Nella penna di Ariete

Ognuno di noi vive con la speranza di poter realizzare i propri progetti e c’è chi dice che siano sempre i sogni a mantenere viva la realtà.

Il successo di Ariete, cantante di punta dell’etichetta Bomba Dischi, conferma in qualche modo che ce l’ha fatta ed è riuscita a raggiungere la vita che desiderava da quando aveva solo otto anni e la musica era solamente un piccolo pensiero.

Poi inaspettatamente la scalata:  dalle audizioni di X Factor al successo ottenuto con il brano L’Ultima Notte che diventa protagonista anche della Serie Tv SummerTime, fino ai diversi successi post-estate.

In cima, ma partita dalla strada, dopo l’esordio con due album nel 2020 ( 18 anni e Spazio) e diverse collaborazioni musicali con vari autori, Ariete ci ha resi partecipi e a tratti anche protagonisti della lente con cui vede il mondo, le relazioni e il quotidiano.

Arianna del Ghiaccio, in arte Ariete. Fonte: billboard.it

Due brani per conoscere Ariete

1) L

L è l’ultimo brano di Ariete uscito un mese fa e disponibile su tutte le piattaforme musicali. Dopo il grande successo della hit estiva L’ultima notte, l’artista romana ritorna con un nuovo singolo dal sound e dal testo nostalgico, che ci fanno addentrare in una relazione d’amore terminata.

Le confessioni di Ariete sono molto chiare e mostrano tutta la fragilità di chi sente il cuore tagliarsi in due, lacerarsi, dopo una rottura non premeditata.

“Mi hai fatto credere di essere speciale per un giorno
Per un nanosecondo
Poi mi hai sparato un colpo”

Ariete non si nasconde, ma decide di aprire il brano nel migliore dei modi: sputando inchiostro e parole su carta, quasi come se fossero mine vaganti che colpiscono immediatamente le orecchie di chi ascolta.

“Se non mi guardo indietro giuro che poi torna tutto apposto
Ma non ne faccio a meno, quindi mi giro e muoio”

Quando una storia d’amore finisce rimangono i messaggi, le foto nel rullino del telefono, i piccoli dettagli sparsi per casa, quel loop in testa interminabile fatto di esperienze consumate insieme a quella persona speciale.

Rimane tutto, rimane anche il profumo nel corridoio, qualche filo di capello sul cuscino, l’eco dei sorrisi, la corsa verso la porta e l’abbraccio di ogni giorno. Insomma, diciamocelo, non è sempre facile inghiottire l’amaro o camminare ben eretti con la schiena senza voltarsi indietro e sperare in un ritorno.

Dal profilo instagram di @iosonoariete

Ancora una volta la musica di Ariete fa breccia nel raccontare l’amore tormentato di chi è disposto a morire in uno sguardo pur di sperarci ancora. È lo stesso amore di chi credendoci, vuol rischiare qualsiasi cosa per rivivere ancora quella sensazione, per mettere insieme i pezzi.

È questo quello che succede quando la musica riesce a raccontare qualcosa che ti appartiene: ti senti immersa in un fiume di parole e di annegare in domande troppo scomode a cui non vorresti mai dare una risposta definitiva.

“Quanto ho detto “Non lo faccio più, non ricado giù”
“Se non mi vuoi io non ti voglio”
E quanto ho detto “Non lo faccio più” e poi ci casco sempre”

In inglese di dice overthink e si traduce in pensiero eccessivo.

Spesso per sfuggire da queste ossessioni, ci si racconta delle piccole bugie. Ma, come un bambino durante i suoi primi passi, anche noi rischiamo spesso di cascare e di non riuscire a scorgere se non da molto lontano il punto previsto.

“Sei così lontana che non so nemmeno se ti ho persa”

Logo della cantante. Fonte: vinileshop.it

3) L’ultima notte

Se un giorno svegliandoti, per qualche strano evento, qualcuno dovesse riferirti che quella sarà l’ultima notte, sai già con chi la passeresti?

Sono sicura che ad ognuno di voi lettori sarà sorta una nuvoletta proprio sopra la testa, contenente il nome di una persona.
Ariete invece, ci ha scritto una canzone, intitolata appunto L’ultima notte e pensata in uno scenario molto comune: il mare.

“Non m′importa di niente, io l’ultima notte la passo con te, prendi da bere e portami dove vanno le stelle”

Questa canzone, oltre ad essere un brillante tormentone estivo, scelto anche da Cornetto Algida 2021 nel suo spot pubblicitario, è stata la colonna sonora della serie tv Summertime. Insomma, davvero un bel salto, che ha reso la giovanissima Ariete ancora più conosciuta.

Tra i giovani e non solo, il periodo estivo è il momento più atteso per aprirsi alle novità. È come una sorta di isola felice, fatta di cocktail, amici, serate, mare e nuove conoscenze. Sarà forse l’atmosfera, la voglia di vivere il qui ed ora, che ci fa provare ogni anno quel senso di pienezza e di estrema libertà. Spesso però, la magia che si prova dura il tempo di un solo attimo e rimane una chitarra e quattro note da consumare.

“E sparirà la sabbia si lascerà trascinare dal vento. È vuota quella piazza ricordo quando ci stavamo in cento”

Dalla videoclip di “L’ultima notte”. Fonte: youtube

Nel pop sound della sua camera

Si dice spesso che la musica abbia il potere di mantenere vivo un ricordo o una sensazione. E che spesso, i brani possano rievocare le stesse emozioni anche dopo mesi o anni. È come se ogni testo racchiuda un cassetto di immagini, un rullino di continui flash.

Concludo l’articolo con un breve passo di un’intervista rilasciata dall’artista su Le Rane.

“Quale pensi debba essere il ruolo della musica nella vita di una persona?
– Penso sia soggettivo. Senza io non vivrei, amo farla, viverla e ascoltarla, ma conosco anche gente che non ne ascolta e non è interessata. Per tanti è una valvola di sfogo, un luogo sicuro, ma ognuno la viva come vuole!”

Annina Monteleone

 

 

Ultima notte a Soho: quando il sogno diventa incubo

Thriller coinvolgente e denso di suspense con grande attenzione a musiche e ad effetti speciali – Voto UVM: 5/5

 

Vi è mai capitato di desiderare intensamente qualcosa per poi rimanere delusi quando si avvera, di rendervi conto che non era effettivamente ciò che volevate? Molto spesso può succedere che noi stessi arriviamo ad ingannarci, a mistificare i nostri desideri a tal punto che non possono in alcun modo coincidere con la realtà.

Questo è un po’ il tema centrale di Ultima notte a Soho. Uscito nelle sale italiane il 4 Novembre, il thriller psicologico (a tratti horror) di Edgar Wright è stato presentato anche alla mostra del cinema di Venezia 2021.

Protagoniste  in questa pellicola sono Anya Taylor-Joy ( già nota per il  suo ruolo nella serie La regina degli scacchi) nei panni di Sandy, e Thomasin McKenzie ( la ragazzina ebrea di Jojo Rabbit) che interpreta Ellie. Ultima notte a Soho è stato inoltre l’ultimo film in cui hanno recitato Diane Rigg e Margaret Nolan, entrambe defunte nel 2020.

Tutto parte da un sogno

Sandy e Jack al loro primo incontro

Ellie Turner, giovane amante della moda e degli anni ’60,vive con la nonna in Cornovaglia (la madre si è suicidata quando lei era piccola), ma si trasferisce a Londra per studiare moda. Qui affitta una camera dall’anziana signora Collins, e dalla prima notte viene trasportata indietro nel tempo, nella Londra degli anni ’60. Qui è come se si identificasse con una giovane aspirante cantante, Sandy, di cui seguirà le vicende notte per notte.

Sandy, annebbiata dal desiderio di diventare una star, si fa ingannare dall’affascinante Jack, interpretato da Matt Smith (noto per il ruolo del Principe Filippo nella serie The crown).  Il sogno di Ellie di vivere gli anni ’60 si tramuta presto in un incubo: ogni notte è costretta a vivere con Sandy gli abusi di cui è vittima e a vedere tutti gli uomini con cui la giovane cantante è obbligata ad avere rapporti.

Ellie e Sandy: l’una il riflesso dell’altra

Sandy ed Ellie, riflessa nello specchio

Anche se Sandy non può vedere Ellie, tra le due si crea un legame particolare: è come se Ellie si immedesimasse completamente in lei, nel suo dolore.  Emblematica è a mio parere una scena in cui Ellie rompe lo specchio che per tutto il film la separa dalla realtà degli anni ’60 e da Sandy di cui è quasi il riflesso per  raggiungere quest’ultima e salvarla.

Inoltre per avvicinarsi ancora di più a lei, ne emula i vestiti, i capelli, ne trae ispirazione per gli abiti che crea nel suo corso di moda. Questo però solo in un primo momento: quando la vita di Sandy diventerà un susseguirsi di abusi, Ellie cercherà di distaccarsi, di rigettarla per quanto possibile.

Musica ed effetti speciali non troppo speciali

Ultima notte a Soho crea una totale atmosfera di suspense, che a mio parere è dovuta specialmente alla scelta della canzone Downtown: molto spesso nei thriller o negli horror, la musica soft, magari anche un po’ straniante, può creare più angoscia degli effetti speciali in sé (pensate all’innocente canzoncina per bambini in Profondo Rosso di Dario Argento). Downtown di Petula Clark è proprio il brano scelto da Sandy per un’audizione organizzata da Jack in un nightclub di Soho.

Non sono da meno gli effetti speciali, molto semplici: non assistiamo mai a scene splatter o comunque particolarmente violente. Originale a mio avviso è l’utilizzo dello specchio come linea che divide Ellie da Sandy durante i sogni: solamente quando lo romperà, le due realtà andranno come a fondersi nella vita di Ellie.

Ellie che rompe lo specchio per salvare Sandy

Il trauma dell’abuso

A creare molta suspense sono gli uomini sfigurati che compaiono lungo tutta la durata del film (anche qui effetti speciali molto semplici, ma sicuramente ben fatti e ben collocati).

Gli uomini che abusano di Sandy sono resi mostruosi, disumanizzati: è lei stessa che, per distaccarsi il più possibile dalla terribile realtà, cerca di ignorarli e di seppellire i suoi traumi.

Forse, pensandoci, questo film diverrà ancora più forte visto dagli occhi di una donna, che magari si può meglio immedesimare in Sandy e vedere in quelle figure non solo dei semplici mostri, ma lo spettro di un abuso.

Un thriller in piena regola

Ultima notte a Soho è una pellicola avvincente, che con le sue tecniche di sceneggiatura, i suoi effetti e le sue musiche coinvolge completamente il pubblico nella trama. Uno spettatore più attento potrà anche vedere ciò che si nasconde nel profondo dietro a questa storia: il sogno che nel realizzarsi si tramuta in incubo, sia per Ellie che per Sandy.

A questo punto non vi resta altro da fare che comprare un biglietto e godervelo al cinema!

Ilaria Denaro

 

Freaks out: esci dal tendone

 

Un film in cui l’arte circense infrange il timore della diversità. Voto UVM: 5/5

 

“Per te è facile, eh?! Perché sei normale! Noi senza circo siamo solo na banda di mostri!”

Venghino Signori venghino!  E’ approdato da poco sul grande schermo un film in cui i pregiudizi sulle differenze vengono abbattuti e il nazifascismo è dipinto come una grande barzelletta, il tutto accompagnato dall’arte circense: un mondo in cui l’immaginazione diventa realtà e quest’ultima prende le forme della favola.

“Signore e signori, l’immaginazione diventa realtà e niente è come sembra”

In concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2021, dove si è portato a casa l’ambito leoncino d’oro -assegnato dalla giuria dei giovani di Agiscuola-  Freaks Out è un film diverso rispetto a quelli che siamo abituati a vedere nel panorama del cinema Italiano. Un’opera in cui la fantasia e la magia prendono vita.

Dimenticatevi le classiche pellicole italiane perché Freaks Out è un film in cui colori e luci hanno una prospettiva diversa, sono più vivi; è un po’ come se i personaggi dei fratelli Grimm uscissero da un libro per camminare nella Roma della seconda guerra mondiale. Una “favola” bramata da tanti mesi, perché a causa del Covid, il film è stato posticipato di un anno.

I quattro freaks. Da sinistra a destra: Matilde (Aurora Giovinazzo), Mario (Giancarlo Martini), Fulvio (Claudio Santamaria), Cencio (Pietro Castellitto)

Storia suggestiva, in cui il termine “banale” non trova posto, Freaks Out segna il ritorno di Gabriele Mainetti, che già ci aveva incantato con “Lo chiamavano Jeeg Robot” (2016).

Molti critici hanno definito l’ultima pellicola del regista come uno dei suoi più grandi capolavori, un’opera da fare invidia al cinema hollywoodiano.

“A noi non ci separa nessuno, manco la guerra!”

Il film è ambientato nella Roma del ’43, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, in un tempo in cui il sorriso era scomparso. I protagonisti sono quattro circensi che lavorano nel circo dell’ebreo Israel ( Giorgio Tirabassi), un tendone diverso fra gli altri .

I protagonisti di Freaks Out sono dei fenomeni da baraccone, dei “mostri” per la società, adatti solo alla vita circense o forse troppo speciali per un mondo che si veste di pregiudizi e in cui la “normalità” viene vista come la vera “soluzione”.

I quattro freaks con Israel (Giorgio Tirabassi)

Matilde (Aurora Giovinazzo) è una ragazza di 15 anni  che produce elettricità ed è per lei una maledizione, perché chiunque la tocchi viene fulminato; Cencio (Pietro Castellitto) invece è un ragazzo albino capace di controllare tutti gli insetti, Fulvio (Claudio Santamaria), un “uomo bestia” affetto da ipertricosi, ma dotato di forza sovrumana e con un’intelligenza fuori dal comune. Per ultimo troviamo Mario (Giancarlo Martini), un nano con un lieve ritardo mentale, ma dal “corpo -calamita” , che riesce di sua spontanea volontà ad attrarre a sé tutti gli oggetti metallici. Dimenticavo di parlare di Israel, personaggio che non ha niente al di fuori dal comune, è “normale”, ma viene definito mostro in quanto ebreo.

Durante uno degli spettacoli dei freaks, le strade vengono bombardate, il circo distrutto e i cinque  sono costretti a scappare. Israel sogna di portare il suo circo in America, lontano dagli orrori che affliggano l’ Europa, ma Fulvio propone di andare a trovare lavoro presso il Berlin Zircus, un circo sontuoso, allestito dai nazisti e guidato da Franz (Franz Rogowski). Anche quest’ultimo è un “diverso”: è un pianista con sei dita, dotato di poteri di chiaroveggenza.

Freaks out: locandina promozionale

Mi fermo qui cari lettori, non voglio fare spoiler: dovrete correre al cinema per sapere cosa accadrà ai nostri freaks! Vi lascio però con una domanda o forse più di una … Cosa fa più paura? Il diverso? O degli ebrei picchiati e trasportati come bestie sui treni? Fanno più paura i freaks o l’omertà che non ha il coraggio di opporsi agli orrori umani?

                                                                                                     Alessia Orsa

Inside Job: i complottisti hanno ragione

Un esperimento originale con un unico difetto: la ricerca esasperata dell’approvazione del pubblico. Voto UVM: 4/5

Inside Job è la nuova serie animata per adulti targata Netflix. Shion Takeuchi (nome conosciuto già per altri lavori, come Gravity Falls e Regular Show) è la mente geniale che si nasconde dietro al progetto.

Disponibile sulla piattaforma statunitense dal 22 ottobre, la serie è composta da 10 episodi dalla durata di 25/30 minuti, che compongono la Prima Parte. Nel cast di doppiatori troviamo Lizzy Caplan (nel ruolo della protagonista Reagan Ridley), Clark Duke (che presta la voce al belloccio e poco furbo Brett Hand), Brett Gelman ( che interpreta Magic Myc, un fungo parlante, proveniente dalle profondità della terra) e tanti altri.

Lavorare per un’agenzia segreta non è facile

Immaginate di diventare il capo di un’agenzia segreta: la Cognito Inc., che controlla e insabbia qualsiasi cosa. Immaginate che questa agenzia sia controllata da un governo delle ombre, formato da illuminati incappucciati senza scrupoli. Questa è la vita di Reagan Ridley, una scienziata dall’intelligenza fuori dal normale, capace di creare le più strambe e originali invenzioni ma, allo stesso tempo, incapace di rapportarsi con gli altri.

Se pensate di poter trattare i collaboratori con sufficienza, se pensate di poter urlare in faccia la verità a una persona, non curandovi dei suoi sentimenti, allora vi meritate Brett Hand. «Cosa ?» vi starete chiedendo. «Cosa?» è anche quello che si chiede Reagan, appena scopre che, nel ruolo di capo della Cognito Inc. sarà affiancata da un mediocre uomo bianco (come lo definisce lei), belloccio e per niente furbo. La reazione dei suoi collaboratori, però, sarà totalmente diversa. Brett riuscirà a stringere amicizia con loro, risultando, da subito, simpatico. Tutto l’opposto di Reagan che, sebbene cerchi di comportarsi come un vero capo, è odiata da tutti.

Reagan e Brett (fonte buzzfeed.com)

Dieci episodi per rivalutare la realtà

Durante i dieci episodi della serie, Reagan, Brett e quattro collaboratori si imbatteranno in centomila situazioni differenti. Inside Job, infatti, presenta allo spettatore le più svariate teorie del complotto: un solo episodio è sufficiente per mettere in discussione la realtà. I rettiliani esistono (solo per fare alcuni esempi, Taylor Swift, Madonna, la Regina Elisabetta, Ellen DeGeneres sarebbero reptoidi), si nascondono tra di noi, sono personaggi famosi estremamente ricchi e influenti, finanziano il lavoro della Cognito Inc., affinché tenga nascosta la loro esistenza, e sono responsabili del riscaldamento globale. Non vi basta? Bene: lo sbarco sulla luna? Semplice green screen! Le scie chimiche? Esistono e servono per drogarci. Il presidente degli Stati Uniti? Facilmente sostituibile da un robot dall’aspetto identico, ma comandato da Reagan. Insomma, se basta poco per convincervi, è importante che prima di iniziare la serie sappiate che “è tutto finto”.

Oltre il complotto: altri temi

Inside Job rientra nell’orbita di quelle che sono serie animate iconiche di Netflix: BoJack Horseman, Final Space, Rick and Morty (qui una nostra recensione della quinta stagione) sono sicuramente degli esempi perfetti.

Il tema centrale dell’opera è sicuramente quello del complotto, ma questo non è il solo. La serie è capace di affrontare anche altri topic che riguardano la vita privata della protagonista. Da un lato il padre, ex dirigente della Cognito Inc., ha preferito costruire un orso robot per abbracciarla al posto suo e adesso cerca di attirare l’attenzione della figlia, facendola finire nei guai; dall’altro la madre colpisce spesso la ragazza nei suoi punti più deboli. Insomma Reagan non ha avuto vita facile: a scuola veniva emarginata dagli altri bambini, è figlia di due cattivi genitori da cui non ha mai ricevuto un abbraccio e crescendo porterà con sé questi traumi.

Sarà grazie all’aiuto di Brett e della sua squadra (un fungo parlante con poteri telepatici, un dottore drogato, una manager a capo del reparto Manipolazione dei media e messaggi subliminali e un veterano, mezzo uomo e mezzo squalo) che la scienziata riuscirà a crescere e guarire.

Reagan, il padre e l’orso robot

Tra originalità e mainstream

Inside Job è una serie animata che cerca di soddisfare i gusti del pubblico. Solo i più esperti conoscitori di meme riusciranno a cogliere le moltissime citazioni presenti nei dieci episodi. Probabilmente è questo l’aspetto negativo della serie: la continua ricerca dell’audience, vuoi attraverso battute volgari (in una serie per adulti è normale, ma qui sono decisamente troppe), vuoi attraverso continui riferimenti o citazioni alla pop culture, alla cultura del web, finisce col rendere gli episodi troppo carichi, troppo frettolosi.

Nonostante questo, però, la serie risulta molto originale. Riesce, attraverso la satira, a prendere in giro tutti coloro che credono alle più assurde teorie (ciò risulterà evidente in uno specifico episodio).  In attesa della seconda parte, non resta che consigliarvene la visione… prima che i rettiliani prendano il controllo del pianeta!

Beatrice Galati

Rick e Morty: il ritorno della delirante fantascienza Netflix

La quinta stagione di “Rick e Morty” si conferma una storia carica di risate e sempre capace di coinvolgere – Voto UVM: 4/5

Rick e Morty torna in scena a gamba tesa. La folle serie animata di Adult Swim (nata come parodia di Ritorno al futuro) con protagonisti lo “scienziato pazzo” Rick e suo nipote, l’insicuro Morty, dopo una lunga attesa è tornata su Netflix. Insieme ai due protagonisti rivediamo sul piccolo schermo anche le avventure di tutta la famiglia Smith che, anche questa volta, dovrà avere a che fare con le assurde trovate dell’amato e odiato nonno.

Dopo l’esordio americano avvenuto il 5 giugno, la quinta stagione della serie animata più assurda di sempre è arrivata anche in Italia, su Netflix dal 22 ottobre. Quest’ultima uscita ci porta così ad un fatidico 51 su 101 (non la carica, ma gli episodi commissionati da Adult Swim al duo Roiland-Harmon), lasciandoci intendere di essere giunti a metà del percorso.

Cosa aspettarsi

Anche in questa nuova stagione le aspettative non sono state tradite. L’universo che conoscevamo si è ampliato ancora, mostrandoci altri pianeti assurdi e razze aliene strampalate; non mancano i mondi paralleli e i nemici fuori di testa da affrontare. La qualità dell’animazione continua a crescere di stagione in stagione, i mondi sono sempre stracolmi di dettagli che riescono a rendere le ambientazioni credibili in un universo di stramberie.

La serie non si stanca di parodiare la qualsiasi, partendo dal mondo dei supereroi (il Mr. Nimbus del primo episodio ricorda un “marvelliano” Namor erotomane), fino ad un episodio in cui le citazioni dei mafia movie (come Scarface ed Il Padrino) ed una narrazione alla “Quei Bravi Ragazzi fanno da sfondo ad una caricatura dei Power Rangers.

Il percorso di Rick si fa invece sempre più interessante: assistiamo infatti ad una progressiva apertura sempre più esplicita alle emozioni. Quello che avevamo conosciuto come una sorta di superuomo nietzschiano, capace di convivere con il caos e a tratti anche di dominarlo, perde sempre più quella patina di apatia: prima con l’amico Persuccello (5×08) e poi con lo stesso Morty (5×10).

GoTron Jerrysis Rickvangelion (5×07)

Risate a più livelli

Chiunque conosca la serie sa già cosa aspettarsi dalla comicità di Rick & Morty: le battute sono ovunque e su ogni cosa. In ogni singolo episodio gli sceneggiatori si dilettano nel far convivere le battute nonsense e quelle più becere e demenziali con altre più sottili e di pura satira sociale.

Come sempre la critica – mai troppo velata – è rivolta all’America ed alle sue storture, sia passate che attuali. Una nazione in cui il Congresso corrotto preferisce un Presidente-tacchino. Probabilmente non ci troviamo di fronte alla stagione più divertente del programma, ma lo standard è così alto da far cedere questa critica su se stessa.

Il Ringraziamento di Rick e Morty (5×06)

Tanto spazio per la trama

Ed ecco che uno degli aspetti più amati ed odiati della serie fa capolino. Sì, perché quella trama così intrigante, apparentemente immensa ma che raramente progredisce, in questa stagione prende piede come non mai.

Il passato di Rick dirada quella zona d’ombra che lo ha avvolto nelle stagioni precedenti e si racconta, tramite flashback brevi ma pieni di spunti: dal giorno in cui ha perso la moglie fino a quello in cui lo abbiamo conosciuto. Il rapporto con Morty si fa sempre più profondo e più avanzano le stagioni più gli alti e i bassi tra i due tendono a confermare la loro tacita dipendenza reciproca. Da non trascurare poi il ritorno del famigerato Evil Morty che in questi episodi trova la sua (presunta) conclusione, e con lui anche tutte le vicende della splendida cittadella.

Anche in questo caso risulta difficile trovare delle sbavature nella narrazione degli autori, lo spettatore si trova sempre di fronte ad un mondo in cui non esistono il bianco ed il nero ed è tutto incredibilmente grigio. Tutti i “cattivi” sembrano avere ragioni valide o almeno comprensibili per fare quello che fanno, ed allo stesso tempo quelli che dovrebbero essere “i buoni” assumono comportamenti anche peggiori dei loro nemici.

Antonio Ardizzone

Tutte le donne di Monica Vitti: i 90 anni di un’antidiva

Il 3 novembre del 1931 nasceva a Roma Monica Vitti, attrice sicuramente poco nota ai nati dopo del 2000, anche perché da quasi 20 anni si è ritirata dalle scene volontariamente a causa di una malattia degenerativa. In occasione del suo 90esimo compleanno vorremmo provare a farvela conoscere meglio o a sbloccare qualche ricordo ai più che molto probabilmente ricordano i suoi film.

Monica Vitti, dopo aver trascorso alcuni anni di vita nella nostra Messina perchè il padre era un agente di commercio estero, scopre la passione per il teatro che diventa quasi un diversivo per intrattenere i suoi fratellini durante la seconda guerra mondiale.

Dopo il diploma all’Accademia di Arte Drammatica nel 1953, le si apriranno le porte di una lunga carriera che durerà quasi quaranta anni. Vitti collaborerà con i più grandi registi dell’epoca: Scola, Monicelli, Risi, Antonioni, senza dimenticare il sodalizio artistico con Sordi.

Monica Vitti. Fonte: Blog ModApp

Le donne della Vitti sono molto diverse rispetto a quelle delle commedie all’italiana (filone che diverrà molto famoso in quel periodo), nonostante nelle pellicole interpretate i tradimenti, la gelosia, la sterile vita coniugale e i triangoli siano temi predominanti. Molto probabilmente per questo viene considerata da molti l’Antidiva.

Ma quante donne è in fondo Monica Vitti? Ne abbiamo scelte cinque che racchiudono la sua innata versatilità.

1) Complicata seduttrice

Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) – Ettore Scola (1970)

Dalla regia di Ettore Scola, Dramma della gelosia è uno di quei film che segna il passaggio dell’attrice dalla carriera drammatica a quella comica. Adelaide è una giovane fioraia romana un po’ sui generis che si ritroverà coinvolta in un menage a trois con i giovani Oreste Nardi (Marcello Mastroianni) e Nello Serafini (Giancarlo Giannini).

Sensuale quanto basta, mai volgare, la Vitti riesce a caratterizzare il personaggio di Adelaide caricandolo di isterismo,  vulnerabilità ma anche di ironica eleganza e notevole dignità.

Da sinistra a destra: Mastroianni, Vitti e Giannini in una scena del film. Fonte: Titanus

Con la sua voce roca e il “burino accento romanesco” renderá leggera la “disgrazia” di questa protagonista che prova a liberarsi del triangolo amoroso.

2) Moglie borghese

Io so che tu sai che io so – Alberto Sordi (1982)

Qui troviamo l’attrice romana nei panni di Livia sposata con il banchiere Fabio Bonetti (interpretato dal regista). Livia si ritrova imbrigliata in un rapporto di coppia monotono con il classico uomo medio italiano tutto lavoro e partite di calcio in TV.

Sordi e Vitti in una scena del film. Fonte: Scena Film

È lei che tra mille peripezie riesce a tenere in piedi la famiglia e a ricucire il rapporto con Fabio.

Livia è un personaggio che a tratti sembra essere in preda a crisi isteriche, una donna a cui la Vitti riesce a dare forza di volontà e anche velata comicità. Livia è tutte le mogli medio borghesi che sono salde come una roccia ma che a volte possono crollare.

3) Siciliana forte e sanguigna

La ragazza con la pistola – Mario Monicelli (1968)

Assunta Patanè (Monica Vitti) è una ragazza siciliana d’altri tempi, “onesta” e sempre vestita di nero. Rapita e poi lasciata dall’uomo di cui era segretamente innamorata, deciderà di vendicare l’onore ferito. Monicelli dà un risvolto inedito e più ridanciano alla classica vicenda della fanciulla “sedotta e abbandonata”, attorno a cui ruota l’omonimo cult di Germi del ’64 e ci riesce proprio perché cuce addosso alla Vitti un personaggio degno delle sue doti attoriali.

Sebbene Sedotta e abbandonata sia pellicola nettamente più raffinata de La ragazza con la pistola, c’è qualcosa che alla prima manca ed è proprio la notevole presenza scenica della Vitti (lei romana si calerà perfettamente nei panni della siciliana), superiore a quella dimostrata da Stefania Sandrelli nelle vesti della vittima inerme dietro le quinte di teatrini orchestrati dalla famglia per salvare l’onore.

A sinistra Stefania Sandrelli in “Sedotta e abbandonata”, a destra Monica Vitti ne “La ragazza con la pistola”. Da notare il look simile delle due protagoniste

Assunta, invece, anche se complice di una mentalità arretrata, è lei stessa a prendere la pistola in mano e tentare il riscatto. Certo erano già altri tempi e le lotte femministe stavano scrivendo un pezzo importante di pagine di storia. Ma avere nel cast una grande interprete come la Vitti sicuramente permise al regista di dare carne e ossa a un personaggio comico nella sua drammaticità meridionale, quanto determinato.

4)  Moderna e insicura

Amore mio aiutami – Alberto Sordi (1969)

Raffaella (Monica Vitti) è una donna sposata che si innamora di un altro uomo e indovinate un po’ a chi deciderà di confidare le proprie pene d’amore? Esattamente al marito (Alberto Sordi)!

Alberto Sordi e Monica Vitti nei panni di Giovanni e Raffaella. Fonte: Documento Film

Satira amara su un certo progressismo, Amore mio aiutami è un divertente teatro dell’assurdo in cui la coppia Sordi-Vitti dimostra per la prima volta sul grande schermo un feeling coinvolgente e fuori dal comune. Gli sfoghi di Raffaella si amalgamano alla perfezione con la finta compostezza piccolo-borghese del marito banchiere Sordi (qui un nostro articolo sull’attore romano). Vitti all’apice della sua bravura nel saper caricare di pathos ed emotività un personaggio come Raffaella, donna innovativa ma fragile.

5) Raffinata e misteriosa

La notte – Michelangelo Antonioni (1961)

Ultimo ma non meno importante, un film della Vitti meno conosciuta, quella più di nicchia, drammatica, musa del cinema dell’incomunicabilità del regista Antonioni.

A primo acchitto sembra marginale il ruolo ricoperto dalla Vitti in questa pellicola dalle tinte esistenzialiste. A dominare le scene è la storia di due coniugi in crisi: gli affascinanti (Lidia) Jeanne Moreau e Giovanni (Marcello Mastrianni), mentre Valentina (Monica Vitti) è soltanto di passaggio nella loro vita, un’affascinante sonosciuta che incontrano a una festa.

Eppure bastano poche inquadrature per cogliere il talento della Vitti nel calarsi in un personaggio fuori dalle righe, al di là degli steccati della classica seduttrice, una ragazza riflessiva e misteriosa che si rivelerà il punto di svolta necessario alla paralisi esistenziale dei protagonisti.

Da sinistra a destra: Jeanne Moreau, Marcello Mastroianni e Monica Vitti ne La notte di Michelangelo Antonioni. Fonte: Dino De Laurentiis

In un’intervista ad Enzo Biaggi, Monica Vitti si definì “femminista”. Il suo impegno politico non era manifestare nelle piazze o spendersi in grandi dimostrazioni, ma intepretare “donne che hanno fatto dei passetti” come amava lei stessa affermare.

Angelica e Ilenia Rocca

Squid Game: un gioco pericoloso

La società in cui viviamo fa di noi degli instancabili consumatori: il vortice di consumi in cui siamo gettati ci rende piccoli ingranaggi di una gigantesca macchina, che vorrebbe determinare – con o senza permesso -il nostro posto nel mondo. Il nostro posto come vincenti o come disperati.

E se, oltre ogni  limite, la vita stessa si trasformasse in un prodotto di cui i consumatori possono disporre?

E’ questo il limite che la serie tv sudcoreana firmata Hwang Dong-hyuk, conosciuta in tutto il mondo, ha oltrepassato, portando a chiederci fino a dove ci si può spingere per sedere al tavolo dei vincenti.

Squid game,“Il gioco del calamaro”,disponibile su Netflix dal 17 Settembre scorso, ha il record come esordio più visto sulla piattaforma streaming. Impossibile non averne sentito parlare, con oltre cento milioni di spettatori, altrettanti meme e non poche polemiche, Squid Game traccia un sentiero tortuoso all’interno del panorama artistico mondiale, prendendo le mosse dall’interesse delle opere sudcoreane per i temi della lotta di classe, del disagio economico ed esistenziale.

 Squid Game, guardie.  Fonte: Netflix

Veniamo catapultati “come per gioco” in un talent show che ospita 456 partecipanti, reclutati e scelti da una misteriosa organizzazione, sulla base di un fattore comune: la disperazione.

Un gruppo di disperati, con debiti di gioco o problemi con la giustizia,di ogni estrazione sociale, si sfidano in una serie macabra e perversa di giochi d’infanzia.Personaggi alienati, senza speranza e alternative, che agiscono mossi dall’istinto di sopravvivenza. In palio un premio in denaro.

I giochi infantili, come “un due tre stella” o il tiro alla fune, vengono trasformati in giochi mortali, in cui gran parte dei partecipanti viene uccisa nel fallire la prova. Ogni morte fa aumentare il montepremi finale, destinato al vincitore dei sei giochi, per una vincita complessiva di oltre 45 miliardi di won (circa 33 milioni di euro). Naturalmente, nel senso più darwiniano del termine, al crescere della posta cresce la brutalità dei partecipanti, disposti a tutto pur di sopravvivere, vincere, cambiare vita.

Come in Parasite di Bong Joon-ho, vincitore della Palma d’oro alla 72° edizione del Festival di Cannes, e molte altre produzioni sudcoreane, assistiamo al delinearsi delle ciniche e spietate dinamiche che caratterizzano una nazione segnata da contrasti insanabili, dal divario sociale, dalla corruzione. Parasite è un’opera amata dalla critica e dal pubblico per quello che mostra: le conseguenze  di un sistema socio-economico che non lascia spazio, caratterizzato dalla cattiveria, che genera parassiti e alimenta un eterno ciclo dei vinti, lasciando fuori dallo schermo la speranza di una prospettiva migliore.

Quello di Squid Game è un mondo distopico – caratterizzato da colori pastello, inquadrature e ambientazioni geometriche – che accoglie un gran numero di scene splatter. Ad ogni sfida i personaggi reagiscono in modo diverso, e c’è poco spazio per un’ evoluzione morale: assistiamo per lo più al caratterizzarsi ed evolversi della massa. La massa di giocatori in tuta verde che tenta di sopravvivere, tra uno scellerato antagonismo individuale e di gruppo, aggrappandosi alle dinamiche del branco che si regge sulla regola della sopraffazione del più forte sul più debole.

Squid Game, ambientazione

L’intera macchina di Squid Game, ha il solo scopo di intrattenere i suoi spettatori nascosti, dietro uno schermo. I mandanti e i veri destinatari dei giochi sono infatti i “VIP”, persone molto ricche, dalle maschere scintillanti, che scommettono come all’ippodromo sui disperati, facendoli gareggiare in questo macabro e mortale talent show. Il solo fine è l’intrattenimento.

E’ sul finire della serie che la distanza creata tra due mondi lontani anni luce tra loro, quello dei ricchissimi e dei poverissimi si accorcia, tentando di riunirli all’insegna di una necessità comune: il divertimento. E’ il personaggio creatore del gioco a dirci che ciò che accomuna le persone senza soldi e quelle con troppi soldi è che la loro vita non è felice. All’interno dell’attuale sistema, alimentato dal debito e dalla colpa, per le dinamiche che lo caratterizzano, le uniche certezze possibili sembrano essere l’infelicità e la disperazione.

 

Squid Game, giocatore 456

Non è possibile ignorare il successo di Squid Game, come non è possibile ignorare le non poche polemiche sollevate intorno alla serie tv, che lascia perplessi sul piano etico e morale. Lo stesso autore Hwang Dong- hyuk ha atteso nove anni per vedere prodotti i nove episodi, a lungo rifiutati per il loro contenuto violento. Nonostante la serie appaia su Netflix come vietata ai minori di quattordici anni, molte sono state le emulazioni, soprattutto da parte di bambini e giovani (è solo di qualche settimana fa la notizia di un caso di violenza durante la ricreazione in una scuola elementare di Treviso).

Se l’opinione è divisa tra chi vorrebbe una censura e chi lo ritiene un rimedio controproducente, sarebbe altrettanto importante domandarsi cosa sia possibile fare per spezzare il terribile incantesimo che rende le nuove generazioni, al pari delle vecchie, consumatrici disperate e senza via d’uscita. Il vero dramma è la mancanza di alternative, l’assenza di una prospettiva realmente sovversiva e nuova anche e soprattutto all’interno del panorama artistico. Un’alternativa capace di innescare un sostanziale cambiamento, di conservare il suo potere rivoluzionario, sentinella delle domande degli uomini e non dei bisogni dei consumatori. 

                                                                                                           Martina Violante

 

Articolo pubblicato il 28/10/2021 nell’inserto Noi Magazine della Gazzetta del Sud 

 

 

 

 

 

Santa Maradona e la precarietà dei millenials

Film dalla trama un po’ piatta, ma che spicca per dialoghi pronti e perspicaci – Voto UVM: 4/5

Esattamente sul finire di ottobre di 20 anni fa, le sale italiane proiettavano Santa Maradona.

Tratto da una sceneggiatura di Marco Ponti (sua sarà pure la regia) destinata ad essere cestinata, il film, in un primo momento passato in sordina, si presenta come un esperimento ben riuscito che mette in evidenza senza troppe pretese la precarietà esistenziale dei millenials.

Trama e personaggi

Al centro di un intreccio molto scarno, vediamo il quasi trentenne Andrea Straniero (Stefano Accorsi), che vola di colloquio in colloquio alla ricerca di un impiego stabile nel settore creativo delle aziende torinesi.

Un giovane Accorsi sul set di “Santa Maradona”- Fonte: mole24.it

Andrea ha un coinquilino di nome Bart (Libero De Rienzo, scomparso a lo scorso luglio), un “critico letterario” che passa le giornate sul divano tra tv, videogames e letture. I due dividono uno squallido appartamento nel centro di Torino arredato approssimativamente con frigo anno ’60 e mobiletti e poltroncine da salotto anni ’70.

La qualità della fotografia e del montaggio non sono dei migliori; infatti la casa di produzione aveva stanziato il minimo indispensabile per produrre il film e lo stesso regista si è dovuto arrangiare.

Ma evidentemente ciò che doveva spiccare in Santa Maradona non erano di certo effetti visivi e neanche una trama articolata, ma il senso di vuoto, la totale stasi e la paura di cambiare dei due coinquilini che rappresenterebbero un po’ tutti noi nati tra inizio anni ’80 e fine anni ’90.

Da sinistra a destra Libero De Rienzo (Bart), Stefano Accorsi (Andrea), Mandala Tayde (Lucia), Anita Caprioli ( Dolores Angeli) e il regista Marco Ponti. Fonte: cinemafanpage

 

Le giornate trascorrono nel disordinato e poco illuminato bilocale torinese e a volte in qualche bar o al cinema. Andrea apparentemente prova a crescere e a migliorarsi presentando curricula fatti male nelle virtuose aziende torinesi mentre Bart dall’alto del suo divano guarda il mondo e il futuro con cinica rassegnazione.

Un’ora e trenta di pellicola che sembra scorrere piatta se non fosse che la genialità in quest’esordio di Ponti sta nei dialoghi pronti e perspicaci dei vari personaggi. Battute e ragionamenti talvolta attinenti alle varie vicende si alternano a conversazioni quasi alla Tarantino, buttate lì come fossero nonsense (ma così non è).

“Vedi, la sregolatezza pura, che non ha a che fare con il genio, m’esalta”.

Esordio di De Rienzo

Accanto ad un appena famoso Stefano Accorsi grazie a L’ultimo Bacio, proiettato nelle sale sempre nello stesso anno, si contrappone un appena esordiente Libero De Rienzo. La rivelazione è proprio lui che con la sua interpretazione magistrale riuscirà a dare un tono alla calma piatta dell’intera pellicola.

Libero De Rienzo nei panni di Bart – Fonte: Mikado Film

Non è semplice calarsi nei panni di uno come Bart e renderlo ai propri occhi anche simpatico: un soggetto tutto sarcasmo e rassegnazione che con la sua cinica genialità a volte si rende irritante.

“è brutto avere una risposta bella pronta e nessuno ti fa mai la domanda giusta”

Bart non è logorroico come Andrea ma i suoi “botta e risposta” carichi di acidità lascerebbero chiunque di stucco.

Perchè Santa Maradona è attuale anche oggi

L’ambientazione ad inizio terzo millennio non è un caso. Ponti attraverso i due coinquilini traccia un confine tra gli over 25 dei primi anni ’90 – con già un impiego e magari anche famiglia a carico – e gli over 25 post anni 2000, come Bart e Andrea che appena laureati ciondolano nell’apatia di un appartamento tra telefilm e palleggi contro il muro.

Una generazione la loro – o meglio la nostra – che “non ha sogni nel cassetto o forse non ha neanche il cassetto dove metterli”, che si divide tra colloqui di lavoro e spritz delle sei – che tanto prima o poi arriverà l’occasione che cambierà la vita – che vorrebbe cambiare il mondo, il corso degli eventi ma ha paura come Andrea o non ci prova nemmeno come Bart e nel frattempo che si fa?… Meglio chiudersi in un appartamento e finire tutta l’ultima stagione di una serie Tv su Netflix.

Come ha detto Ponti, i suoi personaggi utilizzano l’espediente di Maradona cercando di fare goal di mano. Esattamente come Bart e Andrea, anche noi tra i 20 e i 30 anni, in questo periodo storico che sicurezze non ci dà, cerchiamo di fare goal di mano nello stadio della vita.

Ilenia Rocca

 

New World: rinascita degli mmo?

Progetto senza dubbio ambizioso, New World è il miglior videogame uscito finora dalle fucine di Amazon. Necessita ancora però di tanto lavoro di “ripulitura”. Voto UVM: 3/5

Nascita, esplosione e “morte” di un genere

Massive Multiplayer Online (mm0) è una sigla che racchiude tanto in sé: il genere permette a decine di giocatori di incontrarsi in un videogame, svolgere assieme ogni attività presente e interire con gli avatar degli altri players. Le sue peculiarità consistono anche nella capacità di accompagnare per anni, o decenni in alcuni casi, le vite di chi decide di salire sulle loro giostre: i ricordi non sono mai stati il gioco in sé, ma la condivisione dell’esperienza e l’interazione costante.

Il genere degli mmo esiste dai lontani anni 80 in cui esperienze text based si limitavano a stimolare le fantasie dei giocatori, ma già da allora si poteva notare il potenziale del genere. Fu con Ultima Online, uscito nel ’97, che i giocatori si sentirono finalmente parte di qualcosa di speciale: un mondo creato interamente dalle loro azioni con eroi e villain nati dalle loro gesta.

E’ stato però nel 2005 che il genere conobbe la sua esplosione: World of Warcraft prese di fatto tutta l’esperienza accumulata in 20 anni dagli sviluppatori e rimodellò il genere rendendolo alla portata di tutti, rimuovendo molta della tediosità e delle lungaggini dei suoi predecessori.

“Ultima online” e “World of Walcraft”: capostipite e apice degli mmo

Il panorama degli mmo negli ultimi anni è però, a detta degli appassionati, stagnante: le nuove uscite sono pochissime e in molti casi risultano già viste e con poche idee.

Anche World of Warcraft da sempre sulla cresta dell’onda con milioni di giocatori attivi, è soggetto oggi ad aspre critiche. L’unica stella che risplende è Final Fantasy 14 che, dopo la rinascita del progetto nel 2013, continua a raccogliere elogi sia da critica che da pubblico, risultando essere l’unico gioco in crescita negli ultimi anni.

“Final Fantasy 14” è attualmente l’mmo più popolare. Fonte: Square Enix

Il clima nell’ambiente quindi non è certo uno dei migliori oggi. New world, lanciato lo scorso 28 settembre da Amazon, si inserisce in questo contesto come una nuova promessa, cercando di modificare la formula classica dell’mmo che dopo il successo esponenziale di alcuni giochi, era stata imitata e ripetuta da molti nella speranza di riviverne il successo.

Qual’è l’esperienza in gioco?

Nato come gioco survival, in cui l’unico obbiettivo del giocatore era quello di raccogliere risorse per arricchirsi e contemporaneamente sconfiggere i giocatori avversari delle fazioni opposte, New World ha cambiato volto nel corso dello sviluppo virando verso il multiplayer di massa, per spiccare agli occhi di una community mmo odierna meno tendente alla competizione estrema rispetto al passato. Si è quindi snellito e reso molto meno ostico nelle sue meccaniche, dopo i feedback critici delle prime fasi di test da parte dei giocatori.

Il gioco si propone quindi come un’avventura ambientata all’epoca delle grandi colonie europee. Noi giocatori ci imbarcheremo infatti verso l’atlantico, ma non sbarcheremo sulle sponde dell’America bensì su quelle del reame di Aeternum, luogo intriso di magia. Qui gli avventurieri sbarcati prima di noi hanno già avuto modo di stabilirsi, fondare città e soprattutto le fazioni a cui dovremo unirci per aiutare nella costruzione e nell’ampliamento dei vari avamposti e fortini sparsi per la mappa.

Anche la mappa stessa gioca un ruolo importante per la raccolta di risorse: legna, ferro, pelli e carne sono tutti elementi indispensabili per la sopravvivenza nel mondo di gioco. Ognuno dei giocatori può inoltre inserirsi in varie nicchie per diventare un elemento centrale nell’esperienza dell’intero server, vendendo sul mercato i frutti del suo lavoro, aiutando gli altri giocatori nella costruzione di armi, armature o particolari piatti di cucina, nonché nella fortificazione e nel miglioramento degli avamposti e delle città.

Guerra per gli avamposti e raccolta delle risorse: due degli elementi principali del gioco

L’avventura si sviluppa quindi seguendo uno schema semplice in cui il giocatore è chiamato ad affrontare missioni ed obbiettivi che lo vedono convolto nelle stesse meccaniche: raccogliere tronchi d’albero, sconfiggere mostri o animali in giro per il mondo o colpire, occasionalmente, avamposti avversari. Il gioco non riesce sempre a divertire in questa ripetitività e purtroppo lo affliggono altri importanti problemi come la mancanza di un end game soddisfacente e che abbia al centro l’interazione tra i giocatori, così come vari errori di programmazione e bug che in molti casi rovinano l’esperienza di molti.

Siamo ottimisti per il futuro?

Non si è trattato quindi di un lancio perfetto per il nuovo gioco di Amazon, ma l’insieme di elementi nuovi per il genere lo ha reso anche dopo settimane gettonato da molti, che nonostante le imperfezioni continuano ad andare avanti nelle guerre tra le fazioni di Aeternum. Si può quindi sperare in un percorso di riassesto per il gioco, su cui Amazon ha già dichiarato di puntare parecchio. Gli sviluppatori hanno spiegato già che il gioco verrà espanso con i restanti 2/3 del contenuto.

New World, al netto di tutto ciò, si rivela senz’altro una boccata d’aria fresca per quei giocatori che si sono ritrovati in molti casi a rivivere la stessa eccitazione e frenesia dei primi anni 2000, periodo d’oro dei “Multigiocatore di massa”.

Cooperazione tra giocatori, altro elemento chiave. Fonte: Amazon Games

Resta da vedere se gli sviluppatori daranno ascolto al feedback dei giocatori e assesteranno quei pilastri pericolanti che a lungo andare possono rovinare un’esperienza che ha la possibilità di essere ricordata nel tempo, con gioia, dagli appassionati.

Matteo Mangano

Sam Raimi: una favola di regia

Nel corso della storia del cinema possiamo contare diversi esempi di uomini e donne capaci di imporre le proprie idee e farsi amare dal pubblico internazionale partendo da zero.

Compie oggi 62 anni Sam Raimi, regista che ha fatto la storia della settima arte imponendosi autonomamente in un settore estremamente ostico verso chi non possiede le conoscenza necessarie per poterci lavorare.

Noi di UniVersoMe vogliamo celebrarlo andando a ripercorrere le tappe più significative della sua carriera.

Le origini e la trilogia de La Casa

Alla base del successo del regista gioca un ruolo fondamentale l’amicizia con Bruce Campbell. I due si conoscono dai tempi della scuola e fin da adolescenti iniziano a girare dei cortometraggi con una cinepresa regalata a Sam dal padre.

Trascorrono gli anni e la passione per il cinema porta i due a fondare una propria società insieme a Robert Tapert (l’allora compagno di stanza d’università di Raimi): la Renaissance Pictures. Il primo film della nuova casa di produzione fu La Casa (1981).

La pellicola racconta di cinque ragazzi che si recano in uno chalet sito all’interno di un bosco per divertirsi. Qui vi trovano un libro scritto in sumero (il Necronomicon), mediante il quale involontariamente evocano un’entità maligna che li perseguiterà. Toccherà ad Ash Williams (Bruce Campbell) cercare di salvare se stesso e i suoi amici.

Una scena del film – Fonte: Renaissance Pictures

La Casa inizialmente venne accolto da pareri discordanti della critica e non ottenne particolare successo al botteghino. Nel corso degli anni però, grazie alla redistribuzione in home video, venne ampiamente rivalutato fino ad essere considerato uno dei cult movie a basso costo più amati della storia. A causa del budget bassissimo, Raimi dovette arrangiarsi parecchio durante le riprese: molti effetti speciali vennero creati con mezzi di fortuna sul set stesso.

Ciò che colpisce enormemente della regia è sicuramente l’utilizzo della telecamera nei momenti in cui l’entità si muove tra i boschi: il regista ha deciso di effettuare delle riprese in soggettiva del demone mentre insegue i ragazzi. Gli inseguimenti vengono mostrati dal punto di vista dell’entità grazie a una sorta di steadicam (creata dal regista stesso), montata su un supporto mobile che garantisce un movimento fluido e veloce della cinepresa. Il risultato è un effetto tremolante senza alcuna perdita di qualità dell’immagine.

Nel 1987 il regista gira una sorta di sequel/remake, intitolato La Casa 2, con Bruce Campbell nuovamente nei panni  di Ash Williams. Grazie alla distribuzione di Dino De Laurentis e ad un budget 10 volte superiore al film precedente, Raimi riesce a riproporre ciò che aveva già realizzato ne La Casa, innalzando esponenzialmente la qualità della pellicola.

Un elemento estremamente importante della pellicola è certamente l’aspetto del protagonista: Ash ad un certo punto del film è costretto ad amputarsi una mano e poi ad autoimpiantarsi una motosega per sostituirla. Con una mano-motosega da un lato ed un fucile dall’altro, diviene a tutti gli effetti un personaggio iconico nel panorama del genere horror. Un esempio di come Raimi riesca ad aggiungere particolari significativi alla trama che restano impressi in maniera indelebile nella mente dello spettatore.

Ash ed il suo amato braccio-motosega

Nel 1992 esce il seguito diretto de La Casa 2 intitolato L’armata delle tenebre, film visceralmente diverso dai precedenti.  Non ci troviamo più di fronte ad un horror con sprazzi di comicità, ma più propriamente davanti ad un fantasy che vede sempre Ash Williams catapultato nel medioevo dove dovrà fronteggiare le forze del male.

La trilogia di Spider-Man: rinascita del cinecomic

Dopo il successo della trilogia de La casa, arriva un’occasione più unica che rara per il regista: nel 2000 la Sony gli affida il compito di dirigere Spider-Man. Un momento significativo per la carriera di Raimi: se prima il regista aveva tutta la libertà del mondo per esprimere la sua creatività da cineasta senza particolari pressioni, ora si ritrova su un livello estremamente più elevato.

Impostando la pellicola come una sorta di commedia d’azione con spruzzi di romanticismo d’alta classe (il bacio tra Peter Parker e Mary Jane meriterebbe un intero articolo a parte!) e gag esilaranti, il regista gira un film che incassa 800 milioni di dollari.

Il famoso bacio tra Peter Parker (Tobey Maguire) e Mary Jane (Kirsten Dunst) – Fonte: Columbia Pictures/ Sony Pictures

Fino ad allora i film sui supereroi erano considerati B-movies e le grandi case di produzione – a parte rarissime eccezioni- non investivano in tali progetti. Spider-Man (2002) fu un salto nel buio per la Sony, che grazie a Raimi decise poi di girarne due seguiti dal medesimo stile (in Spider-Man 3 però non sono presenti gag degne di questo nome). Da lodare anche le brillanti interpretazioni di tutto il cast (presente anche l’amico Bruce Campbell in un cameo).

La trilogia di Spider Man trascina una mole gigantesca di persone in sala ad assistere a un film di supereroi, segnando la rinascita del cinecomic e l’inizio di un periodo d’oro per il genere che arriverà fino ai giorni nostri con le pellicole del Marvel Cinematic Universe.

Sam Raimi – Fonte: horrorstab.com

Raimi è un esempio lampante non solo di come si fa cinema, ma di come si possa creare qualcosa che abbia qualità in qualsiasi condizione. Senza soldi gira una pietra miliare del genere horror, con i soldi dà linfa vitale al genere cinematografico più redditizio di sempre. Chapeau Mr Raimi.

Vincenzo Barbera