Lady Gaga: Il ritorno della Mother Monster con Mayhem

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Mayhem suona quindi come un disco restauratore che farà sicuramente la gioia dei suoi primi ammiratori; ma in un’epoca in cui l’innovazione si confonde con la nostalgia, viene da chiedersi se sia una rivoluzione o solo una riproposizione di formule collaudate e quindi un ritorno alla comfort zone dell’artista. Voto UVM: 4/5

Lady Gaga: uno zoom sulla popstar

Classe 1986, Lady Gaga (alias Stefani Joanne Angelina Germanotta), superstar newyorkese ed icona pop deve il suo nome alla canzone Radio Gaga dei Queen, band che ha voluto così omaggiare. Di origini italiane (il nonno era siciliano di Naso) la trentanovenne Gaga, è soprattutto una cantautrice, compositrice, attrice e attivista: un’artista camaleontica dai look più eccentrici.

Riconosciuta come una delle personalità artistiche più significative degli anni Duemila, Lady Gaga ha iniziato la sua carriera nel 2008 con il singolo Just Dance, che ha ottenuto un grande successo nel 2009 raggiungendo la prima posizione in diverse classifiche internazionali, inclusa la Billboard Hot 100.  Il suo album d’esordio The Fame fu un grande successo ed ha venduto 15 milioni di copie. Iconiche sono state poi le sue Bad Romance, Poker Face, Born This way, Judas, Alejandro, Telephone (feat. Beyoncé), Bloody Mary, Perfect Illusion ecc…

Lady Gaga
Lady Gaga nel videoclip di “Poker face”

Per Shallow tratta dal film A star is born (2018) remake di Bradley Cooper del film del 76’ con Barbra Streisand, nel 2019 ha vinto sia un Golden Globe come migliore canzone originale, che un Oscar, arrivando così laddove nemmeno Madonna è riuscita. Ha poi recitato nelle pellicole di House of Gucci (2017) in cui interpretava Patrizia Reggiani e Joker: folie à deux (2024), nel ruolo di Harley Quinn e di compositrice della colonna sonora del film (che però si è rivelato un flop).

Vincitrice di numerosi GRAMMY AWARD (come ad esempio per il miglior album pop vocale nel 2011), MTV VIDEO MUSIC AWARD (tra i tanti nel 2020 per Rain on me feat. Ariana Grande come canzone dell’anno), BAFTA, CRITICS CHOICE AWARDS, BRIT AWARDS, MTV EUROPE AWARD (alla miglior artista femminile 2016, 2011, 2010) ecc,….

 

Lady Gaga
Lady Gaga alla cerimonia di premiazione dei Grammy Awards. photo: The Academy

Mayhem: il nuovo, atteso album di Lady Gaga

Lo scorso 7 marzo è tornata con il suo ottavo album in studio Mayhem che si può definire gotico e dancefloor. Con questo titolo, che in italiano significa confusione, caos, Gaga esalta il potere celebrativo della musica.

L’album contiene 14 tracce tra cui LoveDrug, Killah, Zombieboy, The Beast, Blade of Glass, Perfect Celebrity ; ed è stato anticipato da singoli di successo come Die with a smile con Bruno Mars, Disease e Abracadabra ( il termine significa “io creo mentre parlo” ed è un chiaro richiamo alla magia). Una canzone si fa notare poi, ovvero, Shadow of a man, un tributo al Re del pop Michael Jackson, visto che Gaga ha usato la sua voce. Inoltre, la cantante ha svelato questa sua ultima creazione proprio ai Grammy Awards 2025 introducendola con :

 la categoria è: balla o muori.

Lady Gaga
Lady Gaga per il suo nuovo singolo “Abracadabra”

Il trionfo di Mayhem nelle classifiche conferma la posizione di Lady Gaga come una delle artiste più influenti e amate del panorama musicale contemporaneo. Questo album è decisamente più simile alla Mother Monster di inizio carriera anziché alla ragazza acqua e sapone dell’album Joanne e di Chromatica nel 2020 che includeva musica dance elettronica.  Gaga riguardo a questo suo ultimo lavoro ha confessato:

Volevo tornare su un sentiero conosciuto, ma anche aprirne uno nuovo e non è facile, se nel disco ci sono momenti tipo “questa mi ricorda qualcosa” è perché ho un mio stile, ma mi sono sforzata musicalmente di spingermi in un territorio nuovo.

Mayhem suona quindi come un disco restauratore che farà sicuramente la gioia dei suoi primi ammiratori; ma in un’epoca in cui l’innovazione si confonde con la nostalgia, viene da chiedersi se sia una rivoluzione o solo una riproposizione di formule collaudate e quindi un ritorno alla comfort zone dell’artista.

Curiosità sull’artista…

Lady Gaga ai MuchMusic Awards

Nel 2009 Gaga ha indossato sul palco un reggiseno in fiamme e, sempre lo stesso anno, per una performance alla House of Blues, un abito fatto di bolle trasparenti. Ma tra i suoi tanti outfit eccentrici resta indimenticabile il  Meat Dress.  La cantautrice statunitense lo ha indossato in occasione degli MTV Video Music Awards del 2010 , vincendo per “Video dell’Anno”.  Molti artisti (come la vegana Cher, che le ha consegnato il premio) si sono presto schierati favorevolmente giudicando l’abito un’assoluta opera d’arte e frutto di puro genio. Non tutti sanno poi, che oltre al fatto che suona il piano dall’età di 4 anni, per mantenersi durante i suoi studi alla Tisc School of Arts di New York, Gaga ha lavorato come spogliarellista e poi come ballerina di go go dance.

Lady Gaga che indossa il suo iconico “meat dress” agli MTV Music Awards 2010

Carmen Nicolino

Daredevil: Rinascita – La serie Marvel di cui avevamo bisogno

I primi episodi della nuova serie Marvel sono promettenti, Charlie Cox e Vincent D’Onofrio offrono prove convincenti, con interessanti prospettive per i rispettivi archi narrativi, ma aspettiamo conferme dagli episodi successivi. Voto UvM: 3/5

Daredevil: Rinascita è una delle serie più attese del Marvel Cinematic Universe (MCU), segnata dal ritorno di Charlie Cox nei panni di Matt Murdock/Daredevil e di Vincent D’Onofrio come Wilson Fisk/Kingpin. La serie, destinata a Disney+, promette di rilanciare il personaggio dopo la popolare serie Netflix Daredevil (2015-2018).

1. Il ritorno di Matt Murdock

2. La trama dei primi episodi

3. Una serie in cerca di conferme

4. Quale futuro?

5. Conclusioni

Il ritorno di Matt Murdock

Annunciata inizialmente come serie di 18 episodi, la nuova avventura televisiva di Matt Murdock nasce come tentativo di portare all’interno del MCU i personaggi del franchise di Netflix. I Marvel Studios tuttavia, non soddisfatti del risultato, hanno deciso di resettare la produzione e di riscrivere il progetto.

La serie, che ha debuttato su Disney+ il 5 Marzo con i primi due episodi è a tutti gli effetti la prima parte di un progetto diviso in due stagioni da 9 episodi, con una struttura narrativa a metà tra narrazione episodica e macro-trama orizzontale. E la puntata pilota sembra quasi un’estensione dell’ultima stagione dello show targato Netflix non solo per quello che succede ma per il suo valore produttivo, per la regia audace, per le scelte visive coraggiose. Sia perciò chiaro che questo vecchio-nuovo Daredevil è un soft-reboot che vuole apertamente citare le atmosfere mature e violente del franchise di Netflix.

Daredevil
Matt Murdock a.k.a. Daredevil – © Disney Plus

 

La trama dei primi episodi

Sicuramente l’intento di questa serie è sfruttare quanto di buono fatto dalla serie Netflix e sembra che i presupposti siano molto buoni. La serie riprende dunque le fila di un discorso interrotto anni fa e continua a farci seguire le avventure di un avvocato non vedente con abilità potenziate in quel di New York. E la storia, anche fumettistica se volete, del personaggio è proprio questa: una carriera professionale e uno studio legale da portare avanti e una lotta per la giustizia che va combattuta anche fuori dalle aule di un tribunale.

Tutto converge nell’incontro-scontro, inizialmente dialettico, tra Matt Murdock e il suo arcinemico storico, Wilson Fisk. Ottimo in tal senso il lavoro di entrambi gli interpreti, di Cox come di Vincent D’Onofrio, che danno solidità emotiva ai rispettivi archi narrativi.

Daredevil
Matt Murdock (Charlie Cox) e Wilson Fisk (Vincent D’Onofrio) in una scena del primo episodio – © Disney Plus

 

Una serie in cerca di conferme

Anche l’azione è in linea con il precedente in casa Netflix. Non si è commesso l’errore di ridimensionare la solida componente action, né di annacquarne lo spirito crudo e cupo con un approccio più leggero. Non nei primi episodi almeno, in cui abbiamo almeno un’ottima sequenza di combattimento: è azione dura, solida, tangibile, che mette i personaggi al centro e fa sì che lo spettatore possa partecipare emotivamente.

Insomma un inizio più che promettente, che però ci riserviamo di valutare di settimana in settimana, tenendoci per ora cauti sul giudizio complessivo. Infatti, salvo poche eccezioni, sono poco le serie tv del MCU ad aver mantenuto i buoni propositi mostrati coi primi episodi. Se la qualità dovesse confermarsi quella dei primi episodi, saremmo senza ombra di dubbio di fronte ad uno dei migliori prodotti Marvel degli ultimi anni. L’obiettivo dev’essere quindi mantenere la qualità narrativa e l’approfondimento dei personaggi.

 

Quale futuro?

L’integrazione di Daredevil nel MCU apre a numerose possibilità narrative. Matt Murdock potrebbe apparire in altri progetti legati a New York, come Spider-Man 4 o i futuri film dedicati agli Avengers. Inoltre, il ritorno di Kingpin potrebbe portare a una rivalità su scala più ampia, magari collegata a un adattamento di Shadowland o altre storie del lato più urbano e “grounded” dell’MCU.

Certo è che i Marvel Studios stanno puntando molto su questa serie tv, il cui obiettivo è evidentemente risollevare le sorti del franchise dopo il fenomeno della Marvel Fatigue, che potremmo spiegare come un periodo in cui i Marvel Studios hanno anteposto la quantità alla qualità dei prodotti. Chiara conseguenza di ciò è stato un allontanamento di molti fan di lunga data ed una perdita di appeal di questi prodotti.

Daredevil
Charlie Cox, Deborah Ann Woll e Elden Henson in una foto dal set – © Disney Plus

 

Conclusioni

Questa serie ha tutte le carte in regola per riportare in auge uno dei personaggi più amati della Marvel, offrendo una nuova prospettiva sulla sua vita e le sue battaglie. Tuttavia, le sfide produttive e il cambio di rotta creativo avvenuto nella scrittura della serie rappresentano un’incognita significativa.

Se i Marvel Studios riusciranno a trovare il giusto equilibrio tra innovazione e rispetto per il materiale originale, questa serie televisiva potrebbe diventare una rinascita per Daredevil che va oltre il titolo, un punto di riferimento per le future serie TV del MCU. Anche i fan sperano in un prodotto che sappia coniugare azione, dramma e quel tocco di realismo crudo. Insomma, tutto ciò che ha reso il Diavolo di Hell’s Kitchen un’icona della televisione e dei fumetti.

Questi primi episodi lasciano quindi soddisfatti per come la serie si ricollega, narrativamente e tematicamente, a quanto visto in passato. Allo stesso tempo traccia una linea per poter costruire anche qualcosa di nuovo. Siamo ancora cauti nel giudizio complessivo, ma speranzosi per i segnali positivi sia sul fronte delle interpretazioni, che della scrittura dei personaggi e la costruzione delle sequenze d’azione. Potrebbe essere la serie Marvel di cui avevamo bisogno?

 

Pietro Minissale

Fedra: l’opera di Racine al Teatro Vittorio Emanuele

La Fedra di Jean Racine è approdata al Teatro Vittorio Emanuele per tre sere consecutive: 14, 15 e 16 marzo 2025. Alla regia Federico Tiezzi, che nelle due ore complessive di spettacolo -senza intervallo- ripropone una delle più riuscite rese artistiche delle passioni umane. Fedra ci viene presentata da una raffinatissima Catherine Bertoni de Laet, accompagnata da Martino D’Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro.

Sinossi

Ippolito, figlio di Teseo, vuole partire alla ricerca del padre del quale non si hanno più notizie. Ma il vero motivo del suo viaggio è l’intenzione di fuggire dal fascino di Aricia, di cui è innamorato. Intanto Fedra, moribonda moglie di Teseo, confessa a Enone del suo amore per il figliastro Ippolito, nonostante avesse sempre ostentato odio nei suoi confronti, nell’inutile tentativo di celarne il suo desiderio.

Panope annuncia la morte di Teseo, così Enone esorta la regina a lottare per la vita e per il trono, che altrimenti sarebbe andato a Ippolito e Aricia. Fedra pensa di poter finalmente confessare il suo amore a Ippolito. Ippolito, però, inorridito la respinge e lei chiede a quel punto di essere uccisa per mano sua, ma Enone lo impedisce. Panope comunica che il re è invece ancora in vita e Fedra teme che Ippolito dica tutto e la umili davanti a Teseo; chiede allora consiglio a Enone e questa dice a Teseo che il figlio ha tentato di violentare la regina.

Ippolito lascia Trezene. Teseo chiede al dio del mare Nettuno di punire il figlio, che ritiene colpevole. Fedra sta per scagionare Ippolito dall’ingiusta accusa ma, quando viene a sapere che Ippolito ama Aricia e non lei, abbandona il giovane al suo destino. Enone, invece, presa dal rimorso, si uccide gettandosi in mare. 

Un compagno di Ippolito, Teramene, sopraggiunge per raccontare che il giovane è stato assalito e straziato da un mostro mandato da Nettuno.Intanto, Fedra confessa a Teseo tutto il male che ha fatto e, dopo aver preso del veleno, muore ai suoi piedi. A Teseo non resta che tributare gli onori funebri al figlio e, secondo il voto espresso da quest’ultimo in punto di morte, adottare Aricia come propria figlia ed erede.

Fedra
Catherine Bertoni de Laet, accompagnata da Martino D’Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro neòòa Fedra di Federico Tiezzi.

Fedra: la potenza distruttiva delle passioni in un limbo tra Eros e Thanathos

Ispirata alla Fedra di Euripide e Seneca, viene riscritta da Racine nel 1677 e contaminata di una visione prettamente francese, si tratta di un’opera che ha il suo focus sul linguaggio che rende gli istinti palpabili e razionalizzati. Fedra vive un’esistenza claustrofobica, incatenata al proprio desiderio ancestrale, divorata dai mostri del suo inconscio. La protagonista si ritrova attanagliata da una voglia incresciosa, che rompe con l’ordine sociale precostituito. Causa un cortocircuito mentale che si traduce in un tracollo fisico: Fedra ci appare per la prima volta come un’esile ombra traballante, precaria e fragile. Il regista insiste sull’indagine dei personaggi e le loro trasformazioni in un atteggiamento psicanalitico quasi Freudiano. Racine ci presenta una Fedra imbevuta di giansenismo e di filosofia morale. L’opera consente di ritrovarsi in Fedra e a solidarizzare con l’illecito, sospinti verso un torto fatale, che ci ripresenta il topos della contrapposizione tra Eros e Thanathos.

Fedra: un incubo ambientato nella mente umana

Racine trasla Euripide in una dimensione borghese di cui mostra tutte le contraddizioni e colpe e peccati, in cui della Grecia restano solo le teste marmoree esposte e frammiste ad elementi degli anni ruggenti nelle splendide scenografie di Raggi, Zurla e Tiezzi stesso. Vediamo sul palco una Grecia onirica e mentale, scura da sembrare senza fondo, un ambiente freddo con arredi preziosi. É un baratro che nasconde nel suo buio i segreti di ognuno dei personaggi. In questo buio sono i movimenti di luce a scandire i momenti clou della rappresentazione. I costumi sono sospesi in una dimensione atemporale in cui coesistono vistose gorgiere del Seicento di Racine, paillettes, tuniche, abiti da sera e vestaglie. Per Fedra, Giovanna Buzzi, ai costumi, ha puntato sul concept della Femme fatale del tempo dell’Art Deco`.

Carla Fiorentino 

 

Marracash e l’incomunicabilità: l’Uomo, la Società e il Vuoto Contemporaneo

L’arte, quando è profonda, si manifesta come una riflessione sul tempo in cui nasce e sulle tensioni che lo attraversano. Negli ultimi tre album di Marracash (Persona, Noi, loro, gli altri ed È finita la pace), il rapper milanese ha costruito un percorso concettuale che non è solo autobiografico, ma si allarga a una visione esistenziale e politica della società contemporanea. Questo trittico musicale, nelle sue tematiche e nella sua costruzione narrativa, trova una corrispondenza sorprendente con la Trilogia dell’Incomunicabilità di Michelangelo Antonioni (L’avventura, La notte, L’eclisse), ma anche con film come Persona di Ingmar Bergman.

Persona: la frattura dell’io

L’album Persona (2019) è un’opera-manifesto, in cui Marracash scompone il proprio io come fosse un personaggio pirandelliano o un uomo immerso in un dramma esistenziale alla Bergman. Il titolo stesso rimanda al concetto di persona come maschera, un tema centrale nel cinema di Bergman, e in particolare nel suo film Persona (1966), dove il confine tra sé e l’altro si sfalda fino a diventare indistinguibile.

Non sono come te. Non mi sento come te. Sono Suor Alma, sono qui solo per aiutarti. Non sono Elisabet Vogler. Tu sei Elisabet Vogler.

In Persona, Marracash affronta questa crisi attraverso i titoli delle canzoni, che rimandano a parti del corpo, quasi a suggerire un tentativo di ricomporre un’identità fratturata. Il racconto si fa profondamente intimo: si parla di successo, depressione, amore tossico e della percezione pubblica di sé.

Non so se è amore o manipolazione
Desiderio od ossessione
Se pigrizia o depressione
Che finisca per favore, che esaurisca la ragione

Il parallelismo calza a pennello con il film di Bergman, dove la protagonista, un’attrice che smette improvvisamente di parlare, si sdoppia nella sua infermiera, fino a fondersi con lei. Allo stesso modo, Marracash esplora la sua identità artistica e umana, smascherando le contraddizioni tra ciò che è davvero e l’immagine che gli altri hanno di lui. Il risultato è un’opera che riflette sul tema dell’identità personale nel mondo dello spettacolo e oltre.

Noi, loro, gli altri: il senso di estraneità

Il secondo capitolo, Noi, loro, gli altri (2021), sposta il focus dall’individuo alla società, dalla dimensione personale a quella collettiva. Marracash ragiona su come la realtà esterna influenzi l’identità, analizzando il divario tra noi (chi sente di appartenere a una comunità), loro (l’élite o il potere) e gli altri (gli emarginati, gli esclusi).

Questo discorso trova un parallelo perfetto con la Trilogia dell’Incomunicabilità di Antonioni, in particolare con L’eclisse (1962), film che mostra il progressivo svuotamento emotivo dei personaggi, incapaci di trovare un senso nel mondo moderno.

Così come nel film, anche nell’album di Marracash domina un senso di disillusione: il successo e il potere non colmano il vuoto, mentre la società è sempre più frammentata.

Volevo davvero questo? Tutta la vita che ci penso (Dubbi)

Nel brano Dubbi, ad esempio, si avverte l’angoscia di una realtà in cui le divisioni sociali ed economiche rendono impossibile la comunicazione tra le classi, esattamente come i personaggi di Antonioni che, pur parlando, non riescono davvero a comprendersi.

Chissà perché si fanno tante domande? Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene. E poi, forse, non bisogna volersi bene.

Il finale di L’eclisse, con la dissolvenza su strade deserte e lampioni che si accendono, suggerisce un mondo privo di significato, e lo stesso si può dire per l’album di Marracash, che lascia più domande che risposte.

È finita la pace: il collasso dell’illusione

Con È finita la pace (2024), Marracash completa il percorso spostando il focus sul presente: la pace interiore e sociale è ormai perduta. L’album non parla più solo della crisi dell’individuo (Persona) o delle strutture che lo circondano (Noi, loro, gli altri), ma dell’impossibilità di ristabilire un equilibrio. Il titolo stesso suggerisce un punto di non ritorno, un’irreversibilità della crisi.

In questa fase, il parallelo cinematografico potrebbe essere con La notte (1961) di Antonioni, dove il rapporto tra i protagonisti (una coppia in crisi) riflette un malessere esistenziale più ampio.

Se stasera ho voglia di morire, è perché non ti amo più. Sono disperata per questo. Vorrei essere già vecchia per averti dedicato tutta la mia vita. Vorrei non esistere più, perché non posso più amarti.

Anche Marracash affronta il tema della fine delle illusioni: le relazioni affettive sono logorate, il sistema è irrecuperabile, il tempo non porta redenzione.

Escono di casa uno straccio, senza neanche un abbraccio, con il cuore d’intralcio quelli come me.

Un altro parallelo interessante è con Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini (1975), in cui il potere e la violenza diventano l’unica legge. È finita la pace sembra suggerire che la realtà attuale, tra guerre, disuguaglianze e alienazione, è diventata un luogo in cui non si può più trovare una via d’uscita.

Marracash

Marra Stadi 25: Messina attende il King del Rap

È l’artista delle sfide, dei record e delle ambizioni sempre più alte. Marracash non smette mai di superarsi, conquistando pubblico e critica con ogni nuovo traguardo. Dopo aver vinto la Targa Tenco e creato un festival unico per il rap italiano, è pronto a scrivere un’altra pagina di storia: con MARRA STADI 2025, sarà il primo rapper a portare un intero tour nei grandi stadi italiani.

Anche la Sicilia sarà protagonista di questo evento straordinario. Il 5 luglio 2025, Messina accoglierà la tappa imperdibile del tour allo Stadio San Filippo – Franco Scoglio, pronta a trasformarsi in un’arena di pura energia.

L’evento è organizzato da Puntoeacapo, in collaborazione con il Comune di Messina, sotto la guida del Sindaco Federico Basile, e l’Assessorato agli Spettacoli e Grandi Eventi Cittadini, rappresentato da Massimo Finocchiaro.

Gaetano Aspa

“M, Il Figlio del Secolo”: una serie sulla banalità del male

M. Il figlio del secolo Regia: Joe Wrigth Distribuzione: Sky Atlantic
Una meravigliosa serie Italiana. Voto UVM: 5/5

Il Figlio del Secolo, la serie tratta dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati, interpretata da un istrionico Luca Marinelli è un’opera spettacolare quanto necessaria. Il racconto dell’uomo, prima che del politico, Mussolini e di uno spezzone della storia più buia dell’Italia.

Una serie spettacolare ambientata in un Italia delirante

Joe Wright, regista tra gli altri anche de “L’ora più buia”, ambienta M. Il Figlio del Secolo in un Italia delirante. Ma il delirio è reale, nel 1919 l‘Italia è sul punto di non ritorno. La classe politica liberale è ormai esautorata, la prima guerra mondiale ha lasciato enormi ferite, il malcontento sempre più spesso sfocia in violenza e non si riesce più a dare un governo stabile al paese. È questo il clima storico fedelmente ricostruito in M. Il figlio del Secolo e che vede Mussolini fondare il 23 marzo 1919 la sua prima creatura politica: i Fasci italiani di combattimento. Lo spettacolo è presente in ogni scena, Wright e gli sceneggiatori riescono a ricostruire uno spaccato storico, che anziché annoiare intrattiene senza mai perdere di vista la vera caratura del male.

M. Il figlio del secolo Regia: Joe Wrigth Distribuzione: Sky Atlantic
M. Il figlio del secolo Regia: Joe Wrigth Distribuzione: Sky Atlantic

Il Figlio del Secolo è un inno alla banalità del male

Il più grande merito di M. Il Figlio del Secolo, è senza ombra di dubbio l’aver creato un fedele ritratto del male che in quegli anni c’era in Italia. Un male umano, un male fatto di violenza e olio di ricino, un male tanto presente quanto banale. La serie di Joe Wright infatti, pur romanzandone alcuni tratti, realizza un ritratto dei protagonisti dell’epoca che abbatte quel mito che la storia aveva quasi creato. Mussolini, i leader liberali, il re Vittorio Emanuele III e i gerarchi fascisti vengono raccontanti per quello che sono: uomini banali e pieni di difetti le cui scelte vincenti sono spesso frutto di indecisioni altrui e di una buona dose di fortuna. Il Mussolini di Marinelli ne è il più grande esempio, dietro l’immagine quasi mitologica del Duce si cela un uomo incoerente, infedele, ossessionato e pronto a scappare appena possibile.

Luca Marinelli, una performance attoriale incredibile

Se M. Il Figlio del Secolo funziona e convince gran parte del merito sta nel suo attore protagonista. Luca Marinelli ci regala una performance incredibile, ha anche preso ben 24 kg per il ruolo. Il suo Mussolini è sempre sopra le righe, in grado di passare da momenti grotteschi a momenti fortemente drammatici senza sembrare mai fuori luogo. La somiglianza non è solo fisica, Marinelli riesce infatti a ricreare perfettamente le movenze quasi teatrali che accompagnavano Mussolini nei suoi discorsi. L’interpretazione, seppur volutamente sopra le righe, ricostruisce fedelmente l’importanza storica e politica avuta da Mussolini sia all’interno del Partito Fascista sia nell’Italia degli anni 20. Il Mussolini di Marinelli è uomo, politico e Duce è tutto senza tralasciare nessuna sfaccettatura.

M. Il figlio del secolo Regia: Joe Wrigth Distribuzione: Sky Atlantic
M. Il figlio del secolo Regia: Joe Wright Distribuzione: Sky Atlantic

Un comparto tecnico di altissimo livello per M. Il figlio del Secolo

Il comparto tecnico di M. Il Figlio del Secolo è di altissimo livello. La scenografia è curata in ogni dettaglio e ricrea in maniera minuziosa l’Italia degli anni 20, sia nelle scene esterne che in quelle interne. I costumisti hanno svolto un lavoro eccezionale nel ricreare gli abiti e le divise militari di quegli anni dando alla serie una cifra stilistica di altissimo livello. La ricostruzione dell‘Italia degli anni 20 è fedelissima, la colonna sonora scelta accompagna magnificamente la messa in scena. Un plauso va anche al regista, Joe Wright, che con una regia fortemente ispirata regala a M. Il Figlio del Secolo un ritmo serrato che non annoia mai e che tiene incollati allo schermo e che permette di apprezzare la frenesia degli eventi senza mai perdere di vista il loro valore politico e storico. Scelta vincente quella della rottura della quarta parete dove Mussolini si rivolge direttamente allo spettatore.

M. Il figlio del secolo Regia: Joe Wrigth Distribuzione: Sky Atlantic
M. Il figlio del secolo Regia: Joe Wrigth Distribuzione: Sky Atlantic

Una serie necessariamente politica

Il Figlio del Secolo è una serie necessariamente politica. La scelta del regista Joe Wright e degli sceneggiatori è quella di utilizzare la storia di Mussolini sia per ricordare e criticare l’orrore di ciò che è stato sia per lanciare critiche molto poco velate ad alcune visioni politiche contemporanee. Il Make Italy Great Again detto da Mussolini direttamente allo spettatore è un chiaro riferimento alla politica di Trump e di tutti quei politici che credono di essere l’unica possibilità per il proprio paese. Ma la critica non è solo nei confronti del Fascismo e di altri movimenti politici più o meno pericolosi per la democrazia. Ad uscirne fortemente criticato è anche l’immobilismo politico delle forze democratiche che spesso e volentieri per paura o per troppa superficialità aprono le porte agli estremismi, allo stesso modo di come Vittorio Emanuele III scelse di non firmare lo stato d’assedio durante la marcia su Roma.

 

Francesco Pio Magazzù

Milazzo Film Fest 2025: Familia

Familia è un film del 2024 diretto da Francesco Costabile, tratto dall’autobiografia di Luigi Celeste  Non sarà sempre così.  La pellicola si propone di raccontare una storia realmente accaduta.

I cerotti non servono

Familia è la storia di una famiglia che parla di violenza, non solo domestica, ma soprattutto psicologica. Luigi Celeste (Francesco Gheghi) e Alessandro (Marco Cicalese) sono fratelli e, da tempo, insieme alla madre Licia Licino (Barbara Ronchi), subiscono gli abusi del padre, Franco (Francesco Di Leva). Il film non si limita alle tematiche disfunzionali, ma esplora nel complesso il trauma psicologico dei personaggi. La brutalità è sempre presente, trattata come un dato di fatto, una realtà con cui i protagonisti devono convivere. Un aspetto interessante, che riguarda il modo in cui le cicatrici non sono solo personali, ma anche familiari. La famiglia stessa diventa simbolo di prigionia emotiva. La continua ricerca di una riconciliazione, spesso impossibile, simboleggia il conflitto tra la necessità di perdonare e quella di proteggersi dal dolore.

familia
fonte: cinetecadibologna.it

Tormento angosciante di un ombra

Francesco Gheghi, giovanissimo vincitore del Premio Orizzonti per la miglior interpretazione maschile, nel ruolo di Luigi Celeste, offre una performance notevole, riuscendo a interpretare un personaggio complesso e tormentato grazie alla sua capacità di passare da momenti di fragilità a momenti di forza. A mano a mano che la trama si sviluppa, l’inevitabilità di sentirsi parte integrante della narrazione diventa progressivamente più evidente. La regia di Francesco Costabile è sobria e incisiva: le inquadrature sono infatti strette, e i primi piani, silenziosi ma efficaci, tanto da smascherare quanto la figura di Luigi sia destinata a essere tormentata da quell’ombra buia rappresentata dal padre. Un circolo vizioso che segue solo un obiettivo irraggiungibile, giustificato dalla manipolazione e dalla dipendenza emotiva, il perdono.

frame trailer. Fonte: youtube.com

Scolpiti dalla violenza

L’amore è paradossale in un contesto del genere: inconcepibile e masochista, ma c’è. Compare a starnuti per tutta una serie di meccanismi di negazione e distorsione della realtà. Punto centrale è la lotta interiore della persona abusata, che spesso oscilla tra l’amore e la paura, tra il desiderio di cambiare la situazione e l’incapacità di farlo, bloccata dalla manipolazione emotiva e dalla dipendenza psicologica. Licia (Barbara Ronchi) cede alle fasi di ‘’luna di miele’’, sperando quasi in un cambiamento che, chiaramente, non arriva. La bravura di Barbara Ronchi nelle vesti di Licia mostra quanto lei rappresenti un territorio ferito, segnato da cicatrici che non raccontano solo colpi fisici, ma anche l’erosione silenziosa della dignità. Una critica alla giustizia che arriva sempre troppo tardi e talvolta complice, accetta, tollera e rallenta il processo che si alterna.

Fonte: framedmagazine.it

Dentro le mura, oltre il silenzio

Una famiglia tormentata dal fatto di non riuscire a diventare tale, ogni tentativo di pacificazione è vano. Francesco Costabile lo sa bene e, evitando infatti moralismi e semplificazioni, il film diventa quasi claustrofobico, trattiene ed esplode solo alla fine. Questi legami asfissianti, che non sanno sfuggire alla prigione emotiva, diventano frutto di ulteriore violenza.

Una storia che sviscera i meccanismi dell’abuso, ma anche a esplorare come la società, la famiglia e la comunità tendano a fare finta di nulla o a giustificare comportamenti violenti. La regia cattura la bellezza struggente della solitudine delle vittime, in cui la violenza si insinua lentamente, come un veleno silenzioso che consuma tutto dall’interno. La macchina da presa si fa sempre più piccola, più intima, come se ogni inquadratura fosse un atto di comprensione o denuncia.

In un’epoca in cui si parla molto di diritti e di giustizia, Familia apre uno spazio di riflessione su quanto sia fondamentale non solo riconoscere l’abuso, ma anche prevenirlo, educare e intervenire tempestivamente. Una piaga sociale che spesso rimane nascosta e che, in un film del genere, viene trattata senza cadere nei sensazionalismi o nella banalità dei cliché. Un’opera dallo sguardo sincero, che porta alla luce una realtà cruda e invita a riconoscere come alcune dinamiche siano così radicate da sembrare normali.

 

Asia Origlia

Shin Nosferatu: il vampiro secondo Recchioni

Nosferatu
Shin Nosferatu da un nuovo volto al conte Orlock – Voto UVM: 5/5

Cosa otteniamo quando uniamo un fumettista italiano, uno stile di disegno che si richiama a diversi autori leggendari nell’ambito della nona arte, e una delle creature più iconiche del panorama della narrativa horror? Otteniamo Shin Nosferatu di Roberto Recchioni.

Breve storia di Nosferatu

Uscito per la prima volta nel 1922, Nosferatu di Murnau è uno dei film più famosi del cinema espressionista tedesco, nonché un tassello essenziale della storia del vampiro. Esso nasce come una sorta di plagio del Dracula di Bram Stoker, ma il regista non aveva i diritti del libro, e ha quindi reinventato diversi aspetti della storia, tra cui l’aspetto del vampiro stesso, che da nobile gentiluomo eccentrico com’era nel romanzo, diventava ora un emaciato nobile dall’aspetto malato e cadaverico. Questo “fratellastro” di Dracula è diventato famoso tanto quanto la controparte letteraria, plasmando la figura del vampiro, e venendo reinterpretato in numerose varianti, non ultime il recente Nosferatu di Robert Eggers, uscito pochi mesi fa nelle sale, e appunto la versione di cui parliamo, Shin Nosferatu, volume che si fa erede tanto della tradizione del conte Orlok quanto di una serie di autori leggendari nel panorama della nona arte.

Il nuovo vampiro

Shin” in giapponese può significare sia “vero” che “nuovo”. E probabilmente, lo “shin” di Shin Nosferatu mantiene entrambi questi significati; infatti, Roberto Recchioni, già curatore della storica serie Dylan Dog, preserva tutti quegli elementi di cui la storia del conte Orlok vive, incluse anche alcune scene iconiche del film originale, ma anche li rielabora in una veste particolare, ispirata a vari autori, sia occidentali che giapponesi, come Kentaro Miura (Berserk), Hideaki Anno (Neon Genesis Evangelion, Shin Godzilla), ma soprattutto a Go Nagai (Devilman). Tramite questo mix di tradizione e reinvenzione, il vampiro di Recchioni è sia “vero” che “nuovo” allo stesso tempo.

Il conte Orlock Nosferatu
il Nosferatu di Recchioni in una tavola che omaggia Devilman

Come si manifesta l’orrore

Se nel film di Murnau, ma anche in quello di Eggers, l’orrore nasce per la maggior parte dalla presenza del vampiro, dall’aura che egli emana e che si fa sempre più opprimente man mano che la vicenda prosegue, Recchioni rincara la dose, dando al suo conte Orlok una mimica che solo il fumetto poteva conferire. Infatti, se il Nosferatu di Murnau spaventava col suo aspetto malato e venefico, e quello di Eggers si serve della sua voce dura e imperiosa, quello di Recchioni ha un’espressività che deve molto ad alcune tavole iconiche di Devilman, ma non solo, perché sono presenti anche immagini che si richiamano al film originale, richiami ad altri autori poco sopra nominati, e persino una tavola che richiama direttamente Il bacio di Gustav Kilmt, col vampiro che sovrasta la sventurata Ellen Hutter.

Shin Nosferatu
Recchioni disegna Nosferatu come se fosse “Il bacio” di Klimt

L’atmosfera

A contribuire a rendere spaventoso il Nosferatu di Recchioni sono anche le ambientazioni in cui si svolge la storia: oscure, sempre buie, spesso avvolte dalla tempesta. Ma, cosa forse più importante, silenziose: infatti, una particolarità di questo fumetto è l’assenza di baloons, ossia le nuvolette in cui sono scritti i dialoghi o i pensieri dei personaggi. Shin Nosferatu ne è del tutto privo, e le poche parole che compaiono nel corso del volume sono tratteggiate direttamente sulle tavole, sono parte dei disegni stessi. Il lettore sente così tutto il peso opprimente di un male antico, in un certo senso seducente (la sessualità morbosa è sempre stata un elemento importante per i vampiri, prima ancora di Dracula), che soffoca i protagonisti, il cui numero qui è ridotto solo ai coniugi Hutter, e soprattutto Ellen, che si ritroverà da sola contro questa creatura implacabile.

Un per sempre che non fu

Ellen deve quindi vedersela da sola contro il vampiro che viene per lei. Se in Dracula, e anche nel Nosferatu originale, la giovane Hutter ha al suo fianco il marito e altri personaggi, Recchioni li elimina tutti: Thomas Hutter muore in Transilvania, dove si era recato per concludere l’affare col conte, mentre il professor Van Helsing e gli altri personaggi non sono nemmeno accennati. Thomas aveva lasciato Ellen promettendole un fiabesco “per sempre“, ed è con la medesima promessa che il Nosferatu la raggiunge, e, come da tradizione, cerca di farla sua, ma invano. Il “per sempre” passa dalla fiaba all’orrore, e qui si interrompe bruscamente, e il volume si chiude con un’altra, ultima citazione a uno dei momenti più tragici e famosi del Devilman di Nagai.

Per chi ama la figura del vampiro, o in generale le storie dell’orrore, Shin Nosferatu è un volume assolutamente da recuperare, in grado di sprigionare un vecchio orrore in una nuova forma che non manca di omaggiare numerosi autori, sia di fumetti quanto dell’arte in generale.

Milazzo Film Fest 2025: La Vita Accanto

La Vita Accanto è un film del 2024, co-scritto (insieme a Marco Bellocchio) e diretto da Marco Tullio Giordana. È l’adattamento cinematografico del romanzo di Mariapia Veladiano e vanta un cast composto da Sonia Bergamasco, Valentina Bellè, Paolo Pierobon, Beatrice Barison, Sara Ciocca, Viola Basso e altri.

Trama

Il film è ambientato tra gli anni Ottanta e il Duemila e racconta di un’influente famiglia vicentina composta da Maria (Valentina Bellè), suo marito Osvaldo (Paolo Pierobon) e la gemella di quest’ultimo, Erminia (Sonia Bergamasco), affermata pianista. La loro vita viene sconvolta da un evento imprevedibile: Maria dà alla luce Rebecca.

La neonata, per il resto normalissima e di straordinaria bellezza, presenta un vistosa macchia purpurea che le segna metà del viso. Quella macchia, che nulla può cancellare e rende i genitori impotenti e infelici, diventa per Maria un’ossessione tale da precipitarla nel rifiuto delle sue responsabilità di madre. L’intera adolescenza di Rebecca sarà segnata dalla vergogna e dal desiderio di nascondersi dagli altri.

Eppure, fin da piccola, Rebecca rivela straordinarie capacità musicali. La zia Erminia riconosce il suo talento: Rebecca diventa sua allieva e il bisogno di cancellare la “macchia” la spingerà ad affermarsi attraverso la musica.

Il tocco elegante di Giordana

Marco Tullio Giordana è un regista italiano affermato, che ha saputo spaziare tra il cinema, televisione e teatro. Ha sempre raccontato le storie con una maestria particolare, senza cadere nel banale, anche quando si è trovato ad adattare sceneggiature non originali.

Spesso, pensando alle pellicole di Giordana, vengono in mente film come La meglio gioventù, I cento passi, Lea e altre opere che, da una prospettiva ben definita, affrontano dinamiche sociali o fatti di cronaca. Questa volta, è stato il romanzo di Mariapia Veladiano a catturare l’attenzione del regista, o forse è stato il libro a scegliere lui, come se il destino avesse voluto che le loro strade si incrociassero. E Giordana, ha usato il tocco giusto.

La Vita Accanto
Fonte: MyMovies.it

La “vita accanto” e la macchia della famiglia

La macchia rossa in questione è quella della piccola Rebecca, la protagonista del film. Una bambina bellissima, nata dall’unione di Maria e Osvaldo, che però, fin dal  momento della  nascita, non viene accolta dalla madre. Questo segna profondamente la bambina, poiché la madre dovrebbe essere la figura più importante della sua vita. Invece, Maria si rivela un personaggio contraddittorio e oscuro con cui, inizialmente, si fa fatica ad entrare in empatia. Utilizza le sue fragilità e la sua depressione come una sorta di scusa per allontanare la figlia e farla sentire inadeguata, colpevolizzandola per via di quella macchia che, secondo lei, avrebbe rovinato quella bambina tanto voluta.

Giordana mirava proprio a questo: entrare in quelle quattro mura e, sfiorando a tratti un tocco teatrale, raccontare una famiglia appartenente all’alta borghesia, spezzandone le ipocrisie e mostrando le loro fragilità e paure. Tutto questo, si incarna figura della madre, venendo fuori quando sprofonda nella depressione post-parto che si fa totalmente schiacciare da essa e dalla paura del giudizio altrui, tanto da voler tenere sua figlia nascosta, come se fosse il Gobbo di Notre Dame.

Dall’altra parte, Rebecca ha quella macchia, ma trova forza nel suo talento musicale, incoraggiata dalla zia Erminia. La musica diventa l’unico modus operandi per esprimere il peso che porta dentro e colmare il senso di vuoto. Man mano che cresce, si fa sempre più forte, mentre la sua evoluzione è in corso, nella madre sta avvenendo l’involuzione, fino a percepirla sempre più distante. Una “vita accanto” che scorre fino a quando un evento drammatico spinge la piccola a prendersi sulle spalle altre colpe.

La Vita Accanto
Fonte: Articolo21.org

Il finale che segna una rinascita

Il film scorre con una regia elegante, spesso in contrasto con un montaggio non sempre fluido, che crea passaggi bruschi tra le diverse fasi della vita della protagonista, talvolta sovrapponendo gli anni e generando qualche disorientamento temporale.

Tuttavia, è il corpo il vero fulcro della narrazione del regista, che si sofferma sull’identità imprescindibile e sull’apparenza sociale. Tutto è reso efficacemente in scena, a tratti statica, anche grazie alla presenza di bravissimi attori.

Tutto questo, sfiorando persino la dimensione della fantasia, conduce a un finale che, in un certo senso, segna la rinascita della protagonista. Quel dialogo con quel fantasma che è rimasto accanto a lei per tutta la vita, sia fisicamente che mentalmente, rappresenta il momento decisivo. La continua ricerca di consapevolezza segna la fine di quel passaggio difficile, e dalle ceneri rinasce una nuova Rebecca, più consapevole e pronta per la “normalizzazione”. Si può dire che la sua vita inizia in quel momento, non perché la macchia sia sparita, ma perché ha raggiunto l’equilibrio interiore e si è, finalmente, liberata di quei pesi. La macchia era il simbolo metaforico del peso di una madre che non è mai stata davvero accanto a lei, ma ora che ha scoperto la verità, Rebecca la guarda da un’altra prospettiva ed è finalmente pronta a vivere davvero, spiccando il volo.

 

Giorgio Maria Aloi

 

Follemente: l’Inside Out italiano di Paolo Genovese

 

L’Inside Out all’italiana. Voto UVM 4/5

Follemente è un film del 2025 diretto da Paolo Genovese (regista di film come “Perfetti Sconosciuti”, “Tutta Colpa Di Freud”, “Supereroi”, “Il Primo Giorno Della Mia Vita”, i due film di “Immaturi”, “I Leoni Di Sicilia” ecc.) e ha un cast corale composto da Edoardo Leo, Pilar Fogliati, Claudio Santamaria, Marco Giallini, Rocco Papaleo, Maurizio Lastrico, Vittoria Puccini, Claudia Pandolfi, Emanuela Fanelli e Maria Chiara Giannetta.

Trama

Conosciamo davvero noi stessi quando prendiamo una decisione? E se dentro di noi esistessero più versioni del nostro io, ognuna con qualcosa da dire?

Follemente è una brillante commedia romantica che va oltre le apparenze, immergendosi nella mente dei due protagonisti, Piero e Lara, svelando i loro pensieri più nascosti e le battaglie interiori che tutti affrontiamo. Dopo essersi conosciuti in un bar, Piero e Lara hanno il loro primo appuntamento a casa di lei. Entrambi hanno voglia di rimettersi in gioco: lei, trentacinquenne, viene dalla relazione con un uomo sposato e cede spesso ad amori senza futuro; lui ha quarant’anni, è fresco di divorzio e di affidamento congiunto della figlia piccola e porta ancora i segni di altre delusioni sentimentali.

I due protagonisti sono guidati dalle rispettive personalità: Piero ascolta le indicazioni del razionale Professore, del romantico Romeo, del passionale Eros e del disincantato Valium; Lara si fa condurre dall’intransigente Alfa, dalla seducente Trilli, dalla sregolata Scheggia e dalla sognatrice Giulietta. La serata, tra imbarazzi, lapsus e contrattempi, parte bene, ma sembra volgere al peggio, anche perché le emozioni di Piero bisticciano tra loro e quelle di Lara non sono da meno. Come andrà a finire? I due riusciranno a mettere da parte il resto e lasciarsi andare? Oppure, complicheranno tutto e l’appuntamento sfumerà?

Il primo appuntamento di Lara e Pietro diventa un teatro di dialoghi irriverenti, teneri, dolci, agitati, e tanto altro ancora. Una folla di gente e di pensieri che turbinano costantemente dentro di noi, a volte in maniera stancante che ci fa desiderare di poter essere “da soli” o di poter spegnere finalmente il cervello.

L’Inside Out all’italiana?

Il paragone tra “Inside Out” e “Follemente” viene spontaneo, ma in realtà Paolo Genovese giura di aver avuto l’idea del film prima che tutti venissero a conoscenza e si innamorassero successivamente dei due successi Disney Pixar incentrati sulle emozioni. La similitudine c’è e forse Genovese ha trovato il modus operandi adatto  per poter parlare della tematica ricorrente nella sua nuova pellicola: gli appuntamenti. Se “Inside Out” parlava delle emozioni e di ciò che accade nella mente umana in linea generica, “Follemente”, invece, mostra ciò che accade nella mente quando si ha un appuntamento al giorno d’oggi.

Mostrando un film alla Inside Out ma concentrandosi solo su un contesto specifico, ha voluto realizzare un film che aveva uno stile teatrale e il montaggio tra le scene dell’appuntamento e delle loro personalità è stato anche ben serrato. Con un tocco così semplice, mostra una chiave di lettura per gli appuntamenti di oggi (i primi) e come sono divenuti difficili e di quanti problemi si creano, quando si vive un appuntamento.

Fonte: comingsoon.it

Follemente, un film dallo stile teatrale

Follemente ha delle similitudini anche con un altro film noto di Paolo Genovese, ossia Perfetti Sconosciuti (film che ha il record di maggior numero di remake realizzati nella storia del cinema). Entrambi i film vogliono essere schietti e sbattere in faccia alcune verità dei rapporti di oggi e come sono cambiati nella società contemporanea. Con la differenza, che uno mira a colpire con una verità dura e cruda e toccando la drammaticità totale; l’altro, invece, vuole divertire senza annoiare e spingere ad un’accurata riflessione.

Altri aspetti in comune sono il fatto che alcuni eventi presenti accadono nella mente e lo stile teatrale adottato per la narrazione, col rischio di risultare leggermente statico. Il film mostra due filoni uniti da un montaggio ben strutturato e ci sono volute ben due sedute di ripresa per realizzare i due filoni. Da una parte, ci sono i due attori protagonisti (Edoardo Leo e Pilar Fogliati) che vivono il loro primo appuntamento e tutta la trama si svolge nell’appartamento di lei. Dall’altra, vengono mostrate le quattro personalità di lui e le quattro personalità di lei nelle loro menti.

Nella prima seduta, i due protagonisti recitavano le loro battute con tanto di suggerimenti delle personalità, provenienti da dietro le quinte, cogliendo opportunamente il momento per dire le loro. Nella seconda, gli interpreti delle loro personalità hanno fatto lo stesso. Ci vuole una certa bravura a cogliere la percezione giusta e su questo sono stati bravi tutti e le loro scene sono unite da un montaggio ben strutturato, che fa il passaggio tra i due filoni in maniera rapida come se stessero giocando a ping pong e senza cascare nella confusione.

 

Fonte: follemente.alcinema.it

Un cast eccezionale

Quando un film riesce, non si può non considerare le interpretazioni e “Follemente” vanta la presenza di un cast italiano composto da attori di un certo livello. Edoardo Leo non ha bisogno di presentazioni, perché ormai è affermatissimo e lascia sempre il segno, in ogni film che fa. Pilar Fogliati si sta affermando sempre di più e in pochi anni, si è dimostrata poliedrica e a suo agio nei ruoli molto vicini ai suoi coetanei.

Ma quelli che non sono da meno sono gli interpreti delle personalità di lui e lei. Nella mente di lui ci sono Claudio Santamaria (il passionale Eros), Marco Giallini (il razionale Professore), Rocco Papaleo (il disincantato Valium), Maurizio Lastrico (il romantico Romeo); mentre, nella mente di lei ci sono Vittoria Puccini (la sognatrice Giulietta), Claudia Pandolfi (l’intransigente Alfa), Emanuela Fanelli (la seducente Trilli) e Maria Chiara Giannetta (la sregolata Scheggia).

La parte divertente sta nelle personalità presenti nelle loro menti, dove attraverso gag, battute e diatribe tra loro su quale delle personalità deve prendere il sopravvento e su cosa l’interlocutore di turno deve dire in quel momento (venendo spesso ignorati da Piero e Lara).

 

Fonte: comingsoon.it

Follemente, una chiave di lettura degli appuntamenti di oggi, tra risate e riflessioni

Genovese ha voluto realizzare una commedia che vuole divertire ed allo stesso tempo, invitare a scavare dentro di sé e avere uno spunto di riflessione sulla propria persona e di come dovrebbe vivere l’appuntamento. Vuole dire essere più rilassati possibile e far vivere quei momenti con serenità, dimostrando che dovrebbe essere la cosa più naturale di questo mondo e soprattutto mostrarsi per ciò che si è, perché tutte le questioni irrisolte e le proprie insicurezze possono essere un auto-sabotaggio e far scappare un’eventuale persona giusta. Bisogna accettare ciò che è successo prima di quel fatidico incontro, trarre una lezione, godersi il presente ed essere naturali, per poter accogliere un possibile futuro (o qualsiasi altra cosa) migliore. A parole sembra facile, ma la visione di Follemente potrebbe dare un input a provare a lasciarsi andare a nuove opportunità (magari nascoste dietro l’angolo).

Giorgio Maria Aloi

“Goldrake”: un sequel vibrante, un omaggio riuscito

Goldrake torna con un fumetto francese pieno d'amore per la serie
Goldrake torna con un fumetto francese pieno d’amore per la serie. Voto UVM: 4/5

Quando il robot Grendizer, creato dal mangaka Go Nagai, arrivò in Italia col nome di Goldrake conquistò i cuori di una generazione, che ancora oggi lo ricorda con affetto. Eppure, il nostro non fu il solo Paese europeo che si innamorò del gigante d’acciaio e del suo pilota, Duke Fleed: anche in Francia diversi bambini si ritrovavano davanti alla tv e gridavano “Goldrake, avanti!

Un sentito omaggio

Uno di quei bambini francesi era Xavier Dorison, classe 1972, sceneggiatore di fumetti e ideatore del fumetto Goldrake, pubblicato in Italia a fine 2024 dalle case editrici BD Edizioni e J-pop Manga. Nel nostro autore nacque una grande passione per Goldrake, che è durata fino ad oggi, fino a realizzare, insieme ad altri autori e disegnatori, il volume di cui parliamo. A questa passione viene poi unita la conoscenza della serie originale, dei suoi ritmi narrativi, dei suoi personaggi e dei loro caratteri, tutti elementi fedelmente rispettati dagli autori, i quali riescono a confezionare una storia perfettamente coerente con l’originale nagaiano.

Ritorni inattesi

La storia del fumetto si ambienta un numero indefinito di anni dopo la fine della storia originale. Mentre alcuni astronauti esplorano il lato oscuro della luna, si imbattono in un nuovo vecchio nemico: le armate di Vega, guidate dall’ultimo generale veghiano rimasto, Archen. Egli, affiancanto dai suoi secondi in comando KehosArgaia, attaccat il Giappone sfruttando una nuova e terribile arma: il mostro spaziale Hydragon. La loro condizione per cessare con gli attacchi è semplice: tutti i giapponesi dovranno lasciare il Giappone entro una settimana, o saranno spazzati via. Ricevuto l’ultimatum, l’esercito nipponico guidato dal generale Ota si mette alla ricerca della sola possibilità di vittoria per loro e, forse, per l’intera umanità: il super-robot Goldrake.

Goldrake
Il robot Goldrake si risveglia-Goldrake. Fonte: MangaNerd.it

Un eroe spezzato

Nell’ultimo episodio della serie originale, Actarus e sua sorella Maria erano tornati sul loro pianeta, Fleed, che stava ritornando alla vita dopo la devastazione provacata dall’attacco di Vega. Tuttavia, per Duke sembra non esserci tregua, e la guerra torna ciclicamente nella sua vita, imprigionandolo in un vortice sempre più tragico di morte e distruzione: mentre il principe e i pochi altri abitanti di Fleed si prodigano nella rinascita del pianeta, due dischi spaziali, gli ultimi rimasugli del popolo di Vega, attaccano nuovamente, devastando tutto. Maria stessa subirà gravi ferite, e le vittime civili sono numerose da entrambi i lati; Actarus, dopo essersi battute come una furia, abbandonerà nuovamente Fleed, ormai in rovina, e porterà sua sorella sulla Terra, così che possa essere curata. Una volta fatto questo, il principe esule nasconderà il suo robot e, ormai stremato dalle troppe battaglie e dalle loro conseguenze, si consegnerà all’esercito gaipponese.

Goldrake combatte un'ultima volta per Fleed
L’ultima battaglia per Fleed in Goldrake. Fonte: uBc Fumetti

Pace o vendetta?

Sia Actarus che i veghiani sono stremati, stanchi di una guerra che pare interminabile, e desiderano solo la pace. Tuttavia, se da un lato il nobile principe di Fleed e il vecchio generale Archen sono disposti a trattare, dall’altro troviamo Kehos, assetato di vendetta per la sua famiglia, rimasta uccisa nella battaglia su Fleed. Il dissidio che nasce tra i due veghiani è uno scontro tra due modi diversi di intendere la pace e tra priorità: infatti, per Archen la sopravvivenza degli ultimi membri del suo popolo viene prima di ogni cosa, ed è disposto a trattare pur di raggiungere il suo scopo; Kehos, invece, non riesce a concepire una fine della guerra che non implichi la morte dei suoi nemici, e per lui trattare significa arrendersi, divenire ostaggi del proprio nemico. Kehos si mostra più miope di Archen, ed è disposto anche ad attacchi suicidi pur di vincere.

Ritmi narrativi

Uno degli aspetti migliori del racconto sono i suoi ritmi: la serie originale alternava battaglie frenetiche e tachicardiche con momenti più lenti, “intimi”, come li definisce lo stesso Dorison in una lettera inviata a Nagai. E il fumetto, in questa alternanza perfettamente scandita, non è affatto da meno, e riesce a diventare così una continua giostra di scontri brutali e momenti di breve pace, che servono ai nostri protagonisti per prepararsi alla nuova battaglia, e servono ad Actarus per ritrovare la motivazione a combattere.

Nell’atelier di Goldrake

Uno degli aspetti più belli del fumetto sono le ultime pagine del volume, ricche di retroscena sulla realizzazione dello stesso. Qui possiamo trovare non solo una lettera scritta da Dorison a Nagai in persona, la quale è anche una dichiarazione di intenti, ma sono presenti pure le prime bozze, i primi studi delle varie tavole, sia quelle poi pubblicate, sia anche delle versioni scartate. Insomma, dopo aver letto la storia di Goldrake, possiamo vedere la storia della sua realizzazione, e continuare a immergerci nel suo coinvolgente mondo.

 

Alberto Albanese