mai.

Man mano che il disco scorre, si sente serpeggiare la crisi di un uomo e simultaneamente apparire l’immagine di una donna: la Dea ipnotica. In Vagabunda questa immagine esce fuori in maniera potente. Parla di un uomo che cerca rifugio e salvezza dalle sbarre del logos occidentale in una donna, personificazione dell’“eros”.

Romantica, Eretica, Erotica

È una giungla carnosa e ipnotica questa, dove la salvezza passa per il corpo e la sensualità viene dalla ribellione.

Cantare è una mossa politica!

Il viaggio continua con la canzone cosmopolita Ballabylonia, la storia di una donna Iracema, contemporanea e futura, che dalla giungla viene attirata dalle luci della grande città, della metropoli immersa in un nuovo villaggio: quello “globale”, come direbbe il sociologo McLuhan. Si accorge così di essere in un altro tipo di giungla, ma molto più pericolosa. Musicalmente Mannarino abbandona quasi del tutto i suoni ancestrali della natura, dando più spazio all’elettronica, rafforzando l’idea del passaggio della donna Iracema dal suo tranquillo villaggio alla nostra giungla post-moderna.

Con Bandida, ereditiera della patchanka di Manu Chao, ci ritroviamo davanti alla Donna indigena, ancestrale, forte, guerriera per natura, e ribelle per cultura. Questa immagine di donna è un’immagine umana che trova la sua corrispondenza più intima nel mistero della giungla: sono crollati i monoteismi, resta il mistero, l’animismo e la spinta vitale che ci porta tutti avanti. In testa, a guidare questa folla, c’è lei, colorata e furiosa.

La libertà che guida il popolo…

Lei è la fine del viaggio, l’epilogo ideale del disco. La crisi di un uomo di fronte all’immagine della donna rappresenta una crisi storica e sociale e la lotta di lei diventa un messaggio alle generazioni future.

Lei lasciò solo una scritta sul muro:                                                                                              “pagheranno caro, pagheranno tutto”                                                                                                voi picchiate duro                                                                                                                                aprite una breccia e vedrete il futuro

Adesso che il viaggio è finito e “Lei” non c’è più, ci restano i titoli di coda: Luna, una ballata struggente sulla separazione, sulla solitudine, e Paura, che rappresenta la presa di coscienza e il ritorno alla realtà. Due brani completamente in acustico, di estrema semplicità ma pieni di emotività, dalla voce calda, sicura e sussurrata.

Che io non ho paura alcuna, che io non ho paura.

È con queste semplici e struggenti parole che l’in-cantautore romano chiude il suo Viaggio. Un viaggio alla riscoperta della semplicità, della natura, della riconnessione con il proprio io, quello primordiale. Un viaggio fatto di storie: di battaglie babiloniche, fughe rivoluzionarie e amori fuorilegge, alla riscoperta di che cos’è davvero la paura.

Domenico Leonello

Qui rido io: l’esistenza come teatro


Martone dipinge magistralmente “miserie e nobiltà” di uno dei più grandi autori teatrali di sempre. Voto UVM: 4/5

 

Che la vita è un teatro è  massima proclamata dalle penne di poeti come William Shakespeare, dalle bocche di saggi di ogni tempo e luogo, ma anche verità sottintesa nei detti dei comuni mortali, incisa nel DNA di ciascuno di noi perché – come diceva Marlon Brando– ogni uomo in fondo è attore. Poi a seconda di gusti e inclinazioni personali, c’è chi intende l’esistenza come un’immane tragedia, chi come un dramma dell’assurdo senza capo né coda e altri ancora come una commedia o ancor meglio un’esilarante farsa in cui gli sforzi dell’attore sono ripagati dalla ricompensa più preziosa del suo pubblico: la risata.

Affamato dell’amore del pubblico e incapace di dividere farsa e vita vera era Eduardo Scarpetta, nome non nuovo per tanti cresciuti a pane, Miseria e nobiltà, nel mito di quel Felice Sciosciammocca con la pasta int’a sacca immortalato dal genio di Totò nella trasposizione cinematografica del ’54.  Affamato di vita e di teatro – come lo era la sua macchietta Sciosciammocca di pane – è soprattutto lo Scarpetta dipinto da Mario Martone in Qui rido io, film presentato alla 78esima Mostra di Venezia, con un magistrale Toni Servillo.

 Show must og on

Siamo agli inizi del Novecento, Eduardo Scarpetta (Toni Servillo) è l’attore e commediografo più famoso di Napoli, una personalità imponente e arrogante, un vero e proprio divo ante litteram acclamato dal pubblico e chiacchierato da tutti, prima ancora dell’avvento di Hollywood e Cinecittà.   Ma Scarpetta è prima di tutto padre, un padre sui generis: padre affezionato di Sciosciammocca, macchietta comica che soppianta a fine Ottocento la maschera di Pulcinella, padre prolifico di celebri commedie (Miseria e nobiltà, O miedeco d’e pazze, Nu turco napulitano, Na Santarella) così come di una famiglia difficile e ingarbugliata stile tribù da patriarca biblico, un’intera dinastia di talenti che incarneranno la teatralità napoletana.

Eduardo Scarpetta, discendente reale del noto Scarpetta, impersona Vincenzo, figlio legittimo del commediografo. Accanto Alessandro Manna nei panni di un piccolo Eduardo De Filippo. Fonte. amica.it

Tra tutti i De Filippo (Titina, Eduardo, Peppino), concepiti con Luisa, nipote della moglie, che non ereditano il cognome, ma sicuramente l’amore per il teatro, trasmesso quasi come un mestiere artigianale di padre in figlio, come quel Peppiniello che tutti i piccoli della famiglia – figli illegittimi compresi – a turno impersoneranno in una sorta di rito di iniziazione sancito da quel «Vincenzo m’è patre a me!». Proprio in quella battuta è condensato l’intreccio tra vita e teatro che è il focus dell’opera di Martone; nelle luci calde della fotografia di Renato Berta i due palchi – quello dell’esistenza e della commedia- si confondono : quello del povero scrivano Sciosciammocca che si finge Principe di Casador e quello del padre padrone Scarpetta che si fa chiamare zio dai piccoli De Filippo; le quinte dietro cui si nasconde all’incipit lo sguardo attento del piccolo Edoardo e la sua condizione di figlio nascosto del genio.

Toni Servillo e il bravissimo Alessandro Manna in una delle scene più toccanti del film. Fonte: madmass.it

Inizia nel teatro, nel mezzo di quella Miseria e nobiltà che è l’apoteosi di Scarpetta- e finisce sempre nel teatro inconsueto del tribunale, Qui rido io: il perno è quel palco da cui Eduardo Scarpetta non vuole proprio saperne di scendere, di rinunciare a ridere e a far ridere.

Martone scosta il sipario e inquadra solo un piccolo scorcio della vita del commediografo: il periodo difficile del contenzioso con D’Annunzio per aver parodiato il dramma La figlia di Iorio, l’avvento dei cabaret e del cinematografo che sembrano soppiantare la commedia napoletana. Certo si poteva raccontare molto di più per arricchire la trama: nella biografia di Scarpetta e della sua tribù si poteva persino pescare a piene mani per un’avvincente saga familiare (e magari qualcuno lo farà in futuro). Non era questo tuttavia l’intento di regista e sceneggiatori che hanno preferito puntare i riflettori sul teatro che è vita e sulla vita che è teatro, sul rapporto più palpabile e difficile attore teatrale/pubblico, così come padre/figlio, sullo spettacolo che continua mai uguale a sé stesso e va avanti nonostante tutto, nonostante “u scuornu” che una famiglia di teatranti come quella di Scarpetta non sa cos’è.

Felice Sciosciammocca diletta il suo pubblico. Fonte: labiennale.org

Giullare nato

«Volevo essere il re delle feste» afferma un Servillo da dolce vita ne La grande bellezza. Edonista nato, ma decisamente meno malinconico è anche l’Eduardo Scarpetta di Qui rido io, incapace di prendere sul serio persino un processo, farsesco e arrogante, prepotente persino coi suoi figli , non meno diverso per certi aspetti dal Berlusconi mondano di Loro. Insomma Servillo si rivela ancora una volta adatto a vestire i panni di personalità eccentriche e discutibili, ma c’è qualcosa in questo Scarpetta che ce lo fa amare – nonostante tutto- più degli altri personaggi ed è quella napoletanità che ha nel sangue e in questo film può far sprizzare da tutti i pori. Mentre parla con una cadenza partenopea pronunciata, mentre gesticola anche fuori dal palco, Servillo si sente a casa e si vede!

Scarpetta e Servillo a confronto. Fonte: notizie.it

Un film per tutti?

Bisogna essere amanti di Napoli, del suo teatro, dei suoi colori e della sua storia, della sua musica che suona anche nel dialetto, per apprezzare davvero il film di Martone. Bisogna conoscere una grande commedia come Miseria e nobiltà, i De Filippo e la loro storia paradossale: loro non riconoscuti dal padre – a differenza di quanto avviene nella finzione per il piccolo Peppiniello – diverranno per assurdo i figli più famosi del grande Scarpetta, segnando profondamente teatro e cinema del XX secolo.

Bisogna collegare tutti questi fili della matassa per sentire i brividi sulla pelle quando il piccolo Eduardo indicando il palco a un indisciplinato Peppino dice: «a libertà nostra sta là!». E forse tanti giovani purtroppo non conoscono questi personaggi, la loro storia, sono digiuni di teatro. O forse non serve: magari guardando il film, possono avvicinarsi a questo mondo perchè – ad ogni modo – anche i giovani sanno cos’è la vita e il teatro, in fondo, è la stessa cosa.

Angelica Rocca

 

 

Venezia 2021: il festival delle novità

1 settembre 2021: si apre uno dei festival del cinema più attesi: stiamo parlando della Mostra del cinema di Venezia! Ciò che rende questa premiazione così affascinante è prima di tutto la location: ogni anno possiamo ammirare le star che arrivano in barca al lido di Venezia- con scintillanti abiti firmati dai più grandi stilisti – portando con sé le grandi novità del cinema italiano ed internazionale. Anche questo festival, come altri, ha simboleggiato la rinascita del cinema e dello spettacolo, così fortemente danneggiato dalla pandemia.

Ma ora non dilunghiamoci oltre: andiamo a scoprire quali sono le grandi pellicole presentate e premiate alla mostra del cinema di Venezia 2021.

Film e attori premiati

Questo festival ha visto splendere prima di tutto nuovi talenti emergenti, in diversi settori. Grande rivelazione è stata senza dubbio il francese L’evenement di Audrey Diwan, Leone d’oro al miglior film, che tratta il tema dell’aborto, il cui diritto, anche se fondamentale , non è ancora tutelato al 100% in molti Stati, anche quelli più industrializzati e tecnologicamente avanzati come gli USA. La pellicola è tratta dal romanzo omonimo di Annie Ernaux.

Audrey Diwan con il suo Leone d’oro; fonte: globalist.it

Per un festival tutto in rosa, vediamo altre due donne premiate con il Leone d’argento per la miglior regia e il Premio Osella per la miglior sceneggiatura: si tratta di Jane Champion per Il potere del cane (premio inaspettato in quanto il film non era stato molto apprezzato) e Maggie Gyllenhaal,  sorella del noto attore americano Jake Gyllenhaal, per The lost daughter, il suo primo lavoro da regista e sceneggiatrice.

Maggie Gyllenhaal con il suo premio Osella; fonte: sugarpulp.it

Infine immancabile è naturalmente la coppia Sorrentino – Servillo, presente quest’anno con E’ stata la mano di Dio.  Il film, premiato con il Leone d’argento gran premio dalla giuria, ha tra l’altro fatto emergere un nuovo talento: il giovane attore Filippo Scotti, insignito del  premio Marcello Mastroianni.

Leone d’oro alla carriera

Durante quest’edizione del festival, hanno poi ricevuto il Leone d’oro alla carriera due importanti figure del cinema internazionale: Roberto Benigni e  Jamie Lee Curtis.

 Il premio non posso dedicarlo alla persona che imparadisce la mia mente – come dice Dante-  alla mia attrice prediletta Nicoletta Braschi: questo premio è suo, per cui sarai tu a dedicarlo. Abbiamo fatto tutto insieme per 40 anni, io conosco solo un modo per misurare il tempo, con o senza di te. Ce lo dividiamo questo Leone, io mi prendo la coda e a te lascio le ali. Se qualcosa di buono ho fatto è grazie alla tua luce.

Con queste poche parole, il noto attore Roberto Benigni è riuscito a far emozionare non solo tutti i presenti ma l’Italia intera, mostrando un amore sincero e profondo nei confronti di Nicoletta Braschi, moglie e compagna nella vita e nel lavoro.

Roberto Benigni con il leone d’oro alla carriera; fonte: Veneziatoday.it

Altrettanto commovente il discorso pronunciato dall’attrice Jamie Lee Curtis, nota per la sua performance nella saga di Halloween e in famosissime commedie quali Una poltrona per due e Un pesce di nome Wanda. La Curtis è da sempre stata molto impegnata socialmente per la difesa dei diritti della comunità LGBTQIA+ e delle vittime di violenza; infatti, è proprio a loro che dedica questo suo prestigioso premio. Un ringraziamento speciale è andato anche ai genitori, gli attori Tony Curtis (interprete indimenticabile di tante commedie hollywoodiane anni ’50) e Janet Leigh (nota per il suo ruolo nel film Psyco), che le hanno permesso di essere a sua volta una brava madre sempre vicina ai propri figli.

Jamie Lee Curtis con il suo leone d’oro; fonte: Luxgallery.it

La nuova coppia del momento

Tante sono state le coppie di attori, attrici e registi che hanno sfilato sul red carpet di questo festival, ma una in particolar modo ha attirato l’attenzione di tutti: stiamo parlando di Ben Affleck e Jennifer Lopez. I due erano già stati insieme in passato: dopo una relazione terminata bruscamente nel 2004, si erano allontanati per poi riavvicinarsi quest’estate. Il bacio sul red carpet di Venezia ha reso ufficialmente nota la “reunion”.

Ben Affleck e Jennifer Lopez sul red carpet; fonte: corriere.it

Un festival diverso e speciale

La mostra del cinema di Venezia di quest’anno è stata senza dubbio una premiazione un po’ diversa: anche se, da un lato, sono state mantenute delle specifiche linee anti- Covid19 , dall’altro è emersa un’ energica ripartenza del cinema accompagnata da una ventata di novità. Protagonisti della premiazione sono stati registi, attori e attrici emergenti che preannunciano una grande rinascita del settore cinematografico nell’era post- pandemica.

Ilaria Denaro

Se cadono le montagne: un reportage a fumetti di Zerocalcare

 

Zerocalcare torna con il suo stile unico a raccontarci del suo viaggio nel nord dell’Iraq con incredibile sensibilità – Voto UVM:  5/5

 

Sulla copertina della recentissima uscita del settimanale Internazionale troviamo un disegno di Michele Rech in arte Zerocalcare, un assaggio del reportage a fumetti di 34 pagine, Etichette, che la rivista custodisce al suo interno. Ad accompagnare l’illustrazione in copertina c’è una frase: «Se cadono le montagne» e il sottotitolo Un reportage dal nord dell’Iraq, tra i curdi che vivono nel campo di Makhmour.

Il reportage è facilmente reperibile in edicola o con qualche click online sul sito del settimanale Internazionale; sempre online, sui social, si trova il racconto di  Zero circa la scelta di Alberto Madrigal per occuparsi della colorazione dell’illustrazione  in copertina e delle mezzetinte acquerellate all’interno del fumetto .

Zerocalcare, Con il cuore a Kobane; Internazionale. Fonte: ilbibliomane.wordpress.com

Se cadono le montagne?

Zerocalcare non è nuovo alla vicenda curda. Ci racconta infatti del suo viaggio tra il deserto e le montagne del Kurdistan qualche anno dopo l’uscita di Kobane Calling, un reportage a fumetti del viaggio di Michele in Turchia, Iraq e Siria in supporto ai combattenti curdi, un itinerario per comprendere le storie di un popolo in guerra per il proprio diritto ad esistere.

Ed è nell’introduzione del 2020 a Kobane Calling che ci scrive di un detto curdo che recita:

I curdi hanno un solo amico, le montagne.

In effetti nell’immaginario comune le montagne veicolano un significato di protezione e sicurezza. Il freddo e distaccato fascino del monte Fuji ne La grande onda di Kanagawa, qualcosa che è impossibile cada. E allora sembra che in gioco ci sia qualcosa di vitale, così la frase che leggiamo sulla copertina di Internazionale risuona in modo più decisivo e solenne, questa volta come una domanda: e se cadono le montagne?

La grande onda di Kanagawa, famosissima xilografia di Hokusai. Fonte: dueminutidiarte.com

Risposte                                    

La risposta la troviamo all’interno del fumetto: Se cadono le montagne cade tutto. Lapidaria, inscritta su uno sfondo malinconico, si vede una ragazza che siede su una roccia e regge un’arma mentre osserva i compagni che armi in spalla marciano tra le montagne.

Seguendo i dialoghi e le persone che Zerocalcare incontra nel viaggio verso il campo profughi di Makhmour, ci accorgiamo infatti che le montagne dei curdi non sono le montagne delle mappe o del nostro immaginario. Le montagne appiattite delle cartine. Sono le montagne del Pkk, dove si trovano i guerrieri curdi, considerati terroristi dai Turchi, le montagne del confederalismo democratico, le montagne da cui può arrivare l’aiuto.

Ci accorgiamo sfogliando che qualcosa non va nel nostro immaginario, che forse ci sono in gioco dinamiche più complesse a cui forse non abbiamo prestato ascolto. Dinamiche che è difficile districare e comprendere senza affidarsi ad etichette che altri hanno scelto per noi. E leggiamo ancora tra i disegni: “Le storie di guerra sono anche questo, portano con sé cose che non ci piace sentire, che ci fanno fare i conti con la realtà e la coscienza e con quello che siamo disposti ad accettare. Sono più complesse delle favole.”

 

“Se cadono le montagne”, Zerocalcare. Fonte: dalla rivista Internazionale.

Conclusioni

La complessità caratterizza le storie che Zero ci racconta con qualche battuta per alleggerire il carico emotivo.

Se cadono le montagne è una riflessione sulla complessità delle storie, 34 pagine ben riuscite che ci invitano all’ascolto e a superare i confini del – per dirla come farebbe Zero –  “così ho sentito di’ “, contro ogni riduzionismo o semplificazione. Un invito a disegni ad immaginare più da vicino i volti e i contesti, come quello dei campi profughi. Un aiuto a toccare con mano la realtà di chi abita quei luoghi e un modo per provare a prestare ascolto a voci che narrano storie diverse da quelle che siamo abituati a sentire, fuor da “etichette”.

Martina Violante

4 serie tv che raccontano il sapore dell’amicizia vera

Oggi si celebra la giornata mondiale dell’amicizia, istituita dall’Onu nel 2011 per promuovere la fratellanza e il dialogo tra i popoli e per riconoscere l’uguaglianza nella diversità.

Tralasciando le ragioni e le finalità che hanno fatto nascere questa ricorrenza, vogliamo invece accompagnarvi in un viaggio originale tra le grandi amicizie di 4 famose serie tv degli ultimi 20-30 anni e, dato che amicizia è sinonimo di grandi bevute in un pub, su una spiaggia o spaparanzati sul divano, assoceremo ognuna di esse ad un drink.

Dolce amaro come l’adolescenza: The O.C.

Teen drama cult anni 2000, ideato da Josh Schwartz che intreccia le vicende del giovane diciassettenne Ryan Atwood (Benjamin Mckenzie) con quelle della ricca famiglia Cohen che lo adotta e di tutto il “jet set” di Orange County (da qui il nome della serie “The O.C.”), tra magnati paperoni e speculatori di borsa.

Quello su cui ci soffermeremo è il rapporto tra Ryan e Seth Cohen (Adam Brody), suo coetaneo e fratello adottivo. I due provengono da mondi totalmente diversi.

Ryan è il tipico bello e maledetto cresciuto in una famiglia di avanzi di galera ed alcolizzati, pronto ad alzare il pugno non appena qualcuno si trovi emarginato o bullizzato.  Da ragazzo proveniente da un contesto marginale,  non rimane indifferente davanti a chi viene messo con le spalle al muro dai prepotenti e si troverà a proteggere un Seth troppo rachitico e logorroico che non si è mai amalgamato al background di una Newport piena di adolescenti solo muscoli, festini e pallanuoto.

Non solo il giovane tutto fumetti ed ironia, ma anche il ragazzo proveniente dalla periferia di Chino avrà bisogno di una spalla per farsi accettare in un ambiente di figli di papà e di party nelle ville con piscine; questa spalla sarà proprio il giovane Cohen, che con il suo sarcasmo cercherà di smorzare la tensione delle situazioni più imbarazzanti o pericolose in cui viene coinvolto il giovane Atwood.

I protagonisti di The O.C. e il drink 4 Bianchi alla fragola

Fa da cornice al legame tra Seth e Ryan quello tra Marissa Cooper (Mischa Barton) e Summer Roberts (Rachel Bilson): fragile, altruista e a tratti ingenua la prima, intraprendente, perspicace e a volte superba la seconda. Amiche dall’infanzia in quel di Orange County, insieme ai due boys formeranno  “i fantastici 4” , sempre pronti ad affiancarsi l’uno all’altro.

Dolce amaro come la vita di Ryan e degli altri, può essere un 4 Bianchi alla fragola, un mix di 4 liquori secchi base vodka, rum, gin, tequila, addolcito con sciroppo alla fragola.

Deciso e aromatico: The Big Bang Theory

Se volete godervi un’amicizia in grado di andare oltre le apparenze e i luoghi comuni, The Big Bang Theory è la sitcom che fa per voi!

Ideata da Chuck Lorre e Bill Prady, segue le vicende di quattro amici nerd e geek: il fastidioso quanto intelligente Sheldon Cooper (Jim Parsons), l’insicuro Leonard (Johnny Galecki), il sottovalutato Howard (Simon Helberg) e il timido Raji (Kunal Nayyar).

I quattro scienziati, con l’arrivo della vivace Penny (Kaley Cuoco), dall’essere dei socialmente inetti, impareranno a vivere nel “mondo reale”, che è ben diverso da quello che immaginavano. La nuova vicina, invece, imparerà prima a rispettare e poi ad apprezzare le piacevoli serate trascorse sul divano di Sheldon e Leonard tra videogames, fumetti, serie tv e l’immancabile cibo take away.

Il loro indissolubile legame di amicizia, infatti, nasce e cresce mentre si discutono teorie fisiche e si condividono involtini primavera, noodles e bocconcini di pollo fritto anche con tutti gli altri personaggi che, nel corso delle puntate, diverranno nuovi amici. Tra questi la pacata – attenzione a farla arrabbiare però – Bernadette (Melissa Rauch) e Amy (Mayim Bialik), versione al femminile – almeno inizialmente – di Sheldon.

I personaggi di The Big Bang Theory sul divano e il cocktail Mai Tai

E noi, se fossimo invitate alla loro cena di lunedì prossimo che, come prevede la “regola del lunedì” di Sheldon, sarà a base di cibo thai con pollo o di cibo cinese , prepareremmo un saporito Mai Tai: un cocktail dal sapore deciso, asciutto e aromatico, ideale per accompagnare una piacevole serata estiva in compagnia di coloro che, sebbene non c’entrino nulla con noi, colorano la nostra vita. Un po’ come fa il rum scuro shakerato con quello chiaro.

Sicuro e spumeggiante: How I Met Your Mother

Se si parla di amici non possono sfuggire a chi è nato negli anni ’90/ 2000 le vicende dei 5 stravaccati al solito sedile del Mac Laren’s Pub in quel di New York.

Al racconto di Ted Mosby (Josh Radnor) ai suoi figli su come ha conosciuto la loro madre, fanno da sfondo le vite di Marshall (Jason Segel), Robin (Cobie Smulders), Lily (Alyson Hannigan) e Barney (Neil Patrick Harris).  

Un’amicizia sancita dal “The Bro Code”, manuale venuto fuori dalla fantasia di quel “genio e sregolatezza” di Barney Stinson, su cui i suoi amici prestano giuramento in un famoso episodio.

I Protagonisti di How I Met Your Mother e la classica birra da Pub

Non sempre la vita dei nostri 5 protagonisti procede a gonfie vele – come del resto è quello che accade a tutti noi nella realtà. Spesso sono costretti a cedere agli eventi abbassando il target delle loro ambizioni, oppure sono imbrigliati in relazioni sentimentali che possono essere tossiche o fugaci, ma il legame che si crea tra di loro rimane una costante.

Ognuno diviene il porto sicuro dell’altro tanto che non riusciamo ad immaginarci uno solo di questi staccato dalla sua gang o che passi per loro un venerdì senza bere birra o mangiando patatine, noccioline e jalapenos al MacLaren’s Pub.

L’equilibrio dei diversi: Friends

E per finire Friends: la serie tv sull’amicizia per eccellenza e d’eccellenza, perché in Friends l’amicizia raccontata è quella autentica, anche se imperfetta, cui tutti dovremmo aspirare.

La serie, creata da David Crane e Marta Kauffman, narra le vicissitudini di un gruppo di sei amici trentenni newyorchesi: l’indipendente Rachel (Jennifer Aniston), la competitiva e ossessiva Monica (Courteney Cox), l’imbranato Ross (David Schwimmer), il donnaiolo e spesso ottuso Joey (Matt LeBlanc), il sarcastico ma composto Chandler (Matthew Perry) e l’eccentrica Phoebe (Lisa Kudrow).

I sei amici affronteranno insieme la vita quotidiana (a volte paradossale), s’innamoreranno e si lasceranno, creeranno disastri (con esiti spesso tragicomici) ma li risolveranno tra una battuta, uno scherzo e un caffè al Central Park. Come dice l’indimenticabile sigla iniziale: I’ll be there for you, sanno di non poter fare a meno l’uno dell’altro e di poter sempre contare sul loro rapporto.

Il segreto della loro amicizia incondizionata è quello di aver imparato a equilibrare le diversità, perché sono un po’ come un buon Coffee spritz: un perfetto equilibrio tra sapori inaspettati che lasciano un piacevole retrogusto al caffè.

E il caffè è il settimo protagonista della sitcom, il cui titolo originale era Insomnia Cafe, in omaggio a un bar realmente esistente a West Hollywood nel cui menù, secondo noi, starebbe benissimo questo drink.

Se Friends avesse mantenuto il nome originario “Insomnia Cafe”, avrebbe avuto lo stesso successo? Due amanti del caffè come noi hanno una loro opinione…

I 6 di Friends e il coffee spritz

Benché l’amicizia non si possa imparare e insegnare attraverso la tv, queste sitcom ci hanno mostrato gli innumerevoli volti che l’amicizia può assumere e ci hanno lasciato degli insegnamenti che non dimenticheremo neanche dopo un buon aperitivo – o anche due-  in compagnia di un amico fidato.

E se per noi l’amicizia è anche dire: «Ti proteggerò sempre, come proteggo i cocktail in discoteca», per voi cos’è?

                                            Angelica Terranova e Ilenia Rocca

Marvel: Croce e Delizia

Il mese di luglio è stato il punto di svolta di questa nuova fase del MCU (Marvel Cinematic Universe) grazie alla conclusione della serie su Loki e del tanto atteso film sulla Vedova Nera.

Loki

La terza serie su Disney+ risulta essere inaspettatamente la più impattante sul nuovo corso narrativo della Fase 4, ma anche quella che vanta una qualità di scrittura maggiore.

Locandina della serie. Fonte: LaPresse

Gli eventi della serie partono dalla fuga di Loki durante Avengers Endgame (2019) avvenuta grazie ad una Gemma dell’Infinito – che portano il protagonista (interpretato da un Tom Hiddleston in grande spolvero) ad arrivare in un pianeta sperduto nel quale verrà arrestato dalla TVA (Time Variance Authority) e condotto nel loro quartier generale.

Qui arrivato, Loki scopre di essere una “variante”, ossia una versione di sé stesso che non è andata incontro alla sorte che il destino gli aveva serbato.

La serie si rivela dunque il fulcro dal quale si dirameranno i futuri di tutti i personaggi dell’universo cinematografico della Casa delle Idee, che delinea e prospetta un imminente multiverso.

Le parti migliori risultano essere i dialoghi, scritti in maniera impeccabile e mai stucchevole o noiosa e che fanno capire in maniera chiara allo spettatore i background di ogni singolo personaggio.

Brillano anche i costumi e tutte le citazioni ai lettori delle varie controparti cartacee.

In conclusione, Loki è una serie fresca e scorrevole, ma di impatto, quella che più di tutte le altre dà l’impressione allo spettatore di leggere un fumetto: sembra proprio che la Disney non abbia intenzione di sbagliarne una!

Black Widow

Totalmente all’opposto qualitativamente parlando è il film incentrato su Natasha Romanoff.

Locandina del film. Fonte: Comics Universe

La pellicola narra gli eventi vissuti dalla Vedova Nera (Scarlett Johansson) nel periodo che intercorre tra Civil War e Avengers Infinity War.

Una Natasha in fuga (in quanto ha violato i trattati di Sokovia essendosi schierata dalla parte di Capitan America) riceve una lettera dalla propria sorella adottiva (anch’essa vedova nera), la quale, una volta incontrata, le chiede aiuto per liberare tutte le altre vedove nere ancora prigioniere della Stanza Rossa.

Il film vuole essere uno spy-movie dai toni un pò più canzonatori e leggeri rispetto ad un Capitan America: The Winter Soldier (2014), riuscendo ad esserne solo una brutta copia in tutti gli aspetti. Cerca di spremere tutto ciò che è rimasto da spremere, da un personaggio che non aveva più niente da dire già in Avengers Endgame.

Dialoghi vuoti e privi di mordente, coreografie dei combattimenti deboli e non spettacolarizzate quanto dovrebbero – tranne in rarissimi casi – e una trama scialba che non aggiunge letteralmente nulla alla visione di insieme del MCU se non per la scena post credit.

Tirando le somme, Balck Widow non è un film pretenzioso ma riesce a far male anche quelle cose in cui dovrebbe brillare un po’ di più, un tributo finale assai amaro ad un personaggio che ha accompagnato i fan dell’universo cinematografico Marvel sin dagli inizi.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               Giuseppe Catanzaro

Il genio della comicità

La comicità nel corso dei secoli ha assunto molteplici forme, ma da quella più spicciola a quella magari più ricercata, è sempre comunque capace di risollevare gli animi di ciascun individuo.

Uno dei suoi maestri e massimi esponenti, che ha creato uno stile che lo contraddistingue, è sicuramente Mel Brooks. In suo onore, noi di UniVersoMe andremo ad analizzare tre dei suoi film più divertenti.

Mel Brooks. Fonte: ilquotidiano.net

Frankenstein Junior (1974)

La parodia dei film horror per eccellenza. Con questa pellicola il regista ha voluto creare una sorta di “sequel parodistico” dell’originale Frankenstein di Mary Shelley.

Mel Brooks ha scelto di utilizzare le stesse locations ed i medesimi arnesi presenti negli storici film Frankenstein (1931) di James Whale ed Il figlio di Frankenstein (1939) di Rowland V. Lee, decidendo inoltre di girare il film interamente in bianco e nero così da ricrearne un’atmosfera dettagliatamente identica, in cui però raccontare la storia in chiave comica.

Le ambientazioni cupe, infatti, ci calano all’interno di quello che sembrerebbe essere un horror vecchio stile in piena regola, ma i dialoghi e le performances degli attori trasformano la pellicola in un gotico spettacolo che trasuda ironia da ogni poro.

Igor (Marty Feldman) ed il dottor Frederick von Frankenstein (Gene Wilder) – Fonte: medicinaonline.co

Gene Wilder nei panni del dottor Frederick von Frankenstein e Marty Feldman in quelli dell’aiutante Igor risultano fondamentali per la riuscita del progetto.

Wilder probabilmente è riuscito a mettere a segno la miglior interpretazione della sua carriera. Calatosi profondamente nella parte, dà vita ad un giovane dottore che inizialmente rinnega le sue radici, per poi seguire meticolosamente le orme del suo antenato e riuscire nell’impossibile; il tutto è condito da sguardi fulminanti e battute pronunciate seguendo una perfetta armonia nata grazie alla chimica instauratasi con un monumentale Marty Feldman.

Igor è ciò che resta indelebilmente impresso nella mente di chi guarda Frankenstein Junior. L’attore ha sfruttato a pieno ed in maniera estremamente intelligente alcune sue caratteristiche fisiche capaci di arricchire straordinariamente il personaggio. Le enormi palle degli occhi da un punto di vista macroscopico catturano l’attenzione dello spettatore; muovendole sapientemente e accompagnandole con delle microespressioni facciali, l’attore riesce ad interloquire con il proprio partner, creando costantemente un clima di assurdità anche nelle piccole cose e facendoci ridere a crepapelle. Per non parlare poi della gobba, che in alcune scene tende verso destra mentre in altre dalla parte opposta (ciò venne improvvisato dallo stesso Feldman ed approvato immediatamente dal regista).

La pazza storia del mondo (1981)

Il film descrive alcune tra le più significative epoche della storia dell’uomo in chiave profondamente parodistica.

La pellicola, a differenza di Frankenstein Junior ,venne disprezzata dalla critica, la quale rimproverò a Brooks di aver creato storie superficiali segnate da una scarsa comicità, basata esclusivamente sulla volgarità.

Tuttavia le ambientazioni vengono riprodotte fedelmente ed i dialoghi, seppur non allo stesso livello dei precedenti lavori del regista, presentano comunque una struttura ben solida anche se non risultano essere esilaranti.

Lo sketch dell’Inquisizione spagnola, dove Torquemada (interpretato da Mel Brooks stesso) si esibisce in un piccolo musical, è degno di essere considerato agli stessi livelli di uno spettacolo di Broadway.

Dracula morto e contento (1995)

Dopo Frankenstein, Mel Brooks decide di revisionare anche la storia del conte Dracula, in quello che è l’ultimo film della sua carriera cinematografica. Il risultato non è lontanamente paragonabile a quello del film del 1974, ma l’impronta del regista è tangibile per tutta la durata della pellicola.

Leslie Nielsen in una scena del film – Fonte: cultfollowingmedia.wordpress.com

Dialoghi ben scritti capaci di coinvolgere lo spettatore e di suscitare ilarità, gag esilaranti poste in essere soprattutto da un impacciato Dracula (interpretato egregiamente da Leslie Nielsen) ed ancora una volta l’impeccabile scenografia fanno da cornice ad un film tutto sommato divertente.

Da segnalare anche la presenza di Ezio Greggio all’interno del cast (in pochi sanno che ha avuto dei trascorsi ad Hollywood ed era un grande amico di Mel Brooks)

Non solo Frankenstein …

Film di Mel Brooks precedenti a Frankenstein Junior come: Per favore non toccate le vecchiette (pellicola del 1968 con la quale vinse anche un Oscar per la miglior sceneggiatura originale), Il mistero delle dodici sedie (1970) e Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974) furono un successo sia a livello di pubblico che di critica.

Con Frankenstein il regista ha raggiunto il suo apice, per poi percorrere una parabola discendente con i film successivi. In realtà il pubblico è sempre rimasto legatissimo al regista, considerato un vero e proprio pioniere della comicità e, nonostante i pareri estremamente negativi – forse anche eccessividella critica nella seconda parte della sua carriera, ha continuato ad amarlo e a ridere con lui.

Qualche tempo fa venne organizzata una serata in onore di Mel Brooks, con l’esibizione di diversi attori che misero in scena alcuni dei suoi sketch più famosi. Al termine dell’esibizione, avvenne una lunghissima standing ovation per il regista e si alzò in piedi persino l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama.

Vincenzo Barbera