Squid Game: un gioco pericoloso

La società in cui viviamo fa di noi degli instancabili consumatori: il vortice di consumi in cui siamo gettati ci rende piccoli ingranaggi di una gigantesca macchina, che vorrebbe determinare – con o senza permesso -il nostro posto nel mondo. Il nostro posto come vincenti o come disperati.

E se, oltre ogni  limite, la vita stessa si trasformasse in un prodotto di cui i consumatori possono disporre?

E’ questo il limite che la serie tv sudcoreana firmata Hwang Dong-hyuk, conosciuta in tutto il mondo, ha oltrepassato, portando a chiederci fino a dove ci si può spingere per sedere al tavolo dei vincenti.

Squid game,“Il gioco del calamaro”,disponibile su Netflix dal 17 Settembre scorso, ha il record come esordio più visto sulla piattaforma streaming. Impossibile non averne sentito parlare, con oltre cento milioni di spettatori, altrettanti meme e non poche polemiche, Squid Game traccia un sentiero tortuoso all’interno del panorama artistico mondiale, prendendo le mosse dall’interesse delle opere sudcoreane per i temi della lotta di classe, del disagio economico ed esistenziale.

 Squid Game, guardie.  Fonte: Netflix

Veniamo catapultati “come per gioco” in un talent show che ospita 456 partecipanti, reclutati e scelti da una misteriosa organizzazione, sulla base di un fattore comune: la disperazione.

Un gruppo di disperati, con debiti di gioco o problemi con la giustizia,di ogni estrazione sociale, si sfidano in una serie macabra e perversa di giochi d’infanzia.Personaggi alienati, senza speranza e alternative, che agiscono mossi dall’istinto di sopravvivenza. In palio un premio in denaro.

I giochi infantili, come “un due tre stella” o il tiro alla fune, vengono trasformati in giochi mortali, in cui gran parte dei partecipanti viene uccisa nel fallire la prova. Ogni morte fa aumentare il montepremi finale, destinato al vincitore dei sei giochi, per una vincita complessiva di oltre 45 miliardi di won (circa 33 milioni di euro). Naturalmente, nel senso più darwiniano del termine, al crescere della posta cresce la brutalità dei partecipanti, disposti a tutto pur di sopravvivere, vincere, cambiare vita.

Come in Parasite di Bong Joon-ho, vincitore della Palma d’oro alla 72° edizione del Festival di Cannes, e molte altre produzioni sudcoreane, assistiamo al delinearsi delle ciniche e spietate dinamiche che caratterizzano una nazione segnata da contrasti insanabili, dal divario sociale, dalla corruzione. Parasite è un’opera amata dalla critica e dal pubblico per quello che mostra: le conseguenze  di un sistema socio-economico che non lascia spazio, caratterizzato dalla cattiveria, che genera parassiti e alimenta un eterno ciclo dei vinti, lasciando fuori dallo schermo la speranza di una prospettiva migliore.

Quello di Squid Game è un mondo distopico – caratterizzato da colori pastello, inquadrature e ambientazioni geometriche – che accoglie un gran numero di scene splatter. Ad ogni sfida i personaggi reagiscono in modo diverso, e c’è poco spazio per un’ evoluzione morale: assistiamo per lo più al caratterizzarsi ed evolversi della massa. La massa di giocatori in tuta verde che tenta di sopravvivere, tra uno scellerato antagonismo individuale e di gruppo, aggrappandosi alle dinamiche del branco che si regge sulla regola della sopraffazione del più forte sul più debole.

Squid Game, ambientazione

L’intera macchina di Squid Game, ha il solo scopo di intrattenere i suoi spettatori nascosti, dietro uno schermo. I mandanti e i veri destinatari dei giochi sono infatti i “VIP”, persone molto ricche, dalle maschere scintillanti, che scommettono come all’ippodromo sui disperati, facendoli gareggiare in questo macabro e mortale talent show. Il solo fine è l’intrattenimento.

E’ sul finire della serie che la distanza creata tra due mondi lontani anni luce tra loro, quello dei ricchissimi e dei poverissimi si accorcia, tentando di riunirli all’insegna di una necessità comune: il divertimento. E’ il personaggio creatore del gioco a dirci che ciò che accomuna le persone senza soldi e quelle con troppi soldi è che la loro vita non è felice. All’interno dell’attuale sistema, alimentato dal debito e dalla colpa, per le dinamiche che lo caratterizzano, le uniche certezze possibili sembrano essere l’infelicità e la disperazione.

 

Squid Game, giocatore 456

Non è possibile ignorare il successo di Squid Game, come non è possibile ignorare le non poche polemiche sollevate intorno alla serie tv, che lascia perplessi sul piano etico e morale. Lo stesso autore Hwang Dong- hyuk ha atteso nove anni per vedere prodotti i nove episodi, a lungo rifiutati per il loro contenuto violento. Nonostante la serie appaia su Netflix come vietata ai minori di quattordici anni, molte sono state le emulazioni, soprattutto da parte di bambini e giovani (è solo di qualche settimana fa la notizia di un caso di violenza durante la ricreazione in una scuola elementare di Treviso).

Se l’opinione è divisa tra chi vorrebbe una censura e chi lo ritiene un rimedio controproducente, sarebbe altrettanto importante domandarsi cosa sia possibile fare per spezzare il terribile incantesimo che rende le nuove generazioni, al pari delle vecchie, consumatrici disperate e senza via d’uscita. Il vero dramma è la mancanza di alternative, l’assenza di una prospettiva realmente sovversiva e nuova anche e soprattutto all’interno del panorama artistico. Un’alternativa capace di innescare un sostanziale cambiamento, di conservare il suo potere rivoluzionario, sentinella delle domande degli uomini e non dei bisogni dei consumatori. 

                                                                                                           Martina Violante

 

Articolo pubblicato il 28/10/2021 nell’inserto Noi Magazine della Gazzetta del Sud 

 

 

 

 

 

Santa Maradona e la precarietà dei millenials

Film dalla trama un po’ piatta, ma che spicca per dialoghi pronti e perspicaci – Voto UVM: 4/5

Esattamente sul finire di ottobre di 20 anni fa, le sale italiane proiettavano Santa Maradona.

Tratto da una sceneggiatura di Marco Ponti (sua sarà pure la regia) destinata ad essere cestinata, il film, in un primo momento passato in sordina, si presenta come un esperimento ben riuscito che mette in evidenza senza troppe pretese la precarietà esistenziale dei millenials.

Trama e personaggi

Al centro di un intreccio molto scarno, vediamo il quasi trentenne Andrea Straniero (Stefano Accorsi), che vola di colloquio in colloquio alla ricerca di un impiego stabile nel settore creativo delle aziende torinesi.

Un giovane Accorsi sul set di “Santa Maradona”- Fonte: mole24.it

Andrea ha un coinquilino di nome Bart (Libero De Rienzo, scomparso a lo scorso luglio), un “critico letterario” che passa le giornate sul divano tra tv, videogames e letture. I due dividono uno squallido appartamento nel centro di Torino arredato approssimativamente con frigo anno ’60 e mobiletti e poltroncine da salotto anni ’70.

La qualità della fotografia e del montaggio non sono dei migliori; infatti la casa di produzione aveva stanziato il minimo indispensabile per produrre il film e lo stesso regista si è dovuto arrangiare.

Ma evidentemente ciò che doveva spiccare in Santa Maradona non erano di certo effetti visivi e neanche una trama articolata, ma il senso di vuoto, la totale stasi e la paura di cambiare dei due coinquilini che rappresenterebbero un po’ tutti noi nati tra inizio anni ’80 e fine anni ’90.

Da sinistra a destra Libero De Rienzo (Bart), Stefano Accorsi (Andrea), Mandala Tayde (Lucia), Anita Caprioli ( Dolores Angeli) e il regista Marco Ponti. Fonte: cinemafanpage

 

Le giornate trascorrono nel disordinato e poco illuminato bilocale torinese e a volte in qualche bar o al cinema. Andrea apparentemente prova a crescere e a migliorarsi presentando curricula fatti male nelle virtuose aziende torinesi mentre Bart dall’alto del suo divano guarda il mondo e il futuro con cinica rassegnazione.

Un’ora e trenta di pellicola che sembra scorrere piatta se non fosse che la genialità in quest’esordio di Ponti sta nei dialoghi pronti e perspicaci dei vari personaggi. Battute e ragionamenti talvolta attinenti alle varie vicende si alternano a conversazioni quasi alla Tarantino, buttate lì come fossero nonsense (ma così non è).

“Vedi, la sregolatezza pura, che non ha a che fare con il genio, m’esalta”.

Esordio di De Rienzo

Accanto ad un appena famoso Stefano Accorsi grazie a L’ultimo Bacio, proiettato nelle sale sempre nello stesso anno, si contrappone un appena esordiente Libero De Rienzo. La rivelazione è proprio lui che con la sua interpretazione magistrale riuscirà a dare un tono alla calma piatta dell’intera pellicola.

Libero De Rienzo nei panni di Bart – Fonte: Mikado Film

Non è semplice calarsi nei panni di uno come Bart e renderlo ai propri occhi anche simpatico: un soggetto tutto sarcasmo e rassegnazione che con la sua cinica genialità a volte si rende irritante.

“è brutto avere una risposta bella pronta e nessuno ti fa mai la domanda giusta”

Bart non è logorroico come Andrea ma i suoi “botta e risposta” carichi di acidità lascerebbero chiunque di stucco.

Perchè Santa Maradona è attuale anche oggi

L’ambientazione ad inizio terzo millennio non è un caso. Ponti attraverso i due coinquilini traccia un confine tra gli over 25 dei primi anni ’90 – con già un impiego e magari anche famiglia a carico – e gli over 25 post anni 2000, come Bart e Andrea che appena laureati ciondolano nell’apatia di un appartamento tra telefilm e palleggi contro il muro.

Una generazione la loro – o meglio la nostra – che “non ha sogni nel cassetto o forse non ha neanche il cassetto dove metterli”, che si divide tra colloqui di lavoro e spritz delle sei – che tanto prima o poi arriverà l’occasione che cambierà la vita – che vorrebbe cambiare il mondo, il corso degli eventi ma ha paura come Andrea o non ci prova nemmeno come Bart e nel frattempo che si fa?… Meglio chiudersi in un appartamento e finire tutta l’ultima stagione di una serie Tv su Netflix.

Come ha detto Ponti, i suoi personaggi utilizzano l’espediente di Maradona cercando di fare goal di mano. Esattamente come Bart e Andrea, anche noi tra i 20 e i 30 anni, in questo periodo storico che sicurezze non ci dà, cerchiamo di fare goal di mano nello stadio della vita.

Ilenia Rocca

 

New World: rinascita degli mmo?

Progetto senza dubbio ambizioso, New World è il miglior videogame uscito finora dalle fucine di Amazon. Necessita ancora però di tanto lavoro di “ripulitura”. Voto UVM: 3/5

Nascita, esplosione e “morte” di un genere

Massive Multiplayer Online (mm0) è una sigla che racchiude tanto in sé: il genere permette a decine di giocatori di incontrarsi in un videogame, svolgere assieme ogni attività presente e interire con gli avatar degli altri players. Le sue peculiarità consistono anche nella capacità di accompagnare per anni, o decenni in alcuni casi, le vite di chi decide di salire sulle loro giostre: i ricordi non sono mai stati il gioco in sé, ma la condivisione dell’esperienza e l’interazione costante.

Il genere degli mmo esiste dai lontani anni 80 in cui esperienze text based si limitavano a stimolare le fantasie dei giocatori, ma già da allora si poteva notare il potenziale del genere. Fu con Ultima Online, uscito nel ’97, che i giocatori si sentirono finalmente parte di qualcosa di speciale: un mondo creato interamente dalle loro azioni con eroi e villain nati dalle loro gesta.

E’ stato però nel 2005 che il genere conobbe la sua esplosione: World of Warcraft prese di fatto tutta l’esperienza accumulata in 20 anni dagli sviluppatori e rimodellò il genere rendendolo alla portata di tutti, rimuovendo molta della tediosità e delle lungaggini dei suoi predecessori.

“Ultima online” e “World of Walcraft”: capostipite e apice degli mmo

Il panorama degli mmo negli ultimi anni è però, a detta degli appassionati, stagnante: le nuove uscite sono pochissime e in molti casi risultano già viste e con poche idee.

Anche World of Warcraft da sempre sulla cresta dell’onda con milioni di giocatori attivi, è soggetto oggi ad aspre critiche. L’unica stella che risplende è Final Fantasy 14 che, dopo la rinascita del progetto nel 2013, continua a raccogliere elogi sia da critica che da pubblico, risultando essere l’unico gioco in crescita negli ultimi anni.

“Final Fantasy 14” è attualmente l’mmo più popolare. Fonte: Square Enix

Il clima nell’ambiente quindi non è certo uno dei migliori oggi. New world, lanciato lo scorso 28 settembre da Amazon, si inserisce in questo contesto come una nuova promessa, cercando di modificare la formula classica dell’mmo che dopo il successo esponenziale di alcuni giochi, era stata imitata e ripetuta da molti nella speranza di riviverne il successo.

Qual’è l’esperienza in gioco?

Nato come gioco survival, in cui l’unico obbiettivo del giocatore era quello di raccogliere risorse per arricchirsi e contemporaneamente sconfiggere i giocatori avversari delle fazioni opposte, New World ha cambiato volto nel corso dello sviluppo virando verso il multiplayer di massa, per spiccare agli occhi di una community mmo odierna meno tendente alla competizione estrema rispetto al passato. Si è quindi snellito e reso molto meno ostico nelle sue meccaniche, dopo i feedback critici delle prime fasi di test da parte dei giocatori.

Il gioco si propone quindi come un’avventura ambientata all’epoca delle grandi colonie europee. Noi giocatori ci imbarcheremo infatti verso l’atlantico, ma non sbarcheremo sulle sponde dell’America bensì su quelle del reame di Aeternum, luogo intriso di magia. Qui gli avventurieri sbarcati prima di noi hanno già avuto modo di stabilirsi, fondare città e soprattutto le fazioni a cui dovremo unirci per aiutare nella costruzione e nell’ampliamento dei vari avamposti e fortini sparsi per la mappa.

Anche la mappa stessa gioca un ruolo importante per la raccolta di risorse: legna, ferro, pelli e carne sono tutti elementi indispensabili per la sopravvivenza nel mondo di gioco. Ognuno dei giocatori può inoltre inserirsi in varie nicchie per diventare un elemento centrale nell’esperienza dell’intero server, vendendo sul mercato i frutti del suo lavoro, aiutando gli altri giocatori nella costruzione di armi, armature o particolari piatti di cucina, nonché nella fortificazione e nel miglioramento degli avamposti e delle città.

Guerra per gli avamposti e raccolta delle risorse: due degli elementi principali del gioco

L’avventura si sviluppa quindi seguendo uno schema semplice in cui il giocatore è chiamato ad affrontare missioni ed obbiettivi che lo vedono convolto nelle stesse meccaniche: raccogliere tronchi d’albero, sconfiggere mostri o animali in giro per il mondo o colpire, occasionalmente, avamposti avversari. Il gioco non riesce sempre a divertire in questa ripetitività e purtroppo lo affliggono altri importanti problemi come la mancanza di un end game soddisfacente e che abbia al centro l’interazione tra i giocatori, così come vari errori di programmazione e bug che in molti casi rovinano l’esperienza di molti.

Siamo ottimisti per il futuro?

Non si è trattato quindi di un lancio perfetto per il nuovo gioco di Amazon, ma l’insieme di elementi nuovi per il genere lo ha reso anche dopo settimane gettonato da molti, che nonostante le imperfezioni continuano ad andare avanti nelle guerre tra le fazioni di Aeternum. Si può quindi sperare in un percorso di riassesto per il gioco, su cui Amazon ha già dichiarato di puntare parecchio. Gli sviluppatori hanno spiegato già che il gioco verrà espanso con i restanti 2/3 del contenuto.

New World, al netto di tutto ciò, si rivela senz’altro una boccata d’aria fresca per quei giocatori che si sono ritrovati in molti casi a rivivere la stessa eccitazione e frenesia dei primi anni 2000, periodo d’oro dei “Multigiocatore di massa”.

Cooperazione tra giocatori, altro elemento chiave. Fonte: Amazon Games

Resta da vedere se gli sviluppatori daranno ascolto al feedback dei giocatori e assesteranno quei pilastri pericolanti che a lungo andare possono rovinare un’esperienza che ha la possibilità di essere ricordata nel tempo, con gioia, dagli appassionati.

Matteo Mangano

Sam Raimi: una favola di regia

Nel corso della storia del cinema possiamo contare diversi esempi di uomini e donne capaci di imporre le proprie idee e farsi amare dal pubblico internazionale partendo da zero.

Compie oggi 62 anni Sam Raimi, regista che ha fatto la storia della settima arte imponendosi autonomamente in un settore estremamente ostico verso chi non possiede le conoscenza necessarie per poterci lavorare.

Noi di UniVersoMe vogliamo celebrarlo andando a ripercorrere le tappe più significative della sua carriera.

Le origini e la trilogia de La Casa

Alla base del successo del regista gioca un ruolo fondamentale l’amicizia con Bruce Campbell. I due si conoscono dai tempi della scuola e fin da adolescenti iniziano a girare dei cortometraggi con una cinepresa regalata a Sam dal padre.

Trascorrono gli anni e la passione per il cinema porta i due a fondare una propria società insieme a Robert Tapert (l’allora compagno di stanza d’università di Raimi): la Renaissance Pictures. Il primo film della nuova casa di produzione fu La Casa (1981).

La pellicola racconta di cinque ragazzi che si recano in uno chalet sito all’interno di un bosco per divertirsi. Qui vi trovano un libro scritto in sumero (il Necronomicon), mediante il quale involontariamente evocano un’entità maligna che li perseguiterà. Toccherà ad Ash Williams (Bruce Campbell) cercare di salvare se stesso e i suoi amici.

Una scena del film – Fonte: Renaissance Pictures

La Casa inizialmente venne accolto da pareri discordanti della critica e non ottenne particolare successo al botteghino. Nel corso degli anni però, grazie alla redistribuzione in home video, venne ampiamente rivalutato fino ad essere considerato uno dei cult movie a basso costo più amati della storia. A causa del budget bassissimo, Raimi dovette arrangiarsi parecchio durante le riprese: molti effetti speciali vennero creati con mezzi di fortuna sul set stesso.

Ciò che colpisce enormemente della regia è sicuramente l’utilizzo della telecamera nei momenti in cui l’entità si muove tra i boschi: il regista ha deciso di effettuare delle riprese in soggettiva del demone mentre insegue i ragazzi. Gli inseguimenti vengono mostrati dal punto di vista dell’entità grazie a una sorta di steadicam (creata dal regista stesso), montata su un supporto mobile che garantisce un movimento fluido e veloce della cinepresa. Il risultato è un effetto tremolante senza alcuna perdita di qualità dell’immagine.

Nel 1987 il regista gira una sorta di sequel/remake, intitolato La Casa 2, con Bruce Campbell nuovamente nei panni  di Ash Williams. Grazie alla distribuzione di Dino De Laurentis e ad un budget 10 volte superiore al film precedente, Raimi riesce a riproporre ciò che aveva già realizzato ne La Casa, innalzando esponenzialmente la qualità della pellicola.

Un elemento estremamente importante della pellicola è certamente l’aspetto del protagonista: Ash ad un certo punto del film è costretto ad amputarsi una mano e poi ad autoimpiantarsi una motosega per sostituirla. Con una mano-motosega da un lato ed un fucile dall’altro, diviene a tutti gli effetti un personaggio iconico nel panorama del genere horror. Un esempio di come Raimi riesca ad aggiungere particolari significativi alla trama che restano impressi in maniera indelebile nella mente dello spettatore.

Ash ed il suo amato braccio-motosega

Nel 1992 esce il seguito diretto de La Casa 2 intitolato L’armata delle tenebre, film visceralmente diverso dai precedenti.  Non ci troviamo più di fronte ad un horror con sprazzi di comicità, ma più propriamente davanti ad un fantasy che vede sempre Ash Williams catapultato nel medioevo dove dovrà fronteggiare le forze del male.

La trilogia di Spider-Man: rinascita del cinecomic

Dopo il successo della trilogia de La casa, arriva un’occasione più unica che rara per il regista: nel 2000 la Sony gli affida il compito di dirigere Spider-Man. Un momento significativo per la carriera di Raimi: se prima il regista aveva tutta la libertà del mondo per esprimere la sua creatività da cineasta senza particolari pressioni, ora si ritrova su un livello estremamente più elevato.

Impostando la pellicola come una sorta di commedia d’azione con spruzzi di romanticismo d’alta classe (il bacio tra Peter Parker e Mary Jane meriterebbe un intero articolo a parte!) e gag esilaranti, il regista gira un film che incassa 800 milioni di dollari.

Il famoso bacio tra Peter Parker (Tobey Maguire) e Mary Jane (Kirsten Dunst) – Fonte: Columbia Pictures/ Sony Pictures

Fino ad allora i film sui supereroi erano considerati B-movies e le grandi case di produzione – a parte rarissime eccezioni- non investivano in tali progetti. Spider-Man (2002) fu un salto nel buio per la Sony, che grazie a Raimi decise poi di girarne due seguiti dal medesimo stile (in Spider-Man 3 però non sono presenti gag degne di questo nome). Da lodare anche le brillanti interpretazioni di tutto il cast (presente anche l’amico Bruce Campbell in un cameo).

La trilogia di Spider Man trascina una mole gigantesca di persone in sala ad assistere a un film di supereroi, segnando la rinascita del cinecomic e l’inizio di un periodo d’oro per il genere che arriverà fino ai giorni nostri con le pellicole del Marvel Cinematic Universe.

Sam Raimi – Fonte: horrorstab.com

Raimi è un esempio lampante non solo di come si fa cinema, ma di come si possa creare qualcosa che abbia qualità in qualsiasi condizione. Senza soldi gira una pietra miliare del genere horror, con i soldi dà linfa vitale al genere cinematografico più redditizio di sempre. Chapeau Mr Raimi.

Vincenzo Barbera

 

 

La scuola cattolica: figli di una mala educazione

Un film che porta a riflettere sull’educazione di ieri e di oggi per fare in modo che la violenza non si ripeta – Voto UVM: 4/5

 

Presentato fuori concorso alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia, quello tratto dal romanzo Premio Strega (2016) di Edoardo Albinati e diretto da Stefano Mordini, è un film che racchiude in sé dolcezza e atrocità.

La scuola cattolica racconta infatti uno dei fatti di cronaca nera più terribili del nostro paese: il delitto del Circeo.

La vera storia del massacro

Nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1975, dopo torture morali, fisiche e sessuali, tre giovani appartenenti all’alta borghesia romana: Gianni Guido, Andrea Ghira e Angelo Izzo, uccidono la diciassettenne Rosaria Lopez, che insieme alla sua coetanea Donatella Colasanti, li aveva seguiti nella Villa al Circeo di Ghira, convinta di andare al mare. I tre caricano le due ragazze nel bagagliaio di una Fiat 127, che parcheggiano sotto l’abitazione dello stesso Guido, per poi allontanarsi. È allora che Donatella, tramortita e ferita, con piccoli gemiti riesce a richiamare l’attenzione di un vigile notturno che la salva. Dei tre colpevoli saranno arrestati solo Guido e Izzo, mentre Ghira non sarà mai catturato.

Emanuele Di Stefano (Edoardo Albinati) in “La scuola cattolica”

Al cinema

Con una struttura complessa che si presenta quasi come un crescendo musicale, il film si dirama in più linee narrative: dall’educazione dei ragazzi ai quali vengono imposte finte punizioni, alla loro libertà incontrollata, da quelle istituzioni che si presentano come i capisaldi di una società purtroppo non più in grado di crescere quei giovani uomini, finendo per nascondere sotto il tappeto una montagna di polvere – o meglio micce pronte a prendere fuoco.

La genesi di tutto è da ricercare proprio all’interno di un liceo cattolico destinato ai figli dell’alta borghesia romana, che si presenta come il terreno ideale in cui far crescere il seme della violenza e della “mala educazione”.

Produttivamente e poeticamente sembrerebbe alludere all’ormai lontano Romanzo Criminale di Michele Placido (2005) con cui condivide gli eccessi e i difetti di un’alquanto instabile società e del suo progredire verso l’inevitabile inconsistenza di un futuro frammentato, caotico e privo di certezze. Anche se, a differenza della pellicola di Placido, Stefano Mordini, lascia ampio spazio ad atteggiamenti instabili, pericolosi ed estremi, il film non mostra quasi mai la violenza in scena ma la evoca, ad esempio, nelle suppliche sfinite di Donatella, interpretata magistralmente da Benedetta Porcaroli.

Benedetta Porcaroli (Donatella) e Federica Torchetti (Rosaria) in una scena del film.

L’opera di Mordini si chiude ricordandoci che Rosaria e Donatella furono massacrate prima fisicamente e poi moralmente da stampa e opinione pubblica, che addossarono loro la colpa per quanto accaduto. In pratica se l’erano andata a cercare, salendo su quella Fiat 12! Rispetto ad allora le cose sembra che non siano cambiate. Basterebbe entrare su qualsiasi social network, accendere la Tv o la radio per ascoltare frasi del tipo «se la sono andata a cercare», riferita a donne colpevoli semplicemente di aver messo una gonna troppo corta o aver risposto male a un uomo.

La censura

Il nostro bel paese come sempre non perde l’occasione di dimostrarsi incoerente e contraddittorio. Il film, realizzato col sostegno del Ministero della cultura (MiC), è stato poi censurato dalla Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche proprio dopo che lo scorso aprile, lo stesso Dario Franceschini, alla firma del decreto per l’istituzione della nuova commissione, aveva dichiarato abolita la censura cinematografica:

“Definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti.”

Il film è ad oggi vietato ai minori di 18 anni. La Commissione si è lamentata del fatto che le vittime e i carnefici vengono messi sullo stesso piano. Esplicito il riferimento alla scena di un professore che soffermandosi su un dipinto, mette sullo stesso livello la figura di Cristo e dei suoi flagellanti.

Al contrario, il messaggio che Mordini voleva trasmettere al pubblico, doveva essere inteso come uno strumento per capire la differenza tra le vittime e i loro carnefici, tra il giusto e lo sbagliato, per prendere atto del peso della responsabilità di chi sbaglia e non di chi subisce. È assurdo come venga vietato un film assolutamente necessario per gli adolescenti di oggi, donne e uomini di domani.

Ferrazza (Edoardo Carbonara), Edoardo Albinati (Emanuele Di Stefano), Carlo Arbus (Giulio Fochetti)

Da guardare: sì o no?

Senza ombra di dubbio, quella che il regista prova a raccontare, è una delle pagine criminali più allucinanti del nostro dopoguerra. Prova però a farlo in maniera intelligente, privilegiando una coralità narrativa, a discapito di un’analisi antropologica e sociologica del periodo storico. È infatti assente la vicinanza dei tre carnefici agli ambienti fascisti o il loro abuso di droghe.

Mordini, dunque, ci pone davanti un affresco del 1975 con scene prive di pathos e tensioni, ma pur sempre con una grande valenza sociale. Un film che tutti dovrebbero vedere, per fare in modo che la violenza non si ripeta.

Domenico Leonello

Feel Good: il mix perfetto tra dramma e commedia

 

                 Una serie che tratta temi importanti, con leggerezza- Voto UVM: 5/5

 

Ideata da Mae Martin e Joe Hampson, Feel Good è una serie tv di tipo dramedy (capace di unire il dramma alla commedia) composta da due stagioni: la prima (2020), uscita inizialmente su Channel 4, in Inghilterra, e successivamente trasmessa a livello mondiale su Netflix, e la seconda (2021), diffusa direttamente dall’azienda di streaming statunitense. La serie è prodotta dalla Objective Fiction.

Entrambe le stagioni sono composte da sei episodi che vedono come protagoniste la stessa Mae Martin, nel ruolo autobiografico di una stand-up comedian, e Charlotte Ritchie (che interpreta George). Tra i personaggi secondari vanno ricordati il coinquilino di George, Phil (interpretato da Phil Burgers) e Linda ( Lisa Kudrow), la madre di Mae.

Feel Good: un racconto semi-autobiografico

Mae Martin è una stand-up comedian di origini canadesi che, per questioni lavorative, si trasferisce a Londra. Durante uno dei suoi spettacoli, Mae incontra Georgina (detta George), la donna con la quale deciderà presto di iniziare una relazione. Il rapporto, però, non si rivelerà tra i più sani e positivi. Da un lato abbiamo George, donna che si è sempre considerata eterosessuale e fatica a rendere pubblica la sua bisessualità. Dall’altro lato abbiamo Mae, incapace di costruire relazioni sane, sia in campo amoroso sia con i suoi genitori.

La dipendenza dalla cocaina e la dipendenza affettiva

Nel corso della serie, scopriamo molte informazioni sul vissuto di Mae: ha fatto ampio uso di sostanze stupefacenti, nello specifico cocaina, e si trova ora costretta a sottoporsi a delle sedute di gruppo per affrontare il suo problema. La protagonista fa uso di droghe per cercare di evadere dalla realtà, in quanto ha un rapporto conflittuale con se stessa che non le permette di essere felice. La stessa forma di dipendenza che Mae prova verso la cocaina sembra nascere anche nei confronti di George. La loro relazione sarà infatti caratterizzata dall’ansia e dalla paura di Mae di perdere la partner.

Mae e George. Fonte: Netflix

Il rapporto difficile tra genitore e figli

I problemi vissuti dalla protagonista hanno radici molto profonde: sono legati soprattutto al rapporto tossico che Mae e i suoi genitori hanno costruito. La stand-up comedian e la madre – interpretata dall’attrice Lisa Kudrow – non vanno d’accordo. La madre è infatti pronta a scaricare ogni responsabilità, ogni problema sulla figlia. La serie, quindi, permette di riflettere su questioni che molte volte vengono messe in secondo piano, come l’importanza di una presenza costante e costruttiva dei genitori nella vita dei figli.

Le novità della seconda stagione

La seconda stagione di Feel Good vede la conferma di molti personaggi conosciuti nella prima stagione: Mae, che nella prima puntata cerca di fuggire da una clinica per tossicodipendenti; George, impegnata con il lavoro da insegnante e con nuove relazioni; Phil, che in questi nuovi episodi diventerà un personaggio importante nella vita delle due protagoniste e infine Linda. Tra le new entry bisogna citare John Ross Bowie, che interpreta Scott, un amico di Mae.

Se nella prima stagione la serie si è concentrata su Mae e sulla sua relazione con George, nella seconda stagione vengono analizzati altri aspetti: si scopre che Mae soffre del disturbo post traumatico da stress. Questo le causa forte ansia e la porta ad adottare comportamenti insoliti, come sdraiarsi sotto il letto in cerca di protezione.

Un ruolo importante verrà svolto da Scott, un amico di lunga data della protagonista che lavora nel mondo dello spettacolo. Inizialmente, il rapporto tra i due sembra normale. Man mano che la storia prosegue, però, si capirà la vera natura della loro relazione, che verrà totalmente rivalutata.

Mae si troverà costretta a lottare con gli eventi del suo passato e ad affrontare le persone che le hanno fatto del male. La protagonista cercherà anche di ricostruire il suo rapporto con George, incrinatosi verso la fine della prima stagione. Ciò la porterà anche a spostarsi tra l’Inghilterra e il Canada, alla ricerca dell’equilibrio perduto. L’incontro con i suoi genitori le permetterà poi di affrontare la madre, nel tentativo di creare la famiglia felice tanto desiderata.

Mae in macchina con i suoi genitori

 L’originalità di Feel Good

Sebbene la serie tv affronti temi molto complessi, come la tossicodipendenza, la dipendenza affettiva, il disturbo post traumatico da stress e la difficoltà di accettare la propria sessualità e identità di genere, è capace di presentarli in maniera semplice, leggera e soprattutto divertente. Proprio questa leggerezza è ciò che rende Feel Good scorrevole e mai noiosa.

Una volta terminati gli episodi, lo spettatore sarà portato a riflettere sulle situazioni vissute dalla protagonista, ma non solo: quelle situazioni lo indurranno a interrogarsi anche sul suo vissuto, costringendolo a mettersi in dubbio e ad analizzarsi fino in fondo. Ed è tutto questo che fa di Feel Good una serie imperdibile!

 

Beatrice Galati

Che la sfida abbia inzio: “Come farsi lasciare in 10 giorni”

Talvolta quando le storie finiscono portano con sé grandi sofferenze. Ma se questa volta bastasse una fine per creare un nuovo inizio?

Come farsi lasciare in 10 giorni è un film diretto da Donald Petrie e risale al 2003. Si tratta di una commedia a tratti molto romantica che racconta la storia di Andie Anderson, brillante giornalista, e Benjamin Berry, un affascinante e affermato pubblicitario.

Dopo la fine di una storia, quasi sempre, il mondo sembra essersi inaridito ed ogni cosa assume un significato diverso. È come se tutto si fermasse o continuasse da solo mentre inerme assisti allo scorrere del tempo.  Una clessidra che continua a perdere polvere sottilissima, con estrema fluidità.E se fosse invece l’inizio di tutto? Se proprio come succede nella clessidra, quella polvere non svanisce del tutto ma si riposiziona solo su un altro ripiano e acquisisce valore dando vita ad una nuova possibilità, ad un secondo tempo?

Ricostruiamo i pezzi del nostro puzzle e scopriamo cosa succede tra Andie e Benjamin.

Dal Film “Come farsi lasciare in 10 giorni”. Fonte: Paramont Pictures

Scegliersi

Kate Hudson nelle vesti di Andie è una giovane e bella giornalista che lavora per un periodico tutto al femminile, ovvero il Composure Magazine. Durante una riunione del giornale, le viene affidato il compito di scrivere un articolo dal titolo “Come farsi lasciare in 10 giorni”. L’incarico le permetterà in seguito non solo di avere successo nel proprio campo professionale e lodi dalla direttrice generale, ma addirittura la possibilità di trattare a scelta dei temi più seri diventando più autonoma. Una proposta molto allettante per Andie che sognava da molto tempo questo incarico.

Dall’altra parte abbiamo Matthew McConaughey che interpreta il ruolo di Ben, pubblicitario specializzato in articoli sportivi con un solo interesse: occuparsi di un progetto importante che vede protagonista un famoso cliente produttore di diamanti costosi. Ad ostacolare questo futuro evento saranno due colleghe, le quali affermeranno che in quanto donne conoscono esattamente le strategie per coinvolgere il pubblico alla campagna. Ma Ben è determinato e per questo accetterà la sfida delle due, che consisterà nel dimostrare come anche lui conosce molto bene il gusto e l’interesse femminile. Per farlo? Sceglierà per caso o per destino la bellissima Andie.

I due ignari giocano la stessa partita ma con carte differenti ed obiettivi opposti; da quel momento perciò inizieranno a conoscersi e a frequentarsi per gioco.

Kate Hudson nei panni di Andie Anderson.

Che vinca il migliore

Sapete qual è la storia più vecchia del mondo? Due persone che, giocando la stessa partita, finiscono per perdere di vista il gioco e si lasciano trasportare dalle diverse emozioni, iniziando così ad esplorare il panorama dell’amore, imparando a conoscere tempi e sfumature dell’altro.

Quello che succede ad Andie e Ben non è molto chiaro dall’inizio, in quanto la storia inizierà a prendere una piega solamente dopo alcuni eventi importanti (che potrete scoprire solamente guardando il film!).

Ben: Perché dovrei volere un’altra donna? Tu hai tante di quelle personalità che mi tieni totalmente occupato!”

Il ruolo affidato ai due attori sembra fatto apposta per mostrare le potenzialità di entrambi: dolci, divertenti e a tratti romantici. Inoltre, molte scene sono state improvvisate, ad esempio la scena in cui Andie ricopre di baci Ben dopo avergli presentato il suo cane. Ben in quel momento sembra preso alla sprovvista.

Ben e Andie

Ad ogni modo, questo celebre film risulta, agli occhi attenti dello spettatore, una pellicola ben fatta con molti colpi di scena e momenti magici, accompagnati da scene sempre differenti e alcune volte da una spiccata comicità, come quel momento in cui:

Andie: Oh, la nostra felce dell’amore: è morta!
Ben: No tesoro, sta dormendo.”

Non finisce qui

Ben: Sai una cosa? Il lavoro lo hai portato a termine.
Andie: Sì, infatti.
Ben: Volevi farti lasciare in 10 giorni? Complimenti, ci sei riuscita adesso… mi hai perso.
Andie: Non ti ho perso, Ben… non si può perdere una cosa che non si è mai avuta.”

Dopo la tempesta ritorna sempre il sole e per fortuna ci sarà qualcosa che farà scattare la scintilla tra i due.
Alcuni rapporti all’inizio sembrano molto difficili da gestire, sembrano dei viaggi in macchina interminabili lungo strade dissestate e senza connessione internet, poi succede qualcosa che segnerà o un nuovo inizio o una banale rottura e finalmente tutto avrà un senso. Ogni tassello ritornerà magicamente al proprio posto.

Annina Monteleone

 

 

“Ritorno all’Eden”, una graphic novel sull’importanza della memoria

 

Paco Roca ritorna col suo ultimo capolavoro: una storia semplicemente straordinaria- Voto UVM: 5/5

 

Ritorno all’Eden è l’ultima opera a fumetti dell’autore spagnolo Paco Roca, pubblicata da Tunué, tradotta in Italia da Diego Fiocco e disponibile in libreria e fumetteria dal 7 ottobre. Una storia intima e personale, premiata nel 2020 come migliore opera nazionale dalla critica spagnola, “Regreso al Edén” ci catapulta nella vita di Antonia, mamma dell’artista, le cui vicende, vignetta dopo vignetta, osserviamo assumere la forma di un’esistenza.

Trama

Ripercorriamo la giovinezza di Antonia a partire dall’ultimo giorno che trascorse con sua madre e sua sorella, immortalato in una foto di famiglia scattata nel 1946 in spiaggia, a Valencia. Quell’istante cristallizzato nella foto, Antonia lo conserverà per oltre settant’anni nel suo intimo e tra le mura domestiche come un ricordo felice della sua vita, un amuleto per inquadrare la sua storia da una prospettiva diversa.

Ritorno all’Eden, disegno foto di famiglia. Fonte: https://www.elmundo.es/

Scrive Roca nel prequel all’opera per il Corriere della sera:

“Mi parlava spesso con affetto di una fotografia, l’unica che aveva con sua  madre. Io ricordavo perfettamente quella foto perché è sempre stata in camera sua, sotto il vetro del suo comodino, molto vicino a lei. [..] Quella foto era piena di misteri. Il desiderio di saperne di più è la molla dietro la creazione di Ritorno all’Eden.”

La misteriosa assenza del padre di Antonia, in una foto da lei tanto amata e a lungo custodita, interroga l’autore che, disegno dopo disegno, ci guida nella comprensione degli eventi assurdi e drammatici che la storia stava intessendo attorno a lei, anche senza il suo permesso.

Gli anni di infanzia di Antonia sono infatti quelli del dopoguerra spagnolo, della dittatura franchista, del mercato nero. Come la maggior parte delle donne del suo tempo, la protagonista viveva in un ambiente familiare e sociale caratterizzato dalla violenza, dall’ignoranza e drammaticamente autoritario. Ma quella foto le rende dolce il ricordare, estromette dalla sua memoria quel tempo segnato dalla miseria come anche la brutalità del padre, entrambi lasciati fuori dall’inquadratura.

La scelta del titolo

Il titolo, Ritorno all’eden, ci parla di un ritorno ad una dimensione idilliaca, ad un paradiso perso per sempre ma in cui sperare. Un paradiso che Antonia si ricrea giocando con i propri ricordi, aggrappandosi ad una foto che lascia fuori tutto quello che Eden non è. Lo stesso paradiso che Carmen, sua madre, le raccontava in terrazzo tra i panni da stendere e raccogliere, insieme ad altre storie intrise di cultura popolare e fantasia.

Quando Carmen muore, Antonia è ancora giovanissima, ma prenderà il suo posto nelle faccende domestiche, nella gestione della casa e nell’utilizzo dell’immaginazione per evadere da una realtà opprimente.

Ritorno all’Eden, vignette. Fonte: fumettologica.it

La storia che Paco Roca ci racconta appare a prima vista “semplice”, una storia drammatica come tante altre. Ma ciò che rende magistrale ed emotivamente destabilizzante l’opera è proprio questa sua complessa semplicità. In poco più di 170 pagine, assistiamo al delinearsi della vita della protagonista e ci sentiamo trascinati dall’intreccio della sua storia familiare con quella della Spagna.

Roca parafrasando Picasso scrive:

“L’arte, diceva Picasso, serve all’artista per comprendere il mondo, le persone. E la memoria degli altri ci aiuta a conoscere il mondo e noi stessi.”

Conclusioni

Fin qui ci accompagna l’autore, sulla soglia di una maggiore comprensione del mondo che ci circonda, passando per un lavoro artistico che si nutre della riflessione dei figli sulla memoria dei padri.

Possiamo tranquillamente definire Regreso al Edén un’opera splendidamente riuscita, per struttura narrativa, potenza evocativa dei disegni e della colorazione dai toni calmi e malinconici. Anche l’impaginazione orizzontale, con la copertina cartonata scelta da Tunué, prepara il tatto all’esperienza del riportare alla memoria, perché ricorda quei vecchi album fotografici di famiglia, riscoperti pieni di polvere nelle case dei nostri nonni.

 

                                                                                                                                                      Martina Violante

 

Respect: omaggio alla Regina del Soul

        Un tuffo da non perdere nella vita dell’icona soul degli anni ’60 – Voto UVM: 4/5

Diretto da Liesl Tommy, regista americana di origini sudafricane, Respect è un film biografico che narra le vicende di Aretha Franklin. La pellicola ripercorre la vita dell’artista, dall’infanzia passata nel coro della chiesa del padre, il predicatore Clarence LaVaughn Franklin, fino al debutto sul palcoscenico, in età adulta.

Le riprese del film iniziano a settembre del 2019 ed è la stessa Aretha Franklin che, prima della sua morte nel 2018, approva la scelta dell’attrice Jennifer Hudson per interpretarla. Il film viene distribuito nei cinema statunitensi dal 13 agosto 2021, mentre in Italia viene trasmesso dal 30 settembre.

La pellicola vede come protagonisti, oltre alla Hudson, anche Marlon Wayans (Ted White), Audra McDonal (Barbara Franklin), Skye Dakota Turner (la piccola Aretha), Forest Whitaker (C. L. Franklin), Tituss Burgess (James Cleveland), Marc Maron (Jerry Wexler), Albert Jones (Ken Cunnighigham), Gilbert Glenn Brown (Martin Luther King Jr.).

Un viaggio nella vita della Regina del soul: dall’infanzia alla celebrità mondiale

Nei primi minuti del film viene mostrata un’Aretha bambina, interpretata da Skye Dakota Turner. Durante una festa, organizzata a casa del padre, Aretha è invitata a cantare per gli amici e i parenti presenti. Dalle prime note del brano cantato dalla protagonista tutti capiscono di essere di fronte a un prodigio.

A seguito dell’improvvisa morte della madre, Barbara Siggers Franklin, Aretha subisce un forte trauma, che manifesterà attraverso il mutismo. Lei e la madre erano molto legate, entrambe avevano una voce unica e si divertivano cantando insieme. Sarà proprio grazie alla musica infatti che Aretha ritornerà a parlare.

Nella vita della cantante sono presenti due figure maschili che, consapevoli del dono della donna, cercheranno in tutti i modi di controllarla: uno è il padre e uno è il futuro marito, Ted White.

Nel 1961, Aretha sposa Ted White, uomo non ben visto dalla sua famiglia e che diventerà il suo manager. Nel 1969 i due divorzieranno, proprio a causa del comportamento violento e da manipolatore di Ted.  E sarà da questo momento che Aretha prenderà in mano le redini della sua carriera. Tra le sue hit ricordiamo: Respect, finita di recente al primo posto tra le 500 migliori canzoni della storia secondo Rolling Stone, e (You make me feel like) A Natural Woman.

Aretha Franklin e Martin Luther King Jr.: l’attivismo e la lotta per i diritti civili

All’interno del film viene rappresentato anche lo splendido rapporto tra la Franklin e Martin Luther King Jr. La cantante agisce attivamente nella lotta per i diritti civili degli afroamericani. Il brano Respect diventa, negli anni Sessanta, l’inno del movimento. Nella pellicola viene ricordato anche il giorno dell’assassinio di King Jr. e vengono riportati anche materiali originali, tra cui il video del suo funerale. Proprio in onore dell’amicizia che legava la cantautrice all’attivista, Franklin gli renderà omaggio con un’esibizione.

Il travagliato rapporto di Aretha con il padre e il marito

Uno degli aspetti fondamentali sul quale si sofferma il film è il rapporto che Aretha svilupperà con il padre, prima, e con il marito Ted, dopo.

Questi due personaggi, interpretati rispettivamente da Forest Whitaker e Marlon Wayans, sono allo stesso tempo simili e diversi. L’aspetto che li accomuna è sicuramente la volontà di controllare la cantautrice, dalla scelta delle canzoni alle decisioni sui componenti della band, le interviste, i tour.

La solida differenza sta nel sentimento che i due uomini provano verso Aretha: il sentimento che spinge il padre a comportarsi in maniera autoritaria è d’affetto, di protezione, mentre il comportamento del marito Ted è volutamente manipolatorio e violento. È a conoscenza di uno dei demoni che tormentano la moglie: la violenza sessuale (durante l’infanzia, la protagonista resta incinta a seguito di un abuso). Questo trauma, insieme a quello molto forte dovuto alla morte della madre, permetteranno a Ted di controllarla e allo stesso tempo, anche dopo il divorzio, porteranno Aretha a fare abuso di alcol.

Aretha (Jennifer Hudson)  e Ted  (Marlon Wayans). Fonte: Metro-Goldwyn-Mayer Inc.

Dalla parabola negativa al ritorno al gospel: Amazing Grace

Quando la vita della cantante sembra totalmente in discesa, arriva la svolta: in una delle scene (la più commovente) che ci introducono alla parte finale del film (che non verrà citata qui), Aretha capisce di dover cambiare, capisce che c’è solo un’unica cosa che può fare: tornare da Dio, tornare al gospel che aveva abbandonato quando aveva deciso di ribellarsi al padre.

La figlia del reverendo Franklin decide di ritornare nella chiesa in cui cantava da bambina, grazie all’aiuto del suo insegnante di pianoforte e amico, il reverendo James Cleveland. In chiesa Aretha canterà una serie di canzoni gospel, che faranno parte dell’album di maggior successo della cantautrice, da lei stessa prodotto: Amazing Grace.

Considerazioni

Respect non ha come obiettivo quello di ripercorrere in maniera dettagliata la carriera musicale di Aretha Franklin. Tende, invece, a soffermarsi sull’aspetto psicologico e sul suo vissuto personale. Nonostante questo, la pellicola permette di apprezzare il talento e la bravura della cantante – anche grazie all’interpretazione della Hudson. Insomma, un film imperdibile per gli amanti della Regina del soul.

Beatrice Galati

Matt Damon: il Mr. Ripley del cinema contemporaneo

Matt Damon, grande interprete del cinema contemporaneo, oggi compie ben 51 anni! Nei suoi tanti anni di carriera, ha dimostrato la sua grande versatilità nei ruoli, lavorando con i registi più acclamati e recitando in film di diversi generi.

Nato l’8 ottobre del 1970, Matt, insieme all’amico d’infanzia Ben Affleck, si appassiona subito al mondo del cinema e dello spettacolo;  dopo essere riuscito ad entrare nella prestigiosa università di Harvard, abbandona gli studi per dedicarsi alla sua carriera da attore. Da qui già con i primi ruoli – tra cui quello nel film Mystic Pizza – viene subito notato per il suo talento.

Ma ora andiamo a parlare di alcuni film con le sue perfomance più riuscite!

 Will  Hunting: genio ribelle(1997)

Matt Damon e Robin Williams nei panni di Will Hunting e Sean Maguire; fonte: sciencecue.it

Will  Hunting, uscito nelle sale nel 1997, si può considerare la pellicola con cui il duo Damon-Affleck ottiene il primo grande successo. Il film racconta la storia di Will Hunting, un ragazzo brillante cresciuto in un quartiere povero di Boston che inizia a lavorare al Massachusetts Institute of Technology (MIT), dove si occupa di pulire le aule. Un giorno ,vedendo un problema scritto su una lavagna, lo risolve e da allora verrà seguito dal Professor Lambeau e dallo psicologo Sean Maguire, interpretato da Robin Williams, che lo aiuterà a gestire la sua rabbia e i suoi sentimenti.

Matt Damon e Ben Affleck vengono premiati agli Oscar per la migliore sceneggiatura originale e Robin Williams come miglior attore non protagonista; molte altre sono state le candidature sempre agli Academy Awards tra cui quella allo stesso Damon come miglior attore protagonista.

Il talento di Mr. Ripley (2000)

Matt Damon, Jude law e Gwyneth Paltrow ne “Il talento di Mr. Ripley”; fonte:appiapolis.it

Con Il talento di Mr Ripley, uscito nelle sale nel 1999, Damon dà nuovamente prova del suo talento, portando sul grande schermo un personaggio molto complesso e dotato di diverse sfaccettature; inoltre si confronta anche con un genere cinematografico molto diverso dal precedente Will Hunting: il thriller. Tom Ripley ( interpretato da Matt Damon), giovane affabile di umili origini, viene mandato da un ricco signore americano ad Ischia a convincere il figlio Dickie (un giovane ed affascinante Jude Law) a fare ritorno in America. Qui Ripley si presenta al giovane come suo vecchio collega all’università di Princeton; i due, insieme alla fidanzata di Dickie, Marge (Gwyneth  Paltrow), diventano un trio inseparabile e Tom inizia ad inspirarsi sempre di più a Dickie, emulandolo.

Il film ottenne ben 5 nomination agli Oscar, senza purtroppo vincerne neanche uno.

Trilogia Ocean’s (2001-2007)

Locandina del primo “Ocean’s”; fonte: amica.it

A questo punto ci è abbastanza chiaro: a questo grande attore piace cambiare e mettersi alla prova con ruoli sempre diversi; lo ritroviamo a fianco di altre grandi stelle del cinema, George Clooney, Brad Pitt e Julia Roberts, in Ocean’s eleven (2001),  Ocean’s twelve (2004)e Ocean’s Thirteen (2007).

I tre film raccontano le vicende di un gruppo di ladri professionisti che organizzano grandi rapine; Matt Damon interpreta Linus Caldwell, ragazzo figlio di ladri ancora un po’ inesperto.

The departed: il bene e il male (2006)

Jack Nicholson e Matt Damon in una scena del film; fonte: style.corriere.it

Quando avevo la tua età i preti ci dicevano che potevamo diventare o preti o criminali. Oggi quello che ti dico io è questo: quando hai davanti una pistola carica, qual  è la differenza?

Ultimo nella nostra analisi ma non meno importante, in The departed Damon si confronta nuovamente con un thriller, ma  molto diverso dai precedenti. Nel film, scritto e diretto da Martin Scorsese, l’attore interpreta Colin Sullivan, che fin da ragazzino inizia a far parte dell’organizzazione criminale guidata dal famigerato Frank Costello; Colin frequenta l’accademia di polizia e diventa una spia nel dipartimento di Boston. Contemporaneamente Billy Costigan (brillantemente interpretato da Leonardo di Caprio) viene mandato dallo stesso dipartimento sotto copertura a far parte del clan di Costello. Le vite dei due  giovani sono inevitabilmente destinate ad incrociarsi.

Oltre ad essere un film che trasporta molto lo spettatore per il continuo susseguirsi di colpi di scena, è anche caratterizzato da un cast eccezionale: oltre a Damon e Di Caprio, troviamo anche Jack Nicholson nel ruolo di Frank Costello e Mark Wahlberg nei panni di Dignam, uno dei due poliziotti che mantiene i contatti con Billy sotto copertura.

La pellicola vince ben 4 premi Oscar come miglior film, regia, sceneggiatura non originale e montaggio.

Per concludere…

Nei suoi ormai trent’anni di carriera, Matt Damon ha vissuto una grande crescita come attore per i vari personaggi che ha impersonato, e con essi ha sotto alcuni punti di vista scritto diverse pagine della storia del cinema contemporaneo. Nello stesso modo in cui è riuscito a passare da un ruolo all’altro in maniera camaleontica (un po’ come mr Ripley), così  ha anche collaborato con svariati grandi artisti del cinema, tra cui Francis Ford Coppola, Steven Spielberg e Christopher Nolan.

In poche parole, Matt Damon è una grande star del cinema americano e internazionale: non possiamo far altro che aspettare e vedere con quale altra performance ci stupirà nei prossimi film!

Ilaria Denaro